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Consumo e cementificazione del territorio. I dati dell’ISPRA
Non è più tempo di chiacchiere e di tanti bei discorsi sul consumo e sulla cementificazione del suolo. Bisogna agire prendendo decisioni politiche e legislative che incidano su tale inutile spreco. E subito!!!
I dati che emergono dal “Rapporto sul consumo di suolo 2015” dell’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) sono impietosi e non lasciano spazio a dubbi o perplessità. Nonostante la crisi che in questi ultimi anni ha colpito il settore dell’edilizia e che ha diminuito di molto le richieste di nuove abitazioni, in Italia si continua comunque a consumare suolo a ritmi che sono già insostenibili e lo saranno ancora di più se li si proietta nel futuro. E i dati sono allarmanti.
Già ora – come osserva l’ISPRA – il 7% della superficie italiana (pari a circa 21 mila chilometri quadrati che sono, per intenderci, la superficie dell’Emilia Romagna) è cementificato, asfaltato, impermeabilizzato per la costruzione di edifici e di infrastrutture e non risulta più disponibile per l’agricoltura o per la crescita dell’erba e degli alberi. Si tratta di un percentuale addirittura quasi doppia rispetto alla media europea.
Dai dati emerge che il fenomeno è più elevato nel nord-ovest del Paese dove si raggiungono tassi dell’8,4%, per arrivare al 7,2% nel nord-est, al 6,6% nel centro e al 6,2 al sud. Il consumo di suolo è più elevato nelle aree urbane, soprattutto nelle periferie dove le città cercano sbocchi per espandersi, ma raggiunge percentuali impressionanti anche sulle coste dove il tasso arriva quasi al 20%. Ovviamente, come è facile intuire, questo fenomeno interessa anche le aree con fragilità idrogeologiche e sulle rive di fiumi e laghi.
Se lo vediamo nell’ambito delle regioni il fenomeno interessa principalmente la Lombardia – seguita a ruota dal Veneto – che hanno tassi di consumo del suolo che si aggirano intorno al 10%, mentre la Liguria è la regione che presenta il maggior consumo di territorio sulle zone costiere, che si attesta intorno al 40%. Tra le province poi il triste primato se lo aggiudica quella di Monza e Brianza (35%), seguita da Napoli (29%) e Milano (26%).
Se si fa un raffronto con il passato e si pensa che negli anni ’50 (circa 60 anni fa) la superficie cementificata dell’Italia era il 2,7%, vengono i brividi. E se si pensa che nel 1998 (solo 17 anni fa) il consumo del suolo era del 5,8% (1,2% in meno), viene da chiedersi chi abbia autorizzato tutto questo scempio. Perché l’effetto della cementificazione del territorio non si fa sentire solamente su quello effettivamente consumato, ma si estende anche sui terreni vicini per un raggio di altri circa 100 metri. Ecco che così si passa da un tasso di consumo del territorio del 7% ad uno ben più preoccupante del 55%. E questo fa ancora più paura!
Se infine analizziamo il consumo di territorio dal punto di vista delle cause possiamo osservare come il 30% sia dovuto alla costruzione di edifici, mentre il restante 70% sia dovuto alla costruzione di infrastrutture (40% per le nuove strade). La perdita di suolo avviene poi prevalentemente a discapito di aree agricole (60%) – con inevitabili conseguenze sulla produzione autonoma del cibo – e per il 19% a discapito di aree naturali.
Le conseguenze della cementificazione e della impermeabilizzazione del suolo non sono solamente quelle ovvie della perdita di terreni agricoli, della perdita di aree naturali e della biodiversità o dell’incremento di fenomeni idrogeologici estremi a seguito di intense precipitazioni piovose. Le conseguenze sono anche una minore capacità di assorbimento dell’anidride carbonica (CO2) per mancanza di vegetali oppure un aumento delle aree che fungono da “isole di calore”, cioè – come fanno il cemento o l’asfalto – che assorbono energia termica attraverso le radiazioni del sole e la rilasciano nell’atmosfera.
In buona sostanza bisogna agire fin da ora per porre un freno a questo devastante fenomeno che non sta portando benefici ai cittadini ma arricchisce prevalentemente pochi imprenditori, dà potere a qualche politico e alimenta fenomeni malavitosi. E la prima cosa da fare è quella di prevedere un sistema di tassazione che disincentivi il consumo di territorio vergine ma, invece, favorisca il recupero di edifici o di terreni già urbanizzati.
In tutto questo mare di dati chiari e precisi mi piacerebbe sapere cos’ha da dire – e non sono pochi, soprattutto tra gli amministratori locali – chi è favorevole a EXPO, TAV, espansione urbanistica, espansione per le seconde case, autostrade e strade varie. Sarei proprio curioso.
La plastica non è amica della natura
È vero e sacrosanto che la plastica ha semplificato molto la vita dell’uomo e ha consentito la produzione di oggetti a bassissimo costo per gli usi più comuni fino ad arrivare a quelli più complessi e specialistici. La plastica viene usata sia per la produzione di sacchetti usa e getta che per la produzione di strumentazione sanitaria. La plastica viene usata sia per imballare i prodotti più disparati che per la realizzazione di componentistica per gli aerei o per le navicelle spaziali.
La plastica, però, presenta un paio di inconvenienti che non la rendono troppo amica della natura. I suoi componenti e gli additivi utilizzati per produrla nelle sue infinite tipologie e colorazioni molto spesso non sono salutari se vengono ingeriti, soprattutto se vi è stata una qualche alterazione termica della stessa. La plastica poi fa molta fatica a degradarsi (si ragiona nell’ordine di migliaia di anni) se esposta agli agenti atmosferici e ai microrganismi. Per questo abbandonarla in natura e non gestirne correttamente lo smaltimento provoca quello che si vede dalle foto che, da sole e senza troppe parole, descrivono molto bene il problema.
È quindi giunta l’ora che si abbandoni definitivamente la produzione di questi materiali che oramai fanno parte della storia e si inizi a realizzare plastiche (o surrogati delle plastiche) più salutari, facilmente degradabili e biocompatibili. Non ci sono più scuse.
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Foto 1: La tartaruga è cresciuta deforme a causa di un anello di plastica che le ha compresso il carapace.
Foto 2: La tartaruga d’acqua dolce è cresciuta deforme a causa di un imballaggio per il trasporto delle lattine che le ha compresso la parte anteriore del carapace.
Foto 3: I resti di un albatros trovato su isole remote disabitate. Si può notare come il suo stomaco sia pieno di pezzi di plastica che ha probabilmente ingoiato confondendoli con il cibo.
Foto 4: Il leone marino soffre per le continue ferite riportate da un filo di plastica che è avvolto intorno al suo collo e che l’animale non riesce a togliersi.
Where is my forest?
“Where is my forest?” è il titolo di una foto molto bella del sudafricano Ian Johnson, finalista per la categoria “World in our hands” (Il mondo nelle nostre mani, ndt), che ho visto recentemente alla mostra fotografica “Wildlife Photographer of the Year” (1) presso il Forte di Bard, in provincia di Aosta.
Quello che mi ha colpito della foto in questione e che viene ben descritto dall’immagine colta dall’autore, è il fatto che il gorilla grigio immortalato abita, assieme a circa altri 480 animali, nella foresta del Volcanoes National Park, in Ruanda, un parco che oramai è completamente circondato da coltivazioni ed aziende agricole. I gorilla superstiti vivono quasi in prigione entro i confini del parco e, se per caso ne dovessero superare il perimetro non recintato, sono oggetto di uccisioni o di aggressioni da parte dei contadini che si vedono distruggere le colture che, tra l’altro, vorrebbero sempre più far avanzare. Si tratta del vecchio problema della possibile convivenza tra animali selvatici e uomo. I primi hanno bisogno di spazio per gestire il territorio, per cercare il nutrimento e per accudire i cuccioli; i secondi cercano di conquistare sempre più aree per la gestione delle loro attività economiche, per produrre cibo e per incrementare il loro benessere. Il tutto in un conflitto continuo.
La solitudine del gorilla immortalato nella foto mi fa pensare al fatto che il problema della necessaria convivenza tra uomo e animali può essere risolto principalmente attraverso due strade, che rappresentano un ulteriore passo in avanti alle azioni messe in piedi nei decenni passati per preservare specie animali in pericolo e vicine all’estinzione attraverso la creazione di aree protette.
Nel presupposto che la salvaguardia degli animali selvatici non sia un mero piacere estetico o un capriccio da ricchi e intellettuali ma sia la base della biodiversità e della sopravvivenza futura dell’uomo, la prima strada da percorrere è quella del decremento demografico della popolazione umana mondiale. Sembrerà una cosa che non c’entra molto ma bisognerà iniziare seriamente a pensarci perché non si può pensare di salvare animali, soprattutto se di grossa taglia come i gorilla, gli elefanti, i rinoceronti, i leoni, le tigri e molti altri che hanno bisogno di enormi territori, se non si pone un freno all’aumento della popolazione umana mondiale che, giustamente, nell’ottica della ricerca del benessere per tutti, deve e vuole avere a disposizione un’elevata quantità di territori e risorse.
La seconda strada è rappresentata dalla necessità che vengano individuate delle aree protette, sempre più ampie come estensione territoriale, che siano totalmente inaccessibili all’uomo e nelle quali la natura possa fare liberamente il proprio corso. A differenza di quelle attuali che risultano distribuite a macchia di leopardo su territori normalmente inospitali o poco accessibili e che si finanziano attraverso il turismo e, talvolta, la caccia grossa, si deve invece trattare di aree che vengono messe in rete l’una con le altre e che siano separate dalle attività umane da zone cuscinetto accessibili solo per attività turistiche. Solo così si potrà sperare di ottenere risultati duraturi nella difesa delle specie animali in pericolo e della salvaguardia della biodiversità perché i parchi naturali ad ora esistenti si stanno dimostrando inefficaci a contenere quell’innato desiderio dell’uomo di colonizzare e di espandere le proprie attività.
Mi rendo conto che entrambi gli obiettivi sono molto impegnativi ed estremamente complessi da realizzare ma li vedo l’unica strada che dobbiamo iniziare a percorrere. Per farlo dobbiamo cominciare a pensare che almeno una parte del Pianeta (sia la terra che il mare) non ci appartiene e non è – e non dovrà esserlo mai – a nostra disposizione.
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(1) Si tratta dell’evento fotografico più prestigioso e importante del suo genere ospitato nel Forte di Bard per la prima tappa italiana del tour mondiale. Il “Wildlife Photographer of the Year” è un premio creato per la prima volta nel 1965 da parte del Natural History Museum di Londra in collaborazione con il Bbc Wildlife Magazine che ha raccolto, in questa cinquantesima edizione, ben 42.000 concorrenti provenienti da 96 paesi. Cento sono le immagini premiate suddivise in 18 categorie. Attraverso la lente della fotografia naturalistica la mostra coglie l’intrigo e la bellezza del nostro pianeta, dandoci un punto di vista molto profondo del mondo naturale.
Foto: Ian Johnson
Pillola rossa o pillola blu?
Qualche tempo fa sono rimasto molto colpito dalla lettura di un articolo nel quale Noam Chomsky, un famoso linguista statunitense e uno dei più grandi intellettuali attualmente viventi, spiega quali sono le dieci modalità con cui i potenti della Terra, soprattutto attraverso il controllo dei sistemi di comunicazione, sono in grado di mistificare le realtà orientando le scelte dei cittadini verso direzioni che vanno in loro totale favore. Sia in termini di aumento di ricchezza che di potere. Secondo lo studioso solo la cultura e l’acquisizione di uno spirito critico rende le persone veramente libere di fare scelte consapevoli e autonome.
Tra i dieci punti evidenziati da Chomsky quali strumenti manipolatori della coscienza collettiva vi sono strategie di distrazione di massa, strategie della paura, strategie psicologiche varie, strategie di limitazione della cultura, strategie di omologazione e azioni volte alla conoscenza dei gusti e dei comportamenti dei consumatori. Attraverso tutti questi elementi messi in atto nei modi e nelle forme più varie – osserva Chomsky – noi non facciamo esattamente quello che desideriamo fare ma, in buona parte, facciamo e pensiamo quello che ci dicono di fare e di pensare.
È come quando, nel film “Matrix”, ad un certo punto il protagonista Thomas Anderson (“Neo”) turbato da quello che sta scoprendo attraverso una sua ricerca personale, viene invitato dal ribelle Morpheus a scegliere se ingoiare la pillola rossa (e conoscere esattamente la cruda realtà) oppure la pillola blu (e rimanere nella vita illusoria della finta realtà).
Con dispiacere noto che le stesse modalità evidenziate da Chomsky vengono applicate anche alle problematiche ecologiche e della sostenibilità ambientale. Ci dicono, ad esempio, che tutte le pratiche sostenibili sono più costose delle altre o non ci consentono lo stesso benessere. Falso! Ci dicono che in agricoltura i metodi biologici o quelli che non prevedono l’uso eccessivo di chimica o di OGM non saranno in grado di nutrire tutti in maniera adeguata. Falso! Sempre in agricoltura ci instillano piano a piano il dubbio dell’inutilità di iniziare pratiche sostenibili, tanto l’inquinamento è ovunque. Falso! Ci dicono, ancora, che l’energia da fonti rinnovabili a priori non ci consentirà di godere degli stessi benefici di quella fossile o di quella nucleare; ci dicono che i trasporti, così come sono, sono immodificabili; ci dicono che non c’è un’alternativa al petrolio. Tutto falso! Ci dicono che non ci può essere benessere senza consum(ism)o e senza produzione di rifiuti. Falso!
Insomma ci continuano a bombardare con notizie ipersemplificate accompagnate da titoli iperbolici; ci incutono paure ma, nello stesso tempo, ci dicono che siamo impotenti; ci illudono con tecnologie che creano più problemi di ciò che risolvono; ci creano bisogni non necessari e non sostenibili e ci dicono che, se per caso li perdiamo, perdiamo benessere. In buona sostanza creano un grande e profondo rumore di fondo dell’informazione dal quale è difficile estrapolare i suoni puri della verità tanto che noi, alla fine, rimaniamo apatici e deleghiamo loro a decidere totalmente del nostro destino.
E, purtroppo, atterriti e impotenti, alla verità preferiamo la rassicurante pillola blu.
Quando il cibo può salvare il Pianeta
È stata inaugurata qualche giorno fa l’esposizione universale “EXPO – Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita” dedicata all’alimentazione e al cibo. Al netto di tutti gli scandali e i problemi che hanno interessato la manifestazione negli anni e nei mesi precedenti dove si doveva decidere cosa fare e dove si doveva costruirne le infrastrutture, l’EXPO, ora che si fa, potrebbe essere un utile strumento di discussione sul cibo e anche sul ruolo che ha nel determinare seri problemi ambientali o essere sostenibile.
Parliamo di cibo, allora. Il cibo è fondamentale per l’uomo non solo perché è il “carburante” della vita in quanto fornisce energia e riserve per le attività quotidiane, ma anche perché, in base alle sue caratteristiche, può dare salute, benessere e può contribuire o meno alla sostenibilità ambientale. Produrre e consumare cibi troppo grassi può, nel lungo periodo, nuocere alla salute ma anche contribuire alla deforestazione del pianeta. Produrre e consumare troppo pesce o troppa carne può non essere del tutto salutare e può contemporaneamente contribuire a far depauperare gli stock ittici selvatici o a deforestare per creare pascoli o colture per l’alimentazione animale. Produrre e consumare cibi fuori stagione e molto distanti dal luogo di produzione può creare seri problemi ambientali e può anche contribuire a fornire scarsi nutritivi e poche vitamine a chi se ne nutre. Distribuire non equamente il cibo significa poi ipernutrire una parte della popolazione mondiale (che va incontro poi a gravi problemi di obesità nonché a patologie croniche e gravi) e lasciare a secco un’altra parte della popolazione mondiale (che va incontro ad altrettanto gravi problemi di salute pubblica a causa della scarsa e cattiva nutrizione).
Per ovviare a tali problematiche e a tali ingiustizie il WWF ha pubblicato 10 consigli facili da applicare per educarci ad un’alimentazione sostenibile e salutare.
1) Acquista prodotti locali
2) Mangia prodotti di stagione
3) Diminuisci i consumi di carne
4) Scegli i pesci giusti
5) Riduci gli sprechi di cibo
6) Privilegia i prodotti biologici
7) Cerca di non acquistare prodotti con troppi imballaggi
8) Cerca di evitare cibi eccessivamente elaborati
9) Bevi l’acqua del rubinetto
10) Evita sprechi anche ai fornelli
A ciò io aggiungerei:
11) Rispetta e non nutrirti dei cuccioli
12) Ogni tanto digiuna
13) Il cibo è cultura: apprezza anche quello di altri popoli.
Vediamo se EXPO non sarà solo business ma anche il volano per iniziare a cambiare un po’ rotta…