La cintura ecologica inizia a Castellaro Lagusello
Qualche settimana fa, nell’afa estiva domenicale, mi sono recato a fare una gita a Castellaro Lagusello, in Provincia di Mantova. Pazzo, direte (in)giustamente voi… L’obiettivo era certamente quello di vedere il bellissimo borgo medievale, ben conservato e ben restaurato, ma anche quello di fare una gita ristoratrice a piedi nella riserva naturale del lago morenico a forma di cuore che dà anche quel nome “lagusello” al borgo stesso.
Quella di Castellaro Lagusello è una riserva naturale regionale che occupa una superficie di circa 138,6 ettari, protetta anche dall’UNESCO dal punto di vista storico-culturale per i suoi due insediamenti precristiani su palafitte tipici dell’arco alpino. La riserva, dal punto di vista naturalistico, è in gran parte coperta da boschi di latifoglie tipiche delle zone umide (salici e ontani), da praterie umide nonché da un fitto sottobosco, rifugio e habitat di una serie di animali endemici e rari. In particolare anfibi, quali la rana di Lataste (1).
Nella piccola riserva – un’oasi circondata da attività agricole non intensive e da turismo rurale – quella domenica in poco tempo ho visto animali che io, abitante a mia volta della campagna morenica veronese, dalle mie parti non avevo mai visto. Non c’è nessun gruccione (Foto n. 4) intorno a casa mia. Nessun upupa e nessuna rana di Lataste (Foto n. 5). Anzi. Poche rondini, sempre meno; poche farfalle, sempre le stesse ovvero la cavolaia; pochi anfibi, tranne i soliti rospi; pochi ricci, sempre più vittime dei veleni dell’agricoltura e della circolazione stradale.
Quello che mi ha colpito della piccola riserva naturalistica di Castellaro Lagusello e che ho capito chiaramente durante la gita, è il fatto che la preservazione della natura è assolutamente incompatibile con le attività umane. Anche se da più parti ci raccontano dell’economia green e della sostenibilità, dall’altra le attività umane, anche se notevolmente migliorate rispetto al passato, rappresentano comunque un enorme ostacolo alla difesa della biodiversità e alla tutela della natura.
Vivere in campagna fa poca differenza quando la si deve raggiungere in auto e, per farlo, si chiedono strade sempre più ampie. Praticare l’agricoltura non è poi così salutare se essa è oramai industriale e, per essere sempre più produttiva e redditizia, ha bisogno di spazi aperti (senza alberi), di chimica e di attrezzature sempre più sofisticate. Abitare in case efficienti dal punto energetico non è poi cosa così positiva se per costruirle si divora, mese dopo mese, anno dopo anno, territorio agricolo o verde, frammentandolo con rotatorie,capannoni, giardini rasati e cemento in generale.
Dopo la mia gita a Castellaro Lagusello (non è stato il caldo,ve lo assicuro!) mi è chiaro, sempre più chiaro, il fatto che per tutelare veramente la natura e preservare la biodiversità vi è una e una sola strada da percorrere: la realizzazione di una cintura di aree protette caratterizzate da una zona più interna non praticabile dall’uomo e dalle sue attività e, un’altra, più esterna che funge da cuscinetto, dove le attività devono essere gestite in maniera orientata e responsabile verso la sostenibilità ambientale.
Solo così si potrà sperare di tutelare e ricostruire una certa biodiversità vegetale e animale e consentire alle specie di migrare indisturbate – cioè non cadere vittime di incidenti o di effetti collaterali vari (es. veleni) – tra una zona e l’altra.
Questo è l’unico futuro che vedo per l’uomo. Un futuro che finalmente, almeno nei tentativi, sia in grado di coniugare attività umane e tutela della natura. Tale futuro deve partire dalle aree protette già esistenti e deve mirare a fare in modo che esse non rimangano isolate le une dalle altre ma che siano perfettamente comunicanti tra loro. Si deve cercare di acquistare (ma anche di garantire dal punto di vista giuridico) centimetro dopo centimetro, metro dopo metro, vie verdi che colleghino tra loro, in una rete continua come quella stradale o ferroviaria, tutti i diversi ambienti terrestri.
Solo così l’umanità sarà in grado di ripristinare il senso del proprio inevitabile limite e sarà in vera pace con gli altri esseri viventi che condividono con noi (loro involontariamente) il possibile declino che stiamo infliggendo a questo innocente pianeta.
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(1) La rana di Lataste (Foto n. 5) l’ho anche vista e fotografata. La Lista rossa IUCN classifica questa specie come vulnerabile. Solo se il suo habitat verrà preservato le popolazioni potranno salvarsi dal rischio di estinzione.
È morta l’orsa Kj2
È morta l’orsa! Lei, animale selvatico, muore il 13 agosto per mano dei forestali che ne seguono le mosse tra i boschi alpini con il radiocollare quando il presidente della Provincia Autonoma di Trento, Ugo Rossi, dichiara che l’animale è pericoloso e deve essere catturato o abbattuto. Pericoloso per quale ragione? Perché ha aggredito, in questa torrida estate del 2017, due persone senza esiti particolarmente nefasti.
Con la carcassa ancora calda del plantigrado sul lettino di acciaio per le immancabili foto da dare in pasto ad una stampa morbosa sono iniziate poi una serie di discussioni tra chi – i soliti – dichiarano che gli animali selvatici non sono compatibili con l’uomo in quanto pericolosi per l’incolumità e per le attività economiche e chi – gli ambientalisti – piangono, con parole forti e spesso fuori luogo, per la morte della “madre” e per l’omicidio dell’animale innocente, arrivando addirittura a chiedere di boicottare il turismo in Trentino oppure ad agire per vie legali.
Purtroppo si tratta, a mio avviso, delle solite azioni vuote e senza senso da entrambe le parti, che non inquadrano il problema vero e che non ci mettono di fronte al dilemma che dovremmo invece iniziare ad affrontare.
Vogliamo o no cercare di condividere questo pianeta con gli altri esseri viventi che lo abitano oppure vogliamo rimanere la sola specie presente, con poche altre a noi comode, simpatiche o utili? Questo è in effetti il vero problema da mettere sul tavolo e, che lo si veda da un lato o lo si veda dall’altro, ci dobbiamo finalmente muovere ed agire per realizzarlo.
Nel caso in cui desideriamo essere i soli abitanti del pianeta non abbiamo molto da fare. Basta proseguire nel percorso che abbiamo già intrapreso da qualche secolo e, a poco a poco, ciò avverrà (1).
Se invece – come sostengo io – si debba iniziare a pensare che il pianeta Terra lo dobbiamo godere in condivisione con altre specie viventi e che anch’esse hanno il diritto sacrosanto di esserci e prosperare (2), allora non possiamo più nasconderci dietro il dito dell’ipocrisia che umanizza gli animali selvatici o che vede la natura come benevola, ma dobbiamo iniziare a pensare che noi e la nostra esistenza moderna non è MAI compatibile e condivisibile negli stessi spazi con gli animali selvatici. Non possiamo pretendere che un orso, un lupo, un leone o uno squalo siano “buoni” con noi. Essi sono animali programmati anche per essere brutali e così si devono comportare. Noi non possiamo pretendere di andare a fare una passeggiata, un safari o una surfata e non disturbarli. Questo potrà accadere anche alle persone più benevole e, se l’animale ha fame o ha paura per se o per la propria prole, attaccherà! E potrebbe anche andare a finire male.
Se vogliamo veramente pensare di salvaguardare la biodiversità e condividere il pianeta con la maggior parte possibile di altre specie viventi, dobbiamo seriamente iniziare a pensare che noi, uomini, dobbiamo rinunciare a godere di alcune parti del Pianeta. Attraverso la politica queste parti, senza deroghe, devono essere rese totalmente inaccessibili all’uomo e devono iniziare ad essere viste come una specie di “arca di Noè” dove gli animali e i vegetali selvatici vivono, prosperano e soccombono da soli.
Se proprio dobbiamo pensare ad una guerra, questa potrebbe essere la sola futura concepibile e potrebbe essere lo scopo futuro degli eserciti. Difendere la cintura ecologica (3) creata per la salvaguardia delle specie viventi dagli interventi umani.
A mio avviso questo è l’unico serio percorso che si può iniziare ad intraprendere a difesa della biodiversità. Unico percorso che non solo ci permette finalmente di iniziare la condivisione del Pianeta in pace con altre specie ma, soprattutto, quello che finalmente ci consente di dimostrare la nostra presunta intelligenza o superiorità.
È giunta l’ora di iniziare a fare qualcosa perché fino ad ora la nostra storia ci insegna purtroppo solo il contrario…
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(1) La possibile conseguenza di una tale scelta è, in definitiva, la perdita della biodiversità animale e vegetale del Pianeta nonché il dominio dell’economia, del denaro e del profitto, con possibili conseguenze negative a medio-lungo termine, anche per la specie umana. Perdere la biodiversità e la variabilità delle specie viventi potrebbe comportare anche un degrado globale dei sistemi viventi del Pianeta che potrebbe intaccare anche il benessere dell’uomo. Il rischio è anche il fatto che l’uomo, con presunzione, potrebbe applicare massicciamente l’ingegneria genetica arrivando addirittura a produrre nuove specie animali e vegetali.
(2) La conseguenza di una tale scelta, a mio avviso, oltre ad essere etica è anche economica e lambisce il campo delle libertà. Etica perché riconosce pari diritti di esistenza a tutte le specie viventi del Pianeta; economica perché le specie viventi producono una enormità di servizi gratuiti alla specie umana; di libertà in quanto, se non brevettabili da privati, consentono a chiunque di usufruirne gratuitamente, per svago (ad es. un bosco per le passeggiate o per il paesaggio) o per produrre beni e servizi (es. le radici degli alberi e la terra che depurano gratuitamente l’acqua piovana).
(3) Della cintura ecologica ne ho parlato più volte su Bioimita. Qui Qui Qui
Foto: www.lameziaoggi.it
Prodotti biologici: garanzia di assenza di pesticidi o trovata commerciale?!
L’Azienda Sanitaria di Firenze ha pubblicato sul proprio sito internet un’interessante tesi di laurea del corso di “Tecniche della prevenzione nell’ambiente e nei luoghi di lavoro” di Arianna Ugolini dal titolo: “Prodotti biologici: garanzia di assenza di pesticidi o trovata commerciale?!”
Il lavoro, dopo aver ampiamente e chiaramente spiegato le caratteristiche dei prodotti fitosanitari in agricoltura e la loro classificazione, ne ha esaminato – focalizzandosi particolarmente sui composti organofosfati (1) – i possibili effetti sulla salute e ha spiegato le regole per un corretto impiego degli stessi nella Regione Toscana, concentrandosi anche nel valutare quali siano i limiti massimi accettabili negli alimenti.
L’obiettivo, visto il corso di laurea, era principalmente quello di capire se sia possibile fare un’azione di prevenzione nei riguardi dei composti organofosfati da parte dei consumatori attraverso il consumo di prodotti biologici oppure se tale prevenzione, in relazione alle caratteristiche e alle contaminazioni degli alimenti, sia del tutto ininfluente nei confronti del loro stato di salute in generale.
L’idea di realizzare questo studio, come osserva l’autrice nella Premessa della sua tesi, nasce dalla lettura di due articoli, antitetici nel loro contenuto. Il primo, tratto dal sito internet Il fatto alimentare, datato 25 febbraio 2015 e intitolato “Consumare biologico fa bene alla salute. Meno pesticidi nell’organismo. Pubblicato il primo studio che evidenzia l’accumulo” afferma che chi consuma abitualmente frutta e verdura biologiche espone il suo organismo a minori quantità di pesticidi ed erbicidi rispetto a chi mangia vegetali coltivati con i metodi convenzionali. E questo risulta particolarmente importante per i composti organofosfati. L’altro testo, tratto dalla rivista Altroconsumo e intitolato “Biologico, c’è chi dice no. La nostra inchiesta” dell’11 settembre 2015, assieme alla risposta alle discussioni suscitate, “Inchiesta bio: alimenti biologici e convenzionali, il confronto”, pubblicata sempre da Altroconsumo il 4 ottobre 2015, in maniera molto dubbiosa vuole invece porre in discussione l’idea che il biologico sia migliore del convenzionale, elencando i punti a favore e quelli contrari, allo scopo di informare correttamente il consumatore e consentirgli di fare corrette scelte alimentari.
Per arrivare alle proprie conclusioni la ricercatrice ha effettuato dei campionamenti sugli alimenti e sull’acqua piovana mirati a verificare, in essi, i residui di fitofarmaci. I rilievi sono stati effettuati su 4 principali canali di produzione/distribuzione:
- coltivatori non biologici
- coltivatori biologici non certificati
- negozi specializzati
- negozi della grande distribuzione (GDO).
Per fare ciò la ricercatrice ha utilizzato il kit BioPARD, Pesticide Analytical Remote Detector, che si basa su un sistema di sensori associato ad un rivelatore elettrochimico per la determinazione rapida di pesticidi organofosforici e carbammici in campioni di cibo, acqua e suolo. Il kit permette solo una valutazione fondamentalmente qualitativa (presenza/assenza di pesticidi) e non quantitativa (se non per una discriminazione di massima tra valori quantitativi definiti “High” e valori più bassi definiti “Medium”, mentre con valori “Low” s’intende l’assenza o la presenza in minime tracce di residui) di pesticidi organofosforici e carbammati. Sulla base di questa discriminazione di massima (High; Medium; Low) Arianna Ugolini ha poi elaborato dei grafici riassuntivi che hanno fornito, in linea di massima, i seguenti risultati: i prodotti biologici sono risultati “High” per circa il 63%, “Medium” per circa il 13% e “Low” per circa il 23%. i prodotti convenzionali sono invece risultati “High” per circa il 90%, “Medium” per circa il 10%; i due campioni di acqua piovana provenienti da Scandicci centro e Ginestra Fiorentina sono risultati rispettivamente “Medium” e “Low”.
Le conclusioni di questo interessante lavoro (Tabella A) arrivano ad affermare che, dal lato della produzione, la certificazione biologica fornisce, in generale, migliori prodotti di quella convenzionale anche se non in assoluto. I prodotti migliori sono infatti quelli che provengono dalle coltivazioni biologiche non certificate. Dal lato della commercializzazione e distribuzione dei prodotti attraverso il canale della grande distribuzione non ci sono invece differenze sostanziali tra prodotti biologici e prodotti non biologici.
Quanto di inaspettato emerge dalla tesi di laurea è un fatto molto interessante, da non sottovalutare nelle scelte alimentari e negli studi della sostenibilità ambientale e alimentare del futuro. La certificazione biologica non è in assoluto uno strumento per misurare la qualità dei prodotti (dal punto di vista dei residui chimici) e la qualità dei prodotti consumati è tanto più elevata quanto più il produttore è consapevole dal punto di vista etico della propria scelta colturale “ecologica”. Questo indipendentemente dall’ottenimento o meno della certificazione biologica. In buona sostanza lo studio osserva che coltivare bene i prodotti agricoli è una scelta chiara e netta operata da parte del produttore e chi produce prodotti biologici solamente per fare più soldi o perché il mercato va in quella direzione, non necessariamente è in grado di immettere sul mercato prodotti di qualità. Come, per altro, chi certifica non è in grado di garantirlo sempre.
Estendendo queste conclusioni nel terreno della bioimitazione ne deduco anche che la sostenibilità ambientale non è – come ci vogliono far credere – solo un processo tecnico-economico che consente di far profitti in modo diverso. Così non funziona e non funzionerà mai! La sostenibilità ambientale è solamente un processo filosofico, del pensiero prima di tutto, che fa concepire la Natura come un tutt’uno, un insieme di processi complessi, nei confronti della quale non è sufficiente che mutiamo l’approccio tecnico-operativo, ma verso la quale dobbiamo mutare radicalmente il nostro modo di pensare consapevoli che nella partita della sostenibilità ambientale dobbiamo essere anche disposti a perdere molto. Altrimenti non funziona!!!
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La tesi di laurea di Arianna Ugolini è liberamente scaricabile qui.
(1) Ai composti organofosfati sono associati a diversi effetti negativi sulla salute umana, sia di tipo acuto (tremori, cefalea, difficoltà respiratorie) che cronico (disturbi neurologici, ansia), nonché, per quanto riguarda l’esposizione in gravidanza dei feti ritardo mentale, basso quoziente intellettivo e altro. Da uno studio condotto tra il 2010 e 2012 da parte dei ricercatori della School of Allied Health Sciences dell’università di Boise in Idaho, è risultato che esiste una relazione dose-dipendente tra consumo di alimenti non biologici e presenza di composti organofosfati nelle urine. (http://www.ilfattoalimentare.it/pesticidi-frutta-verdura-biologica.html).
Pappagalli padani
Una decina di anni fa ho visto per la prima volta dei grossi pappagalli tropicali verdi allo stato libero nei parchi pubblici di Siviglia, in Spagna. Poi, qualche anno fa, è stata la volta di Roma dove li ho sentiti cinguettare fuori dalla finestra dell’albergo che, una volta aperta, me li ha mostrati, sui rami di un albero, nella loro splendida livrea mimetica verde-gialla.
Qualche mattina fa è toccato a Verona, la mia città. Mentre mi trovavo in ufficio siamo stati tutti allertati da cinguettii molto forti che sembravano essere dentro i locali. Invece, una volta aperta la finestra, abbiamo scoperto che quei suoni così forti, che superavano addirittura la barriera del vetro, erano dovuti al canto di un bel pappagallo di circa 30 cm dalla livrea verde con numerosi altri colori sparsi un po’ qua un po’ là, posato sui rami di un albero. Devo dire uno spettacolo. Che quasi quasi è difficile da vedere anche negli zoo.
Il pappagallo era libero, forse fuggito da qualche gabbia (una sua fortuna, devo dire!), forse liberato volontariamente da qualche anima pia, forse venuto spontaneamente da qualche altro luogo più a sud dell’Italia e adattatosi a vivere in un centro storico del nord. Qui in effetti trova riparo per affrontare gli (oramai) sempre più scarsi geli invernali; qui non ha grossi predatori; qui recupera abbondanza di cibo, quegli scarti ancora buoni dell’uomo che lui, dotato di ali e di abilità nel volo, riesce a trovare in giro.
Non sono interessato al pensiero degli ignoranti che dice che la colpa è sempre degli ambientalisti (o dei soliti animalisti), ma so che anche alcuni naturalisti e alcuni studiosi, puristi della difesa della biodiversità ad oltranza, direbbero che si tratta di un grosso problema, da risolvere eradicando gli ospiti indesiderati. Cose sacrosante e vere se si vivesse in un mondo ideale dove si può applicare liberamente la scienza e si possono mettere in pratica i principi che essa ha scoperto. Io, però, so che questo non è più possibile nei contesti naturali oramai ampiamente antropizzati e, data la situazione tragica che interessa la Natura sempre più martoriata dall’uomo, dalla sua forza e aggressività, faccio il tifo per i pappagalli e la loro libertà padana. Mi auguro che essi possano trovare un luogo ideale per la loro esistenza libera e possano proliferare ed avere qui un successo darwiniano.
Questo, lo so, potrebbe andare contro i principi della biodiversità pura (1) che mira a salvaguardare specie endemiche di luoghi molto piccoli e isolati, tipo la rana del ruscello X o l’insetto del fiore Y. La situazione della Natura è però ora così compromessa dall’uomo e dalla sua voracità che, così come l’uomo ha creato i problemi, così l’uomo può essere l’artefice, anche involontario a causa della propria ignoranza o stupidità, della ripartenza. Le specie poi si adatteranno alle nuove situazioni, si creeranno nuovi equilibri ecologici e si ricostruirà una nuova biodiversità.
La situazione riguardante la Natura è così compromessa dagli interventi umani che, giunti a questo punto, salvare la biodiversità originaria è come voler curare il raffreddore ad un malato terminale. Cosa inutile. Meglio mettere il malato in terapia farmacologica d’urto e sperare che essa possa fare effetto. Al limite si potrà sempre dire di averci provato!
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(1) Ho molto rispetto per chi si occupa di biodiversità e cerca di difenderla – a volte a costo della vita – anche se rimane solo un barlume molto piccolo di speranza, come un piccolo appezzamento di foresta originaria, un piccolo tratto di fiume non alterato dall’uomo, una sola grotta o una sola piccola prateria. Con questo articolo però desidero osservare come i dati di degrado della biodiversità mondiale siano così catastrofici rispetto a ciò che si riesce effettivamente a difendere che, alla fine, ora come ora, è forse tristemente meglio prendere quello che viene e non andare tanto per il sottile.
Ci vorrebbe un fiore anzi no … – Gianni Rodari e Sergio Endrigo
Chi non si ricorda questa splendida canzone per bambini? Probabilmente molte persone, ascoltandola, non hanno inteso il significato importante e semplice del testo scritto da Gianni Rodari, musicato da Sergio Endrigo ed arrangiato da Luis Bacalov.
La canzone descrive il ciclo di vita di un “qualcosa” che è un tutt’uno con l’ambiente: che sia un fiore, un albero, un monte o la Terra. Tutti siamo sullo stesso pianeta, respiriamo la stessa aria, beviamo la stessa acqua eppure non ci rendiamo conto degli impatti ambientali ad esempio dei prodotti industriali.
Pensiamo, ad esempio, alle persone degli Stati Uniti d’America che hanno eletto un presidente il quale, già attraverso le sue prime azioni, non sembra molto amico della Terra. Infatti Donald Trump ha nominato a capo dell’Agenzia a protezione dell’ambiente un negazionista del cambiamento climatico.
Rodari ci dice fra le righe di giocare con la fantasia e allora giochiamo: la fantasia al potere o contro il Potere.
Immaginiamo di prendere questa canzone e di cantarla in tutte le lingue della Terra.
Registriamola e spediamola a tutti gli abitanti del pianeta ma sopratutto ai “Grandi” governanti del mondo.
Facciamola sentire una volta, due volte, tre volte … e chissà che potrebbe accadrebbe?
Ci vorrebbe un fiore … anzi no, ci vuole un fiore per fare tutto!
Le cose di ogni giorno
raccontano segreti
a chi le sa guardare
ed ascoltare.Per fare un tavolo
ci vuole il legno
per fare il legno
ci vuole l’albero
per fare l’albero
ci vuole il seme
per fare il seme
ci vuole il frutto
per fare il frutto
ci vuole un fiore
ci vuole un fiore,
ci vuole un fiore,
per fare un tavolo
ci vuole un fio-o-re.Per fare un fiore
ci vuole un ramo
per fare il ramo
ci vuole l’alberoper fare l’albero
ci vuole il bosco
per fare il bosco
ci vuole il monte
per fare il monte
ci vuol la terra
per far la terra
ci vuole un fiore
per fare tutto
ci vuole un fio-o-re.Per fare un tavolo
ci vuole il legno
per fare il legno
ci vuole l’albero
per fare l’albero
ci vuole il seme
per fare il seme
ci vuole il frutto
per fare il frutto
ci vuole il fiore
ci vuole il fiore,
ci vuole il fiore,
per fare tutto
ci vuole un fio-o-re.
Riferimenti
- Note all’album Ci vuole un fiore dal sito ufficiale di Sergio Endrigo
- Gianni Rodari sito ufficiale
- Scott Pruitt dirige l’Agenzia per la protezione dell’Ambiente
- Scritto e pubblicato per Riusa.
Perso nel supermercato – The Clash
Perché si entra al supermercato? Per comprare quello che serve per nutrirsi?
Si forse tanto tempo fa, ma al giorno d’oggi nella cassetta postale di casa, si è sommersi di volantini dei supermercati, anzi degli ipermercati.
Offerte speciali di prodotti a sotto costo, a ribasso o a “prendi tre e paghi due”.
Si trova di tutto: cibo, elettrodomestici, detersivi, prodotti di bellezza, vestiari, cancelleria, giornali, libri, vasellame, biciclette, giocattoli, strumenti da bricolage, smartphone ed accessori vari, eccetera eccetera e così si inizia a perdersi solo leggendo i volantini.
Si entra al supermercato con una lista, magari precisa, poi si acquista sempre di più di quello che era nell’elenco e intanto si accumulano punti sulla tessera fedeltà.
Si è sicuri che tutto l’acquistato, poi, serva?
Si torna a casa, si mettono via le cose, si scartano i prodotti, si mangiano i cibi e alla fine si resta con un mucchio di rifiuti principalmente di carta e di plastica.
Si è appagati, vero?
Lost in the supermarket
I’m all lost in a supermarket
I can no longer shop happily
I came in here for the special offer
A guaranteed personality
I wasn’t born so much as i fell out
Nobody seemed to notice me
We had a hedge back home in the suburb
Over which i never could see
I heard the people who live on the ceiling
Scream and fight most scarily
Hearing that noise was my first ever feeling
That’s how it’s been all around me
I’m all tuned in, I see all the programmes
I save coupons from packets of tea
I’ve got my giant hit discotheque album
I emty a bottle i feel a bit free
The kids in the halls and the pipes in the walls
Make me noises for company
Long distance callers make long distance calls
And the silence makes me lonely
And it’s no hear
it disappear
Perso nel supermercato
Mi sono perso nel supermercato
Non riesco a fare la spesa felicemente
Sono entrato per quell’offerta speciale
Personalità garantita
Più che nato sono capitato
Sembrava che nessuno si accorgesse di me
Avevamo una siepe dietro casa in periferia
Oltre la quale non riuscivo a vedere
Sentivo la gente del piano di sopra
Urlare e picchiarsi in modo terribile
Sentire quei rumori fu la mia prima emozione
Ecco cosa avevo intorno a me
Sono sempre sintonizzato, vedo tutti i programmi
Conservo i punti dai pacchetti di tè
Ho comprato il mio album di hits da discoteca
Svuoto una bottiglia e mi sento un pò più libero
I ragazzi dentro le stanze e le tubature dei muri
Fanno rumori che mi tengono compagnia
Chi chiama da lontano chiama da lontano
E il silenzio mi lascia solo
Non è qui
Scompare
Riferimenti
- La canzone Lost in the supermarket è tratta dall’album London Calling, pubblicato nel 1979 da The Clash.
- Il testo e la traduzione sono tratte dal sito Radio Clash.
- L’immagine e lo spezzone qui sotto sono tratti dal film “The Hurt Locker”, di Kathryn Bigelow, uscito nel 2009.
Scritto e pubblicato per Riusa.
Canzone contro la natura – The Zen Circus
Un titolo che ti spara in faccia la rivolta inesorabilmente della natura.
Sono anni che il pianeta Terra ci sta mandando segnali sul suo stato e sulla sua ribellione, che testardamente non vogliamo vedere.
C’è chi si ostina a negare i cambiamenti climatici, che causano lo scioglimento dei ghiacciai e dei poli, mentre aumenta l’inquinamento che innesca la forza bruta della natura, come i cicloni.
Sulla Terra siamo l’unica specie senziente che odia i suoi simili, che distrugge i propri territori, sia vicini o lontani.
Ci vogliamo contrapporre al pianeta con tutta la conoscenza accumulata e la tecnologia creata, ma la natura sembra proprio fregarsene, continua a sfidarci e sotto sotto ride perché noi stessi siamo parte di lei.
Ecco la sua vendetta … eppure noi uomini continuiamo imperterriti a non avere rispetto per l’ambiente, ovvero la natura.
The Zen Circus sono una band pisana di punk rock e con uno stile irriverente, tipicamente toscano, ci cantano a brutto muso la Canzone contro la natura.
La zuppa di plastica. Una ricetta tutta mediterranea
Con questa ricetta purtroppo non stiamo parlando della famosa dieta mediterranea ricca di vegetali, olio d’oliva e varia conosciuta da tutti per garantire longevità ai suoi consumatori. No, questa volta parliamo di una ricetta ben diversa, la cosiddetta “zuppa di plastica del Mediterraneo”, un brodo più o meno denso di frammenti di plastica, piccoli e addirittura invisibili, che inquina tutti i mari del Pianeta e, senza eccezione alcuna ma anzi con peculiarità, anche il Mediterraneo.
Recentemente l’Istituto di Scienze Marine del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Lerici (ISMAR-CNR), in collaborazione con le Università di Ancona, del Salento e Algalita Foundation (California) ha pubblicato su Nature/Scientific Reports una ricerca relativa alla stima della presenza, nel 2013, di microplastica (1) galleggiante nel Mediterraneo occidentale. Il ricercatore dell’ISMAR-CNR Stefano Aliani osserva che: “Per la prima volta sono stati individuati i polimeri che costituiscono la microplastica galleggiante in mare e la loro distribuzione. Si tratta principalmente di polietilene (2) e polipropilene (3), ma anche di frammenti più pesanti come poliammidi e vernici, oltre a policaprolactone, un polimero considerato (teoricamente, ndr) biodegradabile”. “Questo tipo di informazioni – osserva ancora Aliani – sono importanti per avere una stima precisa della dimensione del problema generato dai rifiuti di microplastica in mare e per attivare opportuni programmi di riduzione della presenza di questi inquinanti”. “I polimeri sono distribuiti in modo disomogeneo nel Mediterraneo e le ragioni dipendono dalle diversi sorgenti di rifiuti, che possono essere le aree densamente abitate lungo la costa, i fiumi e i processi di trasporto marino tipici di un bacino”. “Si pensi – prosegue il ricercatore – che nel mondo vengono prodotte circa 300 milioni di tonnellate di plastica e si stima che fino a 12 milioni di tonnellate (cioè il 4 % del totale) finiscano in mare”.
La ricerca pubblicata e le parole terrificanti del ricercatore dimostrano con inequivocabile dubbio che il tempo per le plastiche e per i materiali non biodegradabili è giunto al termine. Non ci possiamo più permettere il lusso che materiali derivanti da fonti non rinnovabili (il petrolio) e persistenti in natura (ad esempio le plastiche) siano prodotti e vengano utilizzati per la produzione di beni su larga scala, soprattutto usa e getta.
Purtroppo si pensa ancora che la soluzione sia da ricercare nella corretta gestione dei rifiuti e nelle opere di bonifica e depurazione dell’ambiente. Sbagliato! La soluzione va invece ricercata nell’ambito della produzione imponendo soluzioni alternative e tassando quei materiali che non siano più sostenibili dal punto di vista ambientale. In buona sostanza si devono favorire le produzioni e i metodi cosiddetti ecologici e si devono prevedere delle elevate tassazioni per i prodotti e i materiali inquinanti e/o non rinnovabili, anche se molto economici, in modo da considerare i costi indiretti a carico dell’ecosistema che vadano a compensare il loro smaltimento, il loro degrado e i danni che essi producono.
Dal mio punto di vista credo che l’unica soluzione alla zuppa di plastica mediterranea sia solo una: la bioimitazione in quanto unica metodologia tecnico-produttiva compatibile con il Sistema in cui viviamo e operiamo e dal quale non possiamo (più) prescindere.
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(1) La microplastica è costituita da quei frammenti di plastica più piccoli di 2 millimetri che, per quanto non visibili o difficilmente visibili ad occhio nudo, sono stati trovati un po’ ovunque nei mari mondiali, anche se le concentrazioni maggiori sono proprio quelle del Mediterraneo. Si pensi che nel vortice subtropicale dell’Oceano Pacifico sono stati stimati 335.000 frammenti di plastica ogni km2, mentre nel Mar Mediterraneo si parla di una media di circa 1,25 milioni per km2.
(2) Il polietilene (sigla: PE) viene prevalentemente utilizzato per i flaconi, per tappi di plastica, per prodotti usati in edilizia e per gli imballaggi in generale.
(3) Il polipropilene (sigla: PP) viene utilizzato per numerosi prodotti in edilizia e per la produzione di mobili. Inoltre viene usato per numerosi imballaggi e per la produzione di numerosi parti delle auto.
Immagine: Mappa della concentrazione delle microplastiche nel Mar Mediterraneo occidentale.
Foto: Setaccio manuale delle microplastiche presenti nel campione d’acqua.
Il consumo del territorio semplicemente mi sconvolge
Nell’opinione pubblica gli ambientalisti sono sempre quelli del “NO” e quelli contrari al “progresso” e alla “tecnologia”. Sono quelli conservatori che vorrebbero tornare a vivere come l’uomo di Neanderthal senza benessere e senza medicine. Sono anche quelli – per dirne alcune – che hanno liberato le nutrie nei fiumi, quelli che hanno portato in Europa la zanzara tigre o quelli che minacciano l’economia montana in quanto difensori di orsi e lupi.
Per confutare questa tesi io, che mi definisco orgogliosamente ambientalista (1), voglio esprimere il mio profondo dissenso e disgusto per il terribile fenomeno del consumo del territorio e della cementificazione selvaggia al quale si deve per forza porre un freno. Lo desidero fare esprimendo la mia profonda contrarietà nei confronti di due episodi particolari – uno vissuto direttamente da me l’altro letto su Il Fatto Quotidiano – verso i quali mi preoccupo di proporre delle valide e benefiche alternative.
Innanzitutto vorrei partire dal concetto secondo cui io non sono a priori contrario alla realizzazione di infrastrutture urbane che, se necessario, potrebbero anche utilizzare del territorio vergine, cioè prima adibito a verde o ad agricoltura. Le cose importanti e fondamentali, però, sono almeno due: che siano fatte nella logica del benessere per i potenziali utilizzatori e non invece per ingrassare l’economia clientelare degli appalti; che siano realizzate da persone molto competenti in materia e non dagli amici degli amici che hanno poche qualifiche e che mirano solamente ad ottenere il massimo profitto personale. Perché, se realizzate male, le opere infrastrutturali ed urbane consumano irrimediabilmente territorio (una risorsa non facilmente rinnovabile) e contemporaneamente non sono utili per i potenziali beneficiari, cioè i cittadini.
Ora, detto ciò, vengo a descrivere le due situazioni di cui sopra. Le possibili soluzioni non richiedono troppe spiegazioni ma verranno direttamente da sé.
Qualche tempo fa sono stato con mia figlia a vedere il Museo delle Scienze di Trento (MUSE). Al di là del fatto che il museo è molto interessante, moderno e frequentato da moltissime persone, esso è stato realizzato in un contesto urbano – le Albere – pensato e progettato da Renzo Piano per recuperare l’area di una vecchia fabbrica di pneumatici. Quello che mi ha colpito dell’insediamento è il fatto che esso sia diventato, con il suo enorme parco alberato, con il museo e con le attività commerciali insediate, un importante luogo di aggregazione dei cittadini. Mi ha dato l’idea che essi non solo vadano in quel luogo per svolgere le loro attività ma desiderino recarsi proprio lì per vivere serenamente qualche ora e godere di una parte della loro città. Passandoci un pomeriggio quel luogo mi ha anche dato l’idea che poteva essere progettato in mille modi ma farlo progettare da uno dei migliori ha fatto senza dubbio la differenza. Come affermò il progettista «Le Albere è un classico esempio di trasformazione dei brownfields, i terreni industriali dismessi, in greenfields, un terreno cementato che diventa in gran parte verde, l’opposto di quello che si è fatto per tanti anni nelle città» aggiungendo che «Usare il legno è già di per sé un’attività intelligente perché è un materiale che viene dalle foreste, e le foreste si rinnovano, per cui di fatto è energia rinnovabile oltre che perfettamente riciclabile».
Leggo qualche giorno fa su Il Fatto Quotidiano l’articolo di Alex Corlazzoli “Ho visitato una scuola svizzera. E sono rimasto sconvolto” nel quale racconta la sua personale esperienza in una scuola elvetica di secondo grado (la nostra scuola media). Al di là degli strumenti didattici e della possibile fruizione della scuola che ne possono fare i professori (che possono accedervi sempre, con chiavi personali, anche di domenica e di sera) e al di là del rispetto che gli alunni hanno per il bene pubblico, quello che mi ha colpito è il fatto che la scuola fosse dotata, oltre che di sala professori con ogni comfort, di mensa ben progettata, anche addirittura di un teatro, di un laboratorio d’arte, di un’emeroteca e di una ludoteca aperta ai ragazzi. La realizzazione di tale scuola non è stata data ad un progettista qualsiasi ma era stato affidato a Santiago Calatrava che non ha scopiazzato un progetto a caso di una scuola qualsiasi ma ha tentato di “pensare” questo spazio abitativo pubblico in funzione dei ragazzi e dei professori. Uno spazio pensato per assolvere in maniera chiara ad una funzione educativa. E non credo sia un caso che, se educati in tali ambiti, i cittadini svizzeri siano poi dei cittadini modello.
I due esempi sono chiari riferimenti al fatto che dobbiamo iniziare a pretendere che il consumo del territorio sia una cosa seria che deve rientrare prioritariamente nell’agenda della politica che non deve solamente pensare di limitarne il consumo ma anche iniziare ad imporre regole che tolgano dal sistema della progettazione a personaggi incompetenti che lavorano in quanto amici degli amici o finanziatori e sostenitori degli amici. Sono certo che, in un tale contesto operativo, la limitazione del consumo del territorio verrebbe anche un po’ da sé…
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(1) La definizione di “ambientalista” non è chiara e ben definita ma si riferisce a colui che ha a cuore, attraverso la cultura e la conoscenza e spesso attraverso il buon senso, il futuro benessere dei propri figli. Essere ambientalista è essere semplicemente “padre” (o “madre”). E io mi sento pienamente di esserlo.
Foto 1: Quartiere Le Albere visto dall’alto
Foto 2: Scuola Media di Bellinzona, Svizzera
Neil Young sta con i nativi di Standing Rock
In onore delle nostre future generazioni, noi combattiamo questo oleodotto per proteggere la nostra acqua, i nostri luoghi sacri e tutti gli esseri viventi.
Standing Rock.org
Purtroppo la storia si ripete con gli indiani d’America: pochi giorni fa è stato sgombrato il campo base dell’accampamento di protesta di Standing Rock. I nativi americani che vivono nella omonima riserva stanno contestando e cercando di bloccare pacificamente la costruzione dell’oleodotto Dakota Access Pipeline che attraverserà delle aeree fluviali e lacustri. I nativi sono molto preoccupati per l’impatto ambientale e ai possibili danni causati dall’inquinamento. Le proteste sono iniziate nel 2014 e hanno avuto una risonanza anche internazionale. Molte celebrità hanno dato il loro supporto e sono state a Standing Rock. Fra chi ha dato il suo contributo, non poteva mancare il rocker Neil Young. Il cantautore canadese ha dedicato una canzone alla battaglia di Standing Rock, tratta dal suo ultimo disco Peace Trail (2016).
L’album è stato definito un instant record perché affronta temi contemporanei su cui c’è un forte dibattito: la politica, l’ambiente da salvaguardare o la riflessione sul disinteresse delle persone. Il disco è diretto e scarno per testimoniare l’urgenza dei messaggi. Proprio il brano Indian Givers è a favore delle persone di Standing Rock e della loro causa. Il video della canzone è stato montato con reportage televisivi e riprese fatte con lo smartphone da Neil Young stesso. La canzone è un duro atto d’accusa verso i bianchi e l’ipocrisia che sta dietro alla costruzione del Dakota Access Pipeline. È noto che fra i finanziatori ci sono due banche europee: l’italiana Intesa Sanpaolo e l’olandese ING.
Greenpeace Italia ha lanciato una petizione per chiedere a Banca Intesa di non finanziare il Dakota Access Pipeline. [Si può firmare qui].
There’s a battle raging on the sacred land
Our brothers and sisters have to take a stand
Against us now for what we’ve all been doin’
On the sacred land there’s a battle brewin’
I wish somebody would share the news
I wish somebody would share the news
I wish somebody would share the news
Now it’s been about five hundred years
We keep taking what we gave away
Just like what we call Indian givers
It makes you sick and gives you shivers
I wish somebody would share the news
I wish somebody would share the news
I wish somebody would share the news
I wish somebody would share the news
Big money goin’ backwards and ripping the soil
Where graves are scattered and blood was boiled
When all who look can see the truth
But they just move on and keep their groove
I wish somebody would share the news
I wish somebody would share the news
I wish somebody would share the news
Saw Happy locked to the big machine
They had to cut him loose and you know what that means
Yeah, that’s when Happy went to jail
Behind big money justice always fails
I wish somebody would share the news
I wish somebody would share the news
I wish somebody would share the news
I wish somebody would share the news
Bring back the days when good was good
Lose these imposters in our neighborhood
Across our farms and through our waters
All at the cost of our sons and daughters
Our brave songs and beautiful daughters
We’re all here together fighting poison waters
Standing against the evil way
That’s what we have at the end of dayI wish somebody would share the news
I wish somebody would share the news
I wish somebody would share the news
I wish somebody would share the newsC’è una battaglia che infuria sulla terra sacra
I nostri fratelli e sorelle devono prendere posizione
Contro di noi per colpa di ciò che stiamo facendo
Sulla terra sacra una battaglia si avvicina
Spero che qualcuno condividerà la notizia
Spero che qualcuno condividerà la notizia
Spero che qualcuno condividerà la notizia
Ormai sono cinquecento anni che
Continuiamo a tenerci quello che abbiamo portato via
E continuiamo a dirci, “che indiani generosi” (1)
Ti fa sentire disgustato e ti dà i brividi
Spero che qualcuno condividerà la notizia
Spero che qualcuno condividerà la notizia
Spero che qualcuno condividerà la notizia
Spero che qualcuno condividerà la notizia
Il denaro torna indietro e lacera la terra
Cosparsa di tombe e dove il sangue ribolliva
Quando chiunque guarda può vedere la verità
Invece se ne va e torna alla sua vita
Spero che qualcuno condividerà la notizia
Spero che qualcuno condividerà la notizia
Spero che qualcuno condividerà la notizia
Ho visto Happy incatenato alla grande macchina (2)
Dovevano dargli il benservito, sai cosa vuol dire
Yeah, fu così che Happy andò in prigione
Davanti ai soldi la giustizia perde sempre
Spero che qualcuno condividerà la notizia
Spero che qualcuno condividerà la notizia
Spero che qualcuno condividerà la notizia
Spero che qualcuno condividerà la notizia
Torniamo ai giorni in cui il bene era il bene
Cacciamo questi impostori dal nostro quartiere
Dalle nostre fattorie e dai nostri fiumi
Ne va dei nostri figli e delle nostre figlie
I nostri coraggiosi figli e le nostre bellissime figlie
Siamo qui tutti insieme a combattere le acque avvelenate
In piedi contro il male
E’ quello che ci resta alla fine della giornata
Spero che qualcuno condividerà la notizia
Spero che qualcuno condividerà la notizia
Spero che qualcuno condividerà la notizia
Spero che qualcuno condividerà la notizia
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(1) “Indian givers” è un’espressione che significa “persona che vuole riprendersi ciò che ha regalato”. Tale espressione nacque in America all’epoca dei colonizzatori europei e viene oggi ritenuta offensiva nei confronti dei nativi americani (Wikipedia). Non essendo possibile tradurla letteralmente, si è optato per una traduzione che rendesse lo stesso significato critico e ironico che costituisce il messaggio della canzone. Con l’espressione originale Young intende sottolineare che l’uomo bianco si comporta esattamente come coloro che ha sempre criticato e combattuto: i nativi.
(2) Young si riferisce ad un episodio avvenuto durante le proteste a Standing Rock. Dale “Happy” è un attivista che è stato arrestato per essersi incatenato alle attrezzature in segno di protesta.
Curiosità: Neil Young ha festeggiato il suo 71° compleanno suonando con gli indiani a Standing Rock.
Nota: Il testo e la traduzione sono del sito neilyoungtradotto.blogspot.it.
Le luci e le ombre del 2016 per il WWF
Sull’onda del primo articolo del 2017: “Bioimita – Anno Quarto” riporto alcuni dati interessanti riguardanti l’ambiente e la sua tutela pubblicati alla fine dell’anno scorso da parte del WWF che ha fatto un bilancio delle cose fatte (e non fatte o fatte male) nel 2016. Come era intuibile cercando di ripercorrere mentalmente le notizie dei mesi passati, ne sono uscite più ombre che luci. Vediamo quali sono state…
Il 2016 ha segnato un traguardo importante per l’associazione ambientalista: l’anniversario dei 50 anni della fondazione di WWF Italia. Essa è stata celebrata sia da parte di papa Francesco che da parte delle massime cariche istituzionali del Paese che, per lo meno nel cerimoniale, hanno dimostrato interesse per i temi e i problemi che il WWF ha evidenziato in questi decenni di lotte e di azioni. In particolare si è discusso dell’Agenda 2030 dell’ONU per lo sviluppo sostenibile (1); della lotta ai cambiamenti climatici; della “Emergenza Mediterraneo” (antropizzazione della fascia costiera e sovrasfruttamento degli stock ittici); della necessità di dare il giusto valore al capitale naturale del Pianeta; della perdita di biodiversità (2).
Per quanto riguarda la politica italiana il WWF osserva, per il 2016, come le istituzioni del nostro Paese siano state capaci di contribuire agli impegni internazionali per la definizione di obiettivi globali ambiziosi sul cambiamento climatico e per la definizione di piani d’azione efficaci in attuazione delle Direttive europee sulla Natura. Purtroppo, dentro i confini nazionali, ci si attesta ancora su posizioni di retroguardia, come il referendum votato lo scorso 17 aprile sulla durata delle concessioni delle piattaforme offshore per estrarre combustibili fossili (petrolio e gas) e con riforme che, di fatto (nello smantellamento del Parco Naturale dello Stelvio) e delle norme vigenti (revisione della legge 394/1991, legge quadro sulle aree protette), depotenziano la tutela della natura indebolendo la governance delle aree protette e la loro vocazione alla tutela della biodiversità. Segnali poco incoraggianti giungono anche dal fronte della sostanziale cronicità dei crimini di natura, soprattutto il bracconaggio, che colpiscono in Italia ancora specie simbolo come lupi, orsi, uccelli rapaci e persino animali quasi scomparsi come gli ibis eremita. Sulla strategia nazionale di decarbonizzazione stiamo ancora muovendo i primi passi, mentre lo sviluppo delle energie rinnovabili o dei trasporti più sostenibili continuano ad essere una corsa ad ostacoli di scarsa cultura e burocrazia.
Il 2016 è stato un anno cruciale anche dal punto di vista della difesa della biodiversità del Pianeta. Sul fronte internazionale la notizia migliore è stata quella della istituzione, nell’oceano Meridionale che circonda l’Antartide, della più grande area protetta marina di sempre: 1,57 milioni di km quadrati (una superficie grande circa come 5 Italie) per proteggere mammiferi marini, pinguini, procellarie e gli ecosistemi più fragili e importanti del pianeta. Buone notizie anche per alcune specie minacciate: per la prima volta in 100 anni il numero delle tigri è in crescita (3.890 individui, erano 200 nel 2010), mentre un accordo internazionale ha costituito una importante vittoria per fermare il commercio illegale di pangolini, braccati per le loro squame, vendute a 600-1000 dollari al kg. Un nuovo regolamento fa poi segnare un passo in avanti per stroncare il commercio di avorio. Sono, infatti, centinaia di migliaia gli esemplari di elefante uccisi ogni anno, venduti come specialità gastronomiche o ridotti in preparati dalle indubbie qualità mediche. Anno positivo infine anche per il panda gigante – simbolo del WWF (e di tutte le specie minacciate) – declassato da una categoria di minaccia maggiore (endangered) ad una minore (vulnerabile). Le cattive notizie riguardanti la biodiversità però non mancano: quattro specie di grandi scimmie su sei sono ora in pericolo di estinzione e continuano le stragi di elefanti (ne abbiamo persi più di 100.000 in 10 anni).
Tornando all’Italia, in merito al consumo del suolo e alla manutenzione del territorio – tema caldo nella percezione dell’opinione pubblica italiana che vede continue colate di cemento e asfalto anche nei nostri paesaggi più belli – dopo 4 anni di continui tentennamenti da parte dei Governi che si sono succeduti, dalla fine del 2012 al 2016, il 12 maggio scorso è stato finalmente approvato in prima lettura alla Camera il disegno di legge sul consumo del suolo che, finalmente, tra gli aspetti positivi, stabilisce che il suolo è risorsa non rinnovabile e che debbano essere fissati obiettivi nazionali, regionali e locali per il contenimento del consumo del suolo e strumenti che favoriscano la rigenerazione urbana, cioè il riuso di aree già urbanizzate. Nel contempo, però, attraverso i soliti cavilli linguistici e normativi, le potenti lobby del cemento rischiano di ottenere l’obiettivo opposto: quello di fingere la difesa del suolo e invece favorire nuove edificazioni, sostanzialmente attraverso i cosiddetti compendi agricoli neorurali.
In buona sostanza la partita per garantire un prospero futuro ai nostri figli e alle nuove generazioni volge quasi alla fine e, purtroppo, la stiamo perdendo 2 a 0. La rimonta è possibile e deve essere sempre ricercata ma ci dobbiamo tutti rimboccare le maniche perché il gioco della squadra avversaria è spesso scorretto (le lobby) e gli arbitri (la politica) non sempre fischiano correttamente i falli.
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(1) Un nome a mio avviso orribile per parlare seriamente dei problemi ecologici – che per essere veramente efficaci devono rompere lo schema economico del consumismo legato in buona parte al concetto di “sviluppo” – ma comunque utile per iniziare a portare a galla la questione e farla conoscere un po’ a tutti.
(2) Il report del WWF “Living Planet Report 2016” riassume tutto il senso dell’urgenza che il WWF attribuisce alla difesa della biodiversità ricordando come, in meno di 5 anni (entro il 2020), il pianeta rischia di perdere il 67% della popolazione globale di specie vegetali e animali, mentre tra il 1970 e il 2012 le popolazioni globali di pesci, uccelli, mammiferi, anfibi e rettili si sono già ridotte del 58%, più della metà.
Dieselgate: la politica ne è complice?
Ce lo ricordiamo ancora lo scandalo “Dieselgate” che ha travolto Volkswagen nel settembre del 2015? O sono (quasi) riusciti a farcelo dimenticare? (1)
Tanto per ricapitolare, le autorità americane un po’ per caso e dopo un lungo iter di prove e controprove scoprono che la casa automobilistica tedesca ha utilizzato su un elevato numero di auto vendute un dispositivo che aggira i test sulle emissioni (defeat device, dispositivo di manipolazione) e che attiva i sistemi anti-inquinamento delle auto solo nel corso delle prove su rulli, in laboratorio o in officina. Su strada, invece, le auto inquinavano molto di più del dichiarato e, come ovvia conseguenza, potevano aumentare di molto la probabilità di provocare dei gravi rischi per la salute pubblica (2).
Se, da un lato, gli Stati Uniti stanno seguendo il loro percorso per accertare responsabilità e stabilire sanzioni, dall’altro lato il dieselgate ha lambito anche l’Unione europea e, di riflesso, tutti i suoi stati membri, compresa l’Italia. Come conseguenza dello scandalo in Europa è stata creata una specifica commissione di inchiesta, la Emission Measurements in the Automotive Sector (EMIS), che ha lo scopo di portare avanti indagini sulle autovetture, soprattutto diesel, circolanti nel nostro continente. Per farlo chiede ai ministeri competenti dei singoli stati di fare dei test di controllo sulle reali emissioni e di produrre delle relazioni ad hoc.
A tale riguardo, come scrive Il Fatto Quotidiano, il rapporto redatto da parte del Ministero dei Trasporti per analizzare le emissioni reali dei diesel venduti in Italia, datato 27 luglio 2016 e mai reso pubblico attraverso i canali ufficiali del Ministero, nelle sue 46 pagine contiene numerose lacune che fanno nascere un malizioso sospetto. Come osserva Anna Gerometta, presidente di “Ciattadini per l’aria”, un’associazione che fa parte della rete europea “Transport & Environment” per i trasporti sostenibili: “E’ chiaro che il governo ha voluto coprire le case automobilistiche, e in particolare Fiat-Chrysler”. Dello stesso avviso sono poi anche gli eurodeputati del M5S che pubblicano il rapporto sul loro sito e dichiarano: “Un rapporto scandaloso, che rasenta il ridicolo. Un occultamento scientifico dei dati più scomodi”.
Al di là delle tabelle, dei dati, del fatto che le auto testate siano nuove e non rappresentative del reale parco circolante. Al di là del fatto che il report sia stato pubblicato tardivamente, del fatto che siano stati testati solo i motori euro 5 e non gli euro 6, quello che emerge anche è il fatto che il Ministro dei Trasporti italiano coinvolto nella questione, Graziano Delrio, è un medico che, per deontologia professionale – anche se non lo esercita temporaneamente – e per il giuramento di Ippocrate dovrebbe sempre, dico sempre, preoccuparsi di difendere la vita, la salute e il benessere dei pazienti.
Se i dubbi riguardanti la veridicità del report del Ministero dei Trasporti sulle reali emissioni dei motori diesel dovessero in qualche modo far pensare seriamente o far emergere per certo che i dati sono stati un po’ “manipolati” per favorire una o l’altra azienda produttrice di auto, la cosa sarebbe già grave, ma molto più grave sarebbe il fatto che coinvolga un medico, ora prestato alla politica e ministro.
Un’altra cosa emerge poi dalla questione dei dubbi sul report, già chiara da tempo per molte altre funzioni e attività pubbliche: sono stati stravolti gli scopi dei diversi ruoli della società. Ora la politica, più che essere il garante di tutti è piuttosto una propaggine del potere, soprattutto di quello economico e finanziario. Essa, che dovrebbe tutelare i cittadini di fronte alla dinamicità dei tempi, tende, con la scusa della difesa del lavoro e degli investimenti, a favorire invece quasi esclusivamente il potere economico che la tiene in pugno con i finanziamenti ai partiti e con il possesso dei mezzi di informazione, necessari alla politica per avere visibilità e consenso.
Tutto qua. Se però non avremo il coraggio di ribellarci a questa evidente “anomalia” e riportare ogniuno nei propri ruoli, dovremo continuamente piangere i nostri ammalati o i morti pensando che piove e invece ci stanno solo pisciando addosso.
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(1) Il paradosso è che – notizia dell’ultima ora – Volkswagen ha spodestato Toyota dal trono di maggiore produttore di auto al mondo nel 2016. Questo nonstante tutto. E il fenomeno la dice lunga su quanto poco incida l’etica aziendale legata alla sostenibilità nelle decisioni dei consumatori.
(2) “Considerando solo l’Italia – sostiene Anna Gerometta di “Cittadini per l’aria” – ogni anno muoiono prematuramente 23mila persone a causa dell’esposizione al biossido di azoto (NO2), un gas fortemente nocivo per la salute umana e riconducibile prevalentemente alle emissioni dei veicoli diesel”. Da tempo le istituzioni internazionali sanno che in condizioni reali di guida le emissioni dei veicoli, comprese quelle degli ossidi di azoto (NOx), sono maggiori di quelle rilevate in fase di test. Un problema che in Europa dipende da un regolamento sulle omologazioni che non viene più aggiornato dal 2007. La novità che salta fuori con il dieselgate è il fatto che uno dei costruttori, Volkswagen appunto – ma sembra ce ne siano molti altri coinvolti tra cui FCA e Renault – ha addirittura truccato i test.
Bioimita – Anno Quarto
Quest’anno appena trascorso – il 2016 – è stato molto particolare per me e per la mia vita e, pertanto, se a tutto sommo anche gli innumerevoli impegni di lavoro, devo constatare che per Bioimita sono riuscito a scrivere relativamente poco: solo 25 articoli per il “Blog” e 2 articoli per la sezione “Prodotti”. Purtroppo quasi nulla rispetto agli anni precedenti!
Nonostante tutto la passione e l’attenzione per le tematiche ecologiche comunque non mi sono passate e, da mero osservatore delle questioni che hanno interessato l’anno appena trascorso, posso dire che anche su questo fronte non ce la siamo passati bene. Dal punto di vista geopolitico le numerose guerre e i numerosi conflitti armati che si sono combattuti – in primis quelli terribili e atroci della Siria – hanno senza dubbio inciso dal punto di vista ambientale. Le armi e le guerre non vanno mai d’accordo con la sostenibilità ambientale. Inoltre a novembre, negli USA, è stato eletto presidente Donald Trump, un signore che da subito non ha manifestato grande attenzione per l’ecologia tanto da non menzionarla mai in campagna elettorale nonché voler nominare a capo dell’Agenzia di Protezione dell’Ambiente (EEA – Environmental Protection Agency) Scott Pruit, un signore molto vicino ai big del petrolio, negazionista dei cambiamenti climatici e così poco attento alla sostenibilità ambientale, tanto da essere stato uno dei più grandi oppositori delle già blande battaglie ecologiste di Barack Obama. Anche in Italia, su questo fronte, il recente insediamento del Governo di Paolo Gentiloni ha dimostrato tutte le sue lacune. È stato infatti rinominato Ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti, di cui ho già parlato ampiamente in un altro articolo e sul quale non c’è nulla di più da dire tranne il fatto che, sull’argomento, non propone nessuna idea innovativa – di cui ce ne sarebbe un gran bisogno – limitandosi ad occuparsi svogliatamente dell’ordinaria amministrazione imposta dall’Europa. Ed è tutto dire sull’importanza e sulla priorità che questo argomento ha per “lorsignori”.
Se poi ci mettiamo i dati e le pubblicazioni sul riscaldamento climatico globale che vede ogni ultimo anno passato sempre il più caldo della storia umana recente; che vede centinaia di migliaia di morti ogni anno per smog in Europa; che vede animali selvatici e ambienti naturali sempre più al collasso; che vede forti pressioni delle industrie chimiche e biotech per interferire sui processi naturali e sui decisori politici; che vede sempre più perdita di biodiversità; che vede… la situazione in cui ci troviamo è proprio pessima!
Sulla base di tali presupposti, se avessi mai avuto dubbi sull’importanza di Bioimita e sul suo valore intellettuale e strategico, beh, sarebbero stati ora completamente smentiti dai fatti. Sarà mia cura pertanto, leccare le ferite di una vita complessa che ha tentato di interferire con i miei desideri, rimboccarmi le maniche e ripropormi di mettere in campo, per il 2017, tutti gli sforzi per continuare a divulgare idee di sostenibilità ambientale legate all’imitazione della natura quali unici strumenti per garantire continuità e prosperità alle generazioni future.
Se qualcuno vuole farsi avanti per aiutarmi nell’impresa è il benvenuto…
Perché rispettare l’ambiente non ci rende felici?
Il tema che desidero affrontare con questo articolo è molto complesso e spinoso perché, da qualunque parte lo si guardi, può presentare numerosi trabocchetti e può trascendere in considerazioni troppo personali, fortemente alterate dal proprio vissuto.
Cercando di essere il più aderente possibile ad una visione “scientifica” dell’argomento lo desidero affrontare lo stesso – esponendomi magari a critiche – in quanto ritengo sia essenziale per capire il perché non si riesca a fare un ulteriore passo in avanti verso una maggiore consapevolezza e verso comportamenti individuali e collettivi più virtuosi in tema di sostenibilità ambientale.
Il nocciolo della questione di Bioimita e della bioimitazione è un po’ tutto qui e allora non si può più far finta di nulla. Si tratta di capire se rispettare l’ambiente ci renda o meno felici.
La felicità è una condizione percettiva che deve innanzitutto essere distinta in due grandi gruppi: quella momentanea, che consiste nell’essere felici per un attimo, per un istante; quella duratura, che consiste nell’essere felici nel lungo periodo o per sempre, indipendentemente da quante felicità o infelicità momentanee si hanno.
Secondo autorevoli studiosi (1) che si sono cimentati a lungo sulla materia la felicità momentanea può essere raggiunta anche da stimoli molto semplici che attivano il cosiddetto “piacere emotivo” (es. mangiare un buon cioccolatino, assaporare un buon cibo, vedere un bel concerto, godere di uno splendido panorama, acquistare un oggetto, ecc.), mentre quella duratura – forse la potremmo definire “felicità autentica” – è slegata dai piaceri immediati ma è essenzialmente collegata, semplificando al massimo, ai seguenti fattori: la ricchezza, la costruzione di relazioni familiari, la limitazione delle esperienze negative e gli aspetti sociali (istruzione, razza, religione, sesso).
Vedendo questi aspetti un po’ più in dettaglio si osserva che il denaro rende felici fino ad un determinato reddito, quello che consente di avere una certa libertà economica e sociale. Poi incrementi ulteriori di soldi possono sì soddisfare la felicità momentanea ma non incidono su quella autentica e duratura. La costruzione di relazioni familiari in generale è molto importante per la felicità duratura, anche se avere cattivi rapporti con il partner abbassa enormemente le percezione della felicità autentica. Aver sperimentato poi molte emozioni negative durante l’infanzia e nella vita può incidere negativamente sulla felicità duratura anche se è possibile, attraverso esperienze positive e impegno personale, cambiare questa condizione. Infine gli aspetti sociali quali istruzione, razza, religione, sesso non hanno tutti il medesimo peso nella determinazione della felicità duratura, ma sono legati a condizioni estremamente variabili e non facilmente catalogabili.
Detto questo, dove si colloca la sostenibilità ambientale nella determinazione della felicità? Di sicuro non nella dimensione momentanea perché sono molto poche (forse nessuna) le persone che provano un intenso piacere e si emozionano nel fare bene la raccolta differenziata dei rifiuti oppure nell’uso dei mezzi pubblici al posto dell’auto privata per gli spostamenti urbani. Allora, se la sostenibilità ambientale potrebbe risiedere nella dimensione duratura della felicità, in quale ambito la possiamo collocare, se non tra i fattori sociali?
Da questo punto di vista mi sento di osservare, sia empiricamente sia analizzando gli studi statistici dell’ISTAT (2), che l’uomo, nella sua globalità, in generale è poco interessato ai fattori ambientali. Non che non gli interessano a priori. Ci pensa. Ma forse non li percepisce (ancora) importanti perché troppo complessi dal punto di vista tecnico e troppo lontani nella manifestazione dei loro effetti (non inquinare ora potrebbe impedire l’alterazione del clima tra 50-100 anni!). Spesso la felicità legata alle questioni ambientali è solo quella momentanea che ci fa appassionare alle sorti di un cane che viene maltrattato o all’inquinamento che attanaglia le nostre città e che annusiamo quando passeggiamo per le strade. Questa, però, non alimenta la vera sostenibilità ambientale perché quella importante è quella duratura che consiste, prima, nel capire il problema e, poi, nel cambiare i propri comportamenti per evitare il problema stesso.
In buona sostanza sono convinto che le questioni ambientali non incidano, se non di poco, sulla nostra felicità duratura e autentica. Purtoppo!
Sinceramente non riesco ad esprimere nessuna ricetta per poter cambiare questa percezione – che io, dopo molti sforzi intellettuali, in parte ho elaborato – ma mi rendo conto che il parlarne, il cominciare a prenderne consapevolezza, già può fornire lo stimolo perché le cose possano cambiare.
Ad avvalorare ciò vi è il fatto che chi studia la materia sostiene che i concetti di felicità e di benessere saranno i motori che condurranno il progresso verso la sostenibilità ambientale ma anche il contrario, cioè che la sostenibilità ambientale condurrà tutti verso un maggior benessere e maggiore felicità. Pertanto ci sia augura che i decisori politici e gestori dell’informazione siano in grado di cogliere queste opportunità e di operare affinché la percezione dei cittadini nei confronti della felicità contempli, oltre al denaro, alla sicurezza e alla salute, anche le problematiche dell’ambiente.
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(1) Martin E.P. Seligman è autore di La costruzione della felicità (Sperling 2009) e Imparare l’ottimismo (Giunti edizioni 1996). Tra gli innumerevoli studi condotti da svariate università importante è anche il World Happiness Report, un interessante documento ricco di dati sulla felicità provenienti da tutto il mondo.
(2) ISTAT “Noi Italia”
Personaggi | Pepe Mujica è Bioimita
José Alberto Mujica Cordano (Pepe), l’ex Presidente dell’Uruguay, sintetizza con una saggezza e una preparazione incredibili quello che cerco di dire io attraverso Bioimita. Io ci provo e spero di non perdermi. Lui, invece, è semplicemente un grande: lucido, preciso, saggio!
Senza troppi commenti inutili riporto allora integralmente una parte dell’intervista che gli ha fatto qualche giorno fa il quotidiano la Repubblica.
D: Si oppone alla globalizzazione?
R: “No, non è possibile. Sarebbe come essere contrari al fatto che agli uomini cresce la barba. Ma quella che abbiamo conosciuto finora è soltanto la globalizzazione dei mercati. Che ha come conseguenza la concentrazione di ricchezze sempre maggiori in pochissime mani. E questo è molto pericoloso. Genera una crisi di rappresentatività nelle nostre democrazie perché aumenta il numero degli esclusi. Se vivessimo in maniera saggia, i sette miliardi di persone nel mondo potrebbero avere tutto ciò di cui hanno bisogno. Il problema è che continuiamo a pensare come individui, o al massimo come Stati, e non come specie umana“.
D: Lei è ateo ma condivide molte idee con Papa Francesco, soprattutto la critica della società consumistica e del capitalismo selvaggio.
R: “La mia idea di felicità è soprattutto anticonsumistica. Hanno voluto convincerci che le cose non durano e ci spingono a cambiare ogni cosa il prima possibile. Sembra che siamo nati solo per consumare e, se non possiamo più farlo, soffriamo la povertà. Ma nella vita è più importante il tempo che possiamo dedicare a ciò che ci piace, ai nostri affetti e alla nostra libertà. E non quello in cui siamo costretti a guadagnare sempre di più per consumare sempre di più. Non faccio nessuna apologia della povertà, ma soltanto della sobrietà“.
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Video: Discorso del Presidente dell’Uruguay José Alberto Mujica Cordano, alla conferenza delle Nazioni Unite sullo sviluppo sostenibile, tenutasi a Rio il 20 Giugno 2012.
DMZ
L’acronimo DMZ indica quell’area demilitarizzata (De-Militarized Zone) che divide, dal 1953, le due Coree. Essa ha una lunghezza di 248 km e una larghezza di 4 km ed è stata istituita quando, a seguito del cessate il fuoco della guerra di Corea (teoricamente i due paesi sono ancora in guerra), i due belligeranti hanno deciso di far arretrare dal fronte le proprie truppe di 2 km ciascuno. In tal modo si è così creata una zona cuscinetto di 4 km, totalmente inaccessibile sia per gli accordi presi a suo tempo sia per la presenza di numerose mine disseminate sul territorio che ne impediscono una sicura frequentazione (1).
Al di là delle questioni militari e geopolitiche, l’aspetto interessante che caratterizza questa DMZ è il fatto che in essa la natura prospera e segue dinamiche evolutive autonome, non influenzate dall’intervento degli esseri umani. La natura cresce, si evolve e raggiunge equilibri spontaneamente fornendo rifugio a specie animali e vegetali oramai rare o estinte in altre aree che sono in condivisione con gli esseri umani. In essa si avvistano (da lontano, visto che non la si può facilmente frequentare) rarissime specie di uccelli come gli avvoltoi neri o la gru della Manciuria oppure il leopardo dell’Amur, l’orso nero asiatico e il goral. In essa vi è anche una florida vegetazione fatta di piante, di fiori rari e di funghi (di cui uno, in particolare, è endemico). Nella DMZ gli scienziati hanno identificato circa 2.900 specie vegetali, 70 diverse specie di mammiferi e 320 specie di uccelli. Per non parlare poi dei rettili, degli anfibi e degli insetti.
La DMZ coreana e quello che la caratterizza ora in termini di varietà naturale dopo più di 60 anni di isolamento fa ben comprendere due aspetti, tra loro strettamente connessi:
- che la presenza umana è, anche nel migliore dei casi, sempre e comunque molto alterante della natura;
- che per salvare la natura e la biodiversità non sono sufficienti né le associazioni ambientaliste né le leggi, né l’istituzione dei parchi naturali né la cultura ecologica: per salvare la natura è necessario solo eliminare la presenza dell’uomo!
Va da sé allora che, partendo dall’esperienza significativa della DMZ e di altri casi di isolamento forzato della natura dalla presenza umana (Chernobyl e Fukushima, ad esempio), per salvare veramente la natura e la biodiversità dall’azione predatoria e distruttiva dell’uomo è assolutamente necessario creare una rete planetaria comunicante di corridoi ecologici sufficientemente ampi (2) – difesi, se necessario, anche dagli eserciti –i quali siano totalmente inaccessibili all’uomo e alle sue attività. Questi corridoi (che definirei più propriamente “cinture ecologiche”) devono essere lasciati per un lunghissimo periodo di tempo (almeno 100 anni) a seguire le proprie dinamiche evolutive, senza alcun intervento umano.
E il punto di partenza di questa cintura ecologica planetaria potrebbe essere proprio la Corea. È un po’ triste dirlo ma speriamo che i rapporti tra le due Coree rimangano tesi (senza guerra e senza uso di armi) ancora un po’ perché nella DMZ la natura è assolutamente rigogliosa e non potrebbe essere altrimenti se avesse strade, ferrovie, ponti, case, orti, campi coltivati, turismo…
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(1) Jongwoo Park, il primo civile a mettere piede nella zona dall’armistizio del 1953, su incarico del ministero della Difesa sudcoreano, a partire dal 2009 ha iniziato a documentare lo stato della DMZ.
(2) L’esperienza involontaria della DMZ ci fa comprendere che un corridoio ecologico (cintura ecologica), per essere efficace e funzionare su scala planetaria, deve essere ampio almeno 5 km. Inoltre esso non deve avere nessuna interruzione e non deve avere, in esso, alcun manufatto umano che richieda interventi periodici e manutenzioni. La presenza umana poi deve essere assolutamente bandita, senza deroga alcuna se non, dietro specifiche autorizzazioni, quella degli scienziati. Per funzionare poi il corridoio ecologico non deve aver alcuno scambio con l’esterno – per lo meno per gli animali terrestri di grossa taglia – per evitare che essi rappresentino una minaccia delle attività economiche che si sviluppano vicine ad essi. Nei corridoi ecologici deve essere poi bandito anche il turismo, di qualsiasi tipo esso sia.
Foto: Natonal Geographic, Jongwoo Park
Wake Up Call
Ho già scritto qualche tempo fa di Steve Cutts, genio inglese della computer animation che, con il video “Man”, aveva fatto luce in maniera molto dura ed efficace sulla potenza distruttiva dell’uomo.
Con il video”Wake Up Call”, che di Man in qualche modo è l’ideale prosecuzione, Steve Cutts desidera lanciare un monito sulle conseguenze negative che il consumismo sfrenato – soprattutto quello legato alla tecnologia a rapida obsolescenza – può avere sull’ambiente. Nei pochi minuti del video (dalle solite caratteristiche stilistiche molto essenziali) l’autore riesce, in una sintesi molto precisa, a parlare di sfruttamento eccessivo delle risorse minerarie, di sfruttamento dei lavoratori impegnati nel settore tecnologico, di rifiuti, di obsolescenza programmata, di consumismo e di salvaguardia dell’ambiente. E, in qualche modo, di stupidità dell’uomo.
Semplicemente geniale.
L’odore della morte
Lo avete mai provato? L’odore di morte è spaventoso e vomitevole. Un misto di sangue, urine, feci che impregna l’aria, ti entra nelle narici e si attacca per lungo tempo ai tuoi vestiti. Quando entri in un macello industriale, se ti avvicini all’area dell’uccisione dell’animale o alle fasi della catena di lavoro immediatamente successive e, in un rumore assordante dovuto alle urla delle povere bestie che “sentono” il patibolo, vieni investito da uno schizzo di sangue che sgorga dalla loro giugulare o che spilla dalle arterie dei loro arti che vengono recisi o del ventre che viene svuotato, capisci senza ombra di dubbio che cosa sia la morte.
Non quella di una zanzara, di una lucertola, di un microbo o di un pesce. Quella di un mammifero – il maiale, la mucca, il cavallo – che sente e vive quasi come te e che, spesso, hai accarezzato o fatto accarezzare ai tuoi figli sui pascoli o nelle stalle quando, con quel suo nasone buffo, ti si è avvicinato per sola curiosità o per scroccare un po’ di cibo.
L’esperienza non è affatto piacevole e, almeno le prime volte, ti resta incollata nel cervello per qualche giorno. Poi, purtroppo, con il tempo ti ci abitui e ti scivola un po’ più addosso.
Quello che ora mi colpisce e ancora mi angustia quando vado in un macello industriale non è tanto il cadavere dell’animale appeso, le sue convulsioni appena viene sgozzato o le fasi dell’eviscerazione e dello squartamento quanto, piuttosto, gli scarti e i rifiuti delle lavorazioni [vedi foto]. Se la carne inizia subito un processo che la porta ad essere lavata, controllata e igienicamente sicura (quindi, permettetemi il termine, “bella”) i rifiuti, invece, manifestano in tutto il loro ribrezzo che cosa sia la morte a livello industriale. In gran parte finiscono, convogliati da nastri trasportatori, verso cassoni o trituratori che ne fanno una poltiglia informe e viscida che mi richiama conati di vomito ogni volta che la vedo. In minima parte i rifiuti della macellazione – e anche questo non mi piace proprio – finiscono sparsi sulla pavimentazione a dimostrazione che la sacralità della vita, quella che esiste in forma rituale in gran parte delle tradizioni e delle religioni, nel sistema del cibo industriale, non esiste. Tutto – dico tutto – è semplicemente o “merce” o “rifiuto”, o “tempo” o “redditività”. E, alla fine, soldi!
Al di là di quello che provo quando frequento i macelli industriali io non sono totalmente contro la carne. Sono convinto che, nell’ultima fase evolutiva del suo percorso terrestre, l’uomo sia “diventato” anche carnivoro (1) e che l’assunzione della giusta dose di proteine animali non sia così deleteria per la salute. Ovviamente i quantitativi da consumare devono essere molto bassi, radi nella loro frequenza e quel poco che viene mangiato deve possedere una dimensione etica (la tipologia di allevamento, il cibo e la macellazione) e deve essere di enorme qualità. Quello che però non concepisco è il fatto che la carne – soprattutto quella di bassa qualità – sia entrata di prepotenza nel nostro immaginario e sia oramai diventata l’alimento ubiquitario e quotidiano dei nostri pasti. Questo mi fa comprendere quanto siamo scarsamente interessati (o quanto siamo scarsamente informati) sia all’etica nel trattamento degli animali sia alla nostra salute e alle sorti del pianeta che abitiamo che, a poco a poco, per far posto agli allevamenti in batteria e alle coltivazioni che garantiscono cibo agli animali, depauperiamo della sua biodiversità e alteriamo nei suoi equilibri chimici.
Sono comunque convinto che non sia necessario bandire totalmente la carne dalla dieta per compiere delle azioni sostenibili dal punto di vista ambientale. Per ottenere questo importantissimo risultato è sufficiente (ri)acquisire semplicemente una sorta di rispetto per l’animale che ci dona la vita perché tutto il resto – eliminazione degli allevamenti intensivi, delle violenze e limitazione delle problematiche legate alla salute – verrà poi di conseguenza. Ne sono certo!
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(1) Per approfondire il tema consiglio la lettura del libro La scimmia nuda. Studio zoologico sull’animale uomo (1967) di Desmond Morris. Ne vale la pena.
Il disboscamento della foresta di Białowieża
Io, nella foresta di Białowieża (1), ci sono stato. Era il 2007 e, animato dal desiderio di vedere gli ultimi bisonti europei e una delle più antiche e meglio conservate foreste al mondo, con una Renault Twingo sono partito da casa per raggiungere la Polonia e, tra le altre cose, quel bosco magico. Ho dormito un paio di giorni in tenda nel campeggio adiacente alla foresta e ho fatto, accompagnato da guide esperte, qualche escursione a vedere la foresta vergine e a “sentire” la sua forte energia. Quello che subito mi ha colpito maggiormente sono state due cose: la lunga strada per arrivare al centro del parco naturale costeggiata da alberi così fitti da essere quasi una massa compatta che impediva il passaggio della luce; la presenza nella foresta, oltre di alberi grandi ed antichi, di numerosissimi alberi morti e a terra, la vera risorsa di un bosco sano e lasciato alle proprie dinamiche evolutive.
Naturalmente dei bisonti neanche l’ombra! E, d’altronde, non poteva essere diversamente visto e considerato il fatto, che quei pochi rimasti nel cuore dell’Europa, per sopravvivere alla caccia indiscriminata di qualche decennio fa hanno dovuto adattarsi a vivere nel fitto della boscaglia, prevalentemente nelle ore di penombra, piuttosto che negli spazi aperti delle praterie. Ovviamente i bisonti li ho dovuti osservare in cattività e, devo dire, che è stato meglio così perché penso che trovarsi davanti, nella foresta, un animale così imponente e così minaccioso possa essere particolarmente traumatico.
Della foresta di Białowieża me ne sono ricordato quando, sul Corriere della Sera, ho letto un articolo nel quale si racconta che a fine maggio è partito un programma – voluto dal governo conservatore che attualmente amministra la Polonia – di disboscamento massiccio dell’ultima foresta vergine d’Europa. La “scusa” è quella – la solita – di combattere un minuscolo insetto parassita, il bostrico, che scava gallerie nel legno degli alberi anche se vi è un forte sospetto che l’obiettivo vero, come sostengono ambientalisti e scienziati, possa essere quello di sfruttare economicamente il legname estendendo le attività forestali commerciali anche nelle aree più protette e più tutelate della foresta. Il Ministero dell’Ambiente difende comunque il programma, definendolo una misura di sicurezza per proteggere operatori, guide e turisti dal rischio caduta degli alberi malati ma, sinceramente, tali motivazioni sono piuttosto labili e ingiustificate per dare origine ad un’intensa attività di abbattimento e di disboscamento come è quella in programma.
Il mio sospetto – ma anche quello più autorevole di scienziati e di attivisti locali – è quello evidente di spremere il più possibile quello che resta dell’ambiente, magari anche quello incontaminato, nell’ottica del “tanto a che cosa serve?”. Di fondo il pensiero di questi tecnocrati, come pure quello di una buona parte dell’umanità, è quello che vede l’uomo come unico depositario e come unico benefattore delle risorse naturali. È quello che non si cura del “creato” nella sua globalità ma vede il “creato”come una scatola da cui attingere a piene mani il più possibile, incurante del fatto che prima o poi la scatola si svuoterà. È un pensiero che non riconosce il senso del limite e confida un po’ troppo ciecamente o nel fato, anche quello religioso, o nella illimitata capacità di soluzione dei problemi da parte dell’uomo e della tecnologia, prodotto del suo (scarso) sapere.
Io la penso esattamente all’opposto e, per questo, non solo credo che la foresta di Białowieża vada difesa con vigore dal disboscamento ma anche che, di tali foreste incontaminate, se ne debbano creare molte di più.
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(1) Białowieża è una foresta molto antica, incontaminata da circa diecimila anni, che si estende su una superficie di circa 1.400 chilometri quadrati tra Polonia e Bielorussia. Il parco nazionale polacco, Patrimonio Unesco dal 1979, copre l’area centrale (il 17% del totale). Accoglie 20 mila specie animali, compresi 250 tipi di uccelli e 62 specie di mammiferi. Inoltre ospita gli alberi più alti del continente: querce secolari, frassini di 40 metri e abeti di 50.
Fonte: Corriere della Sera
Foto: Wikipedia, Corriere della Sera
Basta solo cambiare prospettiva e…
L’uomo si è arrogato unilateralmente il ruolo di essere dominante del Pianeta, sia su tutti gli altri animali che sulle piante. Questo atteggiamento non si basa su una reale e oggettiva nostra supremazia perché, rispetto a loro, non siamo ne migliori ne più intelligenti (l’intelligenza è un concetto relativo che commisuriamo solo alla nostra capacità logica e analitica). Siamo solo più aggressivi, spregiudicati e opportunisti!
Per comprendere gran parte degli errori che commettiamo nei nostri rapporti con gli animali e per capire l’inutile cattiveria che spesso abbiamo nei loro confronti e che produce un mare di sofferenza, è sufficiente tentare di cambiare solo la prospettiva.
Per farlo riporto una serie di illustrazioni di differenti autori che, con durezza e senza filtri, ci costringono a guardare in faccia la cruda realtà senza alibi. Ecco allora il rinoceronte che, da vivo, taglia il naso ad un uomo. Oppure l’aragosta che mette un neonato vivo in acqua bollente e si lamenta delle urla. Oppure ancora l’uccello che tiene un uomo in gabbia per il canto.
Da vedere. E meditare…
ATTENZIONE: Alcune immagini sono molto forti e potrebbero urtare la vostra sensibilità
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Fonte: greenme.it