Monthly Archives: Agosto 2015
Life without plastic
Qualche anno fa il giornale britannico The Indipendent ha pubblicato la storia di Thomas Smith, un dottorando in chimica di Manchester che ha tentato di vivere senza plastica. Dopo sei mesi si è purtroppo arreso perché questo terribile e fantastico materiale è dappertutto e pervade con involontaria insistenza tutta la nostra esistenza quotidiana e tutta la nostra vita. Da quando nasciamo a quando la nostra pelle è la carta geografica delle nostre numerose esperienze di vita la plastica è con noi. Dal biberon al catetere ospedaliero. Dalla penna al computer. Dalle bevande al cibo non ne possiamo fare a meno e chi ci ha provato si è dovuto arrendere di fronte allo stress di combattere un “nemico” troppo potente.
“È stato abbastanza difficile trovare frutta e verdura senza imballaggi di plastica – ha affermato Thomas Smith – ma le ho trovate nei piccoli negozi di quartiere. Più complesso è stato trovare la carta igienica non imballata o dentifricio e spazzolini da denti non in plastica. Il sapone poi me lo sono fatto da solo. Anche fare acquisti in internet non è stato semplice – continua Smith – perché gli imballaggi degli spedizionieri sono anch’essi in plastica”.
Di fare a meno della plastica ci hanno provato anche molti altri. E tutti, prima o poi, hanno dovuto desistere dall’impresa. Beth Terry, dalla California, afferma di essere riuscita a vivere senza plastica per anni, anche se non è riuscita a far sì che il suo bagno fosse del tutto plastic free. Gavin McGregor, di Londra, ha sperimentato una vita senza plastica ma è durato solo un mese per le enormi difficoltà di acquistare, in una grande città, alimenti senza imballaggi di plastica.
Tutto questo nonostante il fatto che gli ingredienti chimici di più del 50% della plastica in commercio siano, in accordo con la classificazione delle Nazioni Unite, molto pericolosi per la salute. Ne è un esempio il Bisfenolo A presente in numerosi prodotti, tra cui dispositivi medici e imballaggi per cibo e bevande; gli ftalati che possono danneggiare il sistema riproduttivo e possono procurare asma e cancro; gli additivi del PVC, del polistirene, del poliuretano e del policarbonato che sono dei potenti interferenti endocrini e possono provocare il cancro.
Fare a meno della plastica risulta impossibile anche nonostante il fatto che essa rappresenti un grave problema per la corretta gestione dei rifiuti, compreso il loro riciclo. Circa la metà dei rifiuti plastici prodotti nell’Unione europea finisce nelle discariche e non viene trattata. A livello mondiale la produzione di plastica è aumentata dagli 1,5 milioni di ton. del 1950 agli attuali circa 260 milioni di ton., di cui circa 60 milioni di ton. sono prodotti nella sola Europa, con un incremento previsto di circa il 5% annuo.
È certo che si deve fare qualcosa. E presto. Da subito è necessario che si inizino a stabilire delle regole che impongano plastica totalmente riciclabile o compostabile. Ma anche questo non è sufficiente perché la raccolta dei rifiuti e il conseguente riciclo degli stessi è un fenomeno troppo capillare e complesso per poter funzionare bene. Sarà allora necessario cercare di far sì che già dalla produzione siano evitati i prodotti usa e getta e si inizi a pensare maggiormente al riuso degli stessi, affinché possano avere una nuova vita senza diventare per forza rifiuti. Piuttosto che eliminare la plastica – per ora ancora insostituibile – sarà necessario operare perché la stessa comporti il minor impatto ambientale possibile e sia concepita – attraverso imposte che la tassino enormemente o attraverso metodi che ne impediscano l’uso indiscriminato – come un materiale raro, da riutilizzare e trasformare continuamente.
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Nota: Per chi desiderasse provare a vivere senza plastica o per chi fosse semplicemente interessato a limitare il proprio impatto ambientale derivante dall’uso di tale materiale può cercare ispirazione per prodotti senza plastica nel sito Life Without Plastic (www.lifewithoutplastic.com).
Fonte: The Indipendent
Personaggi | Patrick Moore
Se si scorre la pagina Wikipedia di Patrick Moore e si legge sia il titolo (dove viene definito “ambientalista”) sia la prima parte della sua carriera si penserà di essere di fronte ad un personaggio importante nell’ambito della lotta ecologista e della salvaguardia del pianeta e degli animali che lo abitano. Fondatore di Greenpeace nel 1971, membro dell’equipaggio della nave Phyllis Cormack che fece le prime azioni dirette e non violente per la difesa del clima, dell’ambiente in generale, delle balene e dell’interruzione dei test nucleari, fu per 9 anni presidente di Greenpeace Canada e per 7 anni direttore di Greenpeace International nel periodo in cui Greenpeace divenne la maggior associazione ambientalista a livello mondiale. Negli anni ’70 aprì un ufficio a San Francisco ma ben presto iniziò a litigare con i suoi colleghi di Vancouver tanto da creare una frattura così profonda con l’Associazione che abbandonò nel 1986 per fondarne una propria, la Greenspirit.
Fin qui nulla di strano. La sua biografia ripercorre quella di molte altre persone che militano per lungo tempo in un movimento, in un’associazione o in un partito politico e poi, per le ragioni più varie, decidono di abbandonarlo. A partire dagli anni ’90 Patrick Moore iniziò ad assumere – spesso come lobbysta – incarichi politici nella Columbia Britannica (Canada) interessandosi e partecipando a gruppi di lavoro sui cambiamenti climatici, sullo sfruttamento dell’energia geotermica e diventando direttore del Sustainable Forestry Committee of the Forrest Alliance of BC, gruppo creato dall’industria del legno per garantire ai consumatori la gestione sostenibile delle foreste e del legname prodotto.
È però a partire dal 2006 che la parabola ideologica e professionale di Patrick Moore inizia a prendere una nuova traiettoria quando diviene co-direttore di una iniziativa industriale, la Clean and Safe Energy Coalition, che si propone di promuovere l’energia nucleare quale fonte energetica pulita (ecologica) e sicura. Si tratta di un cambiamento forte e molto radicale rispetto alle lotte che hanno contrassegnato la sua iniziale carriera fortemente incentrate sul combattere l’uso dell’energia nucleare. E, forse, questa parabola ha iniziato a cambiare già a partire dagli anni ’90, quando Patrick Moore è entrato nel mondo opaco della politica e del lobbysmo.
Quello che lo stesso Patrick Moore afferma è di essere uscito dal mondo ambientalista perché diventato troppo politicizzato e sensazionalista. Il salto, però, come dimostra il suo percorso professionale, è stato quello di passare esattamente dalla parte opposta. Sostenitore dell’energia nucleare e dell’industria che ne fa uso, è stato anche aspramente criticato per il ruolo di consulente-controllore che ha svolto per conto dell’Asia Pulp and Paper (APP), azienda che ha fortemente contribuito al disboscamento indiscriminato dell’Indonesia. Inoltre, in questi ultimi anni, si è spinto addirittura oltre e ha anche manifestato posizioni critiche nei confronti del riscaldamento globale e si è espresso favorevolmente nei confronti degli organismi geneticamente modificati (OGM) e degli additivi chimici (es. diserbanti) che sono ad essi collegati.
Sono proprio questi ultimi che, a mio avviso, ne hanno mostrato la malafede ideologica di questi ultimi anni. Invitato qualche tempo fa ad una trasmissione televisiva di Canal + in Francia Patrick Moore, dopo aver sostenuto la non pericolosità del glifosate (diserbante) – recentemente dichiarato “probabile cancerogeno per l’uomo” da parte della IARC – e la possibilità di berne anche un litro senza accusare alcun sintomo, all’invito del giornalista di berne un bicchiere, che gli vuole porgere, egli risponde: “No, io non sono un idiota”.
Qui casca il palco. Qui, secondo me, Patrick Moore dimostra di non essere in buona fede e di farsi paladino e difensore di idee e di tecnologie non del tutto sicure per l’uomo e per l’ambiente. Qui, secondo me, Patrick Moore dimostra che è in atto una sorta di manipolazione della verità da parte di multinazionali – e di loro portavoce – che cercano di spingere il mondo verso direzioni che, già ora, sanno essere inutili per il progresso e per il benessere dell’umanità, se non pericolose per la salute pubblica.
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Nota: Con questo articolo desidero iniziare a parlare di persone “comuni” (o quasi), [tag “personaggi”] normalmente poco conosciute nel circuito della comunicazione di massa, che – a mio personalissimo avviso, tenendo conto del loro curriculum e del loro percorso professionale reperibile in rete – stanno fornendo il loro enorme e silenzioso contributo alla distruzione e al degrado del Pianeta nonché alla speculazione industriale e finanziaria a discapito delle risorse naturali e della sicurezza collettiva oppure stanno facendo azioni importanti di salvaguardia dello stesso sia dal punto di vista culturale che di azioni concrete messe in campo. Si tratta di persone che, nel bene o nel male, con il loro pensiero e con il loro comportamento possono contribuire ad innescare un dibattito sulle tematiche della sostenibilità ambientale.
Food Inc.
Se desiderate vedere quali potranno essere, di fatto, le conseguenze dell’Accordo TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership o Partenariato Transatlantico per il commercio e gli investimenti-trad.) mettetevi comodi sulla sedia o sul divano per circa 90 minuti e godetevi il documentario “Food Inc.” allegato.
Al di là dei fiumi di parole che si potranno spendere sull’argomento, sia pro che contro, non c’è alcun dubbio che l’accordo in oggetto è una manovra messa in campo da parte delle (poche e sempre meno numerose) multinazionali del cibo per conquistare nuovi mercati attraverso l’industrializzazione spinta dello stesso. Chi vi dirà che il TTIP favorirà le produzioni locali e biologiche si sta prendendo solo gioco di voi.
Buona visione…
Per info: Campagna Stop TTIP (it); STOP TTIP (en)
Chi è il più intelligente?
Dopo che avrete visto il video della BBC nel quale un corvo riesce a risolvere una complessa sequenza di azioni per raggiungere il cibo, spero vi ricrederete un po’ su che cosa sia “l’intelligenza” e su chi sia l’animale più intelligente della Terra.
Sarà l’uomo che è certamente capace di produrre tecnologia complessa ma che è anche in grado di comportare seri problemi al funzionamento equilibrato del pianeta che abita oppure sarà il corvo che, pur avendo un cervello meno sviluppato in termini di massa e dimensioni rispetto all’uomo, per raggiungere i propri scopi – molto spesso nutrirsi – è in grado di studiare la realtà che lo circonda e di compiere una sequenza di azioni complesse per ottenere i propri risultati? Oppure intelligente sarà il pipistrello che, pur avendo un cervello estremamente contenuto in termini di dimensioni, è in grado di riprodurre immagini tridimensionali nella propria immaginazione che gli consentono non solo di evitare gli ostacoli ma addirittura di cacciare insetti volanti di piccole dimensioni solo attraverso la decodificazione delle onde sonore? Oppure, ancora, sarà più intelligente il delfino o l’elefante che sono in grado di creare relazioni complesse di comunicazione all’interno dei loro gruppi fino ad arrivare a “piangere” i loro morti?
Beh, se per caso avete dei dubbi, non chiedetelo di certo all’Homo sapiens perché sicuramente vi risponderà che solo egli stesso può essere considerato l’animale più intelligente della Terra. Tutto il resto, se mai lo fosse, lo è solo in maniera embrionale e di certo viene dopo di lui.
Sono fermamente convinto che se desideriamo risolvere i numerosi problemi di sostenibilità ambientale che affliggono i nostri tempi sia assolutamente necessario cambiare prospettiva. Sono fermamente convinto che sia necessario abbandonare l’idea di essere gli unici animali intelligenti – e quindi forti – del Pianeta a cui tutti gli altri esseri viventi devono per forza piegarsi e sottostare. Essere veramente intelligenti significa capire che l’intelligenza non si misura sulla forza, sull’aggressività o sulle capacità tecniche ma piuttosto è un concetto vago, che dipende dalle particolari e uniche necessità di sopravvivenza che un animale ha dovuto sviluppare all’interno di un dato ambiente.
Su queste prospettive essere intelligenti significa allora tutto e niente. Significa sì essere in grado di costruire un GPS ma anche essere in grado di sopravvivere a lungo in una foresta o in un deserto senza un GPS.
Solo così, ragionando che ogni essere vivente che abita questo sasso blu dell’universo è a suo modo intelligente e ha diritto di avere il proprio spazio, si potranno avere delle chances reali di far perdurare il benessere dell’umanità nel futuro. In caso contrario – come purtroppo sta avvenendo – sarà solo caos e, alla fine, tra qualche manciata di decina di anni, credo che gli unici vincitori nella dura lotta per la sopravvivenza potranno essere solo gli insetti.
Quello che mangi diventa te stesso
Se è vera la massima “Tu sei quello che mangi” è valido anche il suo contrario: “Quello che mangi diventa te stesso”. Per comprendere questo concetto è sufficiente osservare che se quel bel pomodoro rosso che hai nel piatto davanti a te è pieno di residui di pesticidi, di diserbanti, di fungicidi e di ormoni della crescita, quando, attraverso la digestione, entra nel tuo sistema metabolico, tu diventi un po’ lui e lui diventa un po’ te stesso. Tu diventi un po’ lui perché il tuo stato di salute generale, nel tempo, tenderà a deteriorarsi più velocemente e/o a sviluppare più facilmente particolari patologie anche a causa del mix di residui di prodotti chimici pericolosi in esso presenti e lui diventerà un po’ te perché le sue componenti – e gli eventuali residui di veleni in esso presenti – entreranno in te stesso ed andranno a formare e costituire le tue cellule e i tuoi organi.
Nutrirsi non vuol dire semplicemente mangiare del cibo e, come se fosse composto di mattoni (le vitamine, i carboidrati, i grassi, le proteine, ecc.) posizionare, per scomposizione, questi ultimi tal quali nelle diverse parti del corpo. Nutrirsi vuol dire trasformare chimicamente i cibi per farli entrare a comporre il sangue, i liquidi corporei, le cellule e i tessuti. Insomma la trasformazione chimica è un processo un po’ più profondo della semplice scomposizione ed è soggetta ad un numero infinito di variabili, scarsamente prevedibili e anche un po’ diverse da animale a animale e da soggetto a soggetto.
Detto questo, nonostante la consapevolezza sempre maggiore sul buono e sul cattivo cibo che viene diffusa dai vari sistemi di comunicazione, assisto comunque spesso a discussioni che mettono in primo piano il prezzo sulla qualità. Avendo a disposizione il medesimo ammontare di denaro si preferisce, quale criterio di scelta, la quantità al valore. Si ragiona, ad esempio, del basso costo delle ciliegie al chilo e molto poco della loro qualità. O, per lo meno, la qualità viene molto dopo il prezzo. Per questo motivo, a me che chiedo se ne valga la pena e se non sia meglio optare, ad esempio, per prodotti biologici piuttosto che sul solo costo, mi viene risposto che “tanto tutto è inquinato” oppure che”sì, sarebbe meglio, ma che costa troppo caro”.
Vorrei osservare che dagli anni ’70 ad adesso le spese medie delle famiglie per il cibo sono più che dimezzate in percentuale sul reddito, passando da circa il 38% a circa il 17/18% di ora. Ciò significa che, anziché concentrare la propria attenzione sulla qualità dei cibi ed eventualmente destinare quanto rimane alle spese futili, si preferisce risparmiare sul cibo e non farsi mancare il nuovo telefono cellulare, la sostituzione frequente dell’auto, le sigarette, le colazioni al bar e spese varie di cose abbastanza inutili.
È come se, in un contesto storico dove aumenta la vita media e quindi dove è anche necessaria maggiore prevenzione attraverso il cibo per garantire una buona salute nel tempo, si fossero perse un po’ di vista le priorità e ci si fosse inebriati di cose futili e non del tutto necessarie.
A mio avviso è necessario iniziare a pensare che la qualità del cibo è un valore che, perché no, può comportare anche un prezzo superiore che siamo disposti a spendere. Ne otterrebbe sicuramente un enorme vantaggio indiretto anche l’ambiente.
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Foto: “Frutteria sottocosto“, negozio di frutta e verdura che ho fotografato in una città italiana.