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Monthly Archives: Novembre 2015

Il cambiamento degli “stili di vita” funziona?

Prendo spunto dall’interessante articolo “Stili di vita. La ricetta neo-liberista” pubblicato qualche tempo fa dal sito saluteinternazionale.info per avventurarmi in un’analisi sociologica di quali siano i possibili limiti per far sì che una maggiore consapevolezza ecologica si traduca poi in azioni concrete da parte dei singoli individui verso una sempre più profonda sostenibilità ambientale. Peraltro necessaria.

È vero, l’articolo in questione parla di salute pubblica e non di ecologia ma gli argomenti in discussione – salute e sostenibilità ambientale – sono così strettamente interconnessi nei loro obiettivi, nelle loro dinamiche sociali e nei loro risultati che si possono perfettamente sovrapporre.

In particolare nell’articolo si osserva quanto siano inefficaci le campagne di educazione di massa sulla salute (quelle che si propongono di modificare gli “stili di vita”) basate sul presupposto che la causa ultima delle malattie – e l’obiettivo su cui agire – risieda quasi esclusivamente nei singoli individui e nelle libere scelte che essi compiono. Focalizzare l’attenzione sulla responsabilità individuale fornisce un alibi ai decisori di aver fatto tutto il possibile per risolvere i problemi, anche se poi i risultati o sono scarsi o, se positivi, risultano troppo lenti nel realizzarsi. Inoltre la scelta di agire sul cambiamento dei nostri comportamenti – sapendo che sono lunghi nel concretizzarsi – può destare anche il sospetto che le loro decisioni siano fortemente influenzate dalle lobby che vogliono guadagnare soldi sulle nostre disgrazie.

Attualmente la visione dominante relativa alla promozione della salute tra gli operatori del settore igienico-sanitario e tra i decisori politici è solo quella che coinvolge il cambiamento dello “stile di vita” che ogni singolo individuo è sollecitato a compiere. La letteratura scientifica sull’argomento, però, dimostra la scarsa efficacia di tale approccio educativo-individualistico ponendo l’attenzione, invece, su un approccio strutturale e globale esercitato da parte della politica – cioè da parte dello Stato – che si pone un obiettivo a lungo termine ed agisce da più fronti per perseguirlo. Anche, se necessario, imponendolo.

Lavorare sugli individui e sui loro comportamenti essenzialmente vuol dire non voler risolvere i problemi ma mantenerli sempre vivi – pur facendo finta di risolverli – per assecondare il desiderio di medicalizzazione spinta della società che viene sostenuta da chi ne trae vantaggi. Solo lo Stato, invece, è in grado di incidere su cambiamenti rapidi e duraturi, attraverso scelte fiscali, scelte tecniche e scelte organizzative anche forti ed estreme.

Spostando ora l’attenzione sulle questioni ambientali si può osservare esattamente la stessa dinamica. I decisori politici fanno (apparentemente?) di tutto per “educarci” ad essere più ecologici e più sensibili alle tematiche ambientali anche se poi continuano ad accettare incenerimento dei rifiuti, traffico veicolare urbano, ampio uso di chimica in agricoltura e chi più ne ha più ne metta. Questo atteggiamento però – maliziosamente o inconsapevolmente – tende a rallentare molto un processo che, invece, dovrebbe concretizzarsi in breve tempo perché la situazione è grave e dovrebbe essere risolta presto. Meglio sarebbe, invece, l’individuazione delle priorità d’azione inderogabili e la messa in campo di interventi forti da parte dello Stato nel perseguimento degli obiettivi.

Per capire meglio il concetto si prenda tra i tanti, ad esempio, due temi importanti dal punto di vista ambientale: la produzione di energia utilizzando fonti rinnovabili e la corretta gestione dei rifiuti, ponendo l’attenzione soprattutto sul riuso e sul riciclo dei materiali.

In merito alla produzione di energia è evidente comprendere come sia cosa molto lenta – e forse non del tutto efficace – coinvolgere individualmente i cittadini (un po’ tutti, anche quelli che hanno scarso interesse o scarsa cultura in materia) che prima devono analizzare nel dettaglio il problema, capirne l’importanza e, poi, agire concretamente o per richiedere sul mercato energia prodotta da fonti rinnovabili o per prodursela da soli. Se invece lo Stato imponesse delle tasse a chi produce energia inquinando e fornisse, come in parte ha fatto ma si è fermato sul più bello, forti incentivi (ripagati dalle tasse di cui prima) a chi produca o utilizzi energia da fonti rinnovabili, si capirebbe anche intuitivamente quali sarebbero i risultati.

Venendo ai rifiuti, alla limitazione della loro produzione, alla loro corretta gestione e al loro corretto trattamento, si fa veramente fatica ad educare, in breve tempo e verso una direzione univoca, una massa di individui che hanno diverse personalità e diverse culture. Inoltre, in quest’ambito, il cattivo comportamento di pochi potrebbe determinare danni ambientali anche molto gravi che coinvolgono tutti (ad es. gli incendi o l’abbandono dei rifiuti che si verificano soprattutto in alcune regioni d’Italia). Migliori risultati si otterrebbero invece attraverso un intervento molto forte dello Stato che tassa già alla fonte i materiali poco riciclabili, che crea politiche che incentivano il riuso dei materiali, che penalizza chi produce troppi imballaggi e così via.

Sulla base di queste considerazioni – replicabili in una infinità di ambiti – si comprende facilmente come la modifica dei comportamenti individuali sia inefficace. Solo un forte intervento pubblico, invece, dispiegato in numerosi settori (tassazione, educazione, organizzazione, punizione, ecc.) può perseguire il raggiungimento di obiettivi concreti.

Il dubbio, però, è se qualcuno li voglia veramente perseguire!!!

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Immagine: www.controlacrisi.org

 

L’Indonesia brucia

In Indonesia siamo finalmente arrivati alla fine del cosiddetto “Musim kabut“ come la chiamano loro, la “stagione fumosa”. Ma per mesi – circa da giugno ad ottobre – oramai da un po’ di anni, l’Indonesia ha bruciato intensamente e il fumo acre e venefico misto a cenere degli incendi con la sua coltre giallastra ha avvolto foreste, campagne, villaggi e grandi città raggiungendo, in estensione, buona parte del sud-est asiatico.

Dico a voi industriali del settore alimentare, lobbysti e scienziati da quattro soldi, sostenitori dell’olio di palma e mentitori di professione riguardo la sostenibilità della coltivazione della relativa pianta (1). Cosa se ne fanno gli indonesiani degli incendi delle foreste? Per caso, all’equatore, si scaldano per il freddo?

L'Indonesia brucia_03

L'Indonesia brucia

L'Indonesia Brucia_Singapore

f0511071 – 5th November 2007. KUALA CENAKU AREA, RIAU PROVINCE, SUMATRA, INDONESIA. An aerial picture shows the destroyed ancient peatland forest area made way for palm oil plantation in Riau province, Sumatra, Indonesia. Deforestation rates in Indonesia are amongst the highest in the world and according to recent estimates Indonesia is the third largest greenhouse gas emitter after China and the United States, mainly due to the destruction of peatland forests. Indonesia will host a major 11-day United Nations conference on global warming which begins 03 December 2007 on Bali island, with a tasked to create a plan for negotiations on a global climate change accord to come into force after the first stage of the UN's Kyoto Protocol ends in 2012. ©Greenpeace/Ardiles Rante GREENPEACE HANDOUT - NO ARCHIVE - NO RESALE - OK FOR ONLINE REPRO

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(1) Come osservato e documentato da parte di numerose fonti, da qualche anno a questa parte l’Indonesia è funestata per mesi da numerosi incendi che servono per distruggere velocemente la foresta primordiale e le torbiere umide per far spazio a coltivazioni di palma da olio, in primis, e a coltivazioni di piante da cellulosa. I fumi di questi incendi si espandono in tutto il sud-est asiatico e, oltre a rilasciare in atmosfera enormi quantità di CO2, si stima uccidano ogni anno circa 100 mila persone a causa delle conseguenze di ciò che respirano. Questo terribile fenomeno – oramai ampiamente documentato anche con l’ausilio dei droni – sta minacciando alcuni parchi naturali, habitat di numerose specie animali, tra cui gli oranghi.
Ciò che preoccupa è anche il fatto che gli incendi delle torbiere umide, la cui biomassa si accumula sotto il pelo del’acqua ed è sottoposta ad un lungo processo di maturazione che la trasforma in torba, sono degli immensi serbatoi di carbonio che, prima attraverso la loro bonifica ed essicazione e, poi, con gli incendi, rilasciano in atmosfera enormi quantità di CO2, uno dei principali gas che sta determinando il preoccupante cambiamento climatico in atto sulla Terra.
Se anche l’olio di palma non fosse così pericoloso per l’alimentazione umana (o, per lo meno, potrebbe essere paragonabile al burro) lo è invece in maniera estrema per gli equilibri biochimici della Terra.
Meditate quando mordete un bel pasticcino invitante…