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Le 15 abitudini alimentari che fanno bene alla salute e all’ambiente
Dan Buettner, giornalista del New York Times, in un progetto sviluppato con il National Geographic ha studiato le popolazioni più longeve della Terra per capire quali possano essere gli alimenti che esse hanno in comune e che contribuiscono a farle invecchiare a lungo mantenendo un generale buono stato di salute. Tali popolazioni vivono nelle cosiddette Blue Zones, le cinque aree del pianeta dove vi è la più alta concentrazione di centenari. Esse sono: Okinawa in Giappone; Loma Linda in California; Ikaria in Grecia; la Penisola di Nycoia in Costarica e l’Ogliastra, in Sardegna.
Quello che è emerso dallo studio è che, al di là delle piccole particolarità alimentari di ciascuna area geografica, tutte le Blue Zones sono accumunate da 15 abitudini alimentari che possono essere considerate gli ingredienti di base per una vita lunga e sana, che non necessità di diete ipocaloriche, di particolari integrazioni vitaminiche o di ampio uso di medicinali.
Al di là delle spiegazioni biochimiche e nutrizionistiche di tali pratiche quello che desidero fare è analizzarle anche dal punto di vista della loro sostenibilità ambientale, perché salute e longevità sono anche collegate a cibo sano e ad ambiente non inquinato. È significativo il fatto infatti che le Blue Zones non si trovino in grandi aree industriali e nemmeno in grandi agglomerati urbani, ma siano ubicate in zone dove vi è una forte naturalità.
Questi 15 abitudini alimentari, a cui anche tutti noi dovremmo attenerci scrupolosamente sono:
- Il 95% di quello che si mangia deve provenire da piante – L’impatto ambientale della coltivazione dei vegetali è decisamente più basso rispetto a quello di produzione della carne. Inoltre buona parte dei vegetali buoni è spontaneo e più che di coltivazioni su larga scala necessita di conoscenza, di frequentazione e rispetto per la natura in modo tale che possa dare con continuità, nel tempo, i suoi frutti.
- Carne: non più di due volte a settimana – La carne, oltre ad avere un forte impatto ambientale nelle fasi dell’allevamento e del trattamento industriale fa anche abbastanza male alla salute, soprattutto quando è cotta alla brace. Tra le poche carni consumate devono poi essere preferite quelle che vengono prodotte a livello familiare e locale, dove gli animali sono liberi di muoversi e di pascolare. E ciò è decisamente più positivo per l’ambiente e per il benessere degli animali rispetto agli allevamenti industriali.
- Consumare fino a 85 grammi di pesce al giorno – Anche se consumare pesce in grandi quantità impoverisce gli oceani e ne depaupera gli stock ittici, è da dire che quello che fa meglio alla salute è il cosiddetto pesce azzurro, pesce di piccola taglia che è alla base della catena alimentare del mare e che è presente in grandi quantità nello stesso.
- Ridurre il consumo di latticini e formaggi – La produzione dei latticini e dei formaggi, soprattutto quelli di mucca, è normalmente legata ad allevamenti intensivi che hanno un enorme impatto sull’ambiente. Si pensi solo che per produrre 4 litri di latte sono necessari circa 3000 litri d’acqua.
- Mangiare fino a tre uova a settimana.
- Legumi cotti ogni giorno (almeno mezza tazza) – I legumi, oltre ad essere un toccasana per la salute, sono anche importanti per l’ambiente perché si tratta di piante azotofissatrici che, se alternate ad altre coltivazioni, possono migliorare la fertilizzazione dei terreni e limitare l’uso di fertilizzanti aggiunti.
- Passare alla “pasta madre” o alla farina di grano integrale – La “pasta madre” deriva da un processo fermentativo ed è legata ad un rapporto collaborativo tra noi e i batteri che la determinano. Questo è positivo per l’ambiente perché più vi sono rapporti collaborativi tra i diversi esseri viventi della Terra, più li impariamo a rispettare e più ci impegniamo a tutelarli. Inoltre la farina di grano integrale, proprio perché costituita da varietà diverse di cereali, ci insegna a capire e a preservare la biodiversità che il mondo industriale, omologato, invece non fa.
- Tagliare il consumo di zucchero.
- Come snack mangiare due manciate di noci – Consumare frutta secca al posto di cibi industriali processati come snack ci riporta alle nostre lontani origini di scimmioni raccoglitori che consumano grandi varietà di cibi diversi piuttosto che numerosi prodotti industriali fatti di pochi e soliti ingredienti.
- Attenersi a cibi riconoscibili per ciò che sono – Consumare interamente cibi riconoscibili significa due cose: imparare a non buttare via nulla dei cibi e a trarre benefici da tutte le loro componenti (bucce, noccioli, ecc.) che nel sistema industriale sono scarti; imparare a consumare cibi semplici, poco processati. Entrambi gli aspetti sono molto positivi per l’ambiente.
- Aumentare l’introito di acqua – L’acqua, soprattutto quella dolce non contaminata, è una fonte preziosa sia per la vita che per l’ambiente. Consumarla “al naturale” (dal rubinetto di casa, non imbottigliata e semplice, senza aromi o anidride carbonica) ci aiuta a capirne l’importanza e preservarla meglio.
- Se proprio si desidera bere alcol, almeno bere vino rosso.
- Bere tè verde.
- Caffeina? Solo dal caffè.
- Un perfetto equilibrio tra le proteine – Per assumere la giusta quantità e il giusto valore di proteine è necessario unire insieme legumi, cereali, noci e verdure. Questo ci aiuta a comprendere con maggiore chiarezza l’importanza della varietà e della (bio)diversità.
Queste 15 buone abitudini alimentari – al di là delle Blue Zones e dei centenari che le abitano i quali possono avere anche una predisposizione genetica alla longevità – ci insegnano che tutto è strettamente interconnesso. Salute, longevità e sostenibilità ambientale sono elementi fortemente collegati tra loro che dimostrano una cosa molto semplice: noi proveniamo, attraverso l’evoluzione, dalla natura e solamente attraverso essa – la sua comprensione, la sua imitazione e il suo rispetto – possiamo sperare di avere salute e benessere.
Tutto il resto è pura illusione.
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Fonte: Corriere della Sera
Trivella SI, trivella NO, se famo du spaghi
“Trivella SI, trivella NO, se famo du spaghi!?”.
Parafrasando la bellissima canzone La Terra dei Cachi di Elio e le Storie Tese (1) vorrei esprimere anche la mia modesta opinione, nel mare magnum dell’informazione, sul referendum del prossimo 17 aprile – il primo chiesto dalle Regioni – relativo ad un aspetto piuttosto tecnico riguardante il fatto se i permessi per estrarre idrocarburi in mare, entro 12 miglia dalla costa, debbano durare fino all’esaurimento del giacimento (come avviene ora) oppure fino alla fine della concessione. In pratica se il referendum dovesse avere una prevalenza di si (oltre al superamento del quorum del 50% degli aventi diritto), le piattaforme presenti in mare a meno di 12 miglia dalla costa dovranno essere smantellate una volta scaduta la concessione o quest’ultima dovrà essere rinegoziata.
Lasciando perdere le tristi vicende giudiziarie di queste ultime settimane che hanno presumibilmente collegato ministri, fidanzati dei ministri, speculatori, compagnie petrolifere e investimenti pubblici a episodi di (solita) malapolitica e di (solito) malaffare, vorrei concentrarmi invece su alcuni aspetti tecnici che possano far ben comprendere come le situazioni che si verificherebbero con la vittoria dei no o dell’astensionismo (quelle a esaurimento del giacimento) non servano né all’Italia né agli italiani. Anzi.
Innanzitutto è da dire che inevitabilmente estrarre olio fossile o metano dal mare potenzialmente inquina, in vario modo, lo stesso, i suoi abitanti e coloro che lo frequentano saltuariamente per svago e per sport (cioè noi). Tale inquinamento è senza dubbio più elevato quando si estrae petrolio e nelle aree vicine alle piattaforme, ma si può anche diffondere fino a raggiungere le rive e i fondali. Inoltre vi possono anche essere gravi incidenti che possono compromettere con abbondanti fenomeni di inquinamento enormi aree di mare e di coste.
In secondo luogo è importante osservare che gran parte delle piattaforme entro le 12 miglia (92 in totale) estraggono soprattutto metano. Secondo i dati del Ministero dello Sviluppo Economico nel 2015 queste piattaforme hanno contribuito al 28,1% della produzione nazionale di gas e al 10% di quella petrolifera. In relazione all’entità dei consumi nazionali di tali idrocarburi e dal momento che una parte delle concessioni è attribuita ad aziende straniere, tali percentuali crollano fino ad arrivare a soddisfare fra il 3 e il 4 per cento dei consumi nazionali di gas e l’1 per cento di quelli di petrolio. Un’inezia! L’Italia quindi è fortemente dipendente dalle importazioni estere e le nostre piattaforme fanno ben poco per i nostri consumi. A mio avviso forse sarebbe meglio che le esigue disponibilità nazionali di idrocarburi [si veda il grafico n. 2] fossero tenute a riserva per fronteggiare eventuali crisi mondiali (energetiche e non) future, che potrebbero essere molto probabili.
Dal quadro di cui sopra si evince che l’unica vera strada da percorrere in ambito energetico – strada che hanno ad esempio percorso paesi come la Norvegia, molto più dotati di idrocarburi rispetto all’Italia – è solo quella di investire nelle energie rinnovabili. Purtroppo l’impulso positivo verso questo settore (che, in termini netti, necessita di più manodopera impiegata) iniziato negli anni passati con gli incentivi e che aveva visto l’Italia essere all’avanguardia a livello mondiale, per colpa di decisioni politiche sbagliate si sta esaurendo e i risultati sono, a partire dal 2014, quelli di una netta diminuzione della produzione [si veda il grafico n. 1]. Secondo quanto osserva il GSE (Gestore dei Servizi Energetici) nel 2015 le cosiddette fonti alternative hanno contribuito a soddisfare il 17,3% dei consumi nazionali di energia. E il dato è in costante aumento se si pensa che nel 2004 la quota rinnovabile di energia era solo del 6,3%.
Alla luce di tutto questo mi sembra che non ci siano dubbi: al referendum del prossimo 17 aprile l’unica soluzione praticabile è quella di VOTARE SI.
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(1) La canzone, per chi la conosce, sintetizza bene quello che sta succedendo intorno al referendum del prossimo 17 aprile. Si tratta del solito mix a cui noi italiani siamo ben abituati – al di là del colore politico di chi governa – di ipocrisia, di qualunquismo, di ignoranza e di malaffare. La Terra dei Cachi, insomma, dove “Italia si’ Italia no Italia gnamme, se famo du spaghi. / Italia sob Italia prot, la terra dei cachi. / Una pizza in compagnia, una pizza da solo; / Un totale di due pizze e l’Italia e’ questa qua…”.
Fonte: L’Espresso; Legambiente; Marco Pagani (grafici)
Il giardino delle (bio)diversità
Ora che è sopraggiunta la primavera e la natura si è risvegliata dopo il torpore invernale intorno a me vedo giardini curati come fossero prodotti industriali di plastica, uniformi nel materiale e nei colori. Erba rasata alla perfezione senza impurità di altre specie. Gruppi di fiori uniformi e ipertrofici. Aiuole ben definite, con riga e compasso. Siepi perfettamente squadrate e alberi – quei pochi presenti – sempre ben tagliati e potati per non dare troppo disturbo e per non sporcare.
Ma questi non sono giardini. Sono trasposizioni nella “natura” di prodotti industriali tutti uguali, tutti uniformi, tutti precisi che nulla hanno di veramente naturale. Per ottenerli necessitano di un grande dispendio di lavoro, di energia, di utensili e di prodotti chimici vari le cui conseguenze principali sono inquinamento diffuso – anche rumore – e perdita di biodiversità.
È da anni che io, invece, cerco di concepire il mio giardino (1) come un piccolo angolo di diversità, sia di specie viventi che in esso vivono, sia di mescolamento e di distribuzione casuale in esso delle stesse. In sostanza, ispirandomi alla natura spontanea che vedo intorno a me, cerco di fare in modo che nel mio giardino un po’ tutte le specie vegetali possano avere spazio (cerco di contenere un minimo solamente quelle troppo invasive) e che esse non abbiano un luogo dedicato dove crescere ma che possano diffondersi il più liberamente possibile. Nella scelta delle piante poi – che naturalmente in gran parte anch’io acquisto – cerco di prediligere quelle perenni o quelle che hanno capacità autonoma di diffusione, evitando possibilmente quelle che derivano da selezione troppo spinta o da ibridazione. Per quel che posso raccolgo le piante nei giardini di altre persone o, compatibilmente con le regole ambientali, anche in natura per poi ripiantarle nel mio. Oltre alle specie vegetali, nel mio giardino tento di attrarre anche uccelli (mettendo nidi e mangiatoie nel periodo invernale), pipistrelli e insetti, soprattutto farfalle. Questo mi obbliga a tollerare anche specie nocive, come limacce e insetti parassiti, perché spesso sono il nutrimento di lucciole, di insetti utili, di pipistrelli e di ricci.
In questo modo cerco di determinare uno spazio dove venga ricostruita una sorta di armonia naturale e vi sia – compatibilmente con le interferenze dei mie vicini che nel loro giardini fanno un po’ di tutto – il raggiungimento di un certo equilibrio tra le specie.
Se ho una specie invasiva da contenere, ad esempio, non penso a quale diserbante chimico o meccanico utilizzare per debellarla ma altresì penso a quali altre piante posso piantare che con la loro crescita possano rallentare la diffusione di quelle invasive. Inoltre non penso che vi siano “malerbe” o “erbe infestanti” da combattere a tutti i costi ma, piuttosto, cerco che tutte le specie vegetali abbiano il loro spazio e si possano diffondere in maniera equilibrata.
In questo modo, applicando il principio della bioimitazione secondo cui la natura è basata su una rete di reciproche relazioni e collaborazioni, noto che, rispetto agli altri, il mio giardino è più colorato, è più ricco di fiori, ha alberi frondosi e abbondanti ed è più sostenibile dal punto di vista ambientale.
Ecco qualche foto che lo rappresenta…
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(1) Abito in un vecchio fienile ristrutturato in una zona rurale prevalentemente dedita alla coltura della vite e dell’actinidia (kiwi) sulla morena del Lago di Garda, in provincia di Verona.