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Monthly Archives: Aprile 2015

Il Ministro dell’Ambiente, questo sconosciuto

Qualcuno per caso ricorda il nome dell’attuale Ministro dell’Ambiente? E quello precedente? E, per caso, qualcuno sa il nome esatto del “Ministero dell’Ambiente”? Se non ne avete idea non preoccupatevi. Sono in tanti gli italiani che non ne hanno idea: una parte di loro non sa nemmeno che esiste un Ministero dell’Ambiente e, tra quelli che ne conoscono l’esistenza, una buona parte non ha idea di che cosa faccia e a che cosa serva. E, sinceramente, anch’io ho qualche dubbio!

Per dovere di cronaca l’attuale Ministro dell’Ambiente si chiama Gian Luca Galletti e il nome esatto del ministero si chiama “Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare”. Un nome altisonante che vuole dichiarare a tutti la grande estensione del campo di azione di tale Ente che non è limitato al solo concetto astratto di “ambiente” ma che si spinge fino alle tutele concrete del “territorio” e del “mare”. Ottimo!

Galletti_modifQueste tutele, però, esistono solo a parole e nelle declinazioni grammaticali del nome del Ministero. A dimostrazione che il Ministero dell’Ambiente è poco importante e che il ruolo del ministro è marginale nell’insieme delle azioni sociali di cui si occupa il Governo italiano, vi è il fatto che Il sig. Gian Luca Galletti è laureato in Scienze Economiche e Commerciali e nella vita ha svolto la professione di dottore commercialista e revisore contabile. Fin qui nessun problema perché potrebbe essere il commercialista più esperto di tutti i commercialisti d’Italia in tematiche ambientali. Se però ci si addentra tra le competenze del sig. Galletti si nota che egli ha fatto poco e si è occupato poco di tematiche ambientali. Piuttosto, come è giusto che sia per un commercialista, nella sua lunga carriera politica si è occupato prevalentemente di questioni fiscali e finanziarie.

È pertanto triste, a mio avviso, vedere quale sia la considerazione strategica che gli amministratori politici hanno dell’”ambiente”. È triste vedere che lo considerano una pura formalità amministrativa – se non una seccattura – e i loro interventi sono prevalentemente di facciata o partecipazioni a convegni. Poche sono le leggi prodotte; poche sono le iniziative strategiche proposte. È triste vedere che questo Ministro non viene quasi mai menzionato dai telegiornali o dai media in generale (né nel bene né nel male). Non interessano i suoi discorsi. Non interessano le sue idee.

Eppure l’”ambiente” – non la parola di cui si abusa ma visto come la nostra unica “casa” – dovrebbe essere al centro sia delle strategie sociali sia delle analisi economiche. Dovrebbe essere nominato più spesso quando si parla di salute, quando si parla di trasporti, quando si parla agricoltura e di istruzione. Dovrebbe essere al centro delle discussioni che animano le politiche dell’occupazione e del lavoro; dovrebbe essere il collante delle politiche industriali e dovrebbe essere la base della ricerca scientifica e dello sviluppo tecnologico.

E purtroppo, invece, l’ambiente esiste solo per inquinamento, i rifiuti, il consumo di territorio, il petrolio, le grandi opere inutili, la corruzione e, legato ad esso, esistono solo i SOLDI. E, l’ambiente, è solo un fottuto ostacolo a poter farne TANTI.

Ma che tristezza!

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Nota: per rendersi conto del curriculum del Ministro Gian Luca Galletti e per capire quali sono le strategie o le iniziative legislative del Ministero dell’Ambiente è sufficiente accedere ogni tanto al suo sito internet e girovagare tra le varie pagine.

 

Un bel paio di mutande ecologiche

Da anni dormo almeno un giorno la settimana fuori casa frequentando quasi sempre gli stessi alberghi che, nel tempo, mi trattano “quasi” come uno di casa e mi fanno sentire “quasi” come a casa. Per preparare le mie trasferte organizzo una valigia (Paola, mia moglie, la chiama “la valigina”) che, grammo dopo grammo, dettaglio dopo dettaglio, sono riuscito a ridurre all’osso per evitare inutili pesi da trasferire su treni, metropolitane, taxi, scale e marciapiedi.

Sarà stata la primavera, sarà stata la stanchezza o la distrazione ma, qualche giorno fa, mi accorgo di aver dimenticato il cambio delle mutande. Panico!!! Subito dopo però penso di trovarmi in centro a Milano e di non avere problemi a comprarne di nuove. Posso avere solo l’imbarazzo della scelta del modello, del colore, della marca e dello stilista preferito. Ma per me tutto questo non è sufficiente. Mi interessa poco il modello, quasi niente il colore e per nulla lo stilista di grido perché quello che più mi sta a cuore nella scelta di questo capo d’abbigliamento intimo è il fatto che le mutande siano “ecologiche”. Per ecologiche intendo che siano almeno prodotte con cotone biologico e sia certificata la non tossicità dei coloranti e degli additivi utilizzati nei tessuti. Per questi aspetti – piuttosto che per il nome dello stilista sull’elastico che devo lasciar venir fuori dai pantaloni, che devo comperare a vita bassa affinché sia visto – sono anche disposto a pagare qualche euro in più.

Esco allora un po’ prima dall’ufficio e mi fiondo un centro commerciale vicino al lavoro. Nulla. Allora mi sposto con i mezzi in una zona commerciale alla moda. Vado in vari negozi facendo le mie richieste ai commessi di turno che mi guardano sconsolati. Ancora nulla. Faccio un ultimo tardo tentativo in un negozio di alimenti biologici. Niente. Per evitare di rimanere a secco mi fiondo nel primo centro commerciale e prendo le prime mutande della mia taglia che capitano a tiro.

Attraverso questo mio simpatico fuoriprogramma lavorativo osservo il fatto che prodotti tessili (1) che abbiano certe caratteristiche di sostenibilità ambientale appartengono solamente ad un gruppo molto ristretto di aziende che li producono e che non hanno visibilità mediatica nonché a gruppi molto ristretti di persone che li cercano all’interno dei gruppi d’acquisto solidali (GAS), nei mercatini e nei pochi negozi specializzati. Se si tenta di cercare questi prodotti tessili ecologici nel sistema del commercio convenzionale ci si trova davanti ad un muro e si fa veramente fatica ad ottenere quanto desiderato. Tutto questo nonostante le campagne molto incisive di sensibilizzazione sul tema da parte di Greenpeace e di altre associazioni ambientaliste ed etiche.

Dato ciò mi chiedo – con molta tristezza e rammarico – che cosa si possa fare concretamente per ottenere quell’agognata sostenibilità ambientale che, a mio avviso, non è solo difesa del pianeta e bla bla bla. È anche – e soprattutto – vero progresso, vero benessere e vera civiltà. Dal momento che le campagne di comunicazione non sono riuscite completamente nel loro intento e non hanno inciso in modo forte nel sensibilizzare la massa dei cittadini-acquirenti, è necessario che, al più presto, noi consumatori più sensibili e informati sul tema iniziamo a far sentire la nostra voce ai produttori di massa “minacciandoli” di boicottare le loro merci se non ci forniranno al più presto almeno delle alternative ecologiche dei loro prodotti.

Purtroppo saranno sempre i soliti e ripetitivi argomenti un po’ banali e le solite e ripetitive ricette di lotta ma, sinceramente, non vedo altra strada per cercare di far cambiare velocemente un sistema – quello produttivo e di consumo – che deve necessariamente riformarsi per consentire il vero progresso dell’umanità.

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(1) I prodotti tessili hanno filiere molto lunghe che vanno dalla coltivazione del cotone al trattamento chimico del tessuto; dalla filatura al trasporto planetario normalmente via mare. Sceglierli ecologici significa incidere in maniera molto profonda sulla sostenibilità ambientale, soprattutto nei confronti di quei Paesi cosiddetti “in via di sviluppo” verso i quali di solito ricadono gli effetti più nefasti dell’inquinamento provocato dall’industria dell’abbigliamento.

 

La maledizione dei rifiuti

Per capire che la gestione dei rifiuti non funziona (anche quella differenziata porta a porta o l’incenerimento) (1) basta vedere le foto che ho scattato quest’inverno sulle spiagge di Vallecrosia e di Ventimiglia, in provincia di Imperia. Le foto le faccio nelle stesse spiagge tutti gli anni almeno da 15 e, nonostante le diverse tecniche di raccolta differenziata messe in atto dai governi e nonostante le differenti capacità dei vari amministratori locali,  noto che nel tempo i rifiuti non accennano né a diminuire in quantità né a mutare nella loro qualità. Si tratta prevalentemente di pneumatici, contenitori di plastica, salvagenti, bottiglie e lattine, piccoli pezzi di plastica dai colori e dei formati più vari, scarpe e ciabatte spaiate, galleggianti delle reti da pesca, giocattoli… mescolati a residui vegetali lignei. Da questo, in modo abbastanza empirico ma con solidi fondamenti nella realtà, deduco che in generale l’attuale gestione di rifiuti è totalmente fallimentare.

Questa “rumenta” – come la chiamano da quelle parti – d’estate non si vede perché le amministrazioni comunali, prima dell’inizio della stagione turistica, spendono i soldi dei contribuenti per eliminarle o, peggio, non riescono ad impedire che vengano bruciati direttamente sul posto. Nonostante le operazioni di maquillage pre-estivo, i rifiuti vengono comunque tutti gli anni portati a riva dalle mareggiate invernali e, vista la loro quantità e variabilità, non si può assolutamente parlare di qualche episodio sporadico ma di una evidente profonda e cronica lacuna del sistema che deve essere assolutamente rivisto e riformato.

Tanto per capire da dove i rifiuti presenti in spiaggia provengono, analizzandoli a vista si può innanzitutto osservare che, in parte, essi sono presenti in mare perché gettati dalle navi e dalle barche al largo; in parte vengono gettati negli alvei dei torrenti quando sono in secca e solo le piogge autunnali se li portano a mare; in minima parte sono già presenti nelle spiagge a causa dell’incuria di chi le frequenta che si “dimentica” pacchetti di sigarette, sacchetti delle patatine, buste di plastica, lattine di birra o bottigliette di acqua.

La falla nel sistema è evidente e non risiede tanto nelle tecniche sbagliate che vengono impiegate nella raccolta e nel trattamento dei rifiuti, quanto, piuttosto, nel fatto che dovrebbe essere applicato il principio della bioimitazione e i rifiuti non dovrebbero essere proprio prodotti. Piuttosto che impegnare un mare di risorse economiche e di sforzi organizzativi per cercare di raccogliere al meglio i residui dei nostri consumi (2) (che però i nostri comportamenti sbagliati e la nostra scarsa cultura ed etica contribuiscono a far in parte fallire), sarebbe meglio ribaltare il problema ed iniziare ad obbligare i produttori (con leggi vincolanti ed incentivi a chi è più virtuoso) a rivedere le loro tecniche produttive e l’uso degli imballaggi. Bisognerebbe incentivare maggiormente quei prodotti costruiti con materiali ecocompatibili e rinnovabili che riescono ad essere smontati e riparati facilmente. Nel caso di imballaggi bisognerebbe penalizzare chi utilizza materiali non rinnovabili e non facilmente riciclabili. Bisognerebbe disinnescare poi la pratica dell’obsolescenza programmata e bisognerebbe operare a livello culturale per convincere i consumatori che è meglio acquistare prodotti di qualità piuttosto che prodotti a bassissimo costo.

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(1) Il mancato funzionamento della gestione dei rifiuti a cui si fa riferimento non si riferisce agli aspetti tecnici ma a quelli filosofici  che continuano ad accettare un sistema che produce rifiuti anzichè pensare a sistemi che non li considerino affatto.
(2)
Raccogliere e trattare i residui dei nostri consumi (cioè i rifiuti) è, in termini economici, un affare di appalti che può dare origine anche a numerose irregolarità e pratiche corruttive.

 

Il giro del mondo in barca a vela con orto e galline

Lo scorso 19 ottobre Matteo Miceli è salpato con la sua Eco 40 da Riva di Traiano per effettuare , in solitaria, il giro del mondo in barca a vela. Fino a qua nulla di strano. Nonostante non sia una passeggiata, l’hanno oramai fatto in tanti e tanti, con l’aiuto della tecnologia – anche alimentare fatta di barrette liofilizzate e cibi preparati – sono riusciti nell’impresa.

Ciò che contraddistingue, però, lo skipper Matteo Miceli dagli altri, non è solo nel fatto di utilizzare una barca ecologica, la “Eco 40” ma, soprattutto, nel fatto che egli ha portato con sé alcune galline (la Bionda e la Mora) e cerca di coltivare, sulla barca, addirittura un orto. L’obiettivo primario di questo viaggio è infatti quello di tentare di ripercorrere i viaggi degli antichi navigatori che erano interamente basati sull’autosufficienza. Innanzitutto quella alimentare perché non disponevano di prodotti sofisticati, di conservanti e nemmeno di tecnologia del raffreddamento e, per questo, dovevano portare con sé animali vivi a bordo e dovevano coltivare un orto (che veniva chiamato “giardinetto”), di solito nella parte di poppa della nave.

Eco 40_rottaOltre all’autosufficienza alimentare Matteo Miceli è stato il primo skipper ad intraprendere un viaggio intorno al mondo anche in totale autosufficienza energetica. “In barca – ha dichiarato Miceli – non ci sarà una goccia di combustibile, neanche per cucinare. Tutto sarà elettrico e rigenerato, perché starò in mare per cinque mesi”. Per questo la barca è dotata di 12 m2 di pannelli solari, due impianti eolici e due turbine ad idrogeno che alimentano tutti i dispositivi elettrici della nave, soprattutto il dissalatore, i sistemi di comunicazione e il pilota automatico. (1)

Purtroppo l’orto si è rovesciato durante la prima burrasca e lo skipper non ha deciso di ricostruirlo perché le lampade artificiali che consentivano la crescita degli ortaggi consumavano troppa energia. Anche le galline hanno sofferto un po: la Bionda è morta quasi subito e la Mora, pur non manifestando particolari problemi di adattamento al viaggio, ha smesso ben presto di fare le uova.

Il 13 marzo 2015, allo ore 15.40 ci sono però delle cattive cattive notizie. Nel bel mezzo dell’Oceano Atlantico, circa sulla linea dell’Equatore, in condizioni di tempo e di mare favorevoli, Eco 40 ha perso la chiglia (probabilmente andando a sbattere contro un cetaceo) e Matteo Miceli è stato costretto ad abbandonare la barca e l’impresa del giro del mondo in solitaria (Progetto “Roma Ocean World”) (2). Nel naufragio, oltre alla perdita di tutto il materiale (che si cercherà di recuperare) è purtroppo morta anche la gallina superstite.

A circa due settimane dall’arrivo previsto a Roma e dal completamento dell’impresa qualche cosa è andato storto (sig) e l’interessante progetto, come osserva il testardo e coraggioso Miceli, dovrà essere riprogrammato. Buon vento, allora!

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Eco 40_2

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(1) Oltre alla sfida sportiva il Progetto “Roma Ocean World” si proponeva anche di effettuare una ricerca sui cambiamenti climatici. Attraverso strumenti sofisticati durante il viaggio sono stati registrati anche alcuni parametri quali temperatura, pressione dell’acqua e dell’aria, movimento delle onde che verranno resi disponibili della comunità scientifica.
(2) Il Progetto “Roma Ocean World” si propone:

  • di mostrare direttamente i cambiamenti climatici in atto
  • di contribuire direttamente all’indagine scientifica oceanografica e biologica attraverso campionamenti e misurazioni
  • dimostrare che l’attuale tecnologia e un atteggiamento responsabile consentono di poter vivere e navigare bene, in modo ecologicamente sostenibile e utilizzando solo fonti energetiche rinnovabili

 

Vintage Maino

Più di dieci anni fa, mentre gironzolavo da un rigattiere, rimasi colpito da un ammasso di ferro arrugginito che faceva trasparire un originale design e una certa tecnologia costruttiva. Era una bicicletta che aveva trascorso probabilmente qualche decennio alle intemperie ma mi dava l’idea di essere stata, in un lontano passato, un mezzo di trasporto di una certa efficienza. In più mi sembrò avere tutti i pezzi originali: fanali, dinamo, pedali, parafanghi, sellino e carter.

La acquistai per qualche euro, la caricai a fatica nel baule dell’auto e la portai a casa.
Dopo aver trascorso qualche anno nei garage di genitori e zii finalmente, a seguito di lunga ricerca del restauratore che ne potesse capire il valore e che avesse le competenze per restituirle la bellezza originaria, l’ho portata da Leonardo (1). A colpo d’occhio l’ha subito valutata essere una Maino degli anni ’30/’40: in realtà dopo lo smontaggio è risultata essere del 1929.

Il preventivo per il restauro della bicicletta non è tra i più economici (non lo avrei mai preteso visto il lavoro che c’è da fare per far riemergere il metallo dalle croste di ruggine e per ripristinare le cromature originarie) ma sono fermamente convinto che la riparazione di un oggetto che è ancora utilizzabile possa svolgere una duplice funzione:

  • sia molto più sostenibile dal punto di vista ambientale dell’acquisto di un prodotto nuovo (meno energia, meno materie);
  • fornisca più conoscenza diffusa (per la riparazione e la manutenzione) e sia in grado di costruire un’economia locale fatta di professioni e saperi.

Il lavoro di smontaggio e di restauro è da poco iniziato. Aguzzate la vista perché tra un po’ la vedrete sfrecciare per le strade!

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(1) Mi dicono che Leonardo sia molto bravo a restaurare vecchie biciclette e a donare loro le bellezze passate, pur rendendole utilizzabili. Vi saprò dire a lavoro ultimato.Per chi lo volesse comunque contattare si trova a Verona, zona stadio. Il suo sito è www.ciclileonardo.com e il suo numero di telefono è 349.40 45 177

 

Bionade | Bibita analcolica

Oltre agli ingredienti tutti biologici, alla scelta di gusti molto particolari ed al processo di produzione che deriva da una fermentazione naturale, il fascino della bibita analcolica Bionade è dovuto anche alla sua particolarissima storia. Essa è nata quasi per caso dall’invenzione del bavarese Dieter Leipold, maestro birraio di Ostheim in der Rhön che, a causa della crisi che aveva colpito il suo piccolo birrificio, ha sperimentato un nuovo processo di fermentazione dell’acqua e del malto per venire incontro ai nuovi gusti dei giovani tedeschi che da qualche tempo avevano iniziato ad abbandonare la birra.

Per entrare più nel dettaglio della produzione, la Bionade ha le sue basi nella classica fermentazione a base d’acqua e malto che non si finalizza però con la produzione di alcol, ma altresì di un enzima, l’acido gluconico (1), fisiologicamente importante nell’alimentazione umana e ricco di calcio e di magnesio. Dopo la fermentazione il liquido ottenuto viene filtrato, viene diluito con acqua, viene arricchito di anidride carbonica e di essenze naturali di frutti e/o di erbe che conferiscono alla bevanda, totalmente analcolica, dei gusti un po’ particolari ed originali.

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Bionade non contiene dolcificanti e coloranti, ha un basso tenore di zuccheri e quindi pochissime calorie. Inoltre, pur partendo dal malto d’orzo, attraverso il suo particolare processo produttivo Bionade è senza glutine.

Bionade attualmente è offerta sul mercato ai seguenti gusti: sambuco, litchi, erbe, zenzero e arancia, cola biologica.

Per il prossimo futuro l’azienda intende sviluppare maggiormente un rapporto di solidarietà con l’agricoltura locale utilizzando possibilmente materie prime prodotte nei campi vicino alla fabbrica.

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(1) L’acido gluconico è normalmente presente anche nella frutta, nel vino e nel miele prodotto dalle api.