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Otto marzo

Oggi, 8 marzo, è la festa della donna.

Di motivi per festeggiarla la donna, al di là di quelli originari, ce ne sono anche molti altri, che devono andare al di là del simbolo e che devono consistere in comportamenti o atteggiamenti concreti da parte dei maschi.

Anziché regalarle le “solite” mimose o fiori recisi che sono molto inquinanti sia in fase di produzione, sia durante il loro trasporto, sia con la loro confezione usa e getta spesso a base di materiale plastico di difficile riciclo, perché non omaggiarla con la messa a dimora di un bell’albero, di un arbusto, una pianta di rosa o di un bulbo? O, se questo non fosse possibile, perché non richiedere al nostro comune, alla nostra azienda o alla nostra scuola che lo facciano per noi nei parchi pubblici, nelle aree dismesse, ai bordi delle strade o nelle aree industriali?

Senza fare troppi sforzi avremo, in Italia, nell’arco di una manciata di ore, qualche milione di piante in più che abbelliranno il paesaggio, daranno dimora agli animali selvatici, creeranno maggiore cultura ecologica, forniranno frutti commestibili, potranno essere usate per scopi economici, assorbiranno anidride carbonica e produrranno ossigeno.

Cara donna, Tanti Auguri!

Se niente importa

Mangiare carne non è necessario per sopravvivere e mangiarne troppa non è nemmeno salutare. Produrla non è neppure sostenibile dal punto di vista ambientale, soprattutto se la carne proviene da allevamenti intensivi dove migliaia e migliaia di animali vivono ammassati in spazi angusti, iperselezionati, ipernutriti e ipermedicalizzati. Dei mostri che se fossero lasciati scorrazzare liberamente per le aie o per i pascoli non riuscirebbero a reggersi in piedi e morirebbero di stenti in pochi giorni.

Al di là della componente etica e dei diversi problemi che affliggono gli allevamenti intensivi, percorrendo l’autostrada A4 in direzione Venezia, a pochi chilometri dall’uscita di Brescia Est, sono rimasto molto colpito (e, non lo nego, anche piuttosto turbato) da quanto si è presentato a bordo strada: un manichino di bovino adulto e uno di vitello (talvolta anche un maialino) appesi per il collo ad una impalcatura metallica.

Se niente importa_smallSì, è vero, gli animali sono dipinti con colori inequivocabilmente patriottici e forse hanno anche una finalità comunicativa polemica (mah!) nei confronti di politiche agricole che “strozzano” gli imprenditori del settore. Magari le quote latte!?

Il quadro, però, nel suo insieme, mi sembra alquanto stupido, per non dire veramente disgustoso. Appendere una mucca per il collo assieme ad un cucciolo (magari al suo cucciolo) è una cosa che reputo inutile dal punto di vista comunicativo e triste da quello etico. Dimostra, a mio parere, che in troppi allevamenti intensivi ed industrializzati non si ha nessun rapporto empatico con gli esseri viventi e non ci si prende sufficiente cura dell’animale, del suo benessere e della sua salute. Magari addirittura lo si maltratta e l’animale, in quanto essere vivente, è visto come un mero oggetto commerciale scomponibile in diversi pezzi dai quali ottenere la più alta remunerazione economica possibile.

Jonathan Safran-Foer, nel suo libro “Se niente importa”, un’acuta e attenta analisi del mondo degli allevamenti e della produzione della carne degli USA, chiede alla nonna ebrea scampata per miracolo ai lager nazisti perché, durante il suo peregrinare in fuga per l’Europa, pelle e ossa per la fame, abbia rifiutato un’offerta di carne di maiale (non kosher) che le poteva salvare la vita. Lei, serafica, gli risponde: “Se niente importa (nella vita), non c’è niente da salvare”.

Video: TG1 – Allevamenti tortura per mucche

Video: L’orrore degli allevamenti

Buon Compleanno

Qualche giorno fa, il 25 febbraio, è stato il compleanno della vita sulla Terra.

Anche se in ritardo le urliamo “Buon Compleanno”!!!

Per capire il messaggio, che potrebbe apparire un po’ folle, è necessario operare di fantasia e trasporre la formazione del pianeta Terra, la nascita della vita su di esso, la comparsa degli animali più complessi e lo sviluppo delle attività umane all’interno di un ipotetico anno solare.

La Terra nasce il 1 gennaio alle ore 00.01. Il 25 febbraio (circa 3,8 miliardi di anni fa) appaiono le prime elementari forme di vita. Il 28 marzo inizia la fotosintesi clorofilliana. Il 16 di agosto iniziano a comparire le prime forme di vita pluricellulari. Dal 15 novembre inizia l’avventura dei primi funghi, il 22 novembre delle prime piante terrestri, il 24 novembre degli insetti e, a partire dal 2 dicembre, degli anfibi, dei rettili, dei mammiferi (il 13 dicembre), gli uccelli e i fiori. Il 25 dicembre si estinguono i dinosauri (circa 65 milioni di anni fa). Il 31 dicembre alle ore 11.30 gli ominidi iniziano a camminare; alle 23.36 compare l’Homo sapiens  alle 23.59 inizia l’agricoltura (circa 10 mila anni fa); alle 23.59 58” inizia la rivoluzione industriale.

[scarica il pdf – Vita sulla Terra]

Alla luce di tale interessante e simpatica trasposizione che vede comparire il protagonismo tecnico-scientifico dell’uomo all’interno del Sistema Terra solo negli ultimi 2 secondi dell’ipotetico anno, come si può credere che lo stesso potrà affrontare i diversi problemi che gli si presentano all’orizzonte solo con l’uso della tecnologia? È una pura follia pensarlo e non concentrarsi, invece, su quello che rappresenta il vero motore e la vera molla di tutto: LA NATURA!

Che prima va rispettata. Poi va capita e studiata. E alla fine va copiata.

Fonte: Biomimicry

Tillandsia usneoides

Il nome sembra una sequenza casuale di vocali e consonanti. Quasi impronunciabili.

In realtà si tratta del nome scientifico di una pianta che appartiene alla famiglia delle Bromeliacee, comprendente circa 500 specie di piante terrestri ed epifite che vivono nel Centroamerica, Sudamerica e nelle Indie occidentali. La Tillandsia usneoides cresce spontanea in Argentina, in Cile e anche nel Sud-Est degli Stati Uniti.

Essa ha steli flessuosi e sottilissimi, di 1 millimetro di spessore, ricoperti da foglie squamiformi di color argento che funzionano come spugne ed assorbono l’acqua e le sostanze nutritive necessarie dall’atmosfera. Questa pianta, infatti, non ha un apparato radicale ma vive sui rami e sui tronchi degli alberi dove forma fitti e lussureggianti festoni. La moltiplicazione di Tillandsia usneoides avviene grazie al vento che spezza i suoi fusti filiformi in tante parti, trasportandole sui tronchi o sui rami, ai quali si fissano.

Alla fine degli anni Quaranta, quando non si faceva ancora uso di materiali sintetici prevalentemente di natura petrolifera, i sedili delle automobili Ford, negli Stati Uniti, erano imbottiti con i fusti essiccati di Tillandsia usneoides. Gli ingegneri e i tecnici della famosa casa automobilistica americana sapevano, infatti, che gli steli e le foglie di questa pianta, una volta secchi, hanno la caratteristica di essere immarcescibili e di godere di ottime proprietà fisiche.

Ancora oggi, Oltreoceano, la Tillandsia usneoides continua ad essere impiegata, anche se in misura sempre più ridotta, come crine vegetale nella fabbricazione di materassi, poltrone e divani.

L’esempio della Tillandsia usneoides ci dice che una produzione industriale più pulita è possibile e che la natura – studiandola approfonditamente magari facendo riferimento anche alle esperienze dei nostri antenati – ci può fornire pressoché tutte le materie di cui abbiamo bisogno senza per forza dover ricorrere alle nanotecnologie, alla chimica di sintesi o agli organismi geneticamente modificati.

Il vero progresso, anziché nei laboratori asettici degli istituti di ricerca, si può nascondere sui rami degli alberi o in un campo di fiori. Bisogna solo saper cercare!!!

Foto: www.karnivores.com

Cough, cough, cough

Terra cough

Cough, cough, cough.

Se ascoltate bene potete sentire i colpi di tosse secca e quel profondo rantolo sibilante che denota evidenti difficoltà respiratorie. Se guardate bene in controluce potete vedere anche delle grosse gocce di sudore che le imperlano la fronte e che le scendono dalle tempie e un evidente pallore in viso. Non è ancora sdraiata in un letto ma cammina a fatica e si trascina accompagnata da un grosso bastone che ne sostiene quasi completamente il peso.

L’immagine è chiaramente quella di una donna malata che si guarda con pietà e a cui proprio non si riescono ad augurare ancora lunghi anni di vita. La malata in questione potrebbe essere la vecchia zia nubile dal carattere un po’ acido che quando eravamo bambini tanto ci inquietava oppure l’anziana nonna amorevole che tanto ci ha amato ma che ora ha raggiunto il capolinea di una vita serena e piena di affetti.

In realtà la malata è la grande Madre Terra che oramai sta esalando, metaforicamente, gli ultimi respiri della sua lunghissima vita e che, se non curata in anticipo, potrebbe proprio non farcela a superare la notte.

A onor del vero non è la Madre Terra ad essere in difficoltà ma tutti i suoi numerosi abitanti che potrebbero non trovare in essa, in un prossimo futuro, le condizioni climatiche e ambientali in grado di consentire una vita agevole e prospera.

Al di là delle possibili cure che è materia complessa e specifica di esperti in molteplici discipline e di una politica illuminata che sia in grado di prendere le giuste decisioni, quello che preoccupa è che l’uomo, sia singolarmente sia nelle sue diverse manifestazioni sociali, ad eccezione di qualche sparuto gruppo di persone, non si sta ancora rendendo conto di ballare una musica tecno ad alto volume nella camera da letto della madre morente.

Non è più possibile, giunti a questo punto del viaggio della civiltà industriale, dire: “ci penserò domani”!

Il domani è già arrivato, è forse già stato superato e la questione si sta facendo seria. Molto seria!

Bisogna pensare che i cambiamenti di comportamento devono cominciare ad essere individuali e le scelte verso la sostenibilità devono entrare in una sorta di spirale contagiosa che non prevede bari.

Sulla barca che affonda ci siamo tutti, indipendentemente da tutto.

Foto: Doodlepalooza

Due cose certe

Due cose sono certe: che l’Homo sapiens si estinguerà e che la natura, magari con caratteristiche mutate rispetto alle attuali, gli sopravviverà ancora a lungo.

Sul fatto che l’uomo si estinguerà, analizzando i dati paleontologici, non ci sono dubbi: i mammiferi sono una specie che, dopo la scomparsa dei grandi rettili avvenuta circa 65 milioni di anni fa, ha trovato enormi nicchie ecologiche a disposizione ma ha caratteristiche fisiche troppo vulnerabili, ad esempio rispetto agli insetti, con limitate capacità di adattamento a situazioni estreme, soprattutto se in repentino cambiamento. Lo scopo è pertanto quello di evitare che tale estinzione si verifichi entro breve ma, soprattutto, che si verifichi troppo velocemente tanto da non poterci permettere di adottare iniziative di adattamento. Ecco perché ci si preoccupa dei cambiamenti climatici, della scarsità delle risorse non rinnovabili, della scarsità dell’acqua dolce e chi più ne ha più ne metta…

Sul fatto poi che la natura sopravviverà all’uomo – almeno per qualche milione di anni ancora – ciò è dimostrato dalle 5 grandi estinzioni di massa della storia della vita del Pianeta. Qualche specie – le più resistenti – sopravvive a un grande evento perturbatore che determina estinzioni di massa e da lì, attraverso mutazioni delle caratteristiche fisiche, riparte la vita che inizia a colonizzare le aree lasciate libere dalle specie estinte.

Se vi è certezza – almeno alle conoscenze attuali – sui due punti precedenti, incerti sono invece gli strumenti che l’uomo dovrà (o potrà) mettere in campo per evitare che venga a mancare troppo presto uno degli scopi principali della biologia (e della vita): la sopravvivenza della specie! O, per lo meno, vista in termini più sociali, la difesa e la maggiore diffusione dei livelli di benessere e civiltà che una parte degli esseri umani ha raggiunto.

Una parte dell’opinione scientifica e intellettuale ritiene che tale difesa possa avvenire solo ed esclusivamente attraverso una sempre più forte ingegnerizzazione della natura. Ecco allora proposte come gli OGM, le nanotecnologie, la geoingegneria e l’uso di tecnologia sempre più spinta: una sorta di ubriacatura tecnologica senza fine che alimenta sé stessa e che può essere realizzata solo attraverso l’immissione nel “sistema” di enormi quantitativi di energia.

Un’altra parte del pensiero, invece, è fermamente convinta che l’obiettivo della sopravvivenza possa passare solo ed esclusivamente attraverso l’imitazione della natura e delle regole del gioco che essa ha determinato per la vita sul pianeta Terra. Ecco che quindi risulta necessario studiarne a fondo i meccanismi e applicarli a tutte le attività umane allo scopo di renderle il meno impattanti possibile sui precari equilibri della Terra.

Personalmente non ho dubbi e credo che solo la bioimitazione potrà darci la speranza di una prospera e duratura sopravvivenza. Al contrario la tecnologia, come affermò il filosofo Paolo Rossi, talvolta per difetto di conoscenza e altre volte per presunzione di assoluta veridicità, “Quando risolve un problema ne apre altri dieci, ancora più complessi”.

Foto: Wikipedia

Linfen

Le miniere di carbone cinesi entrano nelle cronache mondiali solamente in occasione di tragici incidenti sul lavoro che provocano la morte di lavoratori nelle viscere della terra a causa di scoppi, crolli o altre tragedie disumane. Le notizie, dal comfort dei nostri uffici o delle nostre case, spesso ci scivolano addosso e la loro forza si diluisce nelle innumerevoli tragedie di umana natura. Pochi considerano, invece, il fatto che il carbone uccida anche al di fuori del sottosuolo, attraverso l’inquinamento.

Tra le venti città più inquinate al mondo sedici sono cinesi e l’altra faccia dell’enorme crescita economica della Cina non sono solo gli incidenti o la mancanza di diritti dei lavoratori ma il dramma dell’avvelenamento lento, inesorabile e spesso invisibile di una grande percentuale di popolazione che respira, si nutre e beve quanto viene riversato senza regole nell’ambiente.

A detta dei più autorevoli istituti di ricerca mondiali è Linfen, nella provincia dello Shanxi, la città più inquinata al mondo. Quella che fino agli anni Settanta dello scorso secolo veniva definita la “città della frutta e dei fiori” ora – a causa del carbone che è impregnato nel suo sottosuolo e che ha determinato in breve tempo l’apertura di migliaia di miniere – è la capitale del carbone cinese e per questo è un concentrato di veleni distribuiti tra aria (polveri di combustione, monossido di carbonio e azoto), acqua e suolo (arsenico, piombo, ceneri varie), portatori di gravi patologie per i cittadini.

Per quella parte di inquinamento che è visibile ad occhio nudo la città è costantemente ricoperta da una densa nebbia grigia e, anche nelle giornate “teoricamente” serene, la spessa coltre di smog conferisce al “paesaggio” un’atmosfera autunnale o temporalesca. La parte, invece, invisibile (quella più subdola che colpisce alle spalle senza essere percepita) si trova nella verdura, nella carne, nell’acqua, nella polvere di casa, sulla pelle e nel sangue dei cittadini. Inquinamento che in Cina, anche con la complicità del mondo occidentale che produce merci (spesso semilavorati) a bassissimo costo, fa milioni di morti ogni anno per patologie collegate direttamente o indirettamente all’inquinamento.

Dal punto di vista ambientale e igienico-sanitario la Cina sta vivendo quanto si è verificato in Europa e negli Stati Uniti durante la prima fase industriale e quello che presumibilmente vivrà l’Africa nella fase successiva del processo economico-industriale globale.

Gli ingredienti della pozione venefica sono oramai ben chiari e definiti e, per tali ragioni, il processo industriale deve radicalmente cambiare per approdare verso processi puliti che abbiano come punto di riferimento materie e sistemi produttivi che siano sostenibili perché derivanti da un’imitazione del funzionamento della natura piuttosto che da una sua continua forzatura.

 

IKEA

Verona, la mia città, vorrebbe che IKEA si insediasse sul proprio territorio. Lo desidera così come pure Nizza, Ventimiglia e, probabilmente, molte altre città italiane e non che anelano ad IKEA come fosse una specie di manna che piove dal cielo e che dispensa, in una pioggia battente e continua, prosperità per tutti, ricchi e meno ricchi.

Non ho nulla di particolare contro IKEA che, anzi, nell’ambito della grande distribuzione, manifesta standard ecologici ed etici abbastanza elevati. In più produce buon design per tutti!

Quello che contesto, però, a chi vede in IKEA la soluzione dei problemi economici e di piena occupazione di una comunità, è il fatto che essa è solamente un grande magazzino di stoccaggio e di distribuzione di prodotti di ottimo design e di discreto rapporto qualità/prezzo, che dispensa la vera ricchezza ai proprietari svedesi e ai produttori (sia ben inteso non ai lavoratori) normalmente dislocati nelle aree più depresse del mondo. Da noi IKEA offre solamente posizioni impiegatizie di basso profilo nel settore commerciale e nella gestione del magazzino.

La vera ricchezza di una comunità sarebbe rappresentata, invece, dalla promozione di attività industriali innovative dal punto di vista progettuale (a mio avviso si dovrebbe lavorare molto sulla ricerca e sullo sviluppo di prodotti che imitano il funzionamento della natura), nonché sull’artigianato e sull’agricoltura di prodotti di qualità.

Solo così si sosterrebbe l’occupazione e il “benessere”, non solo economico ma anche culturale, di una comunità nel lungo periodo.
Cosa resterebbe,  in termini di conoscenza, ad una comunità se IKEA (o altre grandi distribuzioni internazionali), in una sala riunioni a 2.000 o a 20.000 Km di distanza, dovesse decidere di andarsene?

Mi sa proprio che, a guardarlo bene, il desiderio di far installare IKEA in un dato territorio da parte di numerosi soggetti locali  sia più che altro un disegno di speculazione edilizia, ben mascherato dietro il solito miraggio del lavoro, dello sviluppo e del benessere.

Padania

Padania

A parte gli slogan di alcuni esponenti politici che identificano nella “Padania” uno stato autonomo dal resto d’Italia e a parte le loro sparate a fini giornalistici che vedevano milioni di abitanti del nord Italia imbracciare i loro fucili per conquistare l’indipendenza da “Roma ladrona”, a mio avviso la vera natura di quest’area di territorio europeo non è politica ma è, da un lato, geografica e, dall’altro, urbanistica.

A guardarla bene la Padania non è un vero stato: non si parla la stessa lingua (anzi gli idiomi dialettali sono numerosissimi e, talvolta, molto diversi tra loro anche tra territori vicini) e non abbiamo la stessa cultura (alcune aree sono state influenzate più dalla Francia, altre più dall’Austria, altre ancora presentano similitudini con l’est europeo).

Invece quello che è inequivocabile è il fatto che la Padania sia un territorio prevalentemente alluvionale, incastonato tra le Alpi, a nord, e gli Appennini, a sud. Un’area geografica che, un po’ per l’abbondante disponibilità di denaro per investimenti nel dopoguerra, un po’ per la fortuna di un territorio pianeggiante, un po’ per l’intraprendenza dei suoi abitanti, ha visto in questi ultimi settant’anni la nascita di una piccola e media impresa e di un benessere economico diffuso con l’ampio sviluppo di una classe borghese.

Questo fenomeno economico ha innescato il secondo fenomeno, quello urbanistico, di cui si parla meno. In definitiva la Padania è un’immensa città!

Questa sua vera natura si nasconde dietro i diversi nomi delle città, delle cittadine, dei paesi e delle frazioni ma se la si percorre nel suo groviglio intricato di strade la si può vedere come una enorme piovra dotata di lunghi tentacoli che si dispiegano attraverso le vie di comunicazione.
Da Trieste a Torino, da Varese a Piacenza e Bologna la Padania è oramai un unicum intervallato qua e là da sempre più piccoli appezzamenti di terra dedicata ad attività agricole poco remunerative che sempre più spesso sono presi di mira dagli speculatori che progettano aree industriali, aree commerciali, impianti per la produzione di energia, nuovi quartieri, strade e ferrovie.

In questa sempre più rapida trasformazione del territorio la classe politica “illuminata” (pochi, per la verità) si dimostra inerme mentre la maggior parte di essa, convinta dei benefici che la trasformazione possa comportare (e forse anche da interessi personali), la cavalca ampiamente promuovendone con forza le dinamiche.

Il fenomeno è semplice da descrivere: ogni comune promuove le proprie iniziative urbanistiche senza un vero e proprio coordinamento con quelle di altri comuni e, sommando tutti gli interventi, quello che ne deriva è un mostro che divora, anno dopo anno, territori, paesaggi, conoscenze e storia.

Al di là delle vere o presunte necessità economiche e sociali di una tale dinamica, quello che vorrei far notare è che essa, comunque sia, è contro natura. Mentre la natura basa il proprio funzionamento sull’efficienza e sulle interdipendenze, la megalopoli Padania, esplosa in tanti frammenti su un ampio territorio, consuma (sarebbe meglio dire spreca) enormi quantità di energia per gli spostamenti, per il riscaldamento e per il condizionamento. Inoltre divora (cementificandolo, asfaltandolo, spianandolo) immense quantità di territorio che dovrebbe ospitare anche boschi, pascoli, aree selvagge, fiumi non controllati, campagne non coltivate a monocoltura per creare relazioni di vantaggi reciproci tra gli esseri viventi (compreso l’uomo).

In sostanza si dovrebbe pensare anche a creare la possibilità che la natura, su un determinato territorio, possa fornire gratuitamente dei fondamentali servizi all’uomo: depurazione delle acque, purificazione dell’atmosfera, animali selvaggi indirettamente utili per l’agricoltura, animali d’allevamento e prodotti agricoli sani.

Vista con occhi nuovi la megalopoli Padania è tutta da riprogettare. Meglio abbandonare, pertanto, l’idea di forzare la costruzione di uno Stato indipendente e concentrare le energie verso un nuovo approccio, prima filosofico e poi tecnico-organizzativo, che ben identifichi le caratteristiche naturali specifiche di questo territorio (e il loro funzionamento) e veda in esse un alleato al mantenimento del benessere piuttosto che un ostacolo da piegare continuamente con la forza.

La TV a luci… rosse

Nessun riferimento, nel titolo, va alla pornografia o alla miriade di programmi volgari che affollano i palinsesti televisivi delle reti locali durante le ore notturne nei quali si pubblicizzano cosmetici o altri ritrovati miracolosi dalle dubbie proprietà sessuali oppure nei quali si sperimentano le più svariate forme di intrattenimento erotico.

Il riferimento è, invece, più semplicemente rivolto al funzionamento di base dell’elettrodomestico televisione (ma anche di molti altri) e alla sua voracità energetica anche da spento (ops, in modalità stand-by), ossia con la lucina (normalmente rossa) accesa.

A tale riguardo una prima considerazione deve andare all’energia (in particolare a quella elettrica), alle diverse fonti per produrla e alle problematiche ambientali ad esse legate nonché, infine, ai concetti di efficienza e di risparmio.

L’energia è da sempre un bene indispensabile per la nostra vita quotidiana. Con l’energia scaldiamo e rinfreschiamo le nostre case, facciamo funzionare i mezzi di trasporto e una moltitudine di altri impianti e attrezzature che risultano utili per realizzare numerosissime attività. Non avendo più alcun rapporto diretto con le fonti di energia (nessuno va più a raccogliere la legna nel bosco o compie lunghi spostamenti a piedi o in bicicletta e “assapora” la vera fatica) la maggior parte di noi considera l’energia come qualcosa di infinito e di indefinitamente replicabile il cui uso (o abuso) è pressoché ininfluente rispetto all’ambiente in cui viviamo.

Nella realtà dei fatti, però, le cose non stanno così!

A fronte di un costante aumento della domanda di energia a livello mondiale, le fonti fossili non rinnovabili – principale combustibile impiegato per la produzione di energia – vanno via via esaurendosi ed il loro utilizzo influisce pesantemente sul bilancio chimico-fisico della Terra. Infatti la produzione ed il consumo di energia sono le cause di una profonda alterazione dell’ambiente che porta con sé anche conseguenze molto gravi. La prima è l’inquinamento locale di aree geografiche ben precise dove sono presenti le centrali; la seconda sono i cambiamenti climatici globali oramai sempre più studiati e sempre più provati scientificamente.

Non sono esclusi da tali problematiche ecologiche né gli inceneritori che bruciano rifiuti, né le centrali nucleari con il loro pericolo attuale e con il loro debito verso le generazioni future rappresentato dalle scorie. Ma, in più, da possibili alterazioni più o meno gravi non sono escluse nemmeno forme più sostenibili di produzione energetica quali il fotovoltaico, l’eolico e l’idroelettrico.

In merito all’energia e alle problematiche ad essa connesse la natura ci insegna una cosa molto semplice: l’energia è difficile da reperire e, pertanto, se ne deve fare un buon impiego attraverso il risparmio (non uso) e l’efficienza. Punto!

Ritornando alle luci… rosse ecco che quindi è necessario privilegiare, in fase di acquisto, elettrodomestici che prevedano la possibilità di essere spenti mediante il tasto “OFF” oppure, qualora ciò non sia possibile, che almeno gli elettrodomestici vengano installati con un interruttore che ne escluda il funzionamento quando non utilizzati.

Questa azione, apparentemente ininfluente rispetto ad altri consumi ben più evidenti, farebbe comunque risparmiare all’Italia, considerata tutta la sua popolazione, qualche piccola centrale elettrica e contribuirebbe ad educare i cittadini nuovamente verso un senso del limite, vero motore nel percorso della sostenibilità ambientale.

Foto: Granada, Spagna – gennaio 2010

La mazza da hockey e il cambiamento climatico

Nel 1998 Micheal E. Mann (1) era uno scienziato di 33 anni che desiderava studiare e capire le variazioni climatiche. Con alcuni colleghi raccolse i dati sulle temperature di migliaia di anni, studiò i coralli, gli anelli degli alberi e i ghiacci polari. Alla fine della ricerca i dati furono raccolti in un grafico, poi pubblicato su Nature, che lasciò sbigottiti gli stessi scienziati: fino al 1850 la curva relativa alle variazioni della temperatura terrestre era praticamente piatta ma poi si impennava rapidamente, proprio in corrispondenza dell’idustrializzazione della società, quando l’uomo ha iniziato a bruciare carbone, gas e petrolio in sempre più grandi quantità.

A Mann e ai suoi colleghi la curva del grafico dava l’idea di una mazza da hockey. E, per loro, la “mazza da hockey” (hockey stick) è la dimostrazione scientifica della responsabilità umana nella determinazione del cambiamento climatico.

Mazza da hockeyMichael Mann è attualmente ancora impegnato nella collaborazione con l’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), un gruppo di ricerca fondato nel 1988 da numerosi capi di stato e di governo che ha lo scopo di capire il complesso sistema dell’atmosfera terrestre e di comprendere in quale direzione si sta evolvendo il cambiamento del clima, se mai si stia evolvendo.

I dati sono però oramai molto chiari e preoccupanti. L’innalzamento delle temperature che interesserà la Terra nei prossimi decenni aumenterà il rischio e la frequenza di tempeste violente, di inondazioni e di ondate di siccità. Inoltre le calotte polari e i ghiacciai si stanno sciogliendo con buone probabilità di innalzare pericolosamente, soprattutto per le città costiere e i popoli che vivono sulle coste, il livello dei mari.

Le risposte agli evidenti problemi del clima ora devono essere date dalla politica (mondiale) e dal sistema produttivo di energia, di beni e di servizi.

La prima, tranne qualche figura illuminata, sembra ancora insensibile al grave problema e, anzi, confusa da un sistema di lobby economiche e ideologico-religiose che gettano fumo negli occhi sulla veridicità dei dati scientifici del cambiamento climatico, fa addirittura qualche passo indietro rispetto ad alcuni obiettivi raggiunti negli anni passati.

Il sistema produttivo (ma anche i consumatori) non è ancora del tutto convinto che le sue scelte progettuali o di processo possano influire concretamente sulla riduzione del cambiamento climatico. I produttori, invischiati nella melassa della competitività delle merci a livello globale, continuano a produrre come prima e perdono tempo prezioso per attuare un cambiamento di rotta. I consumatori, attratti solo dal basso prezzo, non capiscono che devono poi ripagare i danni del cambiamento climatico attraverso maggiori tasse  e attraverso sofferenze individuali o familiari.

Al di là di tutto mi sembra che la “mazza da hockey” sia ben chiara e che non possiamo concederci più altro tempo pensando che ad iniziare il processo di cambiamento ci debbano pensare sempre gli altri.

(1) Le teorie scientifiche e le pubblicazioni di Michael Mann sono state oggetto di attacchi di ogni sorta, nel campo scientifico e al di fuori di esso: minacciato di morte, messo in lista come “ebreo” da alcuni siti neo-nazisti, oggetto di odio, offese, vignette e film satirici propagandistici, la sua posta elettronica privata è stata rubata e resa pubblica e lui trattato come un criminale. Nonostante tutto ciò la sua teoria della “mazza da hockey” resiste e lui continua a lavorare senza arrendersi e senza scendere a compromessi.

(a) Grafico originale “MBH hockey stick” di Michael E. Mann e Raymond S. Bradley

Video: Full Interview Michael E. Mann

Super-Io

Chi è in grado di immaginare quanto sia grande il numero 100.000.000.000.000.000.000 (cento trilioni (1))? In effetti l’impresa è piuttosto ardua anche per chi la matematica la mastica con una certa dimestichezza!

Le ragioni che mi spingono a parlare di tale numero sono dovute al fatto che esso rappresenta la quantità di batteri e virus che vivono normalmente in un corpo umano, numero che è addirittura circa 10 volte superiore a quello di tutte le cellule che lo compongono. Tali batteri e virus non possono vivere in nessun altro luogo e con il corpo di cui sono ospiti instaurano una serie di relazioni reciproche, qualche volta purtroppo anche negative e patologiche. Nella maggior parte dei casi, però, le relazioni sono simbiotiche e indispensabili per il corretto funzionamento in piena salute del corpo che dai batteri e dai virus ottiene incredibili benefici metabolici e protettivi.

In questi anni la ricerca scientifica (2), dopo aver compreso l’esistenza e l’importanza di tali relazioni, sta tentando di capire quali possano essere i principali legami che contribuiscono al corretto funzionamento del corpo e al suo mantenimento in piena salute anche se l’impresa risulta piuttosto ardua e, per ora, è abbastanza lontana dall’avere delle risposte certe sia per il numero elevato di specie da analizzare sia per il fatto che tali batteri e virus sono diversi, per circa il 15%, da individuo a individuo. Essi si sono evoluti con noi per viverci dentro e per scambiare tra le nostre cellule e tra loro stessi continue relazioni, assolutamente indispensabili per la loro e la NOSTRA vita.

Per tale motivo gli scienziati, anche se hanno solo abbozzato l’impianto di conoscenze su questi nostri amati ospiti, stanno cominciando ad eliminare dal loro lessico il concetto di “io” per sostituirlo con quello di “super-io”, una sorta di superorganismo che va oltre il concetto di “individuo” per giungere a quello di “ecosistema” costituito da un enorme numero di elementi integrati che operano come opera una foresta, la savana o l’oceano.

Date queste premesse non è difficile pensare che il sistema “corpo umano” con le sue cellule, i suoi batteri e virus e le loro innumerevoli relazioni reciproche sia qualche cosa che esula dalla tecnica e sia una sorta di ambiente misterioso molto delicato che anche micro inquinamento, errata alimentazione, eccesso di farmaci, stress o altri elementi perturbatori possano inevitabilmente alterare e, così facendo, ne possano diminuire la funzionalità fino a causare irrimediabile perdita di salute.

L’ecosistema corpo umano, però, rappresenta anche la metafora di aspetti che interessano il funzionamento del pianeta Terra e del mantenimento nel tempo della vita sullo stesso. La natura – che l’economia e la scienza al servizio dell’economia vuole vedere solo nella dimensione tecnica, caratterizzata da singoli elementi separati gli uni dagli altri: i metalli, i mari, il petrolio… da spremere il più possibile per trarre profitti e crescita – è invece una sorta di “organismo” fatto di relazioni reciproche continue che vanno dal livello micro a quello macro. Più le alteriamo facendo finta che non esistano più comprometteremo la continuità del benessere che abbiamo raggiunto o, peggio, anche la nostra sopravvivenza.

Mi sa che è giunta l’ora di pensarci seriamente e di agire per evitare il peggio!

(1) 1 trilione = 10 (elevato 18)

(2) es. il National Institute of Health statunitense

Foto: The Economist

Bioimita: nascita di una consapevolezza culturale

Dal mio punto di vista è impressionante vedere come le discipline scientifiche che si occupano di ecologia, i movimenti ambientalisti, il giornalismo scientifico, alcuni intellettuali e imprenditori “illuminati” si prodighino da anni (almeno 30 e forse più) a scrivere dei problemi ecologici, sempre più chiari, che affliggono il Pianeta e le comunità umane che in esso vivono.

Vista questa enorme mole di informazioni teoriche si potrebbe ipotizzare che le cose stiano progressivamente migliorando. Invece, nonostante tutti questi sforzi, al di là di qualche lieve miglioramento in ambiti circoscritti, i principali dati che attestano la salute della Terra – anche perché sempre più precisi e accurati – sono sempre più negativi e non ci fanno ben sperare per il futuro. Il cambiamento climatico accelera; la disponibilità di cibo e di risorse (sia rinnovabili che non rinnovabili) scarseggia, i rifiuti aumentano, la biodiversità diminuisce, la popolazione mondiale cresce, gli ecosistemi sono fortemente sotto pressione, la ricchezza è sempre meno equamente distribuita…

Le soluzioni a tutto ciò possono avere due origini: una politico-giuridica che impone leggi, regolamenti, sanzioni e responsabilità; l’altra, economica, che si muove nell’ambito della produzione e dei consumi.

Se la prima è coercitiva, cioè obbliga a determinati comportamenti indipendentemente dalla volontà, la seconda nasce da scelte critiche individuali, maturate nel contesto di una consapevolezza culturale.

Bioimita si vuole preoccupare di questa seconda sfera e, allo scopo, propone, all’interno di un alveo di principi ben definiti, un percorso culturale di approfondimento attraverso il proprio blog e un percorso pratico dove consiglia prodotti e servizi già presenti sul mercato che consentono di intraprendere concretamente, attraverso scelte di consumo, una via verso la sostenibilità ambientale. Il punto di partenza è che le soluzioni non debbano essere il frutto di chissà quale tecnologia o di chissà quale manipolazione ingegneristica della biologia o della materia ma debbano essere ricercate nel luogo più ovvio: la natura stessa.

Nella consapevolezza che il percorso non è lineare e che le cose da studiare e da scoprire sono ancora molte Bioimita si propone di aprire la via ad un nuovo modo di pensare che possa contribuire a rendere meno pesante la nostra impronta sulla Terra e sia in grado di garantire più facilmente un futuro ancora prospero alle generazioni che verranno.

Bisphenol A

Il bisfenolo A (BPA) è un composto chimico di sintesi fondamentale nella produzione degli additivi plastici e delle materie plastiche e, in particolare, del policarbonato, materiale utilizzato per la produzione di bottiglie (PET) e di numerosi altri contenitori per uso alimentare o per uso medico/ospedaliero.

La pericolosità per la salute umana del bisfenolo A è nota fin dagli anni ’30 del secolo scorso ma è solo a partire dagli anni ’90, dopo la pubblicazione di molte ricerche scientifiche sull’argomento, che vengono inquadrati gli ambiti su cui tale composto chimico di sintesi manifesta i propri effetti negativi: apparato endocrino, apparato riproduttore e azioni sul feto anche a basse dosi. Per esempio gli organi più colpiti sono la mammella, la prostata, il pancreas (diabete) e il fegato.

A causa dei suoi potenziali effetti negativi sulla salute il bisfenolo A è stato oggetto, nei recenti anni passati, di un’azione legislativa da parte dei principali stati europei volta ad eliminarlo da alcuni tipi di plastiche, in particolare quelle a contatto con alimenti caldi (microonde) o destinati all’uso dei neonati o lattanti (biberon) allo scopo di evitare che esso possa migrare nei cibi.

Quello che mi ha colpito recentemente, dopo aver fatto un acquisto in Francia, è aver ricevuto uno scontrino fiscale nel quale era ben evidenziato il fatto che la carta veniva garantita “sans Bisphenol A”, cioè senza bisfenolo A.

In realtà il fatto che la carta termica utilizzata per gli scontrini fiscali o per innumerevoli altri usi contenesse elevati quantitativi di tale agente chimico non era una novità. Quello che invece sorprende è che più la scienza si addentra con precisione nei meandri della produzione industriale più scopre elementi, talvolta voluti, altre volte indotti dal processo produttivo o dall’utilizzo, che possono essere estremamente nocivi per la salute da parte degli utenti.

Pertanto, per garantire salute e sicurezza all’uomo e all’ambiente, non è più sufficiente preoccuparsi di mettere al bando una certa sostanza pericolosa da un certo prodotto (magari disinteressandosi di altri prodotti simili) perché, col tempo, emergerebbero nuove e più gravi situazioni che devono essere tamponate e che a loro volta determinerebbero altre e nuove gravi situazioni in una spirale senza fine. È necessario, invece, riformare completamente il sistema industriale e portare la produzione verso più elevati standard di sostenibilità attraverso metodologie che imitino il funzionamento della natura e impieghino i materiali – quelli innocui per l’uomo, si intende – in essa reperibili.

L’eliminazione del bisfenolo A da alcune plastiche senza conseguenze produttive, prima, e dalla carta termica, poi, è la dimostrazione che tale obiettivo è concretamente praticabile fin da subito e, anziché deprimerlo, arricchisce il sistema economico-produttivo di nuove idee e di nuove conoscenze.

Mi sa solo che bisognerà vincere la resistenza delle lobby ed è per questo che, in questo periodo storico, in Europa abbiamo governi tecnici. (Sig!).

Foto: Scontrino fiscale di un negozio Carrefour (Francia)

 

Il biologico Conad

L’agricoltura biologica garantisce il rispetto dei cicli naturali, della salute dei suoli, delle acque, delle piante, degli animali e assicura un impiego responsabile dell’energia e delle risorse. I prodotti da agricoltura biologica sono ottenuti solo con sostanze e procedimenti naturali e ti aiutano a seguire un’alimentazione sana”.

Così recita, in evidenza, il retro di una confezione di 4 uova fresche biologiche Conad che ho recentemente acquistato.

Se l’italiano non è un’opinione ciò significa che l’altra agricoltura, quella tradizionale, NON garantisce il sufficiente rispetto della natura nonché un uso responsabile dell’energia e delle risorse. Inoltre si ammette indirettamente che nell’agricoltura tradizionale NON sempre vengono usate sostanze e procedimenti naturali e che attraverso essa NON è promossa  una sana alimentazione.

Se anche la grande distribuzione organizzata lo dice, nessun ulteriore commento è necessario per capire quali scelte dobbiamo fare per garantirci un’adeguata salute e per promuovere la sostenibilità ambientale…

Ci vuole un fiore

Sergio Endrigo, poeta-cantautore un po’ malinconico degli anni tra i ’60 e gli ’80, aveva ben compreso l’idea della bioimitazione.

Per rendersene conto è sufficiente ascoltare la canzone “Ci vuole un fiore” che fornisce pienamente la portata del messaggio: in natura tutto torna e tutto è interconnesso…

Un omaggio a questa splendida poesia scritta appositamente per Sergio Endrigo da Gianni Rodari

Guarda il video

Le cose di ogni giorno / raccontano segreti
a chi le sa guardare / ed ascoltare.

Per fare un tavolo / ci vuole il legno
per fare il legno / ci vuole l’albero
per fare l’albero / ci vuole il seme
per fare il seme / ci vuole il frutto
per fare il frutto / ci vuole un fiore
ci vuole un fiore, / ci vuole un fiore,
per fare un tavolo / ci vuole un fio-o-re.

Per fare un fiore / ci vuole un ramo
per fare il ramo / ci vuole l’albero
per fare l’albero / ci vuole il bosco
per fare il bosco / ci vuole il monte
per fare il monte / ci vuol la terra
per far la terra / ci vuole un fiore
per fare tutto / ci vuole un fio-o-re.

Per fare un tavolo / ci vuole il legno
per fare il legno / ci vuole l’albero
per fare l’albero / ci vuole il seme
per fare il seme / ci vuole il frutto
per fare il frutto / ci vuole il fiore
ci vuole il fiore, / ci vuole il fiore,
per fare tutto / ci vuole un fio-o-re.

I segreti dell’isola di San Matteo

Si immagini un piccolo puntino di tundra e scogliere – lungo circa 18 Km e largo circa 2 – sperduto nelle gelide acque del Mare di Bering abitato solamente dalle volpi artiche e da immense colonie di uccelli e mammiferi marini.

Questa è l’isola di San Matteo. E quanto segue è il segreto ambientale che essa nasconde.

Nel 1944, nel bel mezzo della II Guerra Mondiale, la Guardia Costiera statunitense introdusse sul territorio della remota e disabitata isola 29 renne (Rangifer tarandus) allo scopo di fornire una scorta di cibo per i 19 uomini impiegati nella locale stazione strategica e di rilevamento aero-navale. Dal momento che gli esseri umani erano i loro unici potenziali predatori, esse trovarono nel nuovo ambiente un vero e proprio paradiso. Cibo in abbondanza, assenza di predatori animali, un territorio esteso in relazione al loro esiguo numero: in sostanza tutti gli ingredienti necessari ad una loro esplosione demografica.

Quando l’anno seguente la guerra terminò e la base militare venne chiusa gli uomini presenti abbandonarono l’isola lasciando le renne al loro probabile destino: quello di moltiplicarsi e di prosperare a lungo in un ambiente non ostile.

Per lungo tempo nessun essere umano, nemmeno i più arditi avventurieri, mise piede sul piccolo scoglio perduto nell’oceano. Fu solamente dopo 12 anni, nel 1957, che il biologo David Klein del U.S. Fish and Wildlife Service (Dipartimento USA della Fauna Selvatica) approdò nuovamente sull’Isola di San Matteo scoprendo una florida popolazione di 1.350 renne che si nutrivano degli abbondanti licheni che il magro suolo dell’isola poteva loro offrire.

Klein, durante questa sua visita, notò che le renne presentavano caratteristiche diverse rispetto alle popolazioni di altri ambienti. Erano di peso nettamente superiore e godevano, in generale, di una salute eccellente a causa dell’abbondanza di cibo e del loro numero limitato rispetto al territorio, che determinava una bassa competizione tra gli esemplari.

Klein ebbe la possibilità di tornare nuovamente sull’isola solamente 5 anni dopo, nel 1963, e notò subito, non appena mise piede a terra, che ovunque il suo sguardo si posasse vi erano tracce di renne. Le renne erano presenti in ogni angolo dell’isola e la loro popolazione aveva oramai raggiunto la quota di circa 6.000 esemplari.

Rispetto alla prima visita Klein si rese immediatamente conto, però, che non godevano più della buona salute di qualche anno prima: il loro peso medio era notevolmente diminuito e il loro tasso di natalità era molto basso.

Un disastro si profilava, pertanto, all’orizzonte…

«Stanno letteralmente devastando i licheni» disse Klein ai suoi collaboratori.

Una serie di difficoltà lo tennero, in seguito, lontano dall’isola per 3 anni. Solo nel 1966 poté farvi nuovamente ritorno, accompagnato da un biologo e da un botanico.

Lo spettacolo che subito si presentò ai loro occhi non appena toccarono il suolo fu impressionante. L’isola era letteralmente ricoperta da scheletri di renna.

Ne rimanevano vivi solamente 42 esemplari di cui 41 femmine, 1 maschio malato incapace di procreare e nessun cucciolo.

L’ultimo esemplare di renna dell’Isola di San Matteo è morto intorno agli anni ’80 e l’involontario esperimento di dinamica demografica, iniziato per caso nel 1944, è fallito circa quarant’anni dopo con la sua definitiva scomparsa.

Quando ho avuto modo di leggere, qualche tempo fa, un articolo sull’Isola di San Matteo e sulle sue renne, sono rimasto subito molto colpito dalle numerose similitudini che legano questa storia alla dinamica demografica e ai comportamenti dell’uomo. E, naturalmente, anche alle possibili conseguenze che essi possono determinare.

Così come le renne si sono sviluppate inizialmente con estrema rapidità, sono arrivate a sfruttare fino all’osso le limitate risorse che l’ambiente poteva loro offrire e poi sono declinate molto rapidamente arrivando, addirittura, al loro completo annientamento, allo stesso modo le comunità umane sono sempre state caratterizzate dalla stessa dinamica in presenza di condizioni ambientali iniziali favorevoli.

Sviluppo demografico elevato. Utilizzo massiccio di risorse, superiore a quelle che sono in grado di rigenerarsi autonomamente.
Declino e, talvolta, autodistruzione.

In sostanza si verifica quello che gli scienziati chiamano “overshoot and collapse mode” (modalità di superamento e crollo). Esiste cioè un punto di ipotetico superamento dei limiti che determina una recessione difficilmente arrestabile.

Dall’analisi storica di civiltà antiche estinte si è potuto appurare che i principali indicatori del loro declino non sono stati fattori economici, come inizialmente si pensava, ma sono stati proprio quelli di natura ambientale. Agli archeologi odierni appare molto familiare la sequenza: aumento di popolazione; declino delle foreste e aumento delle colture agricole; erosione e impoverimento del terreno; declino della comunità umana nel suo insieme.

Per le società moderne questa relazione si complica notevolmente in quanto sono coinvolti anche altri aspetti quali: la diminuzione delle disponibilità di acqua potabile; l’antropizzazione diffusa del Pianeta; la diminuzione degli stock ittici; la presenza di condizioni climatiche più disastrose e la contrazione delle fonti energetiche non rinnovabili, soprattutto di petrolio e di gas naturale.

Se vogliamo analizzare le caratteristiche del “overshoot and collapse mode” nel contesto delle comunità umane del XXI secolo, possiamo osservare che, dal punto di vista demografico, le più recenti proiezioni elaborate dall’ONU mostrano un trend di crescita della popolazione mondiale che va dai 6,1 miliardi del 2000 ai probabili 9,1 miliardi nel 2050.

Per quanto riguarda l’utilizzo delle risorse, soprattutto quelle energetiche non rinnovabili come il carbone, il petrolio e il gas naturale, la maggioranza dei geologi sostiene che in questi anni la produzione abbia raggiunto il suo massimo e che in futuro sia destinata a diminuire. Inoltre, Paesi emergenti quali la Cina e l’India, che hanno tassi di crescita economica annuale molto elevati e una popolazione enorme, tenderanno sempre di più a richiedere questo tipo di risorse, determinandone anche un elevato e inarrestabile incremento di prezzo.

Dato questo quadro, il problema, come per le renne sull’isola di San Matteo, è che non si può prevedere con una ragionevole precisione il momento del declino e, soprattutto, quali saranno i suoi effetti finali. Se esso, come per le renne, sarà fulmineo e implacabile oppure se sarà più lento e benevolo, consentendo delle politiche correttive.

Quello che è pressoché certo è che se i due ingredienti principali del problema – e cioè l’incremento demografico e lo sfruttamento massiccio delle risorse – aumenteranno continuamente, la conseguenza del declino sarà pressoché inevitabile.

Che cosa fare, allora, per poter contrastare questo trend e per poter sperare in un futuro dell’uomo prospero dal punto di vista economico e sociale ma in armonia con l’ecosistema?

La ricetta è molto semplice ma, nel complesso, anche molto difficile da attuare.

A livello globale si basa, da un lato, su scelte politiche coraggiose, soprattutto da parte dei paesi trainanti cosiddetti “sviluppati”, che siano in grado di modificare gli schemi su cui si basa l’economia, avida di risorse energetiche e di materie prime per garantire elevati consumi. Dall’altro, su uno sviluppo culturale e sociale delle comunità umane che ritornino a comprendere i cicli di base del funzionamento del Pianeta nonché la sua vulnerabilità, e, di conseguenza, ne abbiano maggior cura attraverso, ad esempio, il risparmio e la sobrietà; il riciclo e il riuso; l’eco-efficienza e la bioimitazione. Queste misure, unite anche ad una distribuzione più equa delle risorse e dei redditi, potrebbero contribuire ad abbassare i trend di crescita della richiesta di risorse non rinnovabili e della popolazione mondiale.

A livello locale invece (e mi riferisco all’area dei paesi cosiddetti “sviluppati”), dal momento che il trend di decrescita della popolazione è già evidente da qualche decennio, il lavoro deve essere concentrato prevalentemente sul lato della cosiddetta bioeconomia e del consumo di prodotti ecoefficienti, unica vera espressione dello sviluppo sostenibile, in quanto si propongono di ridurre il prelievo di risorse naturali per raggiungere un livello compatibile con la capacità di carico accertata del pianeta.

La strada è tutta in salita e soffia un forte vento contrario ma è un sentiero obbligato che ciascun individuo, a seconda della sua funzione sociale (politico, cittadino, intellettuale), deve iniziare a scalare per non compromettere seriamente la possibilità di sopravvivenza su questo Pianeta per le generazioni future e, chissà, anche per quelle attuali.

Awà

Chi saranno mai questi Awà?

Secondo Survival International, l’organizzazione che si occupa della difesa degli ultimi popoli indigeni, si tratta probabilmente di una delle tribù più minacciate del mondo. Essi sono dei cacciatori-raccoglitori nomadi che vivono nell’Amazzonia orientale del Brasile i cui territori sono fortemente minacciati da taglialegna, da allevatori di bestiame e da minatori che entrano nelle loro foreste, tagliano i grandi alberi, bruciano il loro sottobosco, inquinano il loro terreno e i loro corsi d’acqua.

Gli Awá conoscono e “sentono” le loro foreste intimamente. Ogni valle, corso d’acqua e sentiero è inciso nella loro mappa mentale. Sanno dove trovare il miele migliore, quali, dei grandi alberi della foresta, stanno per dare frutti e quando la selvaggina è pronta per essere cacciata senza comprometterne, nel tempo, la sopravvivenza.

Perdere gli Awà significa perdere gli ultimi retaggi di conoscenza profonda della natura. Una conoscenza che esula dalla tecnica e dall’approccio scientifico della biologia e delle scienze naturali ma che poggia, invece, le sue basi, sul saper “sentire” intimamente e sul saper “leggere” i segnali che essa continuamente fornisce.

Perdere gli Awà – soprattutto quegli individui che mai si sono contaminati con la civiltà – rappresenta un grave problema non tanto per gli stessi indigeni quanto per tutta l’umanità che, in tal modo, perde un importante pezzo della sua profonda conoscenza della natura che, prima o poi, potrebbe venir utile per risolvere questioni di più ampia portata.

Sulla base di questi dati sostenere Survival International (attraverso il sostegno alla divisione italiana) diventa doveroso ma è doveroso anche che si lavori, a qualsiasi livello, per diffondere la cultura della protezione delle tribù indigene, a volte serbatoi unici di enormi e partticolari conoscenze.

Fonte: National Geographic

I love OGM

Con la recente introduzione, da parte dell’Unione europea, delle colture di prodotti agricoli geneticamente modificati all’interno della comunità, si è riacceso l’inevitabile dibattito tra i favorevoli e i contrari. Qualche ministro ha aperto subito le porte e ha dato inizio alle semine; qualche altro, compreso quello italiano, ha chiuso i cancelli.

Al di là dei dibattiti molto noiosi con elencazione di dati e di conclusioni scientifiche che si smentiscono gli uni con gli altri in una spirale di confusione vorrei osservare, semplicemente, quanto segue.

Ipotizziamo, senza alcun pregiudizio e presunzione di colpevolezza, che gli organismi geneticamente modificati non impoveriscano o sterilizzino il terreno più dei prodotti “naturali”.

Ipotizziamo che essi siano effettivamente in grado di aumentare rese e produttività nel lungo periodo oppure che siano in grado di sconfiggere fitopatologie o parassiti altrimenti affrontabili con dosi massicce di prodotti chimici, spesso anche molto pericolosi per la salute di agricoltori, comunità agricole e consumatori.

Ipotizziamo che anziché diminuire la biodiversità la favoriscano.

Ipotizziamo infine, in questo caso anche contro l’opinione di numerosi scienziati, studiosi e casalinghe, che gli OGM facciano bene alla salute: cioè che siano in grado di favorire, più dei loro fratelli non-OGM, l’assunzione di maggiori quantità di vitamine o altri nutrienti importanti per il mantenimento del corpo in buono stato di funzionamento metabolico.

Nonostante tutto questo, però, con gli OGM non mi sento ancora del tutto tranquillo! Il motivo potrà sembrare banale ma, per me, è di vitale importanza: gli OGM azzerano oltre 3 miliardi di anni di evoluzione!

Questa tecnica di manipolazione del dna delle specie vegetali (e, in futuro, anche delle specie animali, compreso l’uomo?) applicata da un uomo arrogante spazza via, con una sola folata di vento, i numerosi tentativi, i numerosi fallimenti, gli infiniti micro-adattamenti, i rapporti simbiotici delle specie viventi ad ambienti in costante mutamento. In sostanza elimina quel bio-ingegnere invisibile rappresentato dal tempo.

Vista la nostra enorme ignoranza sul funzionamento di ciò che ci circonda, sulle relazioni occulte esistenti tra miliardi di specie viventi, sulle possibili influenze cosmiche, elettromagnetiche, chimiche con la vita, voler a tutti i costi modificare, spesso forzandola con legami estremi, la struttura genetica delle specie viventi mi sembra una cosa stupida che, anche se non ora, potrebbe in un futuro portare verso direzioni inaspettate e, in quel caso sì, potenzialmente pericolose per l’uomo e per l’ambiente dal momento che non si è ora in grado di prevederne i possibili risultati.

Si tratta, volendo usare una metafora, di pretendere di scrivere a tutti i costi un romanzo in una lingua straniera di cui non si conosce la grammatica utilizzando solamente il vocabolario oppure quei terribili traduttori presenti su internet. Qualcosa ne viene fuori ma il senso vero, quello che si vuole veramente esprimere, si perde e, anzi, talvolta ne può venire addirittura stravolto il significato.

Foto: www.kokopelli.it

In viaggio fino alla fine del mondo

Scrive Massimo Gramellini su “La Stampa” del 16 dicembre 2012, commentando l’ipotetica profezia dei Maya sulla fine del mondo.

Mi piace pensare che i Maya non avessero del tutto torto. Che il 12.12.2012 non finirà il mondo, ma un altro comincerà a prendere forma. Anch’io avrò la possibilità di farne parte, se smetterò di fidarmi ciecamente dei sensi, che intercettano solo una piccola fetta della realtà, e imparerò a rinvigorire il muscolo rattrappito dell’intuizione […]. Per chi non ha, o non ha più, un lavoro o un affetto, la fine del mondo è già arrivata e questi sembreranno discorsi astratti, brodini caldi per anime intirizzite. Ma non è così. La crisi psicologica e poi – solo poi – economica in cui versiamo è anzitutto una crisi del modello materialista che ha dominato il Novecento. Se non torniamo a chiederci chi siamo, e non solo cosa abbiamo, finiremo per non avere più nulla. Qualunque profezia non va presa alla lettera: è l’indicatore di un cambiamento spirituale […].

Parole sacrosante quelle di Gramellini.

Però ora che la fine del mondo (quella tragica) l’abbiamo scampata ma siamo ancora sulla buona strada per subire quella lenta, inesorabile, che subiremo se non modifichiamo la rotta della nostra esistenza sulla Terra, dobbiamo riboccarci le maniche per passare dalle parole ai fatti e cambiare il sistema della produzione e dei consumi.

Al più presto, perché oramai il tempo stringe!!!