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L’insostenibilità delle stampanti 3D

Si sente parlare, sempre più spesso, delle stampanti 3D e della “quarta rivoluzione industriale” che esse potranno avviare. Ne parla ovviamente in tono entusiastico l’industria tecnologica attraverso i suoi numerosi canali informativi. Ne parla il giornalismo economico che spera in un nuovo effetto di spinta all’economia, tipo quello che è successo con i computer, con i telefoni cellulari e con gli smartphone. Ne parla anche la politica, soprattutto quando si tratta di affrontare temi legati alla creazione di posti di lavoro e di comunicare, ad un certo elettorato, anche i possibili effetti positivi nei confronti dell’ambiente.

Siamo sicuri, però, che le stampanti 3D siano la panacea di tutti i mali che affliggono la società dei consumi e siano la vera soluzione a tutti i problemi di insostenibilità industriale? Siamo sicuri che saranno veramente in grado di rendere disponibili a tutti le tecnologie, soprattutto quelle costose che interessano il campo medico e ingegneristico? Siamo sicuri che saranno in grado di creare occupazione ma, soprattutto, di limitare la produzione di rifiuti e di costruire quella tanto agognata economia dal basso a cui fa riferimento anche il movimento ambientalista? Io, personalmente, e in particolare relativamente agli obiettivi di sostenibilità ambientale, manifesto numerosi dubbi (1).

Innanzitutto le stampanti 3D – per lo meno la tecnologia attualmente disponibile – riescono ad ottenere i vari prodotti attraverso l’uso di materiali di natura petrolifera (come le plastiche) e di resine sintetiche varie che nulla hanno a che fare con la sostenibilità ambientale. Questi materiali, a fine vita dei prodotti, produrranno rifiuti difficilmente riutilizzabili e riciclabili che dovranno essere correttamente gestiti e smaltiti. E, anche quando le stampanti 3D producono beni in metallo, utilizzano una risorsa non rinnovabile ed esauribile, con tutte le conseguenze ecologiche che questo comporta.

A mio avviso il vero problema dell’economia dei consumi – che utopisticamente si spera di risolvere attraverso un demiurgo tecnico, una nuova soluzione creatrice qual è la stampante 3D – è rappresentato, invece, più banalmente, dalla responsabilità personale e dai comportamenti individuali. La vera soluzione non sta nel far produrre in modo diverso prodotti che incorporano dei vecchi problemi ma produrre, anche con le vecchie tecnologie, prodotti che incarnino un approccio completamente nuovo alla progettazione e all’uso dei materiali. La vera soluzione è ripensare anche alla vera utilità individuale e sociale dei beni ed educare i cittadini sia ad un’idea di sobrietà nei loro consumi – molto spesso inutili – sia a fare uso di prodotti che siano già stati usati e, magari, anche già più volte riparati. In questo modo si potrebbe creare una nuova economia, sì certo, apparentemente più semplice, ma che, nello stesso tempo, è più condivisa e che armonizza la società diffondendone i saperi.

Non si tratta affatto di pensare che il passato fosse tutto positivo e che la modernità sia per forza un male. Non si tratta nemmeno di anelare ad una condizione umana fatta di precarietà e di sole limitazioni. Si tratta solo di riprogettare il futuro traendo spunto anche dal passato e da quello che di buono è stato prodotto. Dai miei numerosi viaggi ho visto che l’economia dei popoli “poveri” (2) – al netto dei problemi che devono essere senza dubbio risolti – può rappresentare anche un interessante spunto da prendere in mano e da rivisitare in una nuova e interessante chiave applicativa.

Sulla base di ciò delle stampanti 3D che producono oggetti inutili (fino ad arrivare a produrre anche sé stesse) e che, date le attuali premesse, ripeteranno i problemi del passato, possiamo sinceramente volentieri farne a meno!

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(1) I dubbi li manifesto non perché sono contro le stampanti 3D a prescindere ma pechè desidererei che venissero impiegate veramente nella direzione che molti hanno sperato: quella della sostenibilità ambientale e dell’armonia sociale.

(2) La “povertà” a cui faccio riferimento non è un valore assoluto ma è un concetto esclusivamente monetario. Purtroppo mi serve per descrivere, ai nostri occhi “occidentali”, un determinato contesto economico e sociale anche se sono convinto che quelli che genericamente indichiamo come popoli “poveri” non lo siano veramente ma, anzi, che, forse forse, i veri “poveri” (di empatia, di solidarietà, di senso di comunità, di sentimenti, di semplicità) siamo noi.

 

Se vincessi al SuperEnalotto

Mi ha molto colpito la notizia di quella coppia di coniugi di Galliera, in provincia di Bologna, che, con una buona dose di (c)fortuna, qualche settimana fa ha azzeccato il 6 al SuperEnalotto vincendo 14 milioni di euro e che ha dichiarato di voler contribuire con una donazione privata alla ricostruzione della scuola del paese, inagibile a seguito del terremoto che ha colpito l’area geografica il 20 maggio dello scorso anno.

L’iniziativa è assolutamente lodevole e degna di rispetto vista sia la scarsa raccolta di fondi privati per la ricostruzione (il Comune indica solo 21 mila e 500 euro di donazioni) sia il ritardo e l’esiguità degli aiuti governativi.

Il punto è che, personalmente, se vincessi al SuperEnalotto una cifra importante (per vincere dovrei giocare, ma questa è un’altra storia), eviterei accuratamente di donare alla collettività beni materiali, siano anch’essi scuole, ospedali, parchi o qualsiasi altro bene di pubblica utilità.

Il motivo di tale decisione risiede nel fatto che, per la mia esperienza e per le informazioni che traggo da quello che mi circonda, da un lato non ci sarebbe sufficiente gratitudine da parte dei potenziali beneficiari ma, anzi, spesso la nascita di biechi sospetti e critiche nonché, dall’altro lato, la donazione alimenterebbe una schiera di politici (1) di professione senza scrupoli che si nascondono in ogni angolo del territorio e che, come per magia, si “impossessano” di una parte dei meriti tagliando nastri, facendo campagne elettorali, parlando ai convegni mettendo in secondo piano e affievolendo nel tempo la lodevole iniziativa dei donatori. A questi ultimi, ma soprattutto ai loro eredi, spesso non resta altro che una lapide commemorativa, scolorita e invasa dai licheni.

Se vincessi al SuperEnalotto una cifra importante, una parte dei soldi anch’io li donerei alla collettività ma mi concentrerei su un bene immateriale e più duraturo: la c u l t u r a e il senso civico. Insegnerei la filosofia della vita e le tecniche di prevenzione, la buona politica e la storia, l’ecologia e l’economia.

È vero, anche investendo nella cultura si può sbagliare orientamento o approccio e fare dei buchi nell’acqua ma, a differenza dei beni materiali, la cultura è difficilmente manipolabile da terzi. Sviluppa una conoscenza, una consapevolezza e un senso critico individuale che permangono nel tempo e che creano importanti antidoti affinché le persone possano votare il migliore per ottenere il loro benessere duraturo e per evitare che vengano fatte scelte sbagliate.

A tale proposito il caso del terremoto è emblematico: se è vero che in sé l’evento non è prevedibile, è però vero che in una zona sismica come quella emiliana si potevano mettere in campo, soprattutto per gli edifici pubblici, migliori interventi prevenzionistici rispetto a quelli esistenti.

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(1) Il riferimento è in generale e non al Comune di Galliera, che non ho mai visitato e di cui non conosco nulla della sfera politico-amministrativa.