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Barroso e la transizione verso la green economy
Quando le mie orecchie sentono parlare di sostenibilità e in qualche modo di “decrescita” figure politiche del calibro di José Manuel Barroso (Presidente della Commissione Europea) mi sorge spontanea una domanda: ci crederanno veramente a quello che dicono o ci stanno solo vendendo la solita minestra (economico-politica) ben mascherata con una rassicurante patina “verde”? Avendo un minimo di esperienza sulle spalle so che l’attuale sistema economico predatorio basato sui consumi e sulle merci è estremamente resistente e difficile da scardinare perché, oltre che rappresentare un’importante fonte di ricchezza personale per le oligarchie economiche mondiali che sfruttano politici compiacenti, è anche ben radicato nella nostra filosofia sociale. Nonostante ciò, però, una piccola speranza comincia a farsi luce e, via via che passa il tempo, diventa sempre più luminosa. Essa, alimentata da una crisi economica sempre più dura da combattere e che si preannuncia duratura perché insita nel malfunzionamento del sistema capitalistico, comincia a far breccia anche tra la classe dirigente del vecchio continente in cerca di soluzioni per mantenere in vita l’apparato socio-politico europeo. Questa speranza è rappresentata dalla cosiddetta green economy e dallo sviluppo sostenibile.
Senza entrare troppo nel merito del ritardo almeno trentennale con cui i nostri politici se ne sono accordi e dell’entità esigua degli aiuti finanziari a sostegno di pratiche economico-sociali sostenibili (una briciola rispetto a quelli che tengono in vita il sistema produttivo-finanziario tradizionale), desidero fare solo un’osservazione, fondamentale perché tale onda di pensiero basata sull’ecologia e sull’attenzione per il benessere degli individui possa avere successo nel lungo periodo.
È estremamente importante che non si faccia poggiare la green economy sugli stessi pilastri ideologici della fase economica precedente!!!
Pertanto, nel disegnare la nuova economia del futuro deve essere abbandonata la logica cieca e unica della crescita e deve essere dato, invece, più “ascolto” alla natura e ai principi del suo funzionamento. Principi che devono poi essere applicati al sistema economico, produttivo e sociale.
Solo così si potrà sperare di uscire veramente dal tunnel della insostenibilità ambientale e di creare un sistema economico-produttivo duraturo e in grado di interessare la più ampia percentuale possibile di popolazione mondiale.
Il disco rotto
A casa non ho la televisione ma quando dormo in albergo per missioni di lavoro (1) mi capita spesso di trascorrere le mie serate, stanco e svogliato, in camera davanti all’elettrodomestico infernale. Ciò che mi attrae di più (mi potrei vedere un bel film ma, lo so, sono masochista) sono le trasmissioni dove si dibatte di politica e di società: i cosiddetti talk-show dove un giornalista spesso finge di domare eminenti politici o influenti opinionisti che dibattono della loro visione del mondo e dove spesso finge anche di fare, con domande ovvie e preconfezionate, il suo mestiere di giornalista/“mastino del potere”.
Questa routine si ripete da anni e da anni vedo sempre gli stessi politici, gli stessi giornalisti, gli stessi sindacalisti, gli stessi opinionisti, gli stessi esperti economici che si illudono di convincere i telespettatori delle loro idee e delle loro ricette “per il bene degli italiani” e “per le riforme del Paese”, senza rendersi conto che, invece, cercano solo di autoconvincere sé stessi sulla bontà dei concetti espressi, spesso invece ovvi e banali. Questo, sia ben chiaro, non vale per tutti, ma per una buona parte di loro è assolutamente vero.
Ad avere una macchina del tempo potremmo mettere la manovella in una serata a caso di questi ultimi trent’anni e potremmo osservare la circolarità dei discorsi televisivi. Una sorta di disco rotto che, arrivato al difetto, ritorna al punto di partenza in una sequenza infinita, lamentuosa e cacofonica.
Ad osservarli bene gran parte dei loro discorsi sono incentrati sulle questioni economiche e sociali: la crisi, le tasse, la casa, la giustizia, il lavoro relativamente ai quali partoriscono solamente soluzioni semplicistiche che non hanno né un riferimento al passato (per capire l’andamento dei fenomeni e gli errori) né una proiezione nel futuro (per sognare un risultato), ma poggiano esclusivamente nel presente. Quasi mai si parla di etica (quella vera), di responsabilità (è sempre quella degli altri) e di credibilità della politica (quella vera), che impone anche le dimissioni dell’esponente incauto (o furbo) prima che la giustizia abbia esaurito il suo corso.
Mai si parla di quella che, secondo il mio modesto parere, è la causa prima dei diversi sintomi osservabili intorno a noi: i limiti dello sviluppo (2) e l’insostenibilità complessiva del nostro sistema economico, produttivo e sociale. Se non capiamo questo e non iniziamo seriamente ad interrogarci sul fatto che per risolvere il problema del lavoro, il problema delle tasse, dei servizi, della competitività, della scuola il sistema deve essere radicalmente riformato, non ne veniamo fuori.
Cari commentatori (almeno voi che avete la mia stessa percezione) non abbiate paura ad iniziare a parlarne perché, volenti o nolenti, è giunto il tempo di cambiare il disco e di suonare una musica nuova.
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(1) Oramai quasi settimanalmente
(2) Nel 1972 il Club di Roma aveva commissionato ad eminenti scienziati del MIT di studiare quali fossero le prospettive future dell’umanità, basandosi sul contesto economico e sociale del tempo. Tale rapporto fu pubblicato con il titolo “I limiti dello sviluppo“.
Caos politico e caos climatico
Quando vedo la nostra vergognosa classe dirigente che si azzuffa in Parlamento o nelle sedi dei partiti e, abbandonando ignobili logiche di puro tornaconto elettorale, non è in grado di trovare con responsabilità un accordo sulla gestione di un paese oramai (quasi?) allo sbando… mi viene il voltastomaco! Quando questi “nostri” rappresentanti, per la loro incapacità politica e dialettica, tolgono a forza dal meritato riposo un signore di 87 anni per attribuirgli un ruolo istituzionale cosi importante e delicato come quello del Presidente della Repubblica… non so più cosa pensare!
Nel frattempo guardo con tristezza e impotenza mia figlia che ha poco più di 2 anni e penso al suo futuro e al fatto che le classi dirigenti non hanno capito quasi nulla. Si scervellano (senza crederci troppo nemmeno loro) su come abbassare l’IMU, su come imbrigliare la giustizia, su come aumentare le tasse senza che ce ne accorgiamo, su come far ripartire un’economia dalle fondamenta oramai decrepite e non capiscono che, a monte, i problemi più importanti da risolvere sono altri e, da essi, dipendono poi a cascata anche le tasse, la cultura, l’economia, la salute, il lavoro, la democrazia di un popolo.
Dal momento che in natura tutto è strettamente interconnesso e il buon funzionamento della stessa dipende da numerosissimi fattori che interagiscono reciprocamente, anche nella gestione delle attività umane tutto è strettamente collegato! Se non cerchiamo il bandolo della matassa, se non capiamo l’origine vera dei problemi, andiamo a rischio di curare piccoli sintomi di una patologia ben più grave che, a causa del nostro ritardo, rischia di peggiorare e di non essere più risolvibile per il futuro.
Prendiamo il clima e i cambiamenti climatici (1) in corso, in gran parte dovuti ad errate attività antropiche che si basano sulla combustione del carbonio e sulla distruzione delle foreste. Da quando, intorno agli anni ’80 del secolo scorso, i satelliti hanno iniziato a monitorare l’atmosfera e i ghiacci polari nonché gli scienziati a studiare approfonditamente la climatologia, si è potuto registrare con precisione l’enorme aumento dell’anidride carbonica presente in atmosfera (siamo arrivati a circa 390 ppm mentre all’inizio dell’era industriale eravamo a circa 280 ppm) e si è potuta documentare una ritirata dei ghiacci polari pari al 12% a decennio, con una forte accelerazione in questi ultimi anni. L’effetto finale è che attualmente la superficie coperta da ghiacci spessi e consolidati è il 60% inferiore rispetto a quella del 1981 e il processo di scioglimento globale è ora molto più rapido.
Un cambio di rotta, che essenzialmente deve muoversi nell’ambito della drastica riduzione dei processi di combustione del carbonio fossile e del tasso di deforestazione, non solo è necessario ma per essere efficace deve essere attuato a partire da domani, non oltre.
Inoltre, secondo gli esperti che oramai non appartengono più solo al mondo dell’ambientalismo ma anche a quello delle istituzioni governative ed economico-finanziarie, un cambio radicale di prospettiva potrebbe alimentare un nuovo processo di rinascita dell’economia basata sull’efficienza, sulle fonti rinnovabili, sulla diminuzione delle materie, sulla riprogettazione della produzione e della società nonché sulla sostenibilità ambientale in generale.
Per ottenere tali risultati devono essere fatte delle scelte politiche forti e rivoluzionarie. Ma intanto, mentre la Terra brucia, la nostra classe dirigente cosa fa?
(1) L’allarme è stato lanciato anche dalla Banca Mondiale che ha parlato della possibilità di un aumento di temperatura globale di 4 gradi a fine secolo e del fatto che tale evento metterebbe sotto uno stress devastante buona parte degli ecosistemi che garantiscono la sopravvivenza di miliardi di persone. Di tale ente si vedano il World Developement Report del 2010 e il sito web Climate Change Knowledge Portal.
Locale o globale?
In termini di sostenibilità ambientale ha molto più valore favorire le piccole produzioni artigianali locali o le grandi industrie operanti sul mercato globale?
La questione non è facile da dipanare e pone il seguente dilemma.
Le piccole produzioni artigianali locali alimentano – se non in minima parte – un sistema tecnologico legato alla produzione di macchinari o allo sviluppo di processi produttivi e organizzativi ma curano maggiormente la qualità dei materiali, delle lavorazioni, dell’abilità manuale e delle relazioni umane. I prodotti sono un po più cari ma sono destinati a durare di più nel tempo e i loro consumi sono difficilmente influenzabili dalla moda e dal marketing.
La produzione industriale, invece, crea, quando fiorente, enormi flussi monetari che spingono verso la ricerca scientifica e tecnologica, lo sviluppo di processi produttivi basati sulla quantità e lo sviluppo di processi organizzativi basati sulla spersonalizzazione dei saperi. I lavoratori sono “capitale umano”, i clienti sono “consumatori”, le risorse naturali sono “merci” e un’ampia fetta del sistema deve essere impiegata a variare continuamente le caratteristiche dei prodotti e a stimolare i desideri di possesso.
Non pretendo di aver ragione e forse sono sono un tantino ingenuo ma, nei termini della sostenibilità ambientale. a me sembra chiara la risposta.
Oroeco | Eco data-base
Se desideri conoscere quale sia il contributo all’inquinamento del Pianeta del prodotto che stai acquistando, con Oroeco lo potrai sapere. Oroeco, infatti, si propone di essere un enorme data-base nel quale sono raccolti i dati delle performance ambientali dei principali prodotti in commercio da poter consultare in occasione degli acquisti allo scopo di effettuare scelte consapevoli di sostenibilità ambientale.
Il progetto nasce negli Stati Uniti grazie alla collaborazione di ricercatori del MIT nonché delle università di Stanford e di Berkley, e si basa sull’assunto molto semplice che il consumo può avere effetti più o meno negativi sull’ambiente.
Dal momento che il mercato globale della produzione e del commercio ci impedisce di sapere quali siano i reali flussi delle materie e i processi produttivi impiegati magari dall’altra parte del globo, con Oroeco si potrà tracciare l’impronta lasciata da un determinato prodotto sull’ambiente e valutare cosa preferire tra scelte simili.
Per ora Oroeco è solamente un progetto sperimentale che sta cercando finanziamenti per la messa in funzione ma esso rappresenta un’interessante idea: quella che attraverso scelte di consumo consapevole si possa migliorare veramente il mondo sia diminuendone l’inquinamento e il prelievo di materie, sia “costringendo” i produttori a scegliere, nell’ottica della sana concorrenza, le migliori pratiche produttive per non perdere importanti quote di mercato.
Se non necessariamente attraverso Oroeco, siate comunque critici nei vostri consumi dal lato della sostenibilità. Vedrete che non tarderanno a comparire concreti risultati di miglioramento nel sistema produttivo.
IKEA
Verona, la mia città, vorrebbe che IKEA si insediasse sul proprio territorio. Lo desidera così come pure Nizza, Ventimiglia e, probabilmente, molte altre città italiane e non che anelano ad IKEA come fosse una specie di manna che piove dal cielo e che dispensa, in una pioggia battente e continua, prosperità per tutti, ricchi e meno ricchi.
Non ho nulla di particolare contro IKEA che, anzi, nell’ambito della grande distribuzione, manifesta standard ecologici ed etici abbastanza elevati. In più produce buon design per tutti!
Quello che contesto, però, a chi vede in IKEA la soluzione dei problemi economici e di piena occupazione di una comunità, è il fatto che essa è solamente un grande magazzino di stoccaggio e di distribuzione di prodotti di ottimo design e di discreto rapporto qualità/prezzo, che dispensa la vera ricchezza ai proprietari svedesi e ai produttori (sia ben inteso non ai lavoratori) normalmente dislocati nelle aree più depresse del mondo. Da noi IKEA offre solamente posizioni impiegatizie di basso profilo nel settore commerciale e nella gestione del magazzino.
La vera ricchezza di una comunità sarebbe rappresentata, invece, dalla promozione di attività industriali innovative dal punto di vista progettuale (a mio avviso si dovrebbe lavorare molto sulla ricerca e sullo sviluppo di prodotti che imitano il funzionamento della natura), nonché sull’artigianato e sull’agricoltura di prodotti di qualità.
Solo così si sosterrebbe l’occupazione e il “benessere”, non solo economico ma anche culturale, di una comunità nel lungo periodo.
Cosa resterebbe, in termini di conoscenza, ad una comunità se IKEA (o altre grandi distribuzioni internazionali), in una sala riunioni a 2.000 o a 20.000 Km di distanza, dovesse decidere di andarsene?
Mi sa proprio che, a guardarlo bene, il desiderio di far installare IKEA in un dato territorio da parte di numerosi soggetti locali sia più che altro un disegno di speculazione edilizia, ben mascherato dietro il solito miraggio del lavoro, dello sviluppo e del benessere.
Tecnocrati
Tecnocrati che percepiscono stipendi milionari ci dicono che la nostra economia è in recessione e professori che hanno aggirato le regole democratiche per ricoprire posizioni di governo ci stanno facendo digerire pillole sociali che ci provocano forti indigestioni. Il tutto condito da politici di professione che non conoscono i veri problemi della gente e che vanno in giro a dire che la crisi è stata causata sempre da “altri” e che solo loro hanno in mente le giuste manovre di crescita per far ripartire l’economia e il benessere.
Questo è, sindacato più giornalista meno, lo scenario del Natale 2012 appena trascorso e del nuovo anno che è appena iniziato.
La verità vera, quella che tanti sanno (o pensano) ma che nessuno osa dire apertamente, è che non si tratta né di una crisi finanziaria né di una delle tante crisi passeggere e cicliche, alle quali, dalla nascita dell’industria e della moderna economia, ci eravamo abituati.
Si tratta, invece, di una crisi profonda di sistema economico e, anzi, più precisamente, di una crisi ecologica che già acuti pensatori, ricercatori e imprenditori degli anni ‘70 avevano previsto con assoluta precisione.
Basta fare qualche piccolo ragionamento approfondito ed incrociare qualche dato scientifico per capire che il “giochino” del capitalismo-consumismo non è più a lungo praticabile, perché si fonda su un enorme consumo di materie (più di quelle che il sistema Terra è in grado di produrre) e sopravvive solo se vi è una forte disuguaglianza tra i popoli, tra chi accede ai suoi “benefici” (pochi) e che non vi accede.
Solo per fare degli esempi si pensi che il USGS (United States Geological Survey) ha stimato gran parte delle materie prime che oggi utilizziamo (in particolare i metalli) entro il secolo in corso non saranno più facilmente disponibili per usi industriali.
Non si devono allora scomodare né illustri professori universitari né rampanti politici per trovare una soluzione al problema. Basta solo guardarci un po’ intorno con attenzione per scoprire che la ricetta per superare questa situazione è molto semplice e prevede una duplice azione: iniziare a parlarne per prepararci con consapevolezza all’inevitabile impatto (economico e sociale) che la crisi porterà con sé ed elaborare nuove strategie di sobrietà e di solidarietà; abbandonare l’idea che l’economia del futuro si possa fondare su un sistema predatorio delle risorse e sulla forzatura del funzionamento della natura, alimentate da grandi quantità di energia.
L’economia, il lavoro e il benessere del futuro si potranno basare solo sui principi di imitazione del funzionamento della natura. Solo così si potrà garantire continuità ai sistemi economici e sociali senza intaccare quel patrimonio di risorse materiali naturali indispensabili per alimentare gli stessi. Qualche tempo fa si diceva di preservare le risorse per le generazioni future.
E se quelle generazioni future fossimo già noi stessi?!?!
Foto: Parlamentari dormono