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Se vincessi al SuperEnalotto
Mi ha molto colpito la notizia di quella coppia di coniugi di Galliera, in provincia di Bologna, che, con una buona dose di (c)fortuna, qualche settimana fa ha azzeccato il 6 al SuperEnalotto vincendo 14 milioni di euro e che ha dichiarato di voler contribuire con una donazione privata alla ricostruzione della scuola del paese, inagibile a seguito del terremoto che ha colpito l’area geografica il 20 maggio dello scorso anno.
L’iniziativa è assolutamente lodevole e degna di rispetto vista sia la scarsa raccolta di fondi privati per la ricostruzione (il Comune indica solo 21 mila e 500 euro di donazioni) sia il ritardo e l’esiguità degli aiuti governativi.
Il punto è che, personalmente, se vincessi al SuperEnalotto una cifra importante (per vincere dovrei giocare, ma questa è un’altra storia), eviterei accuratamente di donare alla collettività beni materiali, siano anch’essi scuole, ospedali, parchi o qualsiasi altro bene di pubblica utilità.
Il motivo di tale decisione risiede nel fatto che, per la mia esperienza e per le informazioni che traggo da quello che mi circonda, da un lato non ci sarebbe sufficiente gratitudine da parte dei potenziali beneficiari ma, anzi, spesso la nascita di biechi sospetti e critiche nonché, dall’altro lato, la donazione alimenterebbe una schiera di politici (1) di professione senza scrupoli che si nascondono in ogni angolo del territorio e che, come per magia, si “impossessano” di una parte dei meriti tagliando nastri, facendo campagne elettorali, parlando ai convegni mettendo in secondo piano e affievolendo nel tempo la lodevole iniziativa dei donatori. A questi ultimi, ma soprattutto ai loro eredi, spesso non resta altro che una lapide commemorativa, scolorita e invasa dai licheni.
Se vincessi al SuperEnalotto una cifra importante, una parte dei soldi anch’io li donerei alla collettività ma mi concentrerei su un bene immateriale e più duraturo: la c u l t u r a e il senso civico. Insegnerei la filosofia della vita e le tecniche di prevenzione, la buona politica e la storia, l’ecologia e l’economia.
È vero, anche investendo nella cultura si può sbagliare orientamento o approccio e fare dei buchi nell’acqua ma, a differenza dei beni materiali, la cultura è difficilmente manipolabile da terzi. Sviluppa una conoscenza, una consapevolezza e un senso critico individuale che permangono nel tempo e che creano importanti antidoti affinché le persone possano votare il migliore per ottenere il loro benessere duraturo e per evitare che vengano fatte scelte sbagliate.
A tale proposito il caso del terremoto è emblematico: se è vero che in sé l’evento non è prevedibile, è però vero che in una zona sismica come quella emiliana si potevano mettere in campo, soprattutto per gli edifici pubblici, migliori interventi prevenzionistici rispetto a quelli esistenti.
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(1) Il riferimento è in generale e non al Comune di Galliera, che non ho mai visitato e di cui non conosco nulla della sfera politico-amministrativa.
Un bel frullato quotidiano
Quando parlo con le persone di sostenibilità ambientale o del mio progetto legato alla bioimitazione quale possibile soluzione o miglioramento ai problemi che caratterizzano (e che sempre caratterizzeranno) l’umano vivere, osservo, in generale, le seguenti reazioni: “Eh, voi ambientalisti…” oppure “Sì, belle cose ma la gente non mangia”, oppure ancora “Eh, ma tanto non serve a niente…”
Anche se essere animato da un profondo senso critico contro le falle del “sistema” o da un forte spirito di indignazione che desidererebbe qualcosa di meglio può sembrare un atteggiamento pessimista e depressivo perché fa emergere i lati oscuri, nella realtà dei fatti non lo è. Anzi, è l’esatto contrario perché tale atteggiamento è costantemente nutrito dalla speranza che ci sia una soluzione praticabile, anche dal fondo. L’atteggiamento pessimista e depressivo caratterizza, invece, chi risponde con i “Mah”, con gli “Eh” e con i “Boh”!
Bisogna avere il coraggio di rompere lo schema del negativo, dello stato d’animo depresso molto diffuso e di smettere di avere paura del cambiamento e del futuro. Chi vive in un mondo complesso (come è il nostro) non può assumere lo stile dell’attesa o del fatalismo (“tanto non si può fare nulla…!”) ma quello dell’iniziativa per “vedere prima” i problemi ed intervenire per mettere in atto le possibili soluzioni. Perché spesso nelle situazioni di crisi (e quella ambientale è una di queste), ciò che possiamo perdere (oltre alle foreste, al diritto alla salute, alla biodiversità… tutti aspetti sacrosanti, ma la cui importanza sulla vita di ognuno di noi è difficile da capire) è invece la democrazia, la libertà, l’istruzione, la salute e le cure gratuite. Tutti quegli elementi positivi del benessere raggiunti che rischiano di esserci lentamente tolti…
E’ con un sano spirito di indignazione, di analisi e di azione che occorre muoversi. Bisogna in qualche modo agire (anche se ci può apparentemente sembrare inutile), ognuno con i propri mezzi e nei limiti delle proprie possibilità, per rompere le rappresentazioni stereotipate che spesso ci vengono propinate dai media, dalle classi dirigenti, dalle corporazioni allo scopo di cloroformizzarci per farci ingurgitare un bel frullato quotidiano di m***a con l’intento di farci credere che sia una mousse al cioccolato.
Barroso e la transizione verso la green economy
Quando le mie orecchie sentono parlare di sostenibilità e in qualche modo di “decrescita” figure politiche del calibro di José Manuel Barroso (Presidente della Commissione Europea) mi sorge spontanea una domanda: ci crederanno veramente a quello che dicono o ci stanno solo vendendo la solita minestra (economico-politica) ben mascherata con una rassicurante patina “verde”? Avendo un minimo di esperienza sulle spalle so che l’attuale sistema economico predatorio basato sui consumi e sulle merci è estremamente resistente e difficile da scardinare perché, oltre che rappresentare un’importante fonte di ricchezza personale per le oligarchie economiche mondiali che sfruttano politici compiacenti, è anche ben radicato nella nostra filosofia sociale. Nonostante ciò, però, una piccola speranza comincia a farsi luce e, via via che passa il tempo, diventa sempre più luminosa. Essa, alimentata da una crisi economica sempre più dura da combattere e che si preannuncia duratura perché insita nel malfunzionamento del sistema capitalistico, comincia a far breccia anche tra la classe dirigente del vecchio continente in cerca di soluzioni per mantenere in vita l’apparato socio-politico europeo. Questa speranza è rappresentata dalla cosiddetta green economy e dallo sviluppo sostenibile.
Senza entrare troppo nel merito del ritardo almeno trentennale con cui i nostri politici se ne sono accordi e dell’entità esigua degli aiuti finanziari a sostegno di pratiche economico-sociali sostenibili (una briciola rispetto a quelli che tengono in vita il sistema produttivo-finanziario tradizionale), desidero fare solo un’osservazione, fondamentale perché tale onda di pensiero basata sull’ecologia e sull’attenzione per il benessere degli individui possa avere successo nel lungo periodo.
È estremamente importante che non si faccia poggiare la green economy sugli stessi pilastri ideologici della fase economica precedente!!!
Pertanto, nel disegnare la nuova economia del futuro deve essere abbandonata la logica cieca e unica della crescita e deve essere dato, invece, più “ascolto” alla natura e ai principi del suo funzionamento. Principi che devono poi essere applicati al sistema economico, produttivo e sociale.
Solo così si potrà sperare di uscire veramente dal tunnel della insostenibilità ambientale e di creare un sistema economico-produttivo duraturo e in grado di interessare la più ampia percentuale possibile di popolazione mondiale.
Il disco rotto
A casa non ho la televisione ma quando dormo in albergo per missioni di lavoro (1) mi capita spesso di trascorrere le mie serate, stanco e svogliato, in camera davanti all’elettrodomestico infernale. Ciò che mi attrae di più (mi potrei vedere un bel film ma, lo so, sono masochista) sono le trasmissioni dove si dibatte di politica e di società: i cosiddetti talk-show dove un giornalista spesso finge di domare eminenti politici o influenti opinionisti che dibattono della loro visione del mondo e dove spesso finge anche di fare, con domande ovvie e preconfezionate, il suo mestiere di giornalista/“mastino del potere”.
Questa routine si ripete da anni e da anni vedo sempre gli stessi politici, gli stessi giornalisti, gli stessi sindacalisti, gli stessi opinionisti, gli stessi esperti economici che si illudono di convincere i telespettatori delle loro idee e delle loro ricette “per il bene degli italiani” e “per le riforme del Paese”, senza rendersi conto che, invece, cercano solo di autoconvincere sé stessi sulla bontà dei concetti espressi, spesso invece ovvi e banali. Questo, sia ben chiaro, non vale per tutti, ma per una buona parte di loro è assolutamente vero.
Ad avere una macchina del tempo potremmo mettere la manovella in una serata a caso di questi ultimi trent’anni e potremmo osservare la circolarità dei discorsi televisivi. Una sorta di disco rotto che, arrivato al difetto, ritorna al punto di partenza in una sequenza infinita, lamentuosa e cacofonica.
Ad osservarli bene gran parte dei loro discorsi sono incentrati sulle questioni economiche e sociali: la crisi, le tasse, la casa, la giustizia, il lavoro relativamente ai quali partoriscono solamente soluzioni semplicistiche che non hanno né un riferimento al passato (per capire l’andamento dei fenomeni e gli errori) né una proiezione nel futuro (per sognare un risultato), ma poggiano esclusivamente nel presente. Quasi mai si parla di etica (quella vera), di responsabilità (è sempre quella degli altri) e di credibilità della politica (quella vera), che impone anche le dimissioni dell’esponente incauto (o furbo) prima che la giustizia abbia esaurito il suo corso.
Mai si parla di quella che, secondo il mio modesto parere, è la causa prima dei diversi sintomi osservabili intorno a noi: i limiti dello sviluppo (2) e l’insostenibilità complessiva del nostro sistema economico, produttivo e sociale. Se non capiamo questo e non iniziamo seriamente ad interrogarci sul fatto che per risolvere il problema del lavoro, il problema delle tasse, dei servizi, della competitività, della scuola il sistema deve essere radicalmente riformato, non ne veniamo fuori.
Cari commentatori (almeno voi che avete la mia stessa percezione) non abbiate paura ad iniziare a parlarne perché, volenti o nolenti, è giunto il tempo di cambiare il disco e di suonare una musica nuova.
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(1) Oramai quasi settimanalmente
(2) Nel 1972 il Club di Roma aveva commissionato ad eminenti scienziati del MIT di studiare quali fossero le prospettive future dell’umanità, basandosi sul contesto economico e sociale del tempo. Tale rapporto fu pubblicato con il titolo “I limiti dello sviluppo“.
Sfalcio
Lo spiegamento di uomini e di mezzi è notevole. In più transennamento di strade, deviazione del traffico, cartelli stradali, lampeggianti, polvere e rumore.
Non si stanno descrivendo né operazioni straordinarie dell’esercito né trasporti eccezionali o lavori di costruzione di ponti o di gallerie. L’immagine riguarda “semplicemente” le operazioni di sfalcio meccanico dell’erba ai bordi delle strade, soprattutto quelle ad elevata percorrenza.
A cosa servirà mai tutto ciò?
Ad evitare terribili incidenti stradali? Mi sa proprio di no (tranne nelle aree sensibili di incroci o rotatorie). Ad evitare pandemie per la popolazione a causa di una qualche spora o polline sconosciuti? Sicuramente no. Ad abbellire i cigli delle strade? Forse (per qualcuno).
Essendo dubbioso sulla vera utilità di tali operazioni mi viene il sospetto che le immani operazioni stradali siano un sistema utilizzato dalle amministrazioni e dagli Enti di “dare lavoro”, attraverso gli appalti piuttosto che attività dotate di una qualche importante utilità sociale. Sistema che, a causa della sua indubbia utilità e degli sprechi che incorpora, potrebbe, a mio avviso, essere dirottato verso altro.
Se si volesse anche cambiare la prospettiva sui vegetali (che qualcuno chiama anche “erbacce”) presenti ai bordi delle strade, si può notare come, a ben guardarli, rappresentino anche un relitto di biodiversità. Con i loro fiori colorati, con le loro specificità locali (adattabilità ai climi secchi o umidi, freddi o caldi oppure ai terreni) rappresentano un mondo che faceva parte di un passato e che ora, a causa dell’agricoltura industrializzata e dell’antropizzazione spinta, non esiste (quasi) più.
L’analisi di questo articolo non ha certo la pretesa di ritornare ai tempi dei nostri nonni perché migliori. Il suo scopo è quello di far luce sulla necessità che, anche in ambiti inaspettati, si cominci ad avere la percezione dell’importanza della natura (manifesta attraverso la sua diversità) e del ruolo che essa ha nella vita dell’uomo e nel mantenimento del suo benessere. Ad esempio tra quelle piante si potrebbero “nascondere” erbe con proprietà medicinali attualmente non conosciute.
In più, dobbiamo iniziare anche a considerare il fatto che un ambiente selvatico lasciato libero alle proprie dinamiche sia anche bello da vedere e doni alle nostre strade e all’ambiente che viviamo un tocco originale di “paesaggio”.
Il mancato ritorno delle rondini
Si sono appena concluse, con i ballottaggi, le elezioni amministrative per la nomina dei sindaci e delle giunte comunali.
Nella campagna elettorale si è parlato, come al solito, di infrastrutture, di ospedali, di progresso, di piani di assetto del territorio, di patto di stabilità, di servizi, di biblioteche, di concessioni, di mense scolastiche, di sicurezza e chi più ne ha più ne metta.
Nel mio comune nessuno tra i candidati – ma credo che in Italia siano stati molto pochi a farlo – si è preoccupato anche del mancato ritorno delle rondini.
E questo è un grave problema perché se vogliamo veramente intraprendere quella “rivoluzione ecologica” da molti invocata come soluzione alla crisi economica, ecologica e sociale di questi anni, non possiamo tralasciare anche questi temi che sembrerebbero apparentemente insignificanti rispetto alla cassa integrazione, alla chiusura delle attività produttive o ai tagli alla sanità ma che, invece, rispecchiano un nuovo approccio, indispensabile per poterla realizzare compiutamente. La “rivoluzione ecologica” si avrà solo attraverso una radicale modifica dell’atteggiamento culturale e non potrà invece assolutamente realizzarsi se rimarranno inalterate le fondamenta ideologiche che ci hanno portato in questo pantano.
Compensare i costi ambientali delle vacanze
Fare il turista e viaggiare per piacere (e non per le più disparate e tristi necessità migratorie) è una delle più importanti conquiste raggiunte attraverso il benessere economico.
Viaggiare per il piacere di conoscere altri luoghi, altri popoli, altri cibi, altre lingue, altre abitudini dalle proprie è un’importante scuola di vita. Senza la quale, personalmente, non potrei vivere.
Quando poi si inizia ad assaporare il piacere del viaggio e della scoperta si è portati, nel tempo, a cercare sempre nuove mete che, inevitabilmente, possono portare anche molto lontano.
Ovviamente il viaggio che ho in mente è il più possibile sostenibile dal punto di vista ambientale e sociale, senza inutili pretese, lussi ed eccessi. Viaggiare però, soprattutto con gli aerei e con i mezzi a motore, comporta inevitabilmente la combustione di grandi quantità di carburante e l’immissione in atmosfera di CO2 nonché un minimo impatto ambientale che il vero viaggiatore – colui che dal viaggio desidera trarre un insegnamento di vita – deve in qualche modo cercare di evitare.
Nella mia esperienza, che vorrei condividere, ho deciso che ogni viaggio di piacere incorpora un costo occulto di poche decine di euro (l’entità dipende dal tipo di viaggio) che verso ad una associazione ambientalista o ad un ente serio che si occupa di compensare la CO2 attraverso la creazione di parchi e foreste in giro per il mondo (1).
Non si tratta di lavarmi semplicemente la coscienza ma di valutare con razionalità che il soddisfacimento di un mio piacere non può compromettere la qualità della vita di altre persone che, come me, vivono su questa grande palla verde-blu.
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(1) I miei versamenti li ho fatti (e li farò) a: Greenpeace; WWF; Survival
Yanomami
Gli Yanomami sono un popolo indigeno che vive nella foresta pluviale di aree remote del nord del Brasile e del sud del Venezuela. Essi abitano in grandi case comuni che possono ospitare fino a 400 individui la cui area centrale viene utilizzata per attività rituali, feste o giochi nonché per il fuoco collettivo attorno al quale vengono appese le amache dove la gente si tiene al caldo durante la notte. Ogni famiglia dispone poi di uno spazio proprio dove prepara e cucina il cibo durante il giorno. Gli Yanomami, che vivono in comunità indipendenti le une dalle altre, credono fortemente nell’eguaglianza delle persone. Infatti non riconoscono capi e le decisioni vengono prese mediante consenso che si perfeziona anche dopo lunghi dibattiti dove tutti possono prendere la parola.
Come tutte le tribù amazzoniche i compiti sono divisi tra i sessi: gli uomini cacciano e spesso usano il curaro per avvelenare le loro prede (tapiri, cervi, scimmie, pècari). La carne rappresenta solo il 10% del cibo degli Yanomami ma viene considerato un alimento molto prezioso soprattutto per la gestione delle relazioni sociali. Infatti nessun cacciatore mangia la carne che ha cacciato ma la divide tra i propri famigliari e i propri amici. In cambio riceve la carne per sé da altri cacciatori. Le donne invece gestiscono gli orti dove coltivano circa 60 specie di piante dalle quali ricavano l’80% del cibo di cui la famiglia ha bisogno. Inoltre si occupano della raccolta delle noci, delle larve di insetti e delle conchiglie. Il miele è molto apprezzato per le sue proprietà energetiche e curative e gli Yanomami ne raccolgono ben 15 specie diverse.
Sia gli uomini che le donne pescano e normalmente usano il veleno per le battute di pesca collettive che consistono nello sbattere dei fasci di edere sulla superficie dell’acqua per attrarre i pesci che vengono storditi dal liquido velenoso e infine raccolti. Si pensi che vengono addirittura utilizzate 9 specie differenti di edera per tale tipo di pesca.
Gli Yanomami hanno un’immensa conoscenza botanica e utilizzano quasi esclusivamente la foresta (circa 500 piante) per tutti gli scopi della loro esistenza. Le piante selvatiche commestibili sono utilizzate regolarmente per integrare quelle coltivate negli orti e diventano particolarmente importanti quando gli Yanomami viaggiano lontano dai loro villaggi. Il legno è usato per costruire case, utensili e armi, ma anche come combustibile e per molti altri scopi. Varie specie fibrose sono utilizzate per realizzare corde e fasce, per intrecciare cesti e amache temporanee. Da molte altre specie poi ricavano tinture, veleni, medicine, pitture per il corpo, tetti, profumi, droghe allucinogene e così via. Essi si sostengono in parte attraverso la caccia, la raccolta e la pesca ma la maggior parte del fabbisogno alimentare deriva dalla coltivazione di piante in grandi orti ricavati nella foresta che rinnovano ogni 2/3 anni a causa del fatto che il suolo dell’Amazzonia non è molto fertile.
Il mondo spirituale ha un ruolo fondamentale nella vita degli Yanomami. Ogni creatura, pietra, albero o montagna possiede uno spirito. Talvolta gli spiriti sono malevoli e gli Yanomami ritengono che essi siano la causa delle malattie.
In merito alla conoscenza (1) che gli Yanomami hanno dell’ecologia della foresta si può osservare, ad esempio, che sanno quali sono gli alberi che, una volta caduti e in fase di decomposizione, ospitano larve d’insetto commestibili (a volte li fanno cadere deliberatamente a questo scopo). Conoscono le specie che nutrono la popolazione dei bruchi commestibili in certi periodi dell’anno, e quali sono i fiori preferiti dalle numerose specie di api da miele selvatico che loro riconoscono. Tuttavia, non è solo una conoscenza utilitarista: gli Yanomami sono grandi osservatori della natura e nel corso di tutta la vita continuano ad accumulare conoscenze sulle complesse relazioni tra piante e animali, sulla base delle proprie esperienze dirette.
Tale loro conoscenza li porta ad avere un impatto totalmente sostenibile sull’ambiente circostante in quanto parte di un sistema instaurato da molto tempo e sviluppato in modo tale da impedire loro di rimanere a corto di risorse. Quando gli animali scarseggiano, spesso la comunità si sposta, abbandona le radure create attorno al villaggio per ritornarvi solo dopo qualche anno quando la foresta ha iniziato a ristabilirsi. Usano comunque il veleno per catturare i pesci nei fiumi, riducono la popolazione dei mammiferi, abbattono alberi e a volte spogliano interi palmeti per ricoprire i tetti delle loro case, ma quel che conta è che prendono dalla foresta solo quanto occorre per sopravvivere. E lo fanno in modo ponderato, basandosi su un’approfondita comprensione di quello che fanno e di quello che la foresta può o non può dare.
In merito alla medicina e alla salute, per gli Yanomami ogni problema di salute ha le sue cure attraverso ciò che trovano e che riconoscono nella foresta, ad eccezione di alcune malattie infettive introdotte dall’esterno (soprattutto da parte dei visitatori “civili”), di cui essi hanno un’esperienza limitata.
Purtroppo gli Yanomami, come un po’ tutte le popolazioni tribali, sono minacciati dalla nostra avidità economica: in particolare dai tagliatori di legname e dai minatori che, sia in passato sia ancora adesso, si addentrano nella foresta e usano violenza per scacciare le tribù dalle loro terre. In più i cercatori d’oro inquinano le terre e i fiumi con il mercurio che sta seriamente minacciando la loro salute.
Perdere una tale popolazione e un tale patrimonio di conoscenze può rappresentare un’enorme vuoto per il genere umano sia dal lato degli aspetti tecnici di utilizzo dei prodotti della foresta sia dal lato della conoscenza botanica ed erboristica. Inoltre perdere gli Yanomami potrebbe rappresentare un enorme vuoto dal punto di vista filosofico perché l’ambiente e la terra sono talmente radicati nella loro cultura (materiale e spirituale) che la sola idea di poterli distruggere risulta per loro totalmente ripugnante. A differenza di noi, invece, che con la nostra arroganza culturale, tecnico-scientifica e di stile di vita abbiamo perso totalmente il contatto con la natura tanto da non renderci conto sia dei danni che stiamo provocando sia delle possibili soluzioni condivise e praticabili per risolverli.
A pensarci bene la cosa che più mi inquieta di noi e della nostra “civiltà evoluta” è il fatto che, mentre nella foresta gli Yanomami si devono difendere collettivamente dagli animali selvatici, noi, nelle nostre città, ci dobbiamo difendere individualmente da altri esseri umani. Su queste basi mi sa che abbiamo molto da imparare dagli Yanomami!
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(1) Informazioni fornite dal dott. William Milliken, etnobotanico presso i Giardini Botanici Reali di Kew a Londra e grande studioso dei rapporti tra popolazioni indigene americane, biodiversità e risorse.
Fonte: Survival
Foto: Survival
Adesso basta!
Le vittime della stagione venatoria
La stagione venatoria 2012-2013 si è conclusa oramai da qualche mese ed è tempo di fare, purtroppo, qualche macabro bilancio.
Dal 1 settembre 2012 al 31 gennaio 2013, ovvero per la durata della stagione venatoria, in Italia ci sono stati 151 feriti da arma da fuoco, di cui 32 in modo mortale. Lombardia, Toscana e Sardegna sono state, nell’ordine, le regioni con il più alto numero di incidenti.
Questi dati, che rappresentano le vittime fuori (perché in qualche modo collegate con le armi usate per la caccia) e dentro le battute di caccia, sono stati pubblicati dall’Associazione Vittime della Caccia che, nel dossier relativo all’ultima stagione venatoria, li descrive dettagliatamente. In particolare il dato che fa più scalpore riguarda gli incidenti che hanno riguardato il ferimento di 9 minori, di cui 5 hanno tragicamente perso la vita: 2 bambini uccisi durante le battute di caccia; 2 morti suicidi con il fucile del padre cacciatore; 1 bambino ucciso dal colpo partito da un fucile ancora carico sparato accidentalmente dal padre al ritorno di una battuta.
Entrando nel particolare, le vittime della caccia in senso stretto – ovvero i feriti durante le battute – sono state 118, di cui 21 i morti. Di questi 3 non erano cacciatori e 2 erano bambini. In ambito extravenatorio, invece, le vittime sono state 33, tra cui 11 morti, di cui 8 non cacciatori (e 3 bambini).
Il dossier, che come precisa l’Associazione non si basa su dati ufficiali ma su ricerche occasionali eseguite sul web, non si limita a stilare la classifica degli incidenti ma analizza anche l’età dei responsabili, le vittime tra la gente comune e i loro traumi psicologici, gli animali (sia domestici sia protetti) vittime della caccia, i crimini venatori e gli illeciti. Da ciò ad esempio emerge come siano aumentati, rispetto agli anni precedenti, gli incidenti per i neopatentati e per gli ultra sessantenni.
I numeri relativi alle vittime della caccia fanno impressione e mostrano come un’esigua percentuale della popolazione (i detentori della licenza di caccia) (1) siano in grado di causare, in media, un incidente al giorno, sia tra i cacciatori che tra i non cacciatori.
Per garantire la sicurezza di tutti, soprattutto dei non cacciatori, è necessario che si legiferino al più presto norme più restrittive nella concessione della licenza di caccia, nella formazione e nell’educazione dl cacciatore, nella limitazione della possibilità di sparare (in prossimità di strade, abitazioni, ecc.), nell’inasprimento delle pene per tali tipologie di omicidi e lesioni. L’obiettivo ultimo, anche per la salvaguardia delle specie animali sempre meno numerose e sempre più sotto stress per altre ragioni (cambiamento climatico, agricoltura intensiva, urbanizzazione e frazionamento del territorio), dovrà essere quella di consentire, entro qualche anno, la caccia hobbistica solo in riserve specificatamente attrezzate e organizzate fino ad arrivare, nel più breve tempo possibile, all’istituzione del reato di “faunicidio” e alla totale abolizione della caccia per scopi sportivi.
Se non si inizierà ad avere un minimo di empatia anche con la sofferenza e con la vita degli animali sarà difficile ricreare quel legame profondo con il mondo che ci circonda, necessario per sviluppare al meglio la bioimitazione e ottenere il vero progresso dell’umanità attraverso l’imitazione del funzionamento della natura.
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(1) Nel 2007 il numero dei cacciatori italiani era pari all’1,2% della popolazione e il dato è in calo continuo.
Attacco alla Terra
“Attacco alla Terra” sembrerebbe il titolo di un romanzo o di un film di fantascienza degli anni ’50 e ‘60 nel quale esseri alieni mostruosi dotati di antenne e proboscidi arrivano con le loro astronavi luminose avvolte da copioso fumo per conquistare il pianeta e per soggiogare con forza brutale la razza umana alla loro volontà.
L’attacco alla Terra che voglio descrivere, invece, riguarda un fenomeno abbastanza recente: la lenta – ma inesorabile – perdita di una qualsiasi sana relazione del pianeta verde-blu con gli uomini, gli animali che lo hanno (per ora) conquistato.
Nei secoli passati considerata fondamentale per la vita fino a chiamarla addirittura “Madre” ora la Terra è diventata, da un lato, un seno prosperoso da mungere all’infinito per ottenerne materie e vantaggi economici, mentre, dall’altro, è un’immensa pattumiera dove riversare senza fine i residui gassosi, liquidi o solidi non più utilizzabili dalla nostra laboriosità. Il tutto senza la minima idea di rispetto e di senso del limite.
La cosa ancora più preoccupante in questo fosco scenario è, a mio avviso, il fatto che di questo pensiero malato nel rapporto con la Madre Terra non si vede ancora chiaramente la fine ma, anzi, obiettivi sempre più spinti di utilizzarne le risorse e, addirittura, di modificarne le regole attraverso pesanti interventi ingegnieristici (geoingegneria), la manipolazione genetica delle specie vegetali (OGM) o quella atomica dei materiali (nanotecnologie).
Sono convinto – e come me una grande fetta di mondo scientifico – che tutta questa presunzione di onnipotenza, prima o poi, ci si ritorcerà contro. La cosa ancora più preoccupante è il fatto che gli effetti di tale ritorsione non sono facilmente prevedibili ma, a guardare la forza dei terremoti o quella degli uragani o degli tsunami, per la facile sopravvivenza della civiltà del genere umano potrebbe non essere proprio una passeggiata nel parco.
Otto marzo
Oggi, 8 marzo, è la festa della donna.
Di motivi per festeggiarla la donna, al di là di quelli originari, ce ne sono anche molti altri, che devono andare al di là del simbolo e che devono consistere in comportamenti o atteggiamenti concreti da parte dei maschi.
Anziché regalarle le “solite” mimose o fiori recisi che sono molto inquinanti sia in fase di produzione, sia durante il loro trasporto, sia con la loro confezione usa e getta spesso a base di materiale plastico di difficile riciclo, perché non omaggiarla con la messa a dimora di un bell’albero, di un arbusto, una pianta di rosa o di un bulbo? O, se questo non fosse possibile, perché non richiedere al nostro comune, alla nostra azienda o alla nostra scuola che lo facciano per noi nei parchi pubblici, nelle aree dismesse, ai bordi delle strade o nelle aree industriali?
Senza fare troppi sforzi avremo, in Italia, nell’arco di una manciata di ore, qualche milione di piante in più che abbelliranno il paesaggio, daranno dimora agli animali selvatici, creeranno maggiore cultura ecologica, forniranno frutti commestibili, potranno essere usate per scopi economici, assorbiranno anidride carbonica e produrranno ossigeno.
Cara donna, Tanti Auguri!
Cough, cough, cough
Cough, cough, cough.
Se ascoltate bene potete sentire i colpi di tosse secca e quel profondo rantolo sibilante che denota evidenti difficoltà respiratorie. Se guardate bene in controluce potete vedere anche delle grosse gocce di sudore che le imperlano la fronte e che le scendono dalle tempie e un evidente pallore in viso. Non è ancora sdraiata in un letto ma cammina a fatica e si trascina accompagnata da un grosso bastone che ne sostiene quasi completamente il peso.
L’immagine è chiaramente quella di una donna malata che si guarda con pietà e a cui proprio non si riescono ad augurare ancora lunghi anni di vita. La malata in questione potrebbe essere la vecchia zia nubile dal carattere un po’ acido che quando eravamo bambini tanto ci inquietava oppure l’anziana nonna amorevole che tanto ci ha amato ma che ora ha raggiunto il capolinea di una vita serena e piena di affetti.
In realtà la malata è la grande Madre Terra che oramai sta esalando, metaforicamente, gli ultimi respiri della sua lunghissima vita e che, se non curata in anticipo, potrebbe proprio non farcela a superare la notte.
A onor del vero non è la Madre Terra ad essere in difficoltà ma tutti i suoi numerosi abitanti che potrebbero non trovare in essa, in un prossimo futuro, le condizioni climatiche e ambientali in grado di consentire una vita agevole e prospera.
Al di là delle possibili cure che è materia complessa e specifica di esperti in molteplici discipline e di una politica illuminata che sia in grado di prendere le giuste decisioni, quello che preoccupa è che l’uomo, sia singolarmente sia nelle sue diverse manifestazioni sociali, ad eccezione di qualche sparuto gruppo di persone, non si sta ancora rendendo conto di ballare una musica tecno ad alto volume nella camera da letto della madre morente.
Non è più possibile, giunti a questo punto del viaggio della civiltà industriale, dire: “ci penserò domani”!
Il domani è già arrivato, è forse già stato superato e la questione si sta facendo seria. Molto seria!
Bisogna pensare che i cambiamenti di comportamento devono cominciare ad essere individuali e le scelte verso la sostenibilità devono entrare in una sorta di spirale contagiosa che non prevede bari.
Sulla barca che affonda ci siamo tutti, indipendentemente da tutto.
Foto: Doodlepalooza
Due cose certe
Due cose sono certe: che l’Homo sapiens si estinguerà e che la natura, magari con caratteristiche mutate rispetto alle attuali, gli sopravviverà ancora a lungo.
Sul fatto che l’uomo si estinguerà, analizzando i dati paleontologici, non ci sono dubbi: i mammiferi sono una specie che, dopo la scomparsa dei grandi rettili avvenuta circa 65 milioni di anni fa, ha trovato enormi nicchie ecologiche a disposizione ma ha caratteristiche fisiche troppo vulnerabili, ad esempio rispetto agli insetti, con limitate capacità di adattamento a situazioni estreme, soprattutto se in repentino cambiamento. Lo scopo è pertanto quello di evitare che tale estinzione si verifichi entro breve ma, soprattutto, che si verifichi troppo velocemente tanto da non poterci permettere di adottare iniziative di adattamento. Ecco perché ci si preoccupa dei cambiamenti climatici, della scarsità delle risorse non rinnovabili, della scarsità dell’acqua dolce e chi più ne ha più ne metta…
Sul fatto poi che la natura sopravviverà all’uomo – almeno per qualche milione di anni ancora – ciò è dimostrato dalle 5 grandi estinzioni di massa della storia della vita del Pianeta. Qualche specie – le più resistenti – sopravvive a un grande evento perturbatore che determina estinzioni di massa e da lì, attraverso mutazioni delle caratteristiche fisiche, riparte la vita che inizia a colonizzare le aree lasciate libere dalle specie estinte.
Se vi è certezza – almeno alle conoscenze attuali – sui due punti precedenti, incerti sono invece gli strumenti che l’uomo dovrà (o potrà) mettere in campo per evitare che venga a mancare troppo presto uno degli scopi principali della biologia (e della vita): la sopravvivenza della specie! O, per lo meno, vista in termini più sociali, la difesa e la maggiore diffusione dei livelli di benessere e civiltà che una parte degli esseri umani ha raggiunto.
Una parte dell’opinione scientifica e intellettuale ritiene che tale difesa possa avvenire solo ed esclusivamente attraverso una sempre più forte ingegnerizzazione della natura. Ecco allora proposte come gli OGM, le nanotecnologie, la geoingegneria e l’uso di tecnologia sempre più spinta: una sorta di ubriacatura tecnologica senza fine che alimenta sé stessa e che può essere realizzata solo attraverso l’immissione nel “sistema” di enormi quantitativi di energia.
Un’altra parte del pensiero, invece, è fermamente convinta che l’obiettivo della sopravvivenza possa passare solo ed esclusivamente attraverso l’imitazione della natura e delle regole del gioco che essa ha determinato per la vita sul pianeta Terra. Ecco che quindi risulta necessario studiarne a fondo i meccanismi e applicarli a tutte le attività umane allo scopo di renderle il meno impattanti possibile sui precari equilibri della Terra.
Personalmente non ho dubbi e credo che solo la bioimitazione potrà darci la speranza di una prospera e duratura sopravvivenza. Al contrario la tecnologia, come affermò il filosofo Paolo Rossi, talvolta per difetto di conoscenza e altre volte per presunzione di assoluta veridicità, “Quando risolve un problema ne apre altri dieci, ancora più complessi”.
Foto: Wikipedia
Awà
Chi saranno mai questi Awà?
Secondo Survival International, l’organizzazione che si occupa della difesa degli ultimi popoli indigeni, si tratta probabilmente di una delle tribù più minacciate del mondo. Essi sono dei cacciatori-raccoglitori nomadi che vivono nell’Amazzonia orientale del Brasile i cui territori sono fortemente minacciati da taglialegna, da allevatori di bestiame e da minatori che entrano nelle loro foreste, tagliano i grandi alberi, bruciano il loro sottobosco, inquinano il loro terreno e i loro corsi d’acqua.
Gli Awá conoscono e “sentono” le loro foreste intimamente. Ogni valle, corso d’acqua e sentiero è inciso nella loro mappa mentale. Sanno dove trovare il miele migliore, quali, dei grandi alberi della foresta, stanno per dare frutti e quando la selvaggina è pronta per essere cacciata senza comprometterne, nel tempo, la sopravvivenza.
Perdere gli Awà significa perdere gli ultimi retaggi di conoscenza profonda della natura. Una conoscenza che esula dalla tecnica e dall’approccio scientifico della biologia e delle scienze naturali ma che poggia, invece, le sue basi, sul saper “sentire” intimamente e sul saper “leggere” i segnali che essa continuamente fornisce.
Perdere gli Awà – soprattutto quegli individui che mai si sono contaminati con la civiltà – rappresenta un grave problema non tanto per gli stessi indigeni quanto per tutta l’umanità che, in tal modo, perde un importante pezzo della sua profonda conoscenza della natura che, prima o poi, potrebbe venir utile per risolvere questioni di più ampia portata.
Sulla base di questi dati sostenere Survival International (attraverso il sostegno alla divisione italiana) diventa doveroso ma è doveroso anche che si lavori, a qualsiasi livello, per diffondere la cultura della protezione delle tribù indigene, a volte serbatoi unici di enormi e partticolari conoscenze.
Fonte: National Geographic
In viaggio fino alla fine del mondo
Scrive Massimo Gramellini su “La Stampa” del 16 dicembre 2012, commentando l’ipotetica profezia dei Maya sulla fine del mondo.
“Mi piace pensare che i Maya non avessero del tutto torto. Che il 12.12.2012 non finirà il mondo, ma un altro comincerà a prendere forma. Anch’io avrò la possibilità di farne parte, se smetterò di fidarmi ciecamente dei sensi, che intercettano solo una piccola fetta della realtà, e imparerò a rinvigorire il muscolo rattrappito dell’intuizione […]. Per chi non ha, o non ha più, un lavoro o un affetto, la fine del mondo è già arrivata e questi sembreranno discorsi astratti, brodini caldi per anime intirizzite. Ma non è così. La crisi psicologica e poi – solo poi – economica in cui versiamo è anzitutto una crisi del modello materialista che ha dominato il Novecento. Se non torniamo a chiederci chi siamo, e non solo cosa abbiamo, finiremo per non avere più nulla. Qualunque profezia non va presa alla lettera: è l’indicatore di un cambiamento spirituale […].”
Parole sacrosante quelle di Gramellini.
Però ora che la fine del mondo (quella tragica) l’abbiamo scampata ma siamo ancora sulla buona strada per subire quella lenta, inesorabile, che subiremo se non modifichiamo la rotta della nostra esistenza sulla Terra, dobbiamo riboccarci le maniche per passare dalle parole ai fatti e cambiare il sistema della produzione e dei consumi.
Al più presto, perché oramai il tempo stringe!!!