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Personaggi | Pepe Mujica è Bioimita

José Alberto Mujica Cordano (Pepe), l’ex Presidente dell’Uruguay, sintetizza con una saggezza e una preparazione incredibili quello che cerco di dire io attraverso Bioimita. Io ci provo e spero di non perdermi. Lui, invece, è semplicemente un grande: lucido, preciso, saggio!

Senza troppi commenti inutili riporto allora integralmente una parte dell’intervista che gli ha fatto qualche giorno fa il quotidiano la Repubblica.

D: Si oppone alla globalizzazione?

R: “No, non è possibile. Sarebbe come essere contrari al fatto che agli uomini cresce la barba. Ma quella che abbiamo conosciuto finora è soltanto la globalizzazione dei mercati. Che ha come conseguenza la concentrazione di ricchezze sempre maggiori in pochissime mani. E questo è molto pericoloso. Genera una crisi di rappresentatività nelle nostre democrazie perché aumenta il numero degli esclusi. Se vivessimo in maniera saggia, i sette miliardi di persone nel mondo potrebbero avere tutto ciò di cui hanno bisogno. Il problema è che continuiamo a pensare come individui, o al massimo come Stati, e non come specie umana“.

D: Lei è ateo ma condivide molte idee con Papa Francesco, soprattutto la critica della società consumistica e del capitalismo selvaggio.

R: “La mia idea di felicità è soprattutto anticonsumistica. Hanno voluto convincerci che le cose non durano e ci spingono a cambiare ogni cosa il prima possibile. Sembra che siamo nati solo per consumare e, se non possiamo più farlo, soffriamo la povertà. Ma nella vita è più importante il tempo che possiamo dedicare a ciò che ci piace, ai nostri affetti e alla nostra libertà. E non quello in cui siamo costretti a guadagnare sempre di più per consumare sempre di più. Non faccio nessuna apologia della povertà, ma soltanto della sobrietà“.

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Video: Discorso del Presidente dell’Uruguay José Alberto Mujica Cordano, alla conferenza delle Nazioni Unite sullo sviluppo sostenibile, tenutasi a Rio il 20 Giugno 2012.

 

Wake Up Call

Ho già scritto qualche tempo fa di Steve Cutts, genio inglese della computer animation che, con il video “Man”, aveva fatto luce in maniera molto dura ed efficace sulla potenza distruttiva dell’uomo.

Con il video”Wake Up Call”, che di Man in qualche modo è l’ideale prosecuzione, Steve Cutts desidera lanciare un monito sulle conseguenze negative che il consumismo sfrenato – soprattutto quello legato alla tecnologia a rapida obsolescenza – può avere sull’ambiente. Nei pochi minuti del video (dalle solite caratteristiche stilistiche molto essenziali) l’autore riesce, in una sintesi molto precisa, a parlare di sfruttamento eccessivo delle risorse minerarie, di sfruttamento dei lavoratori impegnati nel settore tecnologico, di rifiuti, di obsolescenza programmata, di consumismo e di salvaguardia dell’ambiente. E, in qualche modo, di stupidità dell’uomo.

Semplicemente geniale.

 

Le cave e la legge dell’entropia

Qualche settimana fa, con un cliente, mi è capitato di percorrere la strada che da Marengo (frazione di Marmirolo, in provincia di Mantova) porta a Valeggio sul Mincio, in provincia di Verona. Questa strada secondaria a ridosso del confine delle due province è letteralmente disseminata, parte per parte, da immense cave. Ferite enormi aperte nel territorio che grondano centinaia di migliaia di metri cubi di ghiaia e sabbia l’anno trasportate da migliaia di camion che riempiono le strade e ammorbano la popolazione con traffico, inquinamento, polveri e rumore. Una parte di esse era ancora attiva (o “coltivata” come si dice in gergo) al nostro passaggio; un’altra risultava dismessa e le tracce ora rimaste sono enormi buche ricoperte di vegetazione spontanea e qualche laghetto artificiale di acqua affiorante.

Il mio cliente – un imprenditore nel settore tecnologico – mi ha portato di proposito su quella strada per mostrarmi e per commentare la negatività di tali opere umane e di un certo tipo di imprenditoria, predatoria e fortemente impattante nei confronti del territorio.

Ho pensato a lungo a quello che ho visto e a quello che ci siamo detti in auto e, dopo qualche giorno, mentre stavo percorrendo un’altra strada disseminata di grandi cave tra Lugagnano di Sona e Caselle di Sommacampagna, non lontano da dove abito in provincia di Verona, ho fatto il collegamento con la legge dell’entropia.

Innanzitutto, per spiegare questo collegamento, è necessario capire a cosa serve coltivare una cava di ghiaia e sabbia. L’estrazione di tali materiali naturali non rinnovabili, di solito prodotti in tempi geologici dalle maree, dall’erosione di un ghiacciaio o da fenomeni alluvionali (le zone a cui ho fatto riferimento sono state caratterizzate da entrambi questi ultimi i fenomeni) serve principalmente ad alimentare l’industria edile e delle costruzioni stradali, sia per il sottofondo sia per la produzione dell’asfalto e del calcestruzzo (o del “cemento”, per usare il termine un po’ forte impiegato dai movimenti che difendono il territorio). Da ciò si comprende in modo evidente che l’estrazione mediante cave a cielo aperto di ghiaia e sabbia è collegata in maniera indissolubile all’edilizia ma, soprattutto, alla realizzazione di grandi opere (strade, ferrovie, ponti, gallerie, ecc.), ove vi è un elevato contenuto di calcestruzzo e di movimento terra. Non ci si può quindi lamentare se ci sono troppe cave (che spesso poi vengono riempite di rifiuti) se poi si è favorevoli alla politica delle grandi opere e si pensa che l’edilizia (per lo meno quella sin qua svolta basata su enormi quantità di cemento, calcestruzzo e alre materie non rinnovabili) sia alla base del sistema economico.

Detto questo, l’entropia (1) – quella grandezza fisica che parla del disordine irreversibile dei sistemi che usano molte energia e trasformano molta materia – entra in gioco in quanto per trasformare o per movimentare quell’enorme massa di materiale non rinnovabile – la ghiaia e la sabbia – si altera così profondamente l’ambiente da non aver più possibilità di tornare indietro. In sostanza, secondo la legge dell’entropia, cavare materiale dal terreno e trasformarlo è un processo unidirezionale che non consentirà più, in un futuro, nemmeno con le migliori tecnologie e con un enorme dispendio di energia, di recuperare e ripristinare gli elementi originari.

Cavare e utilizzare i materiali estratti è dunque un qualcosa di profondamente sbagliato non tanto (e non solo) per ragioni astratte di tutela del territorio, di tutela del paesaggio e della bellezza ma anche, e soprattutto, per ragioni energetiche e di disponibilità di materie per il futuro. Si tratta, in sostanza, di un grave problema concreto che mette in seria discussione la possibilità di avere disponibilità di materie e di energia – oltre che di possibile sopravvivenza della specie umana su un pianeta con l’equilibrio climatico molto alterato – per le future generazioni, cioè per i nostri figli e i figli dei loro figli. Si tratta di una questione così enorme e così potenzialmente pericolosa (anche se in parte generata da banalissime cave) dalla quale nessuna ricchezza potrà salvarci, se non andare su un altro pianeta.

Sarà per questo che i più ricchi della Terra stanno finanziando immani progetti di colonizzazione di Marte?

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(1) l’entropia è quella grandezza fisica legata al secondo principio della termodinamica secondo cui, se si introduce disordine in un sistema passando da uno stato di equilibrio ordinato ad uno disordinato, tale processo di disordine è solamente unidirezionale: tanta più materia ed energia si trasforma in uno stato indisponibile, tanta più sarà sottratta alle generazioni future e tanto più vi sarà disordine che viene riversato nell’ambiente.

Foto 1: Le cave ubicate vicino al paese di Caslle di Sommagampagna (VR) hanno una suerficie pari quasi pari a quella del centro abitato (Fonte: Google Maps).Cave_Caselle di Sommacampagna

Foto 2: Cave ubicate nei pressi del paese di Dossobuono di Villafranca di Verona (VR) e dell’aeroporto della città (Fonte: Google Maps).
Cave_Dossobuono e Aeroporto

Foto 3: Altre cave ubicate tra i comuni di Villafranca di Verona (VR) e di Verona. La loro estensione è grande come quella di un paese (Fonte: Google Maps).
Cave_Madonna di Dossobuono

Foto 4: Cave ubicate nel comune di Roverbela (MN) (Fonte: Google Maps).
Cave_Roverbella

Foto 5: Cave ubicate nel comune di Valeggo sul Mincio (VR) (Fonte: Google Maps).
Cave_Valeggio sul Mincio

Foto 6: La foto ritrae Bosco della Fontana ubicato a Marmirolo (MN). C’è una bella differenza di paesaggio e di apporto ecologico tra un bosco primario e una cava. E se al posto delle cave si realizzassero dei boschi? (Fonte: Google Maps).
Bosco della Fontana_Marmirolo

 

Scava la buca, riempi la buca

Dopo qualche decennio di esperienza personale nel mondo reale – caratterizzato anche dalla presenza di numerosi “furbetti” e da parecchi “leccaculo” – posso dire, con una buona dose di certezza, che gran parte delle grandi opere pubbliche realizzate in questi ultimi decenni siano state più un esercizio di arricchimento dei soliti finanzieri, la manifestazione di potere e di tangenti dei soliti politicanti e inutili sprechi di denaro pubblico piuttosto che interventi volti a migliorare veramente la vita dei cittadini e della collettività. I politici, a tutti i livelli, nei loro dibattiti istituzionali, nei loro discorsi pubblici e nelle loro interviste giornalistiche si sono sforzati di farcele apparire necessarie e portatrici di benessere anche se, in cuor loro, quasi sempre sapevano essere il contrario e sapevano che avrebbero alimentato solo l’arricchimento di pochi e, in caso di successo, la loro fortuna personale nell’ambito del mare magnum della politica.

Dopo la ricostruzione post bellica, la realizzazione delle grandi nervature autostradali degli anni ‘50 e’60 del secolo scorso (iniziate negli anni ’30), i miglioramenti della rete ferroviaria degli anni ’70 (dopo quelli degli anni ’30), si può osservare come gran parte delle grandi opere costruite a partire dagli anni ’90 del secolo scorso siano state inutili colate di cemento e asfalto, probabili depositi illegali di rifiuti tossici e bieche speculazioni urbanistiche.

Tanto per fare qualche esempio, tra i più recenti interventi inutili (1) si potrebbe annoverare il MOSE, la linea ferroviaria ad alta velocità (TAV), l’EXPO e le numerose strade e autostrade attualmente in corso di realizzazione o in programmazione (vedasi decreto “Sblocca Italia” e i numerosi progetti presenti sul tavolo dei ministeri, dalla Nogara-Mare alla Pedemontana Lombarda, dalla Valdastico nord al 3° Passante di Genova).

Il MOSE (Modulo Sperimentale Elettromeccanico) ci è stato venduto come l’unica soluzione ingegneristica e tecnologica praticabile al problema dell’acqua alta di Venezia ma, per ora, è stato solo cemento, ferro, lunghi cantieri ed un enorme colabrodo di soldi pubblici, anche spesi in tangenti. Si pensi, solo per fare un esempio, che oltre all’elevatissimo valore economico di costruzione (circa 6 miliardi di euro, una delle opere più costose della storia italiana), il MOSE ci dovrebbe costare (sempre di soldi nostri) circa 40 milioni di euro ogni 5 anni per interventi di manutenzione alle paratie. A causa della scarsa qualità dell’acciaio utilizzato per le dighe mobili che, immerse gran parte del tempo nell’acqua salata della laguna tendono a corrodersi in maniera molto più elevata rispetto a quella inizialmente pensata, sembra però che tali manutenzioni dovranno essere molto più frequenti (forse addirittura ogni 2 anni).

La TAV, la linea di trasporto merci e passeggeri ad alta velocità – che non riguarda solo quella “famosa” che dalla Francia e dal Piemonte va verso est ma anche quella che da Monaco, attraverso il Brennero, dovrebbe andare a Palermo – è un’opera sostanzialmente inutile perché non viene incontro ad una reale esigenza di saturazione della attuali linee ferroviarie o a necessità sociali (trasporto pendolare) ma, piuttosto, è basata su vecchie previsioni dei trasporti che non hanno, almeno ad ora, un reale riscontro per il futuro. Quello di cui si avrebbe bisogno, oltre a qualche tratta ad alta velocità che colleghi grandi centri urbani lontani tra loro, sono linee decenti di trasporto locale (soprattutto per i pendolari) e linee di media percorrenza a costi popolari. Inoltre tale opera immane è già a livello progettuale un grande buco nero di soldi pubblici, sia nella parte alpina prevista quasi tutta nelle gallerie, sia in quella di pianura caratterizzata da vomitate di cemento, di cavalcavia, terrapieni, ponti, rialzi e chi più ne ha più ne metta tanto da arrivare a costare, in alcune tratte, fino a circa 60 milioni di euro a chilometro.

Cosa dire infine dell’EXPO e delle numerose strade e autostrade progettate o in fase esecutiva. Il primo evento, l’EXPO, doveva essere l’esposizione universale del cibo come energia della vita. Prima del suo svolgimento è difficile anticipare come riuscirà a rappresentare “l’energia della vita” ma quello che ad ora è certo è il fatto che l’evento si è rivelato il solito enorme spreco di territorio agricolo, di tangenti, di mafia e di corruzione. Il vero nodo non sarà tanto l’EXPO in sé ma capire cosa ne sarà degli spazi realizzati dopo la chiusura della manifestazione anche se le premesse non sono edificanti dal momento che le gare per l’assegnazione degli immobili stanno andando deserte per mancanza di interessati.

Per quanto riguarda le strade e le autostrade che si stanno costruendo e che si vorrebbero costruire, per gran parte di esse mancherebbero i numeri economici e di traffico che ne giustificherebbero gli enormi investimenti (vedasi la Brebemi che dopo qualche mese dalla sua apertura è praticamente vuota). Si vogliono fare comunque lo stesso, se non esplicitamente per far piacere ai soliti finanzieri e ai soliti costruttori, anche perché si ritiene che gli investimenti in grandi opere pubbliche creino giro economico e sostengano quel minimo di crescita e di consumi.

Dato tutto ciò e visto e considerato che tutte queste opere costano immensamente in termini di finanze pubbliche (che sono quelle che alimentiamo noi con le nostre tasse) nonché in termini di degrado ambientale e del paesaggio (così importante per l’Italia ad elevata vocazione turistica), mi chiedo se non sia il caso, per alimentare comunque l’economia delle opere pubbliche, di cambiare strategia e di adottare la tecnica del: “Scava la buca, riempi la buca”. In sostanza sarebbe quasi meglio definire delle aree poco abitate e di scarso interesse economico-ambientale e, in esse, mettere in pratica la cantierizzazione di opere decennali di escavazione con conseguente successivo riempimento. Lo scopo è semplice: non creare nulla, sostenere l’economia e lo sviluppo tecnologico ma anche fare meno danni possibile (2).

Alla fine, nella logica delle opere inutili di cui sopra, cosa cambierebbe? Però, magari, salviamo ancora quel poco che c’è di salvabile…

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(1) Inutili perché, nel rapporto tra i costi e i benefici, prevalgono i primi.
(2) Ovviamente la tecnica del “Scava la buca, riempi la buca” è fittizia e provocatoria anche se si propone di cercare di capire veramente a chi e a che cosa servano le grandi opere. Di soldi in tasse ne tiriamo fuori tanti ma di benefici, quelli veri, noi cittadini spesso ne vediamo pochi.

 

11 miliardi

Il dibattito sulla crescita demografica e sui problemi ambientali ad essa collegata, dopo essere stato sollevato alla fine del ‘700 dall’economista e demografo inglese Thomas Robert Malthus e dopo aver alimentato il dibattito filosofico ed economico nei secoli successivi fino ad arrivare ad infiammare le opinioni negli anni ’60 del secolo scorso, intorno agli anni ’90 ha subito una battuta d’arresto e sostanzialmente si è assestato nell’opinione ufficiale che l’incremento demografico non fosse poi un problema così grave e così insormontabile. Veniva a sostegno di questa teoria la fiducia nella tecnologia ritenuta in grado di risolvere qualsiasi cosa, anche la produzione di cibo per tutti; veniva a sostegno di questa teoria la statistica che, dopo aver descritto un picco di popolazione di 9 miliardi di individui nel 2050, ipotizzava per gli anni successivi una lenta diminuzione della stessa verso confini più sostenibili. In questo dibattito non si possono escludere le religioni che, alimentate dal sostegno della vita tout court, da una visione antropocentrica del mondo e dalla fede verso un’entità dispensatrice di bene e di soluzioni, hanno sempre remato a favore della crescita demografica e, almeno ufficialmente, non l’hanno mai letta come un reale problema.

Di recente, però, la questione è tornata alla ribalta perché un gruppo internazionale di ricercatori guidato dal professore di statistica e sociologia Adrian E. Raftery dell’Università di Washington ha rivisto le precedenti stime arrivando alla conclusione che, per varie ragioni, vi è il 70% di possibilità che nel 2100 la popolazione della Terra possa essere di 11 miliardi di individui, ben 2 miliardi in più rispetto agli studi precedenti.

La cifra indicata dal prof. Raftery e dai suoi colleghi potrebbe essere molto allarmante perché pone seri (e antichi) interrogativi sulla fame nel mondo, la disponibilità di acqua potabile, l’accesso alle risorse, le guerre, l’inquinamento, la deforestazione, il benessere e la salute per tutte quelle persone. Inoltre più aumenta la popolazione mondiale umana e più aumentano i loro desideri e bisogni, più diminuiscono gli spazi sulla terra a disposizione di altri esseri viventi (compresi gli alberi e le grandi foreste). Tant’è che la biodiversità, nel tempo, sta sempre più rapidamente diminuendo.

Dallo studio emerge che la crescita più importante interesserà prevalentemente l’Africa sub-sahariana dove il tasso di natalità (1) è il più elevato al mondo e le donne hanno, in media, tra i 5 e i 6 figli ciascuna. Si stima che, in generale, in Africa si passerà dal miliardo attuale di abitanti ad un numero che oscilla tra i 3,5 e i 5. Si pensi che la Nigeria, tanto per fare un esempio, potrebbe passare in soli 80 anni dagli attuali circa 200 milioni di abitanti a 900 milioni nel 2100. Con queste proiezioni come pensare di dare lavoro (possibilmente con diritti) ad una massa così enorme di giovani in una terra dove manca una politica sana e non corrotta e dove sempre più terre sono state acquistate dai paesi esteri per soddisfare i loro attuali bisogni oramai superiori alle capacità produttive del loro territorio? Come pensare di evitare flussi migratori, guerre, instabilità politiche, estremismi religiosi e diplomazie scricchiolanti? Come pensare di salvare gli elefanti, i rinoceronti, i leoni e, in generale, i numerosi animali selvatici tanto utili al turismo dei parchi naturali se non si interviene sin da ora su un fenomeno, quello demografico, di cui negli ultimi decenni non ha parlato nessuno?

Se non si vuole colpevolmente rimandare ai nostri figli l’onere di fronteggiare una situazione che li vedrà sicuramente perdenti è necessario che si ricominci a porre seriamente l’attenzione sul rischio demografico per la Terra e si inizi seriamente a perseguire delle politiche sostenibili di decremento della popolazione e di controllo delle nascite. Superando la retorica religiosa, il buonismo e il menefreghismo legato al fatto che i tempi di riferimento sono lunghi e lontani.

Per iniziare, le armi che già conosciamo perché hanno dato buoni frutti negli anni passati sono sostanzialmente due: l’istruzione e la cultura, in particolare concentrando l’attenzione sulle donne; l’emancipazione, sia sociale che economica, sempre delle donne. Poi dovranno intervenire anche compensazioni più tecniche e politiche che siano in grado di calmierare gli inevitabili squilibri che il decremento demografico porterà con sé.

Solo agendo in tale direzione potranno essere applicabili i principi della bioimitazione, unico vero strumento che garantisce la sostenibilità ambientale delle attività umane. L’alternativa, invece, potrebbe essere solo quella del caos e della disperazione. Sapremo affrontare tale sfida?

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(1) Elenco degli Stati per tasso di natalità  –  Elenco degli Stati per tasso di fecondità

 

Più lavoro, meno prodotti

Mi ha molto colpito la dichiarazione di Horst Neumann, capo del personale del Gruppo Volkswagen, il quale ha recentemente affermato l’intenzione del colosso europeo dell’auto di sostituire gran parte della manodopera che uscirà dal mercato del lavoro per raggiunta anzianità lavorativa con i robot. In particolare la sua analisi nasce dal fatto che nel Gruppo, nei prossimi 15 anni, andranno in pensione circa 32 mila persone e, dal momento che il costo del lavoro nell’Europa occidentale è molto elevato (circa 40 euro l’ora) se paragonato con quello dei paesi dell’est europeo (circa 11 euro l’ora), della Cina (circa 10 euro l’ora) o dei paesi emergenti, questi lavoratori verranno in gran parte rimpiazzati da dei sostituti meccanici che, per effetto delle più moderne tecnologie, non costano più di 5 euro l’ora. Solo così, secondo il manager, si potranno salvare le produzioni europee e garantire sufficienti profitti alle aziende.

Ma in Europa non dovevamo creare nuovi posti di lavoro per i giovani e per i lavoratori anziani che, colpiti dalla crisi, sono rimasti a casa? Questa parola – il lavoro – è sulla bocca di tutti i politici del vecchio continente durante le campagne elettorali anche se mi sembra che le loro azioni, quando iniziano a governare, vadano poi in direzione contraria e seguano più i desideri degli imprenditori di licenziare liberamente, di precarizzare il lavoro, di meccanizzare i processi produttivi a svantaggio dell’occupazione e creando conflittualità sociale. In definitiva si tratta solo di “fuffa” per abbagliare l’elettorato ma poi, in sostanza, negli anni la manodopera si è vista calare e calerà in tutta Europa tanto che i nostri figli si vedranno strappare diritti di civiltà e benessere che non dovrebbero assolutamente essere materia di negoziazione per il futuro.

Se gli industriali e i tecnocrati pensano di risolvere il problema della redditività delle aziende europee scalfendo, giorno dopo giorno e anno dopo anno, i diritti dei lavoratori e la manodopera, è da dire che il problema – e la sua soluzione – potrebbe essere visto anche da altri punti di vista. È il caso dell’economia circolare e della possibilità che quest’ultima possa davvero creare occupazione per i lavoratori, ricchezza per le aziende e stabilità sociale avendo come base la sostenibilità ambientale e la garanzia del mantenimento delle risorse per le generazioni future.

Com’è possibile ottenere tutti questi importanti risultati? Un interessante strumento potrebbe essere quello della tassazione e della sua modulazione in modo tale da favorire il lavoro piuttosto che l’uso e lo scambio delle materie, dal momento che queste ultime saranno sempre più scarse e le persone, invece, saranno sempre più numerose. Attualmente i nostri sistemi economico-sociali prevedono una bassa tassazione delle risorse e un’alta tassazione del lavoro che comportano, per l’ottenimento di prodotti competitivi sul mercato, un elevato uso delle materie e un sempre più basso impiego di manodopera. Se, invece, si optasse per il contrario – un’elevata tassazione delle risorse e una bassa tassazione del lavoro – si otterrebbe il risultato di limitare l’uso delle materie e dei servizi e si orienterebbe il sistema economico verso un maggiore utilizzo della forza lavoro.

Sarebbero così più vantaggiose tutte quelle attività ad elevata incidenza di manodopera, come il riuso e la riparazione dei prodotti. Le aziende si ritroverebbero costrette a riprogettare i loro beni nell’ottica del riuso e della riparabilità; l’efficienza sarebbe potenziata, l’obsolescenza programmata sarebbe un lontano ricordo e si svilupperebbero servizi di locazione dei prodotti e dei servizi piuttosto che la loro continua vendita (e la creazione di rifiuti) attraverso il commercio e il marketing.

In sostanza si passerebbe da un’economia linearmente infinita fatta di materie, prodotti, rifiuti e non sostenibile ad un’economia circolare dove il lavoro viene messo in primo piano, sparisce il concetto di rifiuto e viene favorito il riuso dei prodotti e la riciclabilità delle materie.

Economia lineare

Economia circolare

Economia circolare con lavoro

È vero, le tasse sono disgustose ma anche necessarie per sostenere il funzionamento della società. Visto che non ne possiamo fare a meno cerchiamo almeno di ripensarle e di orientarle in modo tale che siano una barriera verso l’indiscriminato e folle utilizzo di materie sempre più scarse e un volano verso l’utilizzo della manodopera, unico e solo vero scopo di una società democratica e sana (1).

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(1) La Costituzione italiana in vari articoli (art. 1, art. 35) tutela il lavoro come strumento di base per una sana società ma in essa non si fa riferimento alle materie, al commercio e ai rifiuti…
Per approfondire: www.ex-tax.com

 

L’insostenibilità delle stampanti 3D

Si sente parlare, sempre più spesso, delle stampanti 3D e della “quarta rivoluzione industriale” che esse potranno avviare. Ne parla ovviamente in tono entusiastico l’industria tecnologica attraverso i suoi numerosi canali informativi. Ne parla il giornalismo economico che spera in un nuovo effetto di spinta all’economia, tipo quello che è successo con i computer, con i telefoni cellulari e con gli smartphone. Ne parla anche la politica, soprattutto quando si tratta di affrontare temi legati alla creazione di posti di lavoro e di comunicare, ad un certo elettorato, anche i possibili effetti positivi nei confronti dell’ambiente.

Siamo sicuri, però, che le stampanti 3D siano la panacea di tutti i mali che affliggono la società dei consumi e siano la vera soluzione a tutti i problemi di insostenibilità industriale? Siamo sicuri che saranno veramente in grado di rendere disponibili a tutti le tecnologie, soprattutto quelle costose che interessano il campo medico e ingegneristico? Siamo sicuri che saranno in grado di creare occupazione ma, soprattutto, di limitare la produzione di rifiuti e di costruire quella tanto agognata economia dal basso a cui fa riferimento anche il movimento ambientalista? Io, personalmente, e in particolare relativamente agli obiettivi di sostenibilità ambientale, manifesto numerosi dubbi (1).

Innanzitutto le stampanti 3D – per lo meno la tecnologia attualmente disponibile – riescono ad ottenere i vari prodotti attraverso l’uso di materiali di natura petrolifera (come le plastiche) e di resine sintetiche varie che nulla hanno a che fare con la sostenibilità ambientale. Questi materiali, a fine vita dei prodotti, produrranno rifiuti difficilmente riutilizzabili e riciclabili che dovranno essere correttamente gestiti e smaltiti. E, anche quando le stampanti 3D producono beni in metallo, utilizzano una risorsa non rinnovabile ed esauribile, con tutte le conseguenze ecologiche che questo comporta.

A mio avviso il vero problema dell’economia dei consumi – che utopisticamente si spera di risolvere attraverso un demiurgo tecnico, una nuova soluzione creatrice qual è la stampante 3D – è rappresentato, invece, più banalmente, dalla responsabilità personale e dai comportamenti individuali. La vera soluzione non sta nel far produrre in modo diverso prodotti che incorporano dei vecchi problemi ma produrre, anche con le vecchie tecnologie, prodotti che incarnino un approccio completamente nuovo alla progettazione e all’uso dei materiali. La vera soluzione è ripensare anche alla vera utilità individuale e sociale dei beni ed educare i cittadini sia ad un’idea di sobrietà nei loro consumi – molto spesso inutili – sia a fare uso di prodotti che siano già stati usati e, magari, anche già più volte riparati. In questo modo si potrebbe creare una nuova economia, sì certo, apparentemente più semplice, ma che, nello stesso tempo, è più condivisa e che armonizza la società diffondendone i saperi.

Non si tratta affatto di pensare che il passato fosse tutto positivo e che la modernità sia per forza un male. Non si tratta nemmeno di anelare ad una condizione umana fatta di precarietà e di sole limitazioni. Si tratta solo di riprogettare il futuro traendo spunto anche dal passato e da quello che di buono è stato prodotto. Dai miei numerosi viaggi ho visto che l’economia dei popoli “poveri” (2) – al netto dei problemi che devono essere senza dubbio risolti – può rappresentare anche un interessante spunto da prendere in mano e da rivisitare in una nuova e interessante chiave applicativa.

Sulla base di ciò delle stampanti 3D che producono oggetti inutili (fino ad arrivare a produrre anche sé stesse) e che, date le attuali premesse, ripeteranno i problemi del passato, possiamo sinceramente volentieri farne a meno!

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(1) I dubbi li manifesto non perché sono contro le stampanti 3D a prescindere ma pechè desidererei che venissero impiegate veramente nella direzione che molti hanno sperato: quella della sostenibilità ambientale e dell’armonia sociale.

(2) La “povertà” a cui faccio riferimento non è un valore assoluto ma è un concetto esclusivamente monetario. Purtroppo mi serve per descrivere, ai nostri occhi “occidentali”, un determinato contesto economico e sociale anche se sono convinto che quelli che genericamente indichiamo come popoli “poveri” non lo siano veramente ma, anzi, che, forse forse, i veri “poveri” (di empatia, di solidarietà, di senso di comunità, di sentimenti, di semplicità) siamo noi.

 

Blue Economy

In natura non esistono rifiuti. E nemmeno disoccupati. Tutti svolgono un compito e gli scarti degli uni diventano materia prima per gli altri”.

Consiglio a tutti la lettura dell’interessante libro “Blue Economy – 10 anni, 100 innovazioni, 100 milioni di posti di lavoro” di Gunter Pauli (1). Si tratta di un testo fondamentale dell’ambientalismo scientifico e della bioimitazione che si fonda sul fatto che l’economia, per essere prospera e per consentire il vero progresso dell’umanità, deve iniziare copiare la natura e la sua capacità di utilizzare continuamente le risorse, senza produrre né rifiuti né sprechi.

La natura segue un ciclo circolare nel quale gli scarti di un processo diventano indefinitamente materie prime o “nutrimenti” di un altro processo, senza sprechi se non quelli energetici. I sistemi economici e produttivi attuali, invece, seguono un andamento lineare dove gli scarti di un processo non possono essere più utilizzati e vanno ad “intasare” – con inquinamento e disequilibri – il sistema Terra. La soluzione sta tutta nella corretta riprogettazione dell’economia e nella corretta produzione dei beni futuri, in modo tale che non siano concepiti per diventare in fretta rifiuti ma siano visti come “servizi” che devono assolvere ad un compito e, una volta terminato, possano essere reimmessi nel sistema creando nuova ricchezza senza provocare danni.

Secondo l’autore non bisogna credere all’illusione di rincorrere la “Green Economy” perché essa si basa sugli stessi errori dell’economia tradizionale: crescita e intervento spinto per modificare la natura. Per questo la green economy sarà tanto disastrosa quanto quella che l’ha preceduta. L’obiettivo, invece, è quello di perseguire la “Blue Economy(2), un’evoluzione della green economy che non richiede alle aziende di investire di più nella tutela dell’ambiente ma che si propone di creare posti di lavoro e benessere attraverso lo sfruttamento dei principi di base di funzionamento della natura: in particolare attraverso il corretto uso delle materie e dell’energia.

Il libro, oltre a soffermarsi sugli aspetti teorici della questione, racconta anche interessanti storie di imprenditori illuminati che, in giro per il mondo (e anche in Italia) hanno iniziato da tempo il percorso di imitazione della natura e, udite udite, hanno avuto anche successo imprenditoriale.

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(1) Gunter Pauli è un economista, imprenditore e scrittore belga inventore della blue economy e fondatore di ZERI (Zero Emission Research Initiative), una rete internazionale di scienziati, studiosi ed conomisti he si occupano di trovare soluzioni innovative alle principali sfide cui le economie e la società sono poste di fronte, progettando nuovi modi di produzione e di consumo. Gunter Pauli è autore di numerosi libri, tradotti in più di 30 lingue.
(2) La “Blue Economy” si basa sui seguenti principi

 

Le “Giornate della Terra”

Ieri, 22 aprile, si è svolta la “Giornata della Terra”, un’iniziativa molto interessante nata negli anni ’70 per sensibilizzare l’opinione pubblica sulle tematiche ambientali e sulla necessità di conservazione delle risorse naturali. Ora, giunti alla 44^ edizione, ci sono però ancora numerosissime e importantissime cose da fare.

Se è troppo facile celebrare la “Giornata della Terra”, un po’ meno è mettere in pratica azioni concrete per fare in modo di essere, individualmente o collettivamente, il cambiamento necessario. Per evitare che tale manifestazione rimanga solo una valida iniziativa teorica da oggi, e poi per 364 giorni fino al prossimo 22 aprile, ognuno di noi dovrà impegnarsi seriamente ad agire in prima persona – talvolta rinunciando a qualcosa per guadagnare qualcos’altro – per dimostrare concretamente il proprio impegno a favore della Madre Terra.

In particolare dovremo, per citarne alcune:

limitare l’uso e il consumo del territorio          non sprecare energia          impegnarsi ad usare energia proveniente solo da fonti rinnovabili          limitare il consumo sia dei prodotti finiti che delle materie          limitare e possibilmente evitare il consumo di carne          limitare il consumo dei pesticidi          eliminare il consumo di erbicidi          consumare prodotti e favorire le economie locali          limitare la deforestazione          essere informati sui prodotti che acquistiamo          esercitare il controllo sull’azione politica e amministrativa          scegliere solo finanza etica e, se possibile, limitare comunque la finanza speculativa          limitare l’utilizzo delle auto private e usare maggiormente i trasporti collettivi          preferire la bicicletta per la mobilità urbana          limitare i voli aerei          salvaguardare gli animali selvatici          salvaguardare gli ambienti selvaggi          salvaguardare il paesaggio          difendere le popolazioni indigene          limitare la produzione di rifiuti          separare e riciclare sempre meglio i rifiuti prodotti          non inquinare il suolo, l’aria e i mari          effettuare scelte di consumo orientate verso i prodotti ecologici          riutilizzare e recuperare i vecchi prodotti…

… e se avete altre idee che non ho indicato, sono le benvenute!

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Per approfondire: Earth Day Italia; Earth Day Network

 

Dimmi che font usi e ti dirò chi sei

È proprio vero che l’informazione di massa – quella a cui possiamo accedere, in primis, mediante televisioni e giornali – ci racconta un po’ quello che vuole, tanto da far sembrare delle vecchie idee come delle assolute novità. (1)

È il caso dello studente quattordicenne Suvir Mirchandani di Pittsburgh, Pennsylvania, che, intervistato dalla Cnn, fa addirittura un appello indiretto al presidente Barak Obama affinché sia il garante di un considerevole risparmio di inchiostro – e di denaro – nella stampa dei documenti pubblici. Suvir, nel passaggio dalle scuole elementari a quelle medie si accorge quanto aumenti il numero delle fotocopie distribuite dalla scuola agli studenti. Facendo un po’ di conti, il ragazzo osserva che, oltre alla carta e all’usura delle macchine, a pesare sul costo delle fotocopie è anche l’inchiostro utilizzato che, in termini di prezzo, non è affatto economico. Nel partecipare, poi, ad un progetto della scuola finalizzato a ridurre gli sprechi e a risparmiare soldi, Suvir pensa a come poter tentare di ridurre le notevoli spese per l’inchiostro, visto che il risparmio energetico è spesso garantito dalla macchina mediante sistemi di spegnimento automatici e quello della carta è garantito dalla stampa fronte-retro. Suvir ragiona su una cosa che può sembrare ovvia e, come prima cosa, inizia a raccogliere le varie dispense che gli vengono distribuite e ad analizzare dal punto di vista tecnico e grafico le lettere utilizzate. Con l’aiuto di un software commerciale (APFill Ink) si spinge poi a valutare quanto inchiostro consumano i diversi font principalmente impiegati (Century Gothic, Comic Sans, Garamond, Times New Roman) e quali siano le differenze tra gli stessi. Dal calcolo emerge che il font più efficiente è il Garamond – caratterizzato da tratti grafici più sottili – che arriva a far risparmiare anche fino al 24% di inchiostro rispetto a quelli meno efficienti. La sua ricerca si spinge anche più in là e, oltre a quantificare il risparmio di inchiostro per la sua scuola (circa 21.000 $ l’anno), osserva che se l’enorme quantità di documenti federali fossero stampati con font Garamond al posto del più comune Times New Roman, il governo USA risparmierebbe ben 136 milioni di dollari l’anno in inchiostro e, se lo facesse anche ogni stato americano, la cifra arriverebbe a 370 milioni, con un risparmio globale maggiore di 400 milioni.

Dall’articolo sembrerebbe che il “genietto” Suvir abbia scoperto l’acqua calda e debbano essere a lui attribuite particolari doti di analisi della realtà che nemmeno i migliori geni matematici del MIT o di Harvard hanno mai osato valutare.

Ricordo, però, che questo problema, come anche le soluzioni, non sono nuove. Qualche anno fa (ne ho parlato anch’io su questo blog) Colin Willems, con il contributo di SPRANQ Creative Comunications di Utrecht, in Olanda, ha fatto gli stessi calcoli e si è spinto addirittura oltre producendo lui stesso un font (Ecofont), da impiegare nelle stampe per risparmiare il 20% di inchiostro rispetto ai font tradizionali. Ecofont, a differenza del font Garamond a cui fa riferimento Suvir, ha qualcosa in più: è svuotato graficamente da fori trasparenti (in sostanza è bucherellato) che non ne pregiudicano la leggibilità nei formati di stampa più comuni.

Cari utenti, cari impiegati, caro presidente Obama e cari presidenti e primi ministri del Mondo, sappiate che le buone idee per garantire maggior efficienza e sostenibilità ci sono già e spesso sono gratuite tanto da non richiedere per forza enormi investimenti per renderle operative. Nel caso della stampa dei documenti è sufficiente che iniziate ad utilizzare, già da ora, i font Garamond o, meglio, dopo averlo acquistato, il font Ecofont. Metteteli predefiniti nei vostri computer: l’ambiente e il vostro (e nostro) portafogli ringrazieranno!

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(1) La cosa non è grave, ma noi “ambientalisti” ne parliamo da anni. Voi, dove eravate?

Fonte: Corriere della Sera

 

Che fine sta facendo lo zinco?

La miniera irlandese Lisheen (che produce 170 mila ton/anno di zinco) fermerà l’attività estrattiva nel 2014. La miniera Century, in Australia, (che estrae 500 mila ton/anno), chiuderà nel 2016. Alcune miniere in Canada (Brunswick e Perseverance) sono state già chiuse e altre, in Sudafrica (Skorpion) e in Polonia (Pomorzany-Olkusz), chiuderanno entro i prossimi tre anni. Al posto di queste mega-miniere che si sono esaurite e che producevano 1,7 milioni di ton. di zinco annue che costituivano l’11% dei consumi mondiali, stanno per entrare in produzione giacimenti più piccoli, con il risultato di un forte calo dell’offerta di tale metallo.

Tale disequilibrio tra la domanda e l’offerta del minerale provocherà un suo inevitabile aumento di prezzo che, secondo alcuni analisti, arriverà addirittura a raddoppiare entro qualche anno. Infatti attualmente una tonnellata di zinco costa 1.865 dollari, ma si stima che il suo valore sarà di circa 3.500 $/ton. nel biennio 2016-2018 (1). Per tale ragione tra le multinazionali minerarie, le fonderie e, in particolare, la Cina (2) che deve sostenere la propria industria e la costruzione delle proprie infrastrutture, si sta consumando una corsa e una lotta senza quartiere per accaparrarsi le ultime riserve di questo metallo strategico, il cui esaurimento, da parte dell’USGS (United States Geological Survey), è previsto intorno all’anno 2024.

La corsa alle ultime tonnellate facilmente estraibili di zinco sta già spingendo colossi nel campo minerario come l’anglo-svizzera Glencore Xstrata, la belga Nyrstar e la cinese Ming ad investire nell’apertura di nuove miniere. Inoltre, da un lato gli australiani stanno facendo nuove prospezioni geologiche in Groenlandia, mente, dall’altro lato, giacimenti chiusi da anni stanno per essere riportati in funzione come diretta conseguenza dell’aumento dei prezzi, che consente di rientrare economicamente dagli elevati costi di estrazione.

La causa dell’importanza dello zinco per il sistema economico che giustifica l’enorme sforzo da parte delle compagnie minerarie e delle nazioni per ottenere concessioni allo sfruttamento del sottosuolo e all’apertura di nuove miniere, risiede nel fatto che esso, tramite un processo di zincatura che lo fa aderire alla superficie dei manufatti di acciaio, serve a rendere quest’ultimo meno attaccabile dalla ruggine, cioè dall’ossidazione.

Quanto descritto più sopra, allora, mi fa sorgere una semplice domanda: cosa faremo quando lo zinco non sarà più facilmente disponibile? Come proteggeremo a basso costo i nostri manufatti in acciaio e le nostre infrastrutture dal degrado dovuto all’ossidazione? Purtroppo anche la risposta è abbastanza semplice e dimostra la follia insita nel nostro sistema usa e getta che vuole tutto subito e che manca di un briciolo di lungimiranza per garantire le stesse nostre attuali condizioni di vita per le generazioni del futuro.

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(1) Gli analisti stimano il raddoppio del prezzo dello zinco nonostante il fatto che, quest’anno, il prezzo dello stesso al London Metal Excange (la più importante piazza finanziaria al mondo per i metalli non ferrosi) sia calato del 15% a causa di un surplus di produzione valutato in 110-120 mila tonnellate e il fatto che l’ILZSG (Gruppo internazionale di studio su piombo e zinco) non mostri alcun segnale di preoccupazione.

(2) La Cina, che è il principale costruttore di auto al mondo, utilizza una processo di zincatura dell’acciaio che ha un contenuto di metallo di tre quarti inferiore rispetto agli standard occidentali. La bassa qualità dello zinco impiegato – più facilmente intaccabile dalla ruggine – è anche una delle cause che impedisce alle auto cinesi di essere vendute all’estero. Il problema dello scarso contenuto di metallo nella fase di zincatura dell’acciaio cinese è così sentito da Pechino che la televisione di Stato Cctv ha di recente dedicato un servizio alla ruggine che attacca le auto prodotte in Cina e, inoltre, corrode i ponti.

 

Il passaporto dei prodotti

Sussulto quando le mie orecchie sentono figure politiche del calibro di Janez Potočnik (Commissario europeo all’Ambiente) affermare che in Europa, per mantenere competitiva l’industria, è necessario cambiare il modo in cui si produce e si consuma. Il motivo del sussulto è che, dopo anni – forse già decenni – che “noi” ambientalisti lo diciamo, se ne sono finalmente accorti anche “loro”. Loro che, invece, fino ad ora, ci hanno sempre detto che tutto andava bene e che dovevamo essere solo più ottimisti.

La realtà dei fatti è che nel mondo – vuoi per l’emergere di nuove economie che ci fanno competizione, vuoi per la scarsità delle risorse che si profila, all’orizzonte, sempre più profonda – vi è sempre meno disponibilità di materie e, se si desiderano acquistare, i loro prezzi sono elevati.

L’idea che ha lanciato il Commissario Potočnik, spinto da alcuni paesi europei (tra cui l’Italia) e da alcune ONG, è quella di istituire una sorta di “Passaporto dei prodotti”, allo scopo di massimizzare l’uso delle risorse europee, il riciclo e il riuso dei materiali.

In sostanza l’idea del Commissario è quella di creare un’economia circolare delle risorse interne all’Ue, possibile solamente se, a monte, si conosce come è composto un prodotto e quali sono le modalità per disassemblarlo e riutilizzarne correttamente i materiali. Inoltre i prodotti devono anche essere (ri)progettati e fabbricati con l’idea di riutilizzarne poi i materiali che li compongono.

Secondo le stime della Ue da questa manovra si potrebbe ridurre realisticamente la richiesta di materiali fra il 17% e il 24%, aumentando il Pil e creando fra 1,4 e 2,8 milioni di posti di lavoro.

All’interno del progetto proposto potrebbero essere previste anche norme riguardanti l’uso di agenti chimici e prodotti pericolosi in agricoltura nonché azioni verso l’eliminazione progressiva dei sussidi nocivi per l’ambiente e la salute pubblica come quelli ai carburanti fossili, nel settore energetico nonché sull’uso dell’acqua in agricoltura e nell’industria.

Se dalle parole si passerà ai fatti si vedranno realizzare concretamente i principi della bioimitazione.

Chapeau!

 

Mobili in Cartone

Dacci un cartone e noi facciamo un mobile” recita il sito www.mobilicartone.it.

I mobili proposti sono pensati per allestire fiere, creare eventi, arredare show-room temporanei ma nulla esclude che possano essere usati anche in ambito lavorativo o domestico. L’idea è quella di evitare grandi sprechi di materiale impiegando un materiale – il cartone (1) – che è:

  • ecologico
  • riciclato
  • riciclabile
  • leggero
  • economico

Il cartone utilizzato è ondulato a triplo strato (per essere sufficientemente resistente) e può essere personalizzato con stampe digitali o altri elementi di decoro. Esso è leggero, facile da trasportare e da incollare e, a fine vita, è completamente riciclabile. I mobili vengono consegnati piatti e pre-piegati, subito pronti per essere montati e incollati.

Mobili in cartoneI tavoli sono testati per carichi intorno ai 30 kg statici; lo sgabello è testato per 90/100 kg di peso distribuito. In ogni caso tutti i mobili non sopportano pesi puntiformi che possono bucarli o ammaccarli.

Mobili in Cartone è stata la prima iniziativa in Italia a commercializzare via web prodotti interamente realizzati in cartone (riciclato all’80% e riciclabile al 100%).

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(1) Secondo un’analisi del ciclo di vita (LCA) del cartone ondulato, per ottenere 1 kg di cartone occorrono 260 grammi di legno. Sulla base di diversi studi di LCA l’energia per la produzione di 1 kg di pannelli di legno è paragonabile a quella per 1 kg di cartone. Il risparmio energetico deriva dalla minore quantità di materiale utilizzato.

 

E se finisse il ferro?

Il dibattito sull’approvvigionamento e sull’incremento dei prezzi di questi ultimi anni delle principali fonti energetiche – petrolio e gas naturale – ha posto l’attenzione anche sulle dinamiche di altre materie prime, soprattutto metalli, prima non molto considerate dall’opinione pubblica in termini di flussi commerciali, tranne che nell’ambito molto ristretto delle speculazioni finanziarie.

L’analisi approfondita delle materie prime richieste dall’industria, l’aumento dei loro prezzi sul mercato mondiale, la loro nuova distribuzione geografica in termini di utilizzo attualmente orientata più verso est (Cina e India) che non verso l’Europa o l’America del Nord, ha fatto emergere un aspetto nuovo e, da un certo punto di vista, dirompente: le risorse cominciano ad essere scarse e, viste le riserve stimate e l’attuale ritmo di consumo crescente, molte di esse sono destinate ad esaurirsi entro breve tempo.

Ciò fa aprire una fase nuova nella storia dell’uomo moderno, che deve cominciare a misurarsi, prima, con la scarsità di risorse che credeva pressoché illimitate e, poi, con la loro scomparsa (per scopi industriali, naturalmente) dalla Terra.

In base alle dichiarazioni del USGS (United States Geological Survey), da qui ai prossimi 80 anni – ma molte materie si esauriranno prima del 2050 – dovremmo fare i conti con l’esaurimento dei ben conosciuti argento (anno 2021), oro (anno 2024), stagno (anno 2026), piombo (anno 2028), mercurio (anno 2033), rame (anno 2034), ferro (anno 2057), alluminio (anno 2074) e dei meno conosciuti ma altrettanto importanti per il mantenimento del nostro benessere: stronzio, cadmio, manganese, nichel, tungsteno e molti altri.

Sia ben chiaro che alle date presunte di esaurimento le materie non scompariranno come scompare il coniglio dal cilindro del mago. Esse, in quelle date, non saranno più economicamente cavabili dalle miniere, saranno all’interno di prodotti già presenti nel Sistema o saranno sepolte nelle discariche con i prodotti oramai diventati rifiuti. Quello che è abbastanza pronosticabile è che, dal loro esaurimento, esse non potranno più essere economicamente utilizzate nelle tecnologie di produzione dei beni. E ciò, se non si ha un’alternativa, non è il massimo!

Al di là dei vari proclami che enfatizzano l’onnipotenza della tecnologia nella soluzione di tutti i problemi – compreso quello della scarsità od esaurimento delle risorse – ciò che emerge con certezza da tutto ciò è che l’unica soluzione praticabile sia quella di iniziare da subito il percorso verso la riprogettazione del sistema economico e produttivo nonché del sistema di produzione dei prodotti verso la strada della sostenibilità ambientale. Perché il sistema economico e produttivo non deve più essere legato solo allo scambio e al consumo della materia e delle merci ma deve dare più valore al lavoro e alla qualità. Perché il sistema di produzione deve iniziare a progettare i beni con un minimo uso delle materie, con la totale loro riutilizzabilità e riciclabilità a fine vita basando il tutto sul principio dell’efficienza.

Solo così si potrà garantire la salvaguardia delle materie prime e la loro disponibilità alle generazioni future a cui, invece, per ora, stiamo solamente garantendo una pesante eredità di scarsità e che, al fine di soddisfare solo la nostra avidità, ignoranza e stupidità, esse non meritano!

Tempi esaurimento risorse | Fonte: Bioimita.it

Foto: Wikipedia

I segreti dell’isola di San Matteo

Si immagini un piccolo puntino di tundra e scogliere – lungo circa 18 Km e largo circa 2 – sperduto nelle gelide acque del Mare di Bering abitato solamente dalle volpi artiche e da immense colonie di uccelli e mammiferi marini.

Questa è l’isola di San Matteo. E quanto segue è il segreto ambientale che essa nasconde.

Nel 1944, nel bel mezzo della II Guerra Mondiale, la Guardia Costiera statunitense introdusse sul territorio della remota e disabitata isola 29 renne (Rangifer tarandus) allo scopo di fornire una scorta di cibo per i 19 uomini impiegati nella locale stazione strategica e di rilevamento aero-navale. Dal momento che gli esseri umani erano i loro unici potenziali predatori, esse trovarono nel nuovo ambiente un vero e proprio paradiso. Cibo in abbondanza, assenza di predatori animali, un territorio esteso in relazione al loro esiguo numero: in sostanza tutti gli ingredienti necessari ad una loro esplosione demografica.

Quando l’anno seguente la guerra terminò e la base militare venne chiusa gli uomini presenti abbandonarono l’isola lasciando le renne al loro probabile destino: quello di moltiplicarsi e di prosperare a lungo in un ambiente non ostile.

Per lungo tempo nessun essere umano, nemmeno i più arditi avventurieri, mise piede sul piccolo scoglio perduto nell’oceano. Fu solamente dopo 12 anni, nel 1957, che il biologo David Klein del U.S. Fish and Wildlife Service (Dipartimento USA della Fauna Selvatica) approdò nuovamente sull’Isola di San Matteo scoprendo una florida popolazione di 1.350 renne che si nutrivano degli abbondanti licheni che il magro suolo dell’isola poteva loro offrire.

Klein, durante questa sua visita, notò che le renne presentavano caratteristiche diverse rispetto alle popolazioni di altri ambienti. Erano di peso nettamente superiore e godevano, in generale, di una salute eccellente a causa dell’abbondanza di cibo e del loro numero limitato rispetto al territorio, che determinava una bassa competizione tra gli esemplari.

Klein ebbe la possibilità di tornare nuovamente sull’isola solamente 5 anni dopo, nel 1963, e notò subito, non appena mise piede a terra, che ovunque il suo sguardo si posasse vi erano tracce di renne. Le renne erano presenti in ogni angolo dell’isola e la loro popolazione aveva oramai raggiunto la quota di circa 6.000 esemplari.

Rispetto alla prima visita Klein si rese immediatamente conto, però, che non godevano più della buona salute di qualche anno prima: il loro peso medio era notevolmente diminuito e il loro tasso di natalità era molto basso.

Un disastro si profilava, pertanto, all’orizzonte…

«Stanno letteralmente devastando i licheni» disse Klein ai suoi collaboratori.

Una serie di difficoltà lo tennero, in seguito, lontano dall’isola per 3 anni. Solo nel 1966 poté farvi nuovamente ritorno, accompagnato da un biologo e da un botanico.

Lo spettacolo che subito si presentò ai loro occhi non appena toccarono il suolo fu impressionante. L’isola era letteralmente ricoperta da scheletri di renna.

Ne rimanevano vivi solamente 42 esemplari di cui 41 femmine, 1 maschio malato incapace di procreare e nessun cucciolo.

L’ultimo esemplare di renna dell’Isola di San Matteo è morto intorno agli anni ’80 e l’involontario esperimento di dinamica demografica, iniziato per caso nel 1944, è fallito circa quarant’anni dopo con la sua definitiva scomparsa.

Quando ho avuto modo di leggere, qualche tempo fa, un articolo sull’Isola di San Matteo e sulle sue renne, sono rimasto subito molto colpito dalle numerose similitudini che legano questa storia alla dinamica demografica e ai comportamenti dell’uomo. E, naturalmente, anche alle possibili conseguenze che essi possono determinare.

Così come le renne si sono sviluppate inizialmente con estrema rapidità, sono arrivate a sfruttare fino all’osso le limitate risorse che l’ambiente poteva loro offrire e poi sono declinate molto rapidamente arrivando, addirittura, al loro completo annientamento, allo stesso modo le comunità umane sono sempre state caratterizzate dalla stessa dinamica in presenza di condizioni ambientali iniziali favorevoli.

Sviluppo demografico elevato. Utilizzo massiccio di risorse, superiore a quelle che sono in grado di rigenerarsi autonomamente.
Declino e, talvolta, autodistruzione.

In sostanza si verifica quello che gli scienziati chiamano “overshoot and collapse mode” (modalità di superamento e crollo). Esiste cioè un punto di ipotetico superamento dei limiti che determina una recessione difficilmente arrestabile.

Dall’analisi storica di civiltà antiche estinte si è potuto appurare che i principali indicatori del loro declino non sono stati fattori economici, come inizialmente si pensava, ma sono stati proprio quelli di natura ambientale. Agli archeologi odierni appare molto familiare la sequenza: aumento di popolazione; declino delle foreste e aumento delle colture agricole; erosione e impoverimento del terreno; declino della comunità umana nel suo insieme.

Per le società moderne questa relazione si complica notevolmente in quanto sono coinvolti anche altri aspetti quali: la diminuzione delle disponibilità di acqua potabile; l’antropizzazione diffusa del Pianeta; la diminuzione degli stock ittici; la presenza di condizioni climatiche più disastrose e la contrazione delle fonti energetiche non rinnovabili, soprattutto di petrolio e di gas naturale.

Se vogliamo analizzare le caratteristiche del “overshoot and collapse mode” nel contesto delle comunità umane del XXI secolo, possiamo osservare che, dal punto di vista demografico, le più recenti proiezioni elaborate dall’ONU mostrano un trend di crescita della popolazione mondiale che va dai 6,1 miliardi del 2000 ai probabili 9,1 miliardi nel 2050.

Per quanto riguarda l’utilizzo delle risorse, soprattutto quelle energetiche non rinnovabili come il carbone, il petrolio e il gas naturale, la maggioranza dei geologi sostiene che in questi anni la produzione abbia raggiunto il suo massimo e che in futuro sia destinata a diminuire. Inoltre, Paesi emergenti quali la Cina e l’India, che hanno tassi di crescita economica annuale molto elevati e una popolazione enorme, tenderanno sempre di più a richiedere questo tipo di risorse, determinandone anche un elevato e inarrestabile incremento di prezzo.

Dato questo quadro, il problema, come per le renne sull’isola di San Matteo, è che non si può prevedere con una ragionevole precisione il momento del declino e, soprattutto, quali saranno i suoi effetti finali. Se esso, come per le renne, sarà fulmineo e implacabile oppure se sarà più lento e benevolo, consentendo delle politiche correttive.

Quello che è pressoché certo è che se i due ingredienti principali del problema – e cioè l’incremento demografico e lo sfruttamento massiccio delle risorse – aumenteranno continuamente, la conseguenza del declino sarà pressoché inevitabile.

Che cosa fare, allora, per poter contrastare questo trend e per poter sperare in un futuro dell’uomo prospero dal punto di vista economico e sociale ma in armonia con l’ecosistema?

La ricetta è molto semplice ma, nel complesso, anche molto difficile da attuare.

A livello globale si basa, da un lato, su scelte politiche coraggiose, soprattutto da parte dei paesi trainanti cosiddetti “sviluppati”, che siano in grado di modificare gli schemi su cui si basa l’economia, avida di risorse energetiche e di materie prime per garantire elevati consumi. Dall’altro, su uno sviluppo culturale e sociale delle comunità umane che ritornino a comprendere i cicli di base del funzionamento del Pianeta nonché la sua vulnerabilità, e, di conseguenza, ne abbiano maggior cura attraverso, ad esempio, il risparmio e la sobrietà; il riciclo e il riuso; l’eco-efficienza e la bioimitazione. Queste misure, unite anche ad una distribuzione più equa delle risorse e dei redditi, potrebbero contribuire ad abbassare i trend di crescita della richiesta di risorse non rinnovabili e della popolazione mondiale.

A livello locale invece (e mi riferisco all’area dei paesi cosiddetti “sviluppati”), dal momento che il trend di decrescita della popolazione è già evidente da qualche decennio, il lavoro deve essere concentrato prevalentemente sul lato della cosiddetta bioeconomia e del consumo di prodotti ecoefficienti, unica vera espressione dello sviluppo sostenibile, in quanto si propongono di ridurre il prelievo di risorse naturali per raggiungere un livello compatibile con la capacità di carico accertata del pianeta.

La strada è tutta in salita e soffia un forte vento contrario ma è un sentiero obbligato che ciascun individuo, a seconda della sua funzione sociale (politico, cittadino, intellettuale), deve iniziare a scalare per non compromettere seriamente la possibilità di sopravvivenza su questo Pianeta per le generazioni future e, chissà, anche per quelle attuali.