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Tag Archives: orto e giardino

Il giardino delle (bio)diversità

Ora che è sopraggiunta la primavera e la natura si è risvegliata dopo il torpore invernale intorno a me vedo giardini curati come fossero prodotti industriali di plastica, uniformi nel materiale e nei colori. Erba rasata alla perfezione senza impurità di altre specie. Gruppi di fiori uniformi e ipertrofici. Aiuole ben definite, con riga e compasso. Siepi perfettamente squadrate e alberi – quei pochi presenti – sempre ben tagliati e potati per non dare troppo disturbo e per non sporcare.

Ma questi non sono giardini. Sono trasposizioni nella “natura” di prodotti industriali tutti uguali, tutti uniformi, tutti precisi che nulla hanno di veramente naturale. Per ottenerli necessitano di un grande dispendio di lavoro, di energia, di utensili e di prodotti chimici vari le cui conseguenze principali sono inquinamento diffuso – anche rumore – e perdita di biodiversità.

È da anni che io, invece, cerco di concepire il mio giardino (1) come un piccolo angolo di diversità, sia di specie viventi che in esso vivono, sia di mescolamento e di distribuzione casuale in esso delle stesse. In sostanza, ispirandomi alla natura spontanea che vedo intorno a me, cerco di fare in modo che nel mio giardino un po’ tutte le specie vegetali possano avere spazio (cerco di contenere un minimo solamente quelle troppo invasive) e che esse non abbiano un luogo dedicato dove crescere ma che possano diffondersi il più liberamente possibile. Nella scelta delle piante poi – che naturalmente in gran parte anch’io acquisto – cerco di prediligere quelle perenni o quelle che hanno capacità autonoma di diffusione, evitando possibilmente quelle che derivano da selezione troppo spinta o da ibridazione. Per quel che posso raccolgo le piante nei giardini di altre persone o, compatibilmente con le regole ambientali, anche in natura per poi ripiantarle nel mio. Oltre alle specie vegetali, nel mio giardino tento di attrarre anche uccelli (mettendo nidi e mangiatoie nel periodo invernale), pipistrelli e insetti, soprattutto farfalle. Questo mi obbliga a tollerare anche specie nocive, come limacce e insetti parassiti, perché spesso sono il nutrimento di lucciole, di insetti utili, di pipistrelli e di ricci.

In questo modo cerco di determinare uno spazio dove venga ricostruita una sorta di armonia naturale e vi sia – compatibilmente con le interferenze dei mie vicini che nel loro giardini fanno un po’ di tutto – il raggiungimento di un certo equilibrio tra le specie.

Se ho una specie invasiva da contenere, ad esempio, non penso a quale diserbante chimico o meccanico utilizzare per debellarla ma altresì penso a quali altre piante posso piantare che con la loro crescita possano rallentare la diffusione di quelle invasive. Inoltre non penso che vi siano “malerbe” o “erbe infestanti” da combattere a tutti i costi ma, piuttosto, cerco che tutte le specie vegetali abbiano il loro spazio e si possano diffondere in maniera equilibrata.

In questo modo, applicando il principio della bioimitazione secondo cui la natura è basata su una rete di reciproche relazioni e collaborazioni, noto che, rispetto agli altri, il mio giardino è più colorato, è più ricco di fiori, ha alberi frondosi e abbondanti ed è più sostenibile dal punto di vista ambientale.

Ecco qualche foto che lo rappresenta…

Giardino bio-diversità 01

Giardino bio-diversità 02

Giardino bio-diversità 03

Giardino bio-diversità 04

Giardino bio-diversità 05

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(1) Abito in un vecchio fienile ristrutturato in una zona rurale prevalentemente dedita alla coltura della vite e dell’actinidia (kiwi) sulla morena del Lago di Garda, in provincia di Verona.

 

Capitozzatura

Grande spiegamento di uomini e mezzi. Tripudio di elmetti gialli e giubbini catarifrangenti. Transenne. Sbarramenti di strade. Cartelli stradali. Motoseghe scoppiettanti. Non mancava nemmeno l’immancabile enorme piattaforma a braccio che raggiunge (in sicurezza, per fortuna) altezze inimmaginabili. Così qualche giorno fa ho partecipato, involontariamente, alle operazioni di potatura (ma io le definirei più propriamente operazioni di “capitozzatura”) di splendidi grandi alberi ubicati in un parco pubblico di Milano, a ridosso di una strada che ho percorso a piedi per recarmi al lavoro.

Ma così non si taglia un albero. Gli si fa solamente del male (in senso filosofico e botanico, si intende) e lo si rende addirittura più pericoloso per chi transiti sulla strada o desideri godere degli spazi pubblici verdi.

Ma andiamo con ordine e, per spiegare la cosa, vediamo cosa si intende per capitozzatura e vediamo quali possono (e devono) essere le soluzioni per far sì che il doveroso lavoro di potatura periodica degli alberi sia ben fatto per la salute degli esseri viventi in oggetto e per la sicurezza di chi in qualsiasi circostanza si trovi sotto le loro chiome.

La capitozzatura è una pratica di arboricoltura che prevede il taglio indiscriminato delle branche di un albero, soprattutto allo scopo di ridurre le sue dimensioni generali e di renderlo (a torto) più sicuro. La capitozzatura, però, non è il giusto metodo di contenimento della crescita di una pianta e di diminuzione dei pericoli ad essa connessi. Anzi, nel lungo periodo, la capitozzatura rende l’albero più pericoloso. Vediamo il perché.

Capitozzatura e Potatura correttaLa capitozzatura è una pratica che rimuove improvvisamente e quasi istantaneamente la chioma di un albero, dal 50% al 100% del suo volume. La risposta della pianta – che trae l’energia della propria sopravvivenza dalle foglie e che tale pratica elimina quasi completamente dall’albero – è quella di far innescare un meccanismo di sopravvivenza attivando le gemme latenti e forzando la rapida crescita dei germogli attorno ad ogni taglio. Lo scopo della pianta è quello di ri-costruire nel più breve tempo possibile una nuova chioma (1). Un albero così danneggiato, oltre ad essere più facilmente attaccato da malattie, da funghi e da insetti parassiti che, nel lungo periodo, lo possono fortemente indebolire, è anche portato a produrre un’enorme quantità di piccoli rami che non si sviluppano nelle condizioni ottimali e che presentano un tessuto di ancoraggio al moncone molto precario che, nel tempo, tende ad indebolirli e a predisporli più facilmente alla rottura. La capitozzatura, oltre a ciò, è una pratica che imbruttisce enormemente gli alberi delle nostre città, dei nostri parchi e dei nostri giardini ed è anche molto costosa perché impone frequenti (più frequenti di altre pratiche) interventi di ulteriore potatura.

capitozzatura_1

Ecco allora che, per tutte queste ragioni, è necessario osservare e studiare la natura per imparare da essa a come meglio intervenire per ottenere una sana potatura dell’albero. È pertanto necessario affidarsi a professionisti esperti che siano in grado di studiare la pianta, di capire le esigenze del luogo in cui si trova, di comprendere che l’intervento si fa sempre su un essere vivente – molto diverso da noi ma che condivide lo stesso pianeta e che ha più o meno i nostri stessi scopi – e poi di operare i giusti tagli che garantiscano sicurezza ma, nel contempo, rispettino anche la sopravvivenza e il benessere dell’albero.

Capitozzatura_03

La bioimitazione è anche questo e il mio sogno è quello di non vedere più quei tronconi osceni senza vita che ci imbruttiscono l’anima e che non rispettano la vita.

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(1) L’accrescimento di gran parte delle piante e dei fiori oppure la distribuzione delle foglie sui rami avviene secondo la serie di Fibonacci che contribuisce a creare in natura ordine e armonia, ma anche efficienza ed efficacia con il minimo sforzo.
Fonte: www.mrgreenservices.it
Disegno: [disegno originale]

 

Portulaca oleracea

Mio padre, con involontario disprezzo, in dialetto veronese chiamava la Portulaca oleraceaporsilana”. In effetti il nome italiano di questa pianta succulenta è portulaca ma nelle varie regioni italiane è conosciuta anche con nomi dialettali diversi: porcellana o erba grassa in Lombardia; purcacchia nel Lazio; porcacchia nelle Marche; precacchia in Abruzzo tanto per citarne alcuni esempi.

La portulaca è una pianta medicinale conosciuta fin dall’antico Egitto che ha proprietà diuretiche, depurative, dissetanti e anti-diabetiche. Nella medicina popolare orientale – da cui probabilmente è originaria – viene utilizzata anche per il trattamento della diarrea, del vomito, in caso di enterite acuta, di emorroidi e di emorragie post-partum. Inoltre le foglie di portulaca vengono utilizzate come impacco in caso di punture di insetti, acne ed eczema.

Negli ultimi tempi si è scoperto che la portulaca è ricca di acidi grassi polinsaturi di tipo omega-3, considerati molto importanti nella prevenzione delle malattie cardiovascolari. In particolare 100 g di foglie di portulaca contengono circa 350 mg di acido α-linoleico (acido grasso facente parte del gruppo degli omega-3). Tale acido, come altri del gruppo omega-3, aiutano a ridurre il colesterolo LDL (quello”cattivo”) e i trigliceridi favorendo una migliore circolazione del sangue. In sostanza la portulaca è una panacea!

La portulaca può essere impiegata principalmente in cucina dove viene utilizzata sia a crudo per la preparazione di insalate, sia cotta come ingrediente di minestre, condimenti, ripieni per ravioli e pasta fresca, frittate. A casa mia la utilizzo da anni a crudo nelle insalate e desidererei scoprirne presto anche la bontà da cotta.

La portulaca è il tipico esempio di come, spesso, la sostenibilità ambientale non debba per forza passare attraverso complesse formule matematiche, alchimie chimiche o tecnologie elettroniche spinte. Basta solo (ri)scoprire le virtù nutrizionali – patrimonio spesso dimenticato delle conoscenze dei nostri antenati – di una pianta estiva infestante che mio padre e i miei nonni non amavano e diserbavano a fatica (o, peggio, utilizzando pericolosi intrugli chimici). Et voilà, il gioco è fatto. Meno pesticidi, più rispetto per la natura – non quella esotica della savana che immaginiamo ma quella che abbiamo sotto casa nelle aiuole e nei vasi dei fiori – più stagionalità nel consumo di frutta e verdura, più consapevolezza delle capacità auto guaritrici (per la precisione: prevenzionistiche) che ciascuno di noi può mettere in pratica con comportamenti alimentari quotidiani.

La portulaca è la dimostrazione che per essere “ambientalisti” non bisogna per forza solo incatenarsi agli alberi secolari o associarsi a movimenti di lotta e di protesta. Lo si può fare anche e soprattutto con comportamenti quotidiani semplici, quasi banali, che non richiedono troppi sforzi. Basta solo avere la voglia di mettersi in discussione e di essere aperti – con conoscenza – ai cambiamenti.

Guardate bene le foto e non abbiate timore di cercarla nei vostri giardini e nei vostri vasi dei fiori (1). Raccoglietene all’inizio qualche foglia gustatela. Quando vi sarete convinti che si tratta di una pianta edibile qualsiasi non abbiate timore ad utilizzarla per insaporire i vostri piatti. Si tratta di un piccolo sforzo che dà grandi benefici. Soprattutto gratis!

Portulaca oleracea_01

Credit: Photo by L.R.

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(1) Avvertenza: le piante spontanee vanno raccolte con consapevolezza e conoscenza, magari consultando qualche libro e confrontandosi con chi le raccoglie e le conosce bene.
Foto: L.R.

 

Slow Water | Irrigazione sostenibile

La nostra missione è diffondere pratiche di irrigazione sostenibile legate al risparmio idrico e alla salvaguardia dell’ambiente”.

Quando l’acqua scarseggia… Le ampolle interrate vengono riempite d’acqua… Inumidiscono il terreno circostante senza dispersioni… Le piante crescono rigogliose.

Così recita il sito di Slow Water, un progetto ideato dall’architetto Giacomo Salizzoni che lo ha messo in pratica e fatto funzionare a Borgo Pinti, Firenze, all’interno di un orto comunitario ricavato in una vecchia pista di atletica in disuso. Si tratta, in sostanza, nella tecnica di interrare delle ampolle di terracotta e sfruttare la naturale porosità di questo materiale per mantenere costantemente umido il terreno risparmiando fino al 70% di acqua.

Slow-Water-Cartello

Il sistema, nel suo complesso, risulta molto efficiente: le anfore interrate e tappate nella parte superiore a vista rilasciano l’acqua gradualmente nel terreno e le piante che sono posizionate vicino possono sfruttare l’umidità che si ottiene per crescere rigogliose senza aver per forza bisogno di ingenti irrigazioni. Con questo metodo si riesce a risparmiare molta acqua perché si evita l’evaporazione della stessa a causa del calore e del sole e si è in grado di fornire alle radici delle piante anche un apporto aggiuntivo di ossigeno, che passa al terreno sempre attraslow_water_irrigazione_sostenibileverso la porosità della terracotta e che contribuisce a farle crescere rigogliose e sane.

La tecnica di sotterrare delle ampolle di terracotta per irrigare il terreno non è assolutamente un’invenzione moderna ma è molto antica e risulta ancora utilizzata in alcune regioni del mondo, come Cina, Messico, Pakistan e India.

 

Fermiamo l’uso della torba

La torba si forma dalla parziale decomposizione del materiale organico in zone ricche d’acqua e in assenza di ossigeno. Questo processo fisico-chimico trattiene il carbonio, che, assieme al metano, si libera sotto forma di anidride carbonica (CO2) non appena la torbiera viene essiccata per le operazioni di estrazione. Il carbonio continua poi ad essere rilasciato, sempre sotto forma di anidride carbonica, anche quando la torba viene utilizzata in giardino, spesso quale ingrediente principale dei sacchi di terriccio in vendita nei negozi di giardinaggio e nei supermercati.

L’estrazione della torba, inoltre, distrugge habitat unici popolati da uccelli, farfalle, libellule, piante e altri esseri viventi che, esclusivamente, in essi vivono.

Per tutte queste ragioni, da più parti, si è cercato da tempo di scoraggiarne l’uso coinvolgendo sia le aziende produttrici sia i consumatori. Malgrado tutti gli sforzi, però, l’uso della torba da parte degli amanti del giardinaggio è molto difficile da eradicare.

Dal lato dei consumatori perché spesso non conoscono la composizione dei sacchi di terra che acquistano ed ignorano le implicazioni che la torba in essi contenuta può avere sugli ecosistemi e sul clima.

Dal lato dei produttori perché, soprattutto in alcuni Paesi del nord Europa, la torba è molto economica e con pochi investimenti è possibile trasformare terreni agricoli in facili profitti. Basta solo asciugare il terreno, estrarre la torba, metterla nei sacchetti (magari miscelata ad altri elementi) e venderla nel sistema della grande distribuzione. Naturalmente prima servono le autorizzazioni, ma esse non sono difficili da ottenere.

Se, però, nel prezzo della torba si considerassero anche i costi ambientali invisibili che essa incorpora (stimati in decine di milioni di euro l’anno) dovuti alle alterazioni climatiche, alla perdita di habitat, alla funzione di filtrazione, alla funzione di accumulo di carbonio e metano che le torbiere hanno, il suo prezzo raddoppierebbe e nessuno la utilizzerebbe più.

I materiali alternativi alle torbiere esistono e fanno parte del sistema di trattamento della frazione organica dei rifiuti o della gestione delle deiezioni animali. Tali materiali, che risponderebbero più ai principi della bioimitazione, garantirebbero una maggiore circolarità delle risorse e una maggiore consapevolezza tra i consumatori sull’importanza della raccolta differenziata dei rifiuti organici.

Fate in modo che un hobby salutare quale il giardinaggio sia volano della sostenibilità ambientale e fermate l’uso della torba!!!

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Lucciole

Non so chi abbia stessa fortuna che ho io di avere, in questo periodo dell’anno, le lucciole nel proprio giardino. Sono animali splendidi, effimeri, delicati, anonimi di giorno ma che, al calar del buio, con quel loro corpo nero affusolato, dall’addome producono un fascio luminoso pulsante.

Vederle volare, la sera, è uno spettacolo che toglie di dosso lo stress di una dura giornata di lavoro o le preoccupazioni più diverse.

Le lucciole, però, sono sempre meno frequenti nei nostri giardini o nelle campagne. Per le cause più diverse che sarebbe difficile elencare. Ne è prova la scienza, ne è prova sia la mia esperienza personale sia i racconti di nonni e genitori che narrano di averne viste in grandi quantità nella loro infanzia. Della loro scomparsa ne parlò anche Pier Paolo Pasolini in un articolo del 1 febbraio 1975 pubblicato sul Corriere della Sera.

Mi chiedo se noi, che siamo andati sulla luna (forse!?), che voliamo in poche ore da un paese all’altro, che effettuiamo trapianti di organi, che comunichiamo in tempo reale da un continente ad un altro, ci possiamo permettere di chiamare “progresso” anche la perdita delle lucciole!

La vera green economy non è quella che si autoincensa di perseguire la sostenibilità ambientale senza in realtà mutare nulla rispetto al passato o creando addirittura problemi più gravi ma è quella che si preoccupa, nell’ambito del progresso dell’uomo, anche della difesa di esseri apparentemente insignificanti come le lucciole. Sembra difficile da comprendere ma la nostra sopravvivenza passa anche attraverso la loro difesa.

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Lombricoltura Bella Farnia

«Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma» (A.L. de Lavoisier).

La Lombricoltura Bella Farnia ha preso alla lettera il motto dell’intellettuale francese e ha deciso di intraprendere un’attività economica che si basa sulla trasformazione dei rifiuti organici in humus, in grado di nutrire il terreno migliorandone la fertilità. Il mezzo per ottenere ciò sono i lombrichi (1) che Charles Darwin addirittura definì «I più importanti animali della Terra».

La Lombricoltura Bella Farnia, oltre a ad allevare lombrichi sia per scopi hobbistici (compostaggi domestici o condominiali) che professionali (aziende agricole, allevamenti avicoli o di tartarughe), produce anche vermicompost (humus) con il marchio “Humus Bio”, organizza percorsi formativi per coloro che desiderino approfondire questo particolare allevamento e svolge attività di consulenza per chi desideri impiantare allevamenti professionali o desideri realizzare isole ecologiche per il riciclaggio dei rifiuti organici.

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(1) Di lombrichi ne esistono oltre 8.300 specie di cui la metà terrestri: di queste solo sei sono quelle adatte alla trasformazione degli scarti organici. Quattro di loro vivono nelle zone temperate ma solo due specie si sono rilevate particolarmente adatte all’allevamento per la loro resistenza e prolificità: l’Eisenia andrei, comunemente chiamato lombrico rosso di California, e l’Eisenia fetida, denominato “tiger worm”, per il colore giallo pallido della sua pelle.
I lombrichi sono animali ermafroditi imperfetti perché hanno entrambi gli organi riproduttivi ma non possono autofecondarsi. Essi trascorrono gran parte della loro vita sottoterra dove, con i loro 5 cuori, con i loro 6 reni e con il loro intestino filtrano instancabilmente il terreno depurandolo anche dai metalli pesanti arricchendolo di sostanze nutritive.

I nostri giardini sono immensi serbatoi di biodiversità

Non bisogna per forza andare in Amazzonia o nella foresta del Borneo a farsi “divorare” dalle zanzare per trovare una ricca biodiversità vegetale e un ecosistema vivace. Come emerge da una ricerca effettuata da parte di un gruppo di studio guidato dal prof. Bastow Wilson dell’università neozelandese di Otago e pubblicata dalla rivista scientifica Journal of Vegetation Science, era sufficiente guardare con attenzione nei prati incolti e nelle praterie dell’Europa centrale per trovare uno degli ambienti più ricchi al mondo in termini di biodiversità vegetale. In sostanza dallo studio emerge che, su scala molto limitata (meno di 50 mq), le praterie temperate europee sono tra gli ecosistemi più ricchi di piante (fino a 89 per mq), mentre nelle foreste tropicali si hanno al massimo 942 specie per ettaro (10 mila mq).

Ciò, tradotto nel linguaggio del cittadino comune che ha la sua bella casettina con giardino o che frequenta i parchi urbani, significa che può concretamente contribuire alla salvaguardia della biodiversità senza particolari sforzi. Deve solo abbandonare l’idea che il suo prato o il parco siano per forza “abitati” da un’unica specie di erba, tutta uguale e sempre ben rasata. Se proprio proprio non riesce a liberarsi dall’idea di avere un prato all’inglese – magari in aree geografiche con poca acqua e scarse precipitazioni piovose – può iniziare a riservare una parte del proprio giardino alla vegetazione spontanea, senza tagliarla frequentemente.

Da queste scelte ne riceveremo tutti enormi benefici: noi perché potremmo iniziare ad ammirare prati fioriti e profumati; le specie vegetali e animali perché potranno prosperare; la nostra salute perché si eviteranno quegli inutili intrugli chimici per diserbare o concimare; l’ambiente (e quindi sempre noi) perché potremmo iniziare a risparmiare acqua per le innaffiature ed energie per la frequente rasatura.

Foto: prato incolto presso l’interporto “Verona Quadrante Europa”

Bioplanet | Lotta biologica

Dopo aver fatto la triste conta dei malati e, purtroppo, anche dei morti, l’agricoltura, anche quella convenzionale, comincia ad osservare che è più proficuo spargere nei campi insetti predatori di quelli dannosi piuttosto che antiparassitari tossici.

Per soddisfare questa esigenza è nata Bioplanet, azienda che alleva e fornisce sia insetti utili per la difesa biologica delle colture sia insetti impollinatori necessari per aumentare la produzione di frutta e verdura ed evitare inutili ormoni o altri agenti chimici che poi, in qualche modo, anche se in piccole quantità, ritornano all’uomo attraverso la catena alimentare o l’ambiente.

Bioplanet, nella sua proposta alternativa alla chimica in agricoltura e più vicina ai meccanismi regolatori della natura, oltre agli insetti predatori e a quelli parassitoidi di quelli dannosi offre anche trappole fisiche, ferormoni di confusione sessuale e batteri per la lotta alle malattie fungine.

Un unico rischio legato ad un tale tipo di attività, sul quale è necessario prestare attenzione, è quello di introdurre in un dato ambiente animali estranei che possano mettere in difficoltà la sopravvivenza di quelli autoctoni.

Eugea

L’ambizioso progetto di difesa della biodiversità ideato da un gruppo di ricercatori della Facoltà di Agraria dell’Università di Bologna si chiama EUGEA (Ecologia Urbana Giardini Ambiente).

Come lo definiscono gli stessi ricercatori sul loro sito internet si tratta del primo progetto italiano di “ecologia privata” che spinge i privati cittadini, da un lato, attraverso la conoscenza, ad operare direttamente per la salvaguardia delle specie animali in pericolo e, indirettamente, da un altro lato, in difesa dell’ambiente e della biodiversità.

EUGEA vuole ricordare anche che la natura, oltre ad essere essenziale per tutta la vita, compresa la nostra, è anche bellissima e, pertanto, si propone di portare in città o in ambienti antropizzati, un po’ di questa bellezza perduta e oramai quasi sconosciuta.

Concretamente il progetto EUGEA, oltre che pubblicazioni e liberi, consiste in contenitori colorati che hanno, al loro interno, semi di piante o fiori particolarmente amati da insetti utili o farfalle oppure larve di coccinella e di molti altri insetti utili per la lotta biologica in pericolo di estinzione. Messi in giardino, sul balcone di casa, sotto una tettoia o nell’orto e aperti, questi contenitori lasceranno fuoriuscire il loro prezioso contenuto che si diffonderà nell’ambiente circostante e che, se troverà le giuste condizioni ambientali, si propagherà e si diffonderà apportando impagabili benefici alla biodiversità.

Kokopelli

La natura basa il proprio corretto funzionamento sulla adattabilità, da un lato, e sulla variabilità biologica, dall’altro: in sostanza si fonda sulla capacità degli esseri viventi di sapersi difendere autonomamente (o perire) da avverse condizioni climatiche, da parassiti e da malattie. Più l’adattabilità e la diversità biologica sono elevate maggiore sarà la possibilità di sopravvivenza di una specie ad un sistema che è in continua modificazione ed evoluzione.

Kokopelli ha ben compreso l’importanza di tali problematiche e, pertanto, si propone di contrastare l’uniformità genetica delle specie vegetali destinate all’alimentazione umana, imposta da un’industria sempre più alla ricerca del prodotto perfetto per la grande distribuzione organizzata, attraverso la vendita e lo scambio di sementi antiche e rare.

Scopo di Kokopelli, che è un’associazione libera di persone che scoprono e coltivano specie vegetali antiche o fuori dagli standard commerciali, non è tanto il guadagno derivante dalla vendita dei prodotti presenti nel suo interessante catalogo, quanto il promuovere una cultura della (bio)diversità che, al di là delle illusioni tecnologiche, è il vero “rimedio naturale” alla prosecuzione, nel tempo, della vita.

Chiunque può contribuire alla difesa di una determinata specie vegetale e alla libera diffusione delle sementi ottenute o attraverso l’acquisto dei semi proposti dal catalogo prodotti oppure proponendo all’associazione una nuova specie e diventandone il “custode”.

Paladini del pollice verde… fatevi avanti!