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L’Italia fa anche schifo
Si sente sempre dire che l’Italia è bella, che è piena di opere d’arte. Che l’Italia ha buon cibo e che l’Italia ha tanti talenti. Tutto vero e sacrosanto anche se è doveroso ricordare che, assieme alle cose positive, ve ne sono numerose di negative – molto negative – che fanno letteralmente inorridire per quanto siano assurde, soprattutto nel contesto dei bei paesaggi e della storia umana che hanno lasciato segni indelebili in questo Paese.
Se approfondirete i numerosi dati dell’interessante sito internet: www.padaniaclassics.com (1) vi potrete rendere conto, senza dubbi, che l’Italia fa anche schifo. E molto!
Dalla visione delle orribili situazioni raccontate nelle numerose foto pubblicate e dalla completezza dei dati delle diverse sezioni del sito ci si rende conto che la sostenibilità ambientale è sinonimo di ricchezza paesaggistica e culturale, il carburante economico essenziale per un Paese che vuole fondare una considerevole parte della propria ricchezza sul turismo e sulle eccellenze alimentari.
Difendere il territorio da speculazioni inutili e dalle bruttezze, spesso figlie dell’ignoranza, vuol dire difendere anche il futuro dei nostri figli affinché abbiano una vita prospera e sana.
Prendo spunto dal sito per riportare un assaggio di frasi significative che, da sole, fanno ben comprendere che cosa sia – e quanto triste e brutta sia – la MacroRegione Padana:
“La MacroRegione senza cantieri non sarebbe macro”;
“La MacroRegione è una giungla che schiaffeggia il viaggiatore con messaggi pubblicitari ai lati delle strade”;
“Nella Macroregione vivono 19 milioni e 300 mila persone. Ognuna di esse può contare su 1,8 metri di strada asfaltata”.
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(1) Padania Classics è anche un libro fotografico: “L’Atlante dei Classici Padani” che racchiude tutto il lavoro di Padania Classics dal 2010 al 2015. Suddiviso in 18 capitoli il libro affronta in maniera ossessiva tematiche riguardanti la Regione divenuta Macro, dalla cementificazione al Dio dell’Oro, dai rifiuti ai monumenti all’assurdo, dalla politica alla religione, dalla monetina inserita nel videopoker alla mano inserita nella mutanda dopo il massaggio.
Foto: http://padaniaclassics.tumblr.com/
Un bel paio di mutande ecologiche
Da anni dormo almeno un giorno la settimana fuori casa frequentando quasi sempre gli stessi alberghi che, nel tempo, mi trattano “quasi” come uno di casa e mi fanno sentire “quasi” come a casa. Per preparare le mie trasferte organizzo una valigia (Paola, mia moglie, la chiama “la valigina”) che, grammo dopo grammo, dettaglio dopo dettaglio, sono riuscito a ridurre all’osso per evitare inutili pesi da trasferire su treni, metropolitane, taxi, scale e marciapiedi.
Sarà stata la primavera, sarà stata la stanchezza o la distrazione ma, qualche giorno fa, mi accorgo di aver dimenticato il cambio delle mutande. Panico!!! Subito dopo però penso di trovarmi in centro a Milano e di non avere problemi a comprarne di nuove. Posso avere solo l’imbarazzo della scelta del modello, del colore, della marca e dello stilista preferito. Ma per me tutto questo non è sufficiente. Mi interessa poco il modello, quasi niente il colore e per nulla lo stilista di grido perché quello che più mi sta a cuore nella scelta di questo capo d’abbigliamento intimo è il fatto che le mutande siano “ecologiche”. Per ecologiche intendo che siano almeno prodotte con cotone biologico e sia certificata la non tossicità dei coloranti e degli additivi utilizzati nei tessuti. Per questi aspetti – piuttosto che per il nome dello stilista sull’elastico che devo lasciar venir fuori dai pantaloni, che devo comperare a vita bassa affinché sia visto – sono anche disposto a pagare qualche euro in più.
Esco allora un po’ prima dall’ufficio e mi fiondo un centro commerciale vicino al lavoro. Nulla. Allora mi sposto con i mezzi in una zona commerciale alla moda. Vado in vari negozi facendo le mie richieste ai commessi di turno che mi guardano sconsolati. Ancora nulla. Faccio un ultimo tardo tentativo in un negozio di alimenti biologici. Niente. Per evitare di rimanere a secco mi fiondo nel primo centro commerciale e prendo le prime mutande della mia taglia che capitano a tiro.
Attraverso questo mio simpatico fuoriprogramma lavorativo osservo il fatto che prodotti tessili (1) che abbiano certe caratteristiche di sostenibilità ambientale appartengono solamente ad un gruppo molto ristretto di aziende che li producono e che non hanno visibilità mediatica nonché a gruppi molto ristretti di persone che li cercano all’interno dei gruppi d’acquisto solidali (GAS), nei mercatini e nei pochi negozi specializzati. Se si tenta di cercare questi prodotti tessili ecologici nel sistema del commercio convenzionale ci si trova davanti ad un muro e si fa veramente fatica ad ottenere quanto desiderato. Tutto questo nonostante le campagne molto incisive di sensibilizzazione sul tema da parte di Greenpeace e di altre associazioni ambientaliste ed etiche.
Dato ciò mi chiedo – con molta tristezza e rammarico – che cosa si possa fare concretamente per ottenere quell’agognata sostenibilità ambientale che, a mio avviso, non è solo difesa del pianeta e bla bla bla. È anche – e soprattutto – vero progresso, vero benessere e vera civiltà. Dal momento che le campagne di comunicazione non sono riuscite completamente nel loro intento e non hanno inciso in modo forte nel sensibilizzare la massa dei cittadini-acquirenti, è necessario che, al più presto, noi consumatori più sensibili e informati sul tema iniziamo a far sentire la nostra voce ai produttori di massa “minacciandoli” di boicottare le loro merci se non ci forniranno al più presto almeno delle alternative ecologiche dei loro prodotti.
Purtroppo saranno sempre i soliti e ripetitivi argomenti un po’ banali e le solite e ripetitive ricette di lotta ma, sinceramente, non vedo altra strada per cercare di far cambiare velocemente un sistema – quello produttivo e di consumo – che deve necessariamente riformarsi per consentire il vero progresso dell’umanità.
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(1) I prodotti tessili hanno filiere molto lunghe che vanno dalla coltivazione del cotone al trattamento chimico del tessuto; dalla filatura al trasporto planetario normalmente via mare. Sceglierli ecologici significa incidere in maniera molto profonda sulla sostenibilità ambientale, soprattutto nei confronti di quei Paesi cosiddetti “in via di sviluppo” verso i quali di solito ricadono gli effetti più nefasti dell’inquinamento provocato dall’industria dell’abbigliamento.
La maledizione dei rifiuti
Per capire che la gestione dei rifiuti non funziona (anche quella differenziata porta a porta o l’incenerimento) (1) basta vedere le foto che ho scattato quest’inverno sulle spiagge di Vallecrosia e di Ventimiglia, in provincia di Imperia. Le foto le faccio nelle stesse spiagge tutti gli anni almeno da 15 e, nonostante le diverse tecniche di raccolta differenziata messe in atto dai governi e nonostante le differenti capacità dei vari amministratori locali, noto che nel tempo i rifiuti non accennano né a diminuire in quantità né a mutare nella loro qualità. Si tratta prevalentemente di pneumatici, contenitori di plastica, salvagenti, bottiglie e lattine, piccoli pezzi di plastica dai colori e dei formati più vari, scarpe e ciabatte spaiate, galleggianti delle reti da pesca, giocattoli… mescolati a residui vegetali lignei. Da questo, in modo abbastanza empirico ma con solidi fondamenti nella realtà, deduco che in generale l’attuale gestione di rifiuti è totalmente fallimentare.
Questa “rumenta” – come la chiamano da quelle parti – d’estate non si vede perché le amministrazioni comunali, prima dell’inizio della stagione turistica, spendono i soldi dei contribuenti per eliminarle o, peggio, non riescono ad impedire che vengano bruciati direttamente sul posto. Nonostante le operazioni di maquillage pre-estivo, i rifiuti vengono comunque tutti gli anni portati a riva dalle mareggiate invernali e, vista la loro quantità e variabilità, non si può assolutamente parlare di qualche episodio sporadico ma di una evidente profonda e cronica lacuna del sistema che deve essere assolutamente rivisto e riformato.
Tanto per capire da dove i rifiuti presenti in spiaggia provengono, analizzandoli a vista si può innanzitutto osservare che, in parte, essi sono presenti in mare perché gettati dalle navi e dalle barche al largo; in parte vengono gettati negli alvei dei torrenti quando sono in secca e solo le piogge autunnali se li portano a mare; in minima parte sono già presenti nelle spiagge a causa dell’incuria di chi le frequenta che si “dimentica” pacchetti di sigarette, sacchetti delle patatine, buste di plastica, lattine di birra o bottigliette di acqua.
La falla nel sistema è evidente e non risiede tanto nelle tecniche sbagliate che vengono impiegate nella raccolta e nel trattamento dei rifiuti, quanto, piuttosto, nel fatto che dovrebbe essere applicato il principio della bioimitazione e i rifiuti non dovrebbero essere proprio prodotti. Piuttosto che impegnare un mare di risorse economiche e di sforzi organizzativi per cercare di raccogliere al meglio i residui dei nostri consumi (2) (che però i nostri comportamenti sbagliati e la nostra scarsa cultura ed etica contribuiscono a far in parte fallire), sarebbe meglio ribaltare il problema ed iniziare ad obbligare i produttori (con leggi vincolanti ed incentivi a chi è più virtuoso) a rivedere le loro tecniche produttive e l’uso degli imballaggi. Bisognerebbe incentivare maggiormente quei prodotti costruiti con materiali ecocompatibili e rinnovabili che riescono ad essere smontati e riparati facilmente. Nel caso di imballaggi bisognerebbe penalizzare chi utilizza materiali non rinnovabili e non facilmente riciclabili. Bisognerebbe disinnescare poi la pratica dell’obsolescenza programmata e bisognerebbe operare a livello culturale per convincere i consumatori che è meglio acquistare prodotti di qualità piuttosto che prodotti a bassissimo costo.
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(1) Il mancato funzionamento della gestione dei rifiuti a cui si fa riferimento non si riferisce agli aspetti tecnici ma a quelli filosofici che continuano ad accettare un sistema che produce rifiuti anzichè pensare a sistemi che non li considerino affatto.
(2) Raccogliere e trattare i residui dei nostri consumi (cioè i rifiuti) è, in termini economici, un affare di appalti che può dare origine anche a numerose irregolarità e pratiche corruttive.
Lifefactory | Bottiglie riutilizzabili e biberon
Lifefactory è nata negli USA nel 2007 quando Pam Marcus, una pediatra specializzata in alimentazione e Daren Joy, un designer, si sono incontrati per sviluppare una linea di biberon che fossero salutari, sicuri, sostenibili dal punto di vista ambientale e, perché no, anche belli da vedere. Per ottenere i risultati desiderati i due imprenditori hanno focalizzato la loro attenzione su:
- Contenitore in vetro borosilicato: facilmente riciclabile, prodotto da un materiale naturale abbondante, pulito, senza residui chimici pericolosi (BPA, BPS e ftalati) (1);
- Guscio protettivo (senza BPA e BPS) che, in caso di urti o di cadute, eviti che il vetro abbia scheggiature e da rotture;
- Tappi in polipropilene (senza BPA e BPS; senza ftalati) che, in sicurezza, possano venire in contatto con qualsiasi cibo o bevanda;
- Tettarelle dei biberon in silicone medico (senza BPA e BPS; senza ftalati).
Mano a mano che il progetto cresceva nel tempo è stata abbandonata la sola linea di produzione di biberon ed è stata estesa ad altri ambiti la linea dei prodotti offerti. Infatti Lifefactory, garantendo le stesse qualità dei biberon, ora produce anche:
- bicchieri
- borracce e bottiglie
- contenitori per alimenti
La sostenibilità ambientale dei prodotti Lifefactory è principalmente legata al fatto il vetro, un materiale totalmente atossico, facilmente lavabile e igienizzabile nonché prodotto mediante un processo relativamente semplice con una materia abbondante sia stato pensato per essere utilizzato più e più volte senza spreco di imballaggi usa e getta in un ambito diverso da quello domestico e possa essere portato con sé in totale sicurezza. Tale sicurezza è legata al fatto che il contenitore è ricoperto da un guscio protettivo in silicone che garantisce che il più grande difetto del vetro – l’elevata fragilità agli urti – sia evitato o fortemente limitato per le principali situazioni di uso comune.
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(1) BPA = Bisfenolo A; BPS = Bisfenolo S
Per l’EEA l’innovazione ecologica sarà la leva per la competitività europea
Mentre la nostra politichetta nazionale e la nostra economia da quattro soldi bucati si scervella su come aumentare le trivellazioni di petrolio, su come impiegare il carbone, su come finanziare gli inceneritori, su come fare buchi (cave) e riempire tutti i pori liberi del territorio di cemento, nel suo rapporto “Resource-efficient green economy and EU policies” l’Agenzia Europea per l’Ambiente (European Environment Agency – EEA) osserva, invece, che la green economy è, attualmente, l’unico approccio strategico che consenta ad una società più giusta di vivere in un ambiente migliore. Secondo l’EEA l’approccio della green economy consente di raggiungere tre obiettivi:
- Contribuire al miglioramento nell’uso efficiente delle risorse
- Assicurare la resilienza degli ecosistemi
- Ottenere una società più equa.
Come fa notare il Rapporto dell EEA, durante la crisi finanziaria del 2008, la green economy si dimostrò essere l’approccio che fu in grado di risolvere due importanti problemi: il generale rallentamento dell’economia e la conseguente perdita di posti di lavoro; il continuo deterioramento dell’ambiante naturale, particolarmente evidente nell’ambito dei cambiamenti climatici e nel degrado degli ecosistemi. Questo doppio risultato spinse gli Stati europei a cercare di sviluppare politiche di recupero basate sulla green economy. Tuttavia – e purtroppo, dico io – mentre l’obiettivo politico si preoccupava, contemporaneamente, anche della salvaguardia degli aspetti fiscali e alla gestione degli enormi debiti pubblici, il concetto della green economy iniziò a perdere la propria forza all’interno di politiche macroeconomiche solo di breve periodo.
Come spiega Hans Bruyninckx, il direttore esecutivo dell’EEA: “L’innovazione può essere lo strumento più importante per cambiare il modo inefficiente con il quale attualmente utilizziamo le risorse. L’innovazione ambientale è la chiave per affrontare le sfide del 21° secolo. Se vogliamo vivere bene entro i limiti ecologici del pianeta avremo bisogno di affidarci all’inventiva dell’Europa. Non solo nuove invenzioni, però, ma soprattutto incoraggiare l’adozione e la diffusione di nuove tecnologie verdi (eco-tecnologie), scelta che potrebbe rivelarsi essere ancora più importante”.
Sempre Hans Bruyninckx osserva: “Un’altra leva per migliorare l’efficienza delle risorse potrebbe essere rappresentata dalla riduzione delle tasse sul lavoro come l’imposta sul reddito e, piuttosto, tassare l’uso inefficiente delle risorse e l’inquinamento ambientale. Tali imposte ambientali potrebbero promuovere la creazione di nuovi posti di lavoro, dal momento che si osserva che i Paesi con le tasse più alte nel settore ambientale sembrano avere un’economia e una competitività migliore rispetto agli altri”.
Sulla base di queste autorevoli affermazioni mi chiedo cosa ci voglia ancora per convincere i nostri rappresentanti che l’unica strada per recuperare la competitività e creare lavoro sia quella della green economy e del capitalismo naturale.
Blue Economy
“In natura non esistono rifiuti. E nemmeno disoccupati. Tutti svolgono un compito e gli scarti degli uni diventano materia prima per gli altri”.
Consiglio a tutti la lettura dell’interessante libro “Blue Economy – 10 anni, 100 innovazioni, 100 milioni di posti di lavoro” di Gunter Pauli (1). Si tratta di un testo fondamentale dell’ambientalismo scientifico e della bioimitazione che si fonda sul fatto che l’economia, per essere prospera e per consentire il vero progresso dell’umanità, deve iniziare copiare la natura e la sua capacità di utilizzare continuamente le risorse, senza produrre né rifiuti né sprechi.
La natura segue un ciclo circolare nel quale gli scarti di un processo diventano indefinitamente materie prime o “nutrimenti” di un altro processo, senza sprechi se non quelli energetici. I sistemi economici e produttivi attuali, invece, seguono un andamento lineare dove gli scarti di un processo non possono essere più utilizzati e vanno ad “intasare” – con inquinamento e disequilibri – il sistema Terra. La soluzione sta tutta nella corretta riprogettazione dell’economia e nella corretta produzione dei beni futuri, in modo tale che non siano concepiti per diventare in fretta rifiuti ma siano visti come “servizi” che devono assolvere ad un compito e, una volta terminato, possano essere reimmessi nel sistema creando nuova ricchezza senza provocare danni.
Secondo l’autore non bisogna credere all’illusione di rincorrere la “Green Economy” perché essa si basa sugli stessi errori dell’economia tradizionale: crescita e intervento spinto per modificare la natura. Per questo la green economy sarà tanto disastrosa quanto quella che l’ha preceduta. L’obiettivo, invece, è quello di perseguire la “Blue Economy” (2), un’evoluzione della green economy che non richiede alle aziende di investire di più nella tutela dell’ambiente ma che si propone di creare posti di lavoro e benessere attraverso lo sfruttamento dei principi di base di funzionamento della natura: in particolare attraverso il corretto uso delle materie e dell’energia.
Il libro, oltre a soffermarsi sugli aspetti teorici della questione, racconta anche interessanti storie di imprenditori illuminati che, in giro per il mondo (e anche in Italia) hanno iniziato da tempo il percorso di imitazione della natura e, udite udite, hanno avuto anche successo imprenditoriale.
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(1) Gunter Pauli è un economista, imprenditore e scrittore belga inventore della blue economy e fondatore di ZERI (Zero Emission Research Initiative), una rete internazionale di scienziati, studiosi ed conomisti he si occupano di trovare soluzioni innovative alle principali sfide cui le economie e la società sono poste di fronte, progettando nuovi modi di produzione e di consumo. Gunter Pauli è autore di numerosi libri, tradotti in più di 30 lingue.
(2) La “Blue Economy” si basa sui seguenti principi
Dimmi che font usi e ti dirò chi sei
È proprio vero che l’informazione di massa – quella a cui possiamo accedere, in primis, mediante televisioni e giornali – ci racconta un po’ quello che vuole, tanto da far sembrare delle vecchie idee come delle assolute novità. (1)
È il caso dello studente quattordicenne Suvir Mirchandani di Pittsburgh, Pennsylvania, che, intervistato dalla Cnn, fa addirittura un appello indiretto al presidente Barak Obama affinché sia il garante di un considerevole risparmio di inchiostro – e di denaro – nella stampa dei documenti pubblici. Suvir, nel passaggio dalle scuole elementari a quelle medie si accorge quanto aumenti il numero delle fotocopie distribuite dalla scuola agli studenti. Facendo un po’ di conti, il ragazzo osserva che, oltre alla carta e all’usura delle macchine, a pesare sul costo delle fotocopie è anche l’inchiostro utilizzato che, in termini di prezzo, non è affatto economico. Nel partecipare, poi, ad un progetto della scuola finalizzato a ridurre gli sprechi e a risparmiare soldi, Suvir pensa a come poter tentare di ridurre le notevoli spese per l’inchiostro, visto che il risparmio energetico è spesso garantito dalla macchina mediante sistemi di spegnimento automatici e quello della carta è garantito dalla stampa fronte-retro. Suvir ragiona su una cosa che può sembrare ovvia e, come prima cosa, inizia a raccogliere le varie dispense che gli vengono distribuite e ad analizzare dal punto di vista tecnico e grafico le lettere utilizzate. Con l’aiuto di un software commerciale (APFill Ink) si spinge poi a valutare quanto inchiostro consumano i diversi font principalmente impiegati (Century Gothic, Comic Sans, Garamond, Times New Roman) e quali siano le differenze tra gli stessi. Dal calcolo emerge che il font più efficiente è il Garamond – caratterizzato da tratti grafici più sottili – che arriva a far risparmiare anche fino al 24% di inchiostro rispetto a quelli meno efficienti. La sua ricerca si spinge anche più in là e, oltre a quantificare il risparmio di inchiostro per la sua scuola (circa 21.000 $ l’anno), osserva che se l’enorme quantità di documenti federali fossero stampati con font Garamond al posto del più comune Times New Roman, il governo USA risparmierebbe ben 136 milioni di dollari l’anno in inchiostro e, se lo facesse anche ogni stato americano, la cifra arriverebbe a 370 milioni, con un risparmio globale maggiore di 400 milioni.
Dall’articolo sembrerebbe che il “genietto” Suvir abbia scoperto l’acqua calda e debbano essere a lui attribuite particolari doti di analisi della realtà che nemmeno i migliori geni matematici del MIT o di Harvard hanno mai osato valutare.
Ricordo, però, che questo problema, come anche le soluzioni, non sono nuove. Qualche anno fa (ne ho parlato anch’io su questo blog) Colin Willems, con il contributo di SPRANQ Creative Comunications di Utrecht, in Olanda, ha fatto gli stessi calcoli e si è spinto addirittura oltre producendo lui stesso un font (Ecofont), da impiegare nelle stampe per risparmiare il 20% di inchiostro rispetto ai font tradizionali. Ecofont, a differenza del font Garamond a cui fa riferimento Suvir, ha qualcosa in più: è svuotato graficamente da fori trasparenti (in sostanza è bucherellato) che non ne pregiudicano la leggibilità nei formati di stampa più comuni.
Cari utenti, cari impiegati, caro presidente Obama e cari presidenti e primi ministri del Mondo, sappiate che le buone idee per garantire maggior efficienza e sostenibilità ci sono già e spesso sono gratuite tanto da non richiedere per forza enormi investimenti per renderle operative. Nel caso della stampa dei documenti è sufficiente che iniziate ad utilizzare, già da ora, i font Garamond o, meglio, dopo averlo acquistato, il font Ecofont. Metteteli predefiniti nei vostri computer: l’ambiente e il vostro (e nostro) portafogli ringrazieranno!
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(1) La cosa non è grave, ma noi “ambientalisti” ne parliamo da anni. Voi, dove eravate?
Fonte: Corriere della Sera
La mia colazione in treno
Qualche mattina fa ho sfruttato una promozione di Trenitalia e ho fatto un piacevole viaggio in 1^ classe tra Verona e Milano. Sedili larghi, ampio spazio per le gambe, bagni puliti, giornali e colazione compresi nel prezzo. L’ora e mezza che separa le stazioni delle due città è trascorsa bene, nonostante fosse quasi l’alba e la settimana prima del Natale.
Al passaggio dell’addetta con il carrellino delle vivande mi sono fatto dare un caffè, un pacchetto di wafer al cioccolato, comprensivi automaticamente di salvietta lavamani e tovaglioli di carta [si veda la foto]. Devo dire che, rispetto al tripudio di plastica usa e getta, spesso anche superflua in relazione allo scopo, che normalmente interessa sagre, ristoranti take-away e festicciole tra amici, il servizio offerto da Trenitalia non era male. Il bicchiere per il caffè era di carta, il cucchiaino per lo zucchero era un bastoncino di legno e gli imballaggi di plastica non erano eccessivi.
Nell’ottica della bioimitazione e del processo culturale che deve assolutamente portarci al risparmio delle materie e al riutilizzo/riciclo dei rifiuti, desidererei comunque proporre alcune azioni di miglioramento:
- sostituire gli imballaggi di plastica con materiali migliori dal punto di vista della sostenibilità ambientale e/o del riciclo (es. materiali plastici di origine vegetale).
- migliorare il design complessivo del servizio progettandolo per limitare l’uso di imballaggi usa e getta (es. usare l’interno dell’imballaggio di carta del cucchiaino e dello zucchero come tovagliolo).
- evitare elementi inutili (es. che la salvietta per lavare le mani venga fornita solo a richiesta).
- migliorare la qualità dei prodotti offerti (es. da agricoltura biologica) e dei materiali utilizzati (es. la carta usata proveniente da foreste gestite in maniera sostenibile).
- adoperarsi perché vi sia un’effettiva raccolta dei rifiuti che preveda il riciclo degli stessi (purtroppo i rifiuti del catering ferroviario vengono gettati nel cestino dell’indifferenziata direttamente da parte dei clienti o vengono raccolti dal personale di bordo senza differenziare i diversi materiali: organico, plastica, carta).
La sostenibilità ambientale non è un luogo definito ma una direzione che deve essere continuamente percorsa nell’ottica del miglioramento continuo. Per questa ragione e allo scopo di preservare il benessere delle generazioni future (che, in maniera meno astratta, sono i nostri figli), è necessario che – noi clienti – ci impegniamo a svolgere un’azione critica nei confronti del mondo che ci circonda per farlo migliorare e per essere concretamente gli artefici di un cambiamento, a mio avviso assolutamente necessario.
Vapur | Bottiglia riutilizzabile
L’anti-bottle Vapur è una borraccia riutilizzabile molto versatile che si può piegare, lavare e portare sempre con sé.
L’anti-bottle Vapur ha le seguenti caratteristiche:
- è lavabile, anche in lavastoviglie;
- è pieghevole e, quando vuota, può essere facilmente arrotolata, piegata e appiattita per essere messa in borsa o in tasca: quando piena, invece, rimane stabilmente in piedi;
- è congelabile;
- è agganciabile mediante un moschettone che consente di portarla praticamente ovunque senza doversi preoccupare di ammaccarla o di romperla;
- è leggera per l’ambiente e versatile: infatti quando è appiattita limita il suo ingombro e favorisce il trasporto; inoltre il suo imballaggio è stato studiato per ridurre al minimo l’utilizzo di carta e di colla ed è stampato con inchiostri a base vegetale;
- è sicura in quanto è composta da tre stati di plastica che le conferiscono diverse caratteristiche: di questi quello più interno, approvato dalla Food & Drug Administration degli USA, è certificato senza bisfenolo A (BPA free).
L’idea di realizzare questa bottiglia pieghevole è venuta a tre appassionati di outdoor californiani che hanno deciso di dare una risposta ecologica all’enorme consumo annuo di bottiglie di plastica che ammonta all’immensa cifra di circa 200 miliardi di pezzi l’anno. Di queste solo il 12% viene riciclato, mentre i restanti 176 miliardi finiscono nelle discariche o galleggiano negli oceani con un immenso impatto ambientale.
La storia delle cose
Desiderate capire un po’ di più Bioimita e la bioimitazione?
Bene. Prendetevi una ventina di minuti, rilassatevi sulla sedia, distendete le gambe e guardate questo bel video…
… che vi chiarirà parecchie cose sugli oggetti che ci circondano e sull’effetto diretto e indiretto che hanno sulle nostre misere esistenze.
Come dice la presentatrice: “Quando le persone inizieranno a vedere e capire tutti i collegamenti tra i vari aspetti del nostro sistema lineare, esse saranno in grado di percepire qualcosa di nuovo rispetto al passato e saranno così capaci di immaginare un sistema che non butta via risorse e persone. Ciò che dobbiamo buttare via, invece, è solo la nostra mentalità usa e getta”.
Per approfondire: www.storyofstuff.org
Il Giracose | Riuso
“Impariamo a recuperare per non sprecare”.
L’Associazione “Il Giracose” nasce dalla volontà di creare un luogo speciale dove le cose già usate vengono recuperate e messe a disposizione per un nuovo uso. Lo scopo principale è creare un nuovo stile di vita più equo e sostenibile attraverso il riuso e riutilizzo degli oggetti. Riusare significa essere attenti all’ambiente, dare valore alle cose, non sprecare e, perché no, anche risparmiare!!!
L’Associazione “Il Giracose”recupera oggetti di tutti i tipi: mobili, abiti, libri, giocattoli, biciclette, attrezzatura da bambini (carrozzine, passeggini, ecc.) attrezzatura sportiva, cianfrusaglie… e ogni cosa che non viene più usata.
L’Associazione “Il Giracose”non ha fini di lucro, i contributi raccolti servono per l’autofinanziamento del progetto e per perseguire esclusivamente finalità di solidarietà in ambito ambientale, culturale e sociale con lo scopo di affermare il valore della vita, migliorarne la qualità e per contrastare l’emarginazione.
L’Associazione “Il Giracose”si rivolge al privato cittadino ma anche ad enti, associazioni, parrocchie, circoli e gruppi che intendono praticare il riuso e il riutilizzo degli oggetti.
L’Associazione “Il Giracose”è solidale verso persone o famiglie in grave condizione economica.
L’Associazione “Il Giracose”ritira oggetti ingombranti in buono stato. Se hai degli oggetti che non usi più, dei mobili che ti hanno stancato e vuoi liberartene, contattaci. Daremo loro nuova vita.
L’Associazione “Il Giracose” funziona grazie al prezioso aiuto dei volontari perché è un luogo di condivisione e di collaborazione fra le persone, dove si rispettano le diversità e le competenze individuali.
L’Associazione “Il Giracose” sviluppa progetti educativi nelle scuole per far imparare ai bambini e ai loro genitori la pratica del recupero di oggetti con lo scopo di non sprecare.
W Il Giracose. Questa è un’economia che Bioimita ama e sostiene.
Stefano Mancuso e l’intelligenza delle piante
“Diecimila anni fa l’uomo, imparando a coltivare le piante, ha dato vita alla civiltà, cioè la civiltà umana nasce proprio con l’agricoltura. Oggi, se noi riusciamo a comprendere meglio le piante, probabilmente daremo una mano a farla continuare, la civiltà”
Questo è quanto osserva il prof. Stefano Mancuso a conclusione della propria intervista del 29 settembre 2013 a “Che Tempo Che Fa“, su Rai3.
Mi fa piacere non essere il solo a pensare che lo studio approfondito della natura e la sua imitazione sarà il vero progresso e potrà contribuire a salvaguardare la civiltà per il futuro.
Per approfondire:
Laboratorio Internazionale di Neurobiologia Vegetale
The Plant Intelligence Project
Vita da cavernicoli
Per fugare qualsiasi dubbio e possibili critiche desidererei precisare un concetto molto importante: Bioimita, attraverso la bioimitazione, NON È e NON VUOLE ESSERE un ritorno al passato che anela ad una vita da cavernicoli. Anzi, Bioimita si propone l’esatto contrario e desidera operare una rivoluzione culturale verso la modernità e il progresso.
La strada che ha pensato di percorrere per raggiungere tale risultato è quella dell’imitazione della natura in tutte le sue sfaccettature di funzionamento, da applicare a tutte le attività umane. Da quelle produttive a quelle sociali.
Partendo dall’inizio, se è vero che l’evoluzione opera minuscoli cambiamenti nell’arco di centinaia di migliaia di anni (se non di milioni) è allora molto probabile che l’uomo (ma anche altri animali abitanti di questo pianeta) non abbia avuto il tempo di adattarsi al mondo industriale odierno. Il nostro corpo, ad esempio, non è fatto per stare tutto il giorno davanti ad uno schermo luminoso e, difatti, stare troppo seduti fa male alla salute. Per tali ragioni si potrebbe pensare che un ritorno al passato, non necessariamente all’era pre-industriale ma, magari, ancora prima a quella pre-agricola, possa essere meglio per noi e per l’ambiente perché ci espone a minori malattie “moderne” (tipo diabete, cancro o a quelle cardiocircolatorie legate alla sedentarietà) e consuma meno risorse.
È però altrettanto vero che non tutti gli organismi si riescono ad adattare perfettamente all’ambiente che abitano. Anzi, essi sono in costante evoluzione e non vi potrà mai essere un momento in cui saranno perfettamente evoluti ad un dato sistema. L’evoluzione ad un dato ambiente è, per fare un esempio, come il cane che gioca con la sua coda e la vuole prendere ma, ad ogni tentativo di rotazione e di slancio, la coda gli scappa dalla bocca in una sequenza infinita (e divertente).
Nella nostra storia su questo Pianeta oramai siamo arrivati ad un dato punto – quello attuale – e il percorso del passato, anche se spesso sbagliato, non si può cancellare con un banale colpo di spugna. Ecco che, allora, per cercare di avere opportunità di sopravvivenza e di benessere per il futuro è necessario prendere in mano una nuova filosofia di vita che la bioimitazione si propone di enunciare.
In sostanza bisogna iniziare ad abbandonare l’idea di forzare a tutti i costi la natura – magari anche attraverso pratiche assurde come quelle delle modificazioni genetiche, delle modificazioni atomiche (nanotecnologie), della geoingegneria o delle fonti radioattive per la produzione di energia – ed è invece necessario concentrare gli sforzi su come si può proficuamente copiarne il funzionamento traendo il massimo beneficio per noi, per gli altri abitanti del Pianeta e per il Pianeta stesso.
A me sembra che solo così possa funzionare e che solo la bioimitazione potrà essere l’unico vero progresso per il futuro.
L’altra faccia della Sicilia
Le scorse vacanze le ho trascorse in Sicilia, ospite presso amici di famiglia. Cosa dire: mi sono divertito e le ferie mi hanno rigenerato a sufficienza dopo una lunga e impegnativa stagione lavorativa. Dell’isola ho potuto apprezzare la splendida ospitalità del suo popolo, la prelibatezza del suo cibo, la piacevolezza del clima, la bellezza delle città, dei monumenti e di alcuni paesaggi ma, ahimè, occhi attenti come i miei non hanno potuto ignorarne anche gli aspetti negativi. Quell’altra faccia della Sicilia che necessita di urgente presa d’atto da parte della classe dirigente e dei cittadini, nonché di rapida soluzione per poter parlare di “sviluppo” e “progresso”.
Tra gli aspetti negativi che più mi hanno maggiormente colpito vi è la cattiva gestione dei rifiuti e la pessima gestione del patrimonio immobiliare.
Per quanto riguarda i rifiuti è da dire che, in alcune aree più di altre, fa male al cuore vederli sparsi a terra, ammassati ai bordi delle strade e mal gestiti da parte delle amministrazioni pubbliche. Una vaga parvenza di raccolta differenziata esiste un po’ ovunque ma dire che sia veramente attuata è tutto un altro discorso. I bidoni sono presenti sulle strade ma quello che vi gettano i cittadini e quello che si trova sparso a terra dimostra solo una cosa, che Bioimita sostiene da sempre. I rifiuti non devono essere ben gestiti: non devono proprio essere prodotti!
La realizzazione dei prodotti di consumo e la scelta dei giusti materiali, la corretta separazione a casa da parte dei cittadini, l’organizzazione di un buon servizio di raccolta da parte degli amministratori pubblici, la realizzazione di leggi adeguate da parte della classe politica, una cultura e una sensibilità elevate per capire tutte gli aspetti ad essi legati mostrano che la lunga filiera dei rifiuti è caratterizzata da troppi punti deboli.
E, in effetti, per risolvere i numerosi problemi che essi provocano non bisogna guardare agli stessi ma alle metodologie produttive che li originano e ai materiali di cui sono composti i prodotti che li determinano.
Un altro aspetto particolarmente negativo della Sicilia riguarda la pessima gestione del patrimonio immobiliare.
L’impressione che si ha percorrendola è che siano numerosi gli edifici abusivi e le testimonianze dirette delle persone lo confermano. In tal modo il territorio e il paesaggio sono costantemente violentati da una sorta di grande buco nero che ruba risorse economiche ai comuni, che divora posti di lavoro qualificati, che uniforma splendidi paesaggi a periferie senza regole e senza scopi.
Tale cattiva gestione del patrimonio non determina solamente danni al territorio e al paesaggio (tanto, alla fine, la natura riprenderà possesso e ricolonizzerà tutto) ma causa anche una cattiva e inefficiente gestione dell’energia per i trasporti e per la distribuzione dei servizi.
E pensare che i siciliani avevano già a disposizione sistemi abitativi efficienti da copiare rappresentati dalla compattezza dei centri storici dei suoi bei paesi!
Open Source Ecology
L’Open Source Ecology (OSE) è un movimento fondato negli USA da Marcin Jakubowski che si propone di creare, attraverso il coinvolgimento di diversi attori del mondo produttivo (imprenditori, ingegneri, designer, agricoltori e attivisti), una rete di competenze che diano origine ad un’”Open Source Economy”. In sostanza l’obiettivo è quello di far condividere, a livello mondiale, sia conoscenze tecniche che metodologie produttive oppure addirittura progetti di macchine e prodotti con lo scopo di consentirne il libero utilizzo a tutti senza copyright. Chiunque può poi apportare modifiche migliorative e, a sua volta, condividerle in un processo senza fine. In tal modo si riesce ad intraprendere un importante percorso verso la sostenibilità ambientale ed economica perché si libera il sistema produttivo dai monopoli e dai vincoli di riservatezza che frenano, tra le altre cose, anche l’evoluzione ecologica delle produzioni e dei prodotti.
Chi scopre un nuovo processo, un nuovo prodotto o una nuova macchina e desidera aderire all’Open Source Ecology, anziché operare per proteggere con marchi e brevetti la propria invenzione esclusiva, ne libera i contenuti in rete consentendone ad altri sia il pieno utilizzo che possibili interventi migliorativi i quali, a loro volta, dovranno essere condivisi in una catena infinita.
I benefici di tale pratica non consistono nella vendita dei diritti all’utilizzo o nell’esclusività produttiva che, di fatto, bloccano per lungo tempo il progetto, ma consistono in una condivisione del sapere e nel fatto che chi crea può disporre di una rete enorme, distribuita a livello mondiale, di “collaboratori”.
Gran parte dei benefici di tale pratica possono essere sia di tipo economico che ecologico. I primi si hanno perché i miglioramenti progressivi cercano sempre di diminuire i costi di produzione nonché potenziare l’efficienza e la razionalità nell’uso delle risorse. Quelli di tipo ecologico, direttamente collegati ai primi, si muovono anche nella dimensione etica per far sì che le macchine e i prodotti abbiano, in generale, il sempre minor impatto sull’ambiente.
L’Open Source Ecology non è una novità assoluta ma è figlia di altre famose pratiche di open source, già da tempo ben avviate e operative. Nel campo dell’informatica, ad esempio, famoso è il sistema operativo Linux oppure WordPress, operante nell’ambito della progettazione dei siti internet. Nel campo della cultura, invece, famosa è l’enciclopedia libera Wikipedia. Tutti strumenti che, in qualche modo, hanno potuto dare un importantissimo contributo sia all’economia che allo sviluppo e al progresso della società. Visto che funziona in ambito informatico e culturale, perché non dovrebbe funzionare, allora, anche in ambito tecnico?
Bioimita aderisce e sostiene pienamente l’Open Source Ecology perché ritiene che la condivisione delle idee e delle tecnologie possa essere il vero braccio operativo per l’applicazione dei suoi principi.
Per approfondimenti:
Il passaporto dei prodotti
Sussulto quando le mie orecchie sentono figure politiche del calibro di Janez Potočnik (Commissario europeo all’Ambiente) affermare che in Europa, per mantenere competitiva l’industria, è necessario cambiare il modo in cui si produce e si consuma. Il motivo del sussulto è che, dopo anni – forse già decenni – che “noi” ambientalisti lo diciamo, se ne sono finalmente accorti anche “loro”. Loro che, invece, fino ad ora, ci hanno sempre detto che tutto andava bene e che dovevamo essere solo più ottimisti.
La realtà dei fatti è che nel mondo – vuoi per l’emergere di nuove economie che ci fanno competizione, vuoi per la scarsità delle risorse che si profila, all’orizzonte, sempre più profonda – vi è sempre meno disponibilità di materie e, se si desiderano acquistare, i loro prezzi sono elevati.
L’idea che ha lanciato il Commissario Potočnik, spinto da alcuni paesi europei (tra cui l’Italia) e da alcune ONG, è quella di istituire una sorta di “Passaporto dei prodotti”, allo scopo di massimizzare l’uso delle risorse europee, il riciclo e il riuso dei materiali.
In sostanza l’idea del Commissario è quella di creare un’economia circolare delle risorse interne all’Ue, possibile solamente se, a monte, si conosce come è composto un prodotto e quali sono le modalità per disassemblarlo e riutilizzarne correttamente i materiali. Inoltre i prodotti devono anche essere (ri)progettati e fabbricati con l’idea di riutilizzarne poi i materiali che li compongono.
Secondo le stime della Ue da questa manovra si potrebbe ridurre realisticamente la richiesta di materiali fra il 17% e il 24%, aumentando il Pil e creando fra 1,4 e 2,8 milioni di posti di lavoro.
All’interno del progetto proposto potrebbero essere previste anche norme riguardanti l’uso di agenti chimici e prodotti pericolosi in agricoltura nonché azioni verso l’eliminazione progressiva dei sussidi nocivi per l’ambiente e la salute pubblica come quelli ai carburanti fossili, nel settore energetico nonché sull’uso dell’acqua in agricoltura e nell’industria.
Se dalle parole si passerà ai fatti si vedranno realizzare concretamente i principi della bioimitazione.
Chapeau!
Freitag | Borse e accessori
I fratelli Markus e Daniel Freitag – designer grafici – erano alla ricerca di una borsa funzionale, impermeabile e resistente che consentisse loro agevoli spostamenti in bicicletta per la città, caratterizzata da abbondanti piogge. Siamo nel 1993 a Zurigo dove, ispirati dal traffico dei coloratissimi mezzi pesanti che passavano davanti al loro appartamento, i due fratelli Freitag decisero di cucire una borsa utilizzando vecchi teloni di camion, realizzarono la tracolla con cinture d’auto usate e le bordature con una vecchia camera d’aria di bicicletta. Nacque così, da un’esigenza personale e da uno spiccato senso del recupero dei materiali, un’azienda che ancora oggi opera nel centro della città di Zurigo, che conta sulla collaborazione di più di 150 collaboratori e che produce circa 50 modelli di borse e numerosi accessori per uomo e donna.
Ogni anno per la produzione delle circa 400.000 borse e accessori vengono impiegati:
- 440 tonnellate di teloni di camion che hanno viaggiato sulle strade di tutto il mondo (corrispondenti ad una colonna di camion di 110 km);
- 35.000 camere d’aria di bicicletta usate
- 288.000 cinture di sicurezza scartate
- 1.200 m2 di air-bag riciclati.
I prodotti FREITAG, che data le loro caratteristiche costruttive sono pezzi unici semi artigianali, sono venduti in tutto il mondo sia in oltre 450 negozi che attraverso lo shopping on-line.
In merito al perché della produzione di borse dai rifiuti Markus afferma: “Nel 1978 nostro padre ci ha mostrato come funziona una compostiera e per noi è divertente pensare e agire in cicli. Da qui è nata la consapevolezza che l’immondizia, nel migliore dei casi, diventa qualcos’altro. Poiché sino ad oggi non ho mai guidato un’auto, ma solo biciclette, so che a volte nella vita serve una borsa robusta, resistente all’acqua e funzionale”.
In merito alla sostenibilità Daniel afferma: “Chiunque si occupi seriamente del concetto di sostenibilità comprende rapidamente che tutto ciò non ha nulla a che vedere con un pensiero a breve termine. Esistono degli interventi ecologici sensati realizzabili a breve termine, ma moltissimo deve essere pensato a lungo termine con una visione globale. Sono convinto che ciò sia essenziale per l’ambiente e per la società e che queste strategie si diffonderanno ampiamente”.
Mobili in Cartone
“Dacci un cartone e noi facciamo un mobile” recita il sito www.mobilicartone.it.
I mobili proposti sono pensati per allestire fiere, creare eventi, arredare show-room temporanei ma nulla esclude che possano essere usati anche in ambito lavorativo o domestico. L’idea è quella di evitare grandi sprechi di materiale impiegando un materiale – il cartone (1) – che è:
- ecologico
- riciclato
- riciclabile
- leggero
- economico
Il cartone utilizzato è ondulato a triplo strato (per essere sufficientemente resistente) e può essere personalizzato con stampe digitali o altri elementi di decoro. Esso è leggero, facile da trasportare e da incollare e, a fine vita, è completamente riciclabile. I mobili vengono consegnati piatti e pre-piegati, subito pronti per essere montati e incollati.
I tavoli sono testati per carichi intorno ai 30 kg statici; lo sgabello è testato per 90/100 kg di peso distribuito. In ogni caso tutti i mobili non sopportano pesi puntiformi che possono bucarli o ammaccarli.
Mobili in Cartone è stata la prima iniziativa in Italia a commercializzare via web prodotti interamente realizzati in cartone (riciclato all’80% e riciclabile al 100%).
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(1) Secondo un’analisi del ciclo di vita (LCA) del cartone ondulato, per ottenere 1 kg di cartone occorrono 260 grammi di legno. Sulla base di diversi studi di LCA l’energia per la produzione di 1 kg di pannelli di legno è paragonabile a quella per 1 kg di cartone. Il risparmio energetico deriva dalla minore quantità di materiale utilizzato.
Astorflex | Calzature
Il calzaturificio Astorflex appartiene da generazioni alla famiglia Travenzoli che, già alla fine dell’800, aveva iniziato a Casteldario in provincia di Mantova, a produrre zoccoli (dette “sgalmare” in espressione dialettale). Con l’industrializzazione del dopoguerra il piccolo laboratorio “Fratelli Travenzuoli” ha iniziato a produrre calzature di diverse tipologie. Tale produzione perdura sino ad ora e in questi ultimi anni si è fortemente orientata nell’ambito della sostenibilità ambientale, in un processo di ricerca continua.
I pellami per la produzione delle calzature sono conciati con tannini vegetali che consentono di avere pelli più sane e traspiranti, che non creano allergie da contatto al cromo e hanno un limitato impatto ambientale, dato il limitato consumo di acqua e di energia elettrica. Buona parte delle suole utilizzate per le calzature Astorflex sono in gomma naturale, ottenuta dalla coagulazione e dal successivo essiccamento del lattice prodotto dagli alberi di Hevea brasiliensis, senza aggiunta di prodotti chimici o coloranti. Tale gomma è traspirante, biodegradabile al 100%, non prevede scarti di produzione, è molto elastica ma ha il difetto di sentire molto gli sbalzi termici (si irrigidisce al freddo e si ammorbidisce al caldo) e di resistere un po’ meno all’abrasione rispetto a quella sintetica.
Le calzature Astorflex sono realizzate totalmente in Italia mediante collanti ad acqua e mediante la scelta di utilizzare sub-fornitori vicini al luogo di produzione, che si sono resi disponibili a certificare, in piena trasparenza, la composizione dei loro prodotti.
Nel 2008 il calzaturificio Astorflex ha dato origine al progetto “Ragioniamo con i Piedi”, la cui filosofia è sintetizzabile in:
- la calzatura non c’è marchio perché non c’è nulla da ostentare: è invece un oggetto che serve per camminare in modo confortevole
- il prodotto deve essere comperato solo se serve veramente
- il prodotto deve dimostrare che è possibile offrire un bene di valore in una filiera responsabile che gratifichi il produttore e soddisfi il consumatore
- il prodotto deve sviluppare una filiera produttiva locale basata sul senso di responsabilità e fiducia reciproca.
I petali dei fiori non inquinano
Finalmente, dopo un inverno grigio e piovoso, arriva la primavera! E anche se ci troviamo nella Pianura Padana dove la qualità dell’aria non è tra le migliori d’Europa (anzi, è una delle peggiori!), il cielo comincia ad essere azzurro ed il sole a scaldare le ossa umide e l’umore nero (tranne oggi che piove e tira vento).
Con la primavera cambia anche il colore del paesaggio, dove il verde assume tonalità più vivaci e dove comincia l’esplosione dei fiori: gialli, rosa, rossi, azzurri, viola, lilla e arancio e tutte le rispettive sfumature. Uno spettacolo!
I fiori, si sa, durano sulla pianta qualche giorno, al massimo qualche settimana e poi lasciano spazio allo sviluppo dei frutti per la prosecuzione della vita… Il tutto in una sequenza infinita di successioni corrispondenti, spesso, al trascorrere degli anni.
Al di là della visione romantica o puramente utilitaristica del contadino che dai fiori e dai frutti ottiene la ricompensa del proprio lavoro, una cosa che in pochi osservano è il fatto che i petali (come, per altro, le foglie in autunno), quando cadono a terra perché hanno concluso la loro funzione, non determinano alcuna forma di inquinamento. Anzi, la loro materia si trasforma, arricchisce il suolo e favorisce il ripetersi del ciclo e di altra vita nel corso della stagione presente e di quella successiva.
In natura non esiste il concetto di rifiuto: tutto si ripara, si riusa o si trasforma!
Nella progettazione e nella produzione industriale dei prodotti questo deve essere il solo e l’unico riferimento: materia compatibile con la natura che non abbia in sé incorporata l’idea del rifiuto.