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Trivella SI, trivella NO, se famo du spaghi

Trivella SI, trivella NO, se famo du spaghi!?”.

Parafrasando la bellissima canzone La Terra dei Cachi di Elio e le Storie Tese (1) vorrei esprimere anche la mia modesta opinione, nel mare magnum dell’informazione, sul referendum del prossimo 17 aprile – il primo chiesto dalle Regioni – relativo ad un aspetto piuttosto tecnico riguardante il fatto se i permessi per estrarre idrocarburi in mare, entro 12 miglia dalla costa, debbano durare fino all’esaurimento del giacimento (come avviene ora) oppure fino alla fine della concessione. In pratica se il referendum dovesse avere una prevalenza di si (oltre al superamento del quorum del 50% degli aventi diritto), le piattaforme presenti in mare a meno di 12 miglia dalla costa dovranno essere smantellate una volta scaduta la concessione o quest’ultima dovrà essere rinegoziata.

Lasciando perdere le tristi vicende giudiziarie di queste ultime settimane che hanno presumibilmente collegato ministri, fidanzati dei ministri, speculatori, compagnie petrolifere e investimenti pubblici a episodi di (solita) malapolitica e di (solito) malaffare, vorrei concentrarmi invece su alcuni aspetti tecnici che possano far ben comprendere come le situazioni che si verificherebbero con la vittoria dei no o dell’astensionismo (quelle a esaurimento del giacimento) non servano né all’Italia né agli italiani. Anzi.

Innanzitutto è da dire che inevitabilmente estrarre olio fossile o metano dal mare potenzialmente inquina, in vario modo, lo stesso, i suoi abitanti e coloro che lo frequentano saltuariamente per svago e per sport (cioè noi). Tale inquinamento è senza dubbio più elevato quando si estrae petrolio e nelle aree vicine alle piattaforme, ma si può anche diffondere fino a raggiungere le rive e i fondali. Inoltre vi possono anche essere gravi incidenti che possono compromettere con abbondanti fenomeni di inquinamento enormi aree di mare e di coste.

In secondo luogo è importante osservare che gran parte delle piattaforme entro le 12 miglia (92 in totale) estraggono soprattutto metano. Secondo i dati del Ministero dello Sviluppo Economico nel 2015 queste piattaforme hanno contribuito al 28,1% della produzione nazionale di gas e al 10% di quella petrolifera. In relazione all’entità dei consumi nazionali di tali idrocarburi e dal momento che una parte delle concessioni è attribuita ad aziende straniere, tali percentuali crollano fino ad arrivare a soddisfare fra il 3 e il 4 per cento dei consumi nazionali di gas e l’1 per cento di quelli di petrolio. Un’inezia! L’Italia quindi è fortemente dipendente dalle importazioni estere e le nostre piattaforme fanno ben poco per i nostri consumi. A mio avviso forse sarebbe meglio che le esigue disponibilità nazionali di idrocarburi [si veda il grafico n. 2] fossero tenute a riserva per fronteggiare eventuali crisi mondiali (energetiche e non) future, che potrebbero essere molto probabili.

Dal quadro di cui sopra si evince che l’unica vera strada da percorrere in ambito energetico – strada che hanno ad esempio percorso paesi come la Norvegia, molto più dotati di idrocarburi rispetto all’Italia – è solo quella di investire nelle energie rinnovabili. Purtroppo l’impulso positivo verso questo settore (che, in termini netti, necessita di più manodopera impiegata) iniziato negli anni passati con gli incentivi e che aveva visto l’Italia essere all’avanguardia a livello mondiale, per colpa di decisioni politiche sbagliate si sta esaurendo e i risultati sono, a partire dal 2014, quelli di una netta diminuzione della produzione [si veda il grafico n. 1]. Secondo quanto osserva il GSE (Gestore dei Servizi Energetici) nel 2015 le cosiddette fonti alternative hanno contribuito a soddisfare il 17,3% dei consumi nazionali di energia. E il dato è in costante aumento se si pensa che nel 2004 la quota rinnovabile di energia era solo del 6,3%.

Alla luce di tutto questo mi sembra che non ci siano dubbi: al referendum del prossimo 17 aprile l’unica soluzione praticabile è quella di VOTARE SI.

01_Energia elettrica da FR e da gas metano

02_Produzione ed importazione di gas e petrolio in Italia

03_Produzione gas italiano da piattaforme marine

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(1) La canzone, per chi la conosce, sintetizza bene quello che sta succedendo intorno al referendum del prossimo 17 aprile. Si tratta del solito mix a cui noi italiani siamo ben abituati – al di là del colore politico di chi governa – di ipocrisia, di qualunquismo, di ignoranza e di malaffare. La Terra dei Cachi, insomma, dove “Italia si’ Italia no Italia gnamme, se famo du spaghi. / Italia sob Italia prot, la terra dei cachi. / Una pizza in compagnia, una pizza da solo; / Un totale di due pizze e l’Italia e’ questa qua…”.
Fonte: L’Espresso; Legambiente; Marco Pagani (grafici)

 

Il giardino delle (bio)diversità

Ora che è sopraggiunta la primavera e la natura si è risvegliata dopo il torpore invernale intorno a me vedo giardini curati come fossero prodotti industriali di plastica, uniformi nel materiale e nei colori. Erba rasata alla perfezione senza impurità di altre specie. Gruppi di fiori uniformi e ipertrofici. Aiuole ben definite, con riga e compasso. Siepi perfettamente squadrate e alberi – quei pochi presenti – sempre ben tagliati e potati per non dare troppo disturbo e per non sporcare.

Ma questi non sono giardini. Sono trasposizioni nella “natura” di prodotti industriali tutti uguali, tutti uniformi, tutti precisi che nulla hanno di veramente naturale. Per ottenerli necessitano di un grande dispendio di lavoro, di energia, di utensili e di prodotti chimici vari le cui conseguenze principali sono inquinamento diffuso – anche rumore – e perdita di biodiversità.

È da anni che io, invece, cerco di concepire il mio giardino (1) come un piccolo angolo di diversità, sia di specie viventi che in esso vivono, sia di mescolamento e di distribuzione casuale in esso delle stesse. In sostanza, ispirandomi alla natura spontanea che vedo intorno a me, cerco di fare in modo che nel mio giardino un po’ tutte le specie vegetali possano avere spazio (cerco di contenere un minimo solamente quelle troppo invasive) e che esse non abbiano un luogo dedicato dove crescere ma che possano diffondersi il più liberamente possibile. Nella scelta delle piante poi – che naturalmente in gran parte anch’io acquisto – cerco di prediligere quelle perenni o quelle che hanno capacità autonoma di diffusione, evitando possibilmente quelle che derivano da selezione troppo spinta o da ibridazione. Per quel che posso raccolgo le piante nei giardini di altre persone o, compatibilmente con le regole ambientali, anche in natura per poi ripiantarle nel mio. Oltre alle specie vegetali, nel mio giardino tento di attrarre anche uccelli (mettendo nidi e mangiatoie nel periodo invernale), pipistrelli e insetti, soprattutto farfalle. Questo mi obbliga a tollerare anche specie nocive, come limacce e insetti parassiti, perché spesso sono il nutrimento di lucciole, di insetti utili, di pipistrelli e di ricci.

In questo modo cerco di determinare uno spazio dove venga ricostruita una sorta di armonia naturale e vi sia – compatibilmente con le interferenze dei mie vicini che nel loro giardini fanno un po’ di tutto – il raggiungimento di un certo equilibrio tra le specie.

Se ho una specie invasiva da contenere, ad esempio, non penso a quale diserbante chimico o meccanico utilizzare per debellarla ma altresì penso a quali altre piante posso piantare che con la loro crescita possano rallentare la diffusione di quelle invasive. Inoltre non penso che vi siano “malerbe” o “erbe infestanti” da combattere a tutti i costi ma, piuttosto, cerco che tutte le specie vegetali abbiano il loro spazio e si possano diffondere in maniera equilibrata.

In questo modo, applicando il principio della bioimitazione secondo cui la natura è basata su una rete di reciproche relazioni e collaborazioni, noto che, rispetto agli altri, il mio giardino è più colorato, è più ricco di fiori, ha alberi frondosi e abbondanti ed è più sostenibile dal punto di vista ambientale.

Ecco qualche foto che lo rappresenta…

Giardino bio-diversità 01

Giardino bio-diversità 02

Giardino bio-diversità 03

Giardino bio-diversità 04

Giardino bio-diversità 05

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(1) Abito in un vecchio fienile ristrutturato in una zona rurale prevalentemente dedita alla coltura della vite e dell’actinidia (kiwi) sulla morena del Lago di Garda, in provincia di Verona.

 

Il più grande esperto di inquinamento? Il Papa

Ma i morti per smog saranno 25 mila, 650 mila o 68 mila? Ma saranno più dannose le polveri sottili PM 10 o PM 2,5? Ma questo smog sarà causato dal trasporto veicolare privato, dall’industria, dai riscaldamenti domestici o dall’incenerimento dei rifiuti?

Queste domande non potranno avere risposte univoche e, in parte, sono anche un po’ retoriche o buttate là nel calderone dell’opinione pubblica (come il numero dei morti, stimabile a grandi linee ma in sé difficilmente quantificabile). Quello che è abbastanza certo in questi ultimi giorni pre e post natalizi è che gli strumenti di rilevazione dell’inquinamento dell’aria stanno impazzendo, causa un anomalo inverno tiepido e una lunghissima siccità che non ha fatto piovere in Italia da più di due mesi.

Qualsiasi commentatore o politico a caccia di consenso ora si improvvisa “esperto” e si sente legittimato a dire qualsiasi cosa sul tema anche se fino a ieri si è occupato di economia, di politica interna o, più banalmente, di gossip. E magari criticava anche gli ambientalisti o gli scienziati di essere contro il progresso. A tale riguardo vorrei ricordare a tutti noi una cosa molto semplice: il problema dell’inquinamento atmosferico e urbano non è un fenomeno recente ma sono almeno 40 anni che gli scienziati (sia coloro che si occupano di materie tecniche, sia coloro che si occupano di curare i malati) ci dicono che c’è un problema e che questo problema deve essere assolutamente affrontato e risolto.

Mettere – come hanno fatto alla spicciolata qualche sindaco, qualche prefetto o qualche governatore di regione – gli autobus gratis la domenica, le targhe alterne il giorno di Natale o il blocco totale del traffico per 2/3 giorni durante le vacanze invernali (per non disturbare il “lavoro”) è semplicemente una cosa ridicola che non risolve il problema dello smog e prende in giro i cittadini, soprattutto quelli malati o quelli che si ammaleranno negli anni futuri.

È giunta finalmente l’ora di essere onesti e di dire che lo smog siamo noi! Si, certo, avete capito bene. Lo smog è Alessandro (io), Paola, Marco, Laura, Giovanna, Luca, Patrizia, Franco, Marta… Lo smog non è una cosa che nasce dal nulla e che improvvisamente, come è arrivato, svanirà! Lo smog è il frutto del nostro agire quotidiano, del nostro stare comodi in casa in maniche corte quando fuori è sotto zero. Del nostro andare a prendere il pane e il giornale con il culo ben piantato sul sedile della nostra auto diesel con filtro antiparticolato quando abitiamo a soli 200 metri dai negozi. Del nostro comprare e buttare imballaggi. Del nostro spreco alimentare. Della nostra bulimia di oggetti e di elettronica usa e getta. Della nostra arroganza verso la natura. Della nostra…

Tutto questo produce smog! E quest’ultimo sparirà solo dopo che avremo radicalmente cambiato i nostri comportamenti. Tutto il resto, invece, è solo fuffa che svanirà agli occhi dell’opinione pubblica non appena le concentrazioni rilevate si saranno un po’ abbassate e i media smetteranno di parlarne.

A parte i “soliti” che è da anni che studiano l’argomento e che si esprimono con precisione e grande conoscenza della materia, in questi giorni di trambusto emotivo sull’inquinamento mi ha molto colpito il Papa che, nella notte di Natale, si è espresso da grande esperto della materia. Sotto la forma dell’ammonimento morale si è spinto a dire: “In una società spesso ebbra di consumo e di piacere, di abbondanza e lusso, Lui ci chiama ad un comportamento sobrio, cioè semplice, equilibrato, lineare capace di cogliere e vivere l’essenziale”.

Un duro e per nulla velato attacco (finalmente da parte di una grande autorità) al modello di sviluppo industriale e consumistico. Quale migliore ricetta contro lo smog!?

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Per approfondire
Video: con questa classe politica, con quello che pensa e con l’arroganza che dimostra verso la scienza sarà molto difficile (sig.) ottenere dei validi risultati nell’ambito della lotta all’inquinamento.

 

Il cambiamento degli “stili di vita” funziona?

Prendo spunto dall’interessante articolo “Stili di vita. La ricetta neo-liberista” pubblicato qualche tempo fa dal sito saluteinternazionale.info per avventurarmi in un’analisi sociologica di quali siano i possibili limiti per far sì che una maggiore consapevolezza ecologica si traduca poi in azioni concrete da parte dei singoli individui verso una sempre più profonda sostenibilità ambientale. Peraltro necessaria.

È vero, l’articolo in questione parla di salute pubblica e non di ecologia ma gli argomenti in discussione – salute e sostenibilità ambientale – sono così strettamente interconnessi nei loro obiettivi, nelle loro dinamiche sociali e nei loro risultati che si possono perfettamente sovrapporre.

In particolare nell’articolo si osserva quanto siano inefficaci le campagne di educazione di massa sulla salute (quelle che si propongono di modificare gli “stili di vita”) basate sul presupposto che la causa ultima delle malattie – e l’obiettivo su cui agire – risieda quasi esclusivamente nei singoli individui e nelle libere scelte che essi compiono. Focalizzare l’attenzione sulla responsabilità individuale fornisce un alibi ai decisori di aver fatto tutto il possibile per risolvere i problemi, anche se poi i risultati o sono scarsi o, se positivi, risultano troppo lenti nel realizzarsi. Inoltre la scelta di agire sul cambiamento dei nostri comportamenti – sapendo che sono lunghi nel concretizzarsi – può destare anche il sospetto che le loro decisioni siano fortemente influenzate dalle lobby che vogliono guadagnare soldi sulle nostre disgrazie.

Attualmente la visione dominante relativa alla promozione della salute tra gli operatori del settore igienico-sanitario e tra i decisori politici è solo quella che coinvolge il cambiamento dello “stile di vita” che ogni singolo individuo è sollecitato a compiere. La letteratura scientifica sull’argomento, però, dimostra la scarsa efficacia di tale approccio educativo-individualistico ponendo l’attenzione, invece, su un approccio strutturale e globale esercitato da parte della politica – cioè da parte dello Stato – che si pone un obiettivo a lungo termine ed agisce da più fronti per perseguirlo. Anche, se necessario, imponendolo.

Lavorare sugli individui e sui loro comportamenti essenzialmente vuol dire non voler risolvere i problemi ma mantenerli sempre vivi – pur facendo finta di risolverli – per assecondare il desiderio di medicalizzazione spinta della società che viene sostenuta da chi ne trae vantaggi. Solo lo Stato, invece, è in grado di incidere su cambiamenti rapidi e duraturi, attraverso scelte fiscali, scelte tecniche e scelte organizzative anche forti ed estreme.

Spostando ora l’attenzione sulle questioni ambientali si può osservare esattamente la stessa dinamica. I decisori politici fanno (apparentemente?) di tutto per “educarci” ad essere più ecologici e più sensibili alle tematiche ambientali anche se poi continuano ad accettare incenerimento dei rifiuti, traffico veicolare urbano, ampio uso di chimica in agricoltura e chi più ne ha più ne metta. Questo atteggiamento però – maliziosamente o inconsapevolmente – tende a rallentare molto un processo che, invece, dovrebbe concretizzarsi in breve tempo perché la situazione è grave e dovrebbe essere risolta presto. Meglio sarebbe, invece, l’individuazione delle priorità d’azione inderogabili e la messa in campo di interventi forti da parte dello Stato nel perseguimento degli obiettivi.

Per capire meglio il concetto si prenda tra i tanti, ad esempio, due temi importanti dal punto di vista ambientale: la produzione di energia utilizzando fonti rinnovabili e la corretta gestione dei rifiuti, ponendo l’attenzione soprattutto sul riuso e sul riciclo dei materiali.

In merito alla produzione di energia è evidente comprendere come sia cosa molto lenta – e forse non del tutto efficace – coinvolgere individualmente i cittadini (un po’ tutti, anche quelli che hanno scarso interesse o scarsa cultura in materia) che prima devono analizzare nel dettaglio il problema, capirne l’importanza e, poi, agire concretamente o per richiedere sul mercato energia prodotta da fonti rinnovabili o per prodursela da soli. Se invece lo Stato imponesse delle tasse a chi produce energia inquinando e fornisse, come in parte ha fatto ma si è fermato sul più bello, forti incentivi (ripagati dalle tasse di cui prima) a chi produca o utilizzi energia da fonti rinnovabili, si capirebbe anche intuitivamente quali sarebbero i risultati.

Venendo ai rifiuti, alla limitazione della loro produzione, alla loro corretta gestione e al loro corretto trattamento, si fa veramente fatica ad educare, in breve tempo e verso una direzione univoca, una massa di individui che hanno diverse personalità e diverse culture. Inoltre, in quest’ambito, il cattivo comportamento di pochi potrebbe determinare danni ambientali anche molto gravi che coinvolgono tutti (ad es. gli incendi o l’abbandono dei rifiuti che si verificano soprattutto in alcune regioni d’Italia). Migliori risultati si otterrebbero invece attraverso un intervento molto forte dello Stato che tassa già alla fonte i materiali poco riciclabili, che crea politiche che incentivano il riuso dei materiali, che penalizza chi produce troppi imballaggi e così via.

Sulla base di queste considerazioni – replicabili in una infinità di ambiti – si comprende facilmente come la modifica dei comportamenti individuali sia inefficace. Solo un forte intervento pubblico, invece, dispiegato in numerosi settori (tassazione, educazione, organizzazione, punizione, ecc.) può perseguire il raggiungimento di obiettivi concreti.

Il dubbio, però, è se qualcuno li voglia veramente perseguire!!!

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Immagine: www.controlacrisi.org

 

Personaggi | Patrick Moore

Se si scorre la pagina Wikipedia di Patrick Moore e si legge sia il titolo (dove viene definito “ambientalista”) sia la prima parte della sua carriera si penserà di essere di fronte ad un personaggio importante nell’ambito della lotta ecologista e della salvaguardia del pianeta e degli animali che lo abitano. Fondatore di Greenpeace nel 1971, membro dell’equipaggio della nave Phyllis Cormack che fece le prime azioni dirette e non violente per la difesa del clima, dell’ambiente in generale, delle balene e dell’interruzione dei test nucleari, fu per 9 anni presidente di Greenpeace Canada e per 7 anni direttore di Greenpeace International nel periodo in cui Greenpeace divenne la maggior associazione ambientalista a livello mondiale. Negli anni ’70 aprì un ufficio a San Francisco ma ben presto iniziò a litigare con i suoi colleghi di Vancouver tanto da creare una frattura così profonda con l’Associazione che abbandonò nel 1986 per fondarne una propria, la Greenspirit.

Fin qui nulla di strano. La sua biografia ripercorre quella di molte altre persone che militano per lungo tempo in un movimento, in un’associazione o in un partito politico e poi, per le ragioni più varie, decidono di abbandonarlo. A partire dagli anni ’90 Patrick Moore iniziò ad assumere – spesso come lobbysta – incarichi politici nella Columbia Britannica (Canada) interessandosi e partecipando a gruppi di lavoro sui cambiamenti climatici, sullo sfruttamento dell’energia geotermica e diventando direttore del Sustainable Forestry Committee of the Forrest Alliance of BC, gruppo creato dall’industria del legno per garantire ai consumatori la gestione sostenibile delle foreste e del legname prodotto.

È però a partire dal 2006 che la parabola ideologica e professionale di Patrick Moore inizia a prendere una nuova traiettoria quando diviene co-direttore di una iniziativa industriale, la Clean and Safe Energy Coalition, che si propone di promuovere l’energia nucleare quale fonte energetica pulita (ecologica) e sicura. Si tratta di un cambiamento forte e molto radicale rispetto alle lotte che hanno contrassegnato la sua iniziale carriera fortemente incentrate sul combattere l’uso dell’energia nucleare. E, forse, questa parabola ha iniziato a cambiare già a partire dagli anni ’90, quando Patrick Moore è entrato nel mondo opaco della politica e del lobbysmo.

Quello che lo stesso Patrick Moore afferma è di essere uscito dal mondo ambientalista perché diventato troppo politicizzato e sensazionalista. Il salto, però, come dimostra il suo percorso professionale, è stato quello di passare esattamente dalla parte opposta. Sostenitore dell’energia nucleare e dell’industria che ne fa uso, è stato anche aspramente criticato per il ruolo di consulente-controllore che ha svolto per conto dell’Asia Pulp and Paper (APP), azienda che ha fortemente contribuito al disboscamento indiscriminato dell’Indonesia. Inoltre, in questi ultimi anni, si è spinto addirittura oltre e ha anche manifestato posizioni critiche nei confronti del riscaldamento globale e si è espresso favorevolmente nei confronti degli organismi geneticamente modificati (OGM) e degli additivi chimici (es. diserbanti) che sono ad essi collegati.

Sono proprio questi ultimi che, a mio avviso, ne hanno mostrato la malafede ideologica di questi ultimi anni. Invitato qualche tempo fa ad una trasmissione televisiva di Canal + in Francia Patrick Moore, dopo aver sostenuto la non pericolosità del glifosate (diserbante) – recentemente dichiarato “probabile cancerogeno per l’uomo” da parte della IARC – e la possibilità di berne anche un litro senza accusare alcun sintomo, all’invito del giornalista di berne un bicchiere, che gli vuole porgere, egli risponde: “No, io non sono un idiota”.

Qui casca il palco. Qui, secondo me, Patrick Moore dimostra di non essere in buona fede e di farsi paladino e difensore di idee e di tecnologie non del tutto sicure per l’uomo e per l’ambiente. Qui, secondo me, Patrick Moore dimostra che è in atto una sorta di manipolazione della verità da parte di multinazionali – e di loro portavoce – che cercano di spingere il mondo verso direzioni che, già ora, sanno essere inutili per il progresso e per il benessere dell’umanità, se non pericolose per la salute pubblica.

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Nota: Con questo articolo desidero iniziare a parlare di persone “comuni” (o quasi), [tag “personaggi”] normalmente poco conosciute nel circuito della comunicazione di massa, che – a mio personalissimo avviso, tenendo conto del loro curriculum e del loro percorso professionale reperibile in rete – stanno fornendo il loro enorme e silenzioso contributo alla distruzione e al degrado del Pianeta nonché alla speculazione industriale e finanziaria a discapito delle risorse naturali e della sicurezza collettiva oppure stanno facendo azioni importanti di salvaguardia dello stesso sia dal punto di vista culturale che di azioni concrete messe in campo. Si tratta di persone che, nel bene o nel male, con il loro pensiero e con il loro comportamento possono contribuire ad innescare un dibattito sulle tematiche della sostenibilità ambientale.

 

2067. La fine del petrolio

La BP (British Petroleum) non è certo la più rivoluzionaria delle aziende e nemmeno la più ecologica presente sul mercato. Si tratta, piuttosto, di una delle più importanti aziende energetiche a livello mondiale, operante prevalentemente nel campo del petrolio e del gas naturale.

Eppure, nella 63^ edizione della Statistical Review of World Energy, proprio la BP ha recentemente affermato che, sulla base dell’attuale tasso di produzione, alla fine del 2013 erano disponibili riserve di petrolio equivalenti a 1.687,9 miliardi di barili. Il che equivale, in pratica – a meno che il tasso attuale di consumo non cali drasticamente – al fatto che l’umanità ha a disposizione petrolio per altri 53 anni (fino al 2067, mese più mese meno) (1) che saranno in grado di soddisfare, al massimo, un paio di generazioni di uomini capricciosi e sedentari.

È da osservare anche il fatto che, mentre nel 2013 i consumi mondiali sono cresciuti dell’1,4%, la produzione, invece, ha visto un incremento solo dello 0,6%, pari a poco meno della metà. La maggiore crescita nei consumi, poi, si è avuta negli USA con un incremento di 400 mila barili di petrolio al giorno superando, per la prima volta dal 1999, la Cina ferma a 390 mila barili. A livello di incremento delle riserve di petrolio i migliori risultati li ha raggiunti la Russia con 900 milioni di barili annui seguita dal Venezuela con 800 milioni. Un’ultima osservazione riguarda, poi, il prezzo del barile di petrolio (che poi influenza il prezzo di vendita dei carburanti per l’utente finale) che, negli ultimi 3 anni, è rimasto sempre al di sopra dei 100 dollari a barile, dato che è significativo per dimostrare che oramai il petrolio è un bene sempre più difficile da reperire e oggetto di speculazione finanziaria.

Che cosa significa tutto ciò? Significa che l’ubriacatura dell’energia “facile” (da produrre, da stoccare, da trasportare e relativamente poco pericolosa) sta finendo (cosa saranno mai un paio di generazioni?) e, alla fine, se non saremo in grado di anticipare seriamente già ora le soluzioni per il futuro, a terra potranno rimanere solo macerie.

Cosa potrebbe accadere se in pochi anni dovesse raddoppiare il prezzo del petrolio? Cosa potrebbe accadere a livello economico e sociale se in breve tempo dovessero fallire gran parte delle aziende produttrici di automobili, già ora in crisi? Cosa potrebbe accadere se, in questi 20/30 anni che ci separano dalla vera crisi petrolifera, la tecnologia non sarà stata in rado di dare delle risposte accettabili in termini di energia per il settore dei trasporti? Cosa potrebbe accadere a livello geopolitico se tra qualche decennio le riserve di petrolio saranno nelle mani di pochi paesi e di poche persone?

Forse sarebbe meglio cercare, già da ora, di mettere in atto azioni che ci portino “dolcemente” verso: l’abbandono del petrolio (possibilmente molto prima che si esaurisca); il tramonto del mercato automobilistico e del sistema di trasporti come lo abbiamo conosciuto sino ad ora. Ne beneficerebbe anche l’ambiente e il clima. Bisogna, ad esempio, iniziare ad educare alla sobrietà nei consumi e disincentivare fortemente, attraverso un’elevata tassazione, le auto inquinanti e l’uso di energie inquinanti. Bisogna spingere le persone ad usare più mezzi pubblici, evitando innanzitutto la frequentazione dei centri storici delle città da parte alle auto private. Bisogna far sì che le persone accettino nuove forme di condivisione dei trasporti, nuove forme di mobilità e nuove forme di approvvigionamento energetico per le auto.

In pratica il sistema dei trasporti deve essere riprogrammato sin da ora e ogni anno di ritardo che ci separa dal fatidico 2067 rappresenterà una maceria in più che troveremo sul terreno della nostra stupidità.

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(1) Nell’articolo “E se finisse il ferro” la USGS (United States Geological Survey) ipotizzava il 2050 come anno di esaurimento del petrolio

 

Sarà lui la soluzione o sarà lui il problema?

È impossibile andare a parlare di energia e ambiente in Europa se nel frattempo non sfrutti l’energia e l’ambiente che hai in Sicilia e in Basilicata. Io mi vergogno di andare a parlare delle interconnessioni tra Francia e Spagna, dell’accordo Gazprom o di South Stream, quando potrei raddoppiare la percentuale del petrolio e del gas in Italia e dare lavoro a 40 mila persone e non lo si fa per paura delle reazioni di tre, quattro comitatini”. (1)

Diceva di voler cambiare il Paese ma, purtroppo, il suo pensiero sa ancora di vecchio, di stantio. Sa di muffa, quella patina che avvolge le cose, per un po’ le conserva e sembrano buone ma poi… puff… le fa avvizzire improvvisamente!

Sinceramente da un giovane politico, con così tanta fiducia tra la gente, mi aspettavo qual cosina in più in termini di energia e ambiente.
Anche se le premesse negative sull’argomento c’erano tutte [vedi il video], non mi sarei mai aspettato che volesse fondare lo sviluppo del futuro del Paese su qualche bucherello per estrarre miseri barili di petrolio di bassa qualità e gli stesse così poco a cuore l’ambiente da avere in testa solo l’idea di sfruttarlo, non di proteggerlo.

Caro Matteo Renzi, quello che serve veramente per il futuro del Paese non è il defunto petrolio, ma sono le energie rinnovabili che sono in forte crescita in tutto il mondo. Caro Matteo Renzi per far ripartire il paese e la fiducia delle persone non è sufficiente il regalo temporaneo di qualche decina di euro o la promessa di fantomatici posti di lavoro (2) nelle fonti fossili che, se ci saranno, avranno durata breve. Quello che veramente serve è il fatto di CREDERE e di sostenere chi ha nuove e buone idee, lasciando da parte le vecchie lobby di potere che incancreniscono il sistema e infestano la politica. Caro Matteo Renzi, se vuoi veramente essere un amministratore innovativo e intelligente, per cambiare il Paese e creare occupazione devi andare in Europa e dire che, a partire da ora, l’Italia investirà solo sulle energie rinnovabili e che la combustione per la produzione di energia sarà solo un metodo temporaneo che andrà pian piano ad esaurirsi.
In ballo, caro Matteo Renzi, c’è il futuro e la salute dei nostri figli. Anche dei tuoi.

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(1) Intervista di Matteo Renzi al “Corriere della Sera” del 13 luglio 2014

(2) il dato dei 40.000 posti di lavoro in Italia nell’estrazione del petrolio deriva dall’Assomineraria, che non si può dire sia del tutto indipendente e super partes sull’argomento.

Immagine: Pawel Kuczynski

 

Le rinnovabili abbassano i prezzi e fanno risparmiare energia

Ricordo quando, nei dibattiti di qualche tempo fa, si discuteva in merito agli incentivi per le rinnovabili e molti – soprattutto politici, opinionisti da quattro soldi, giornalisti, imprenditori e prestanome di speculatori – sostenevano che con gli incentivi statali i costi per l’energia sarebbero stati più elevati e che gli incentivi non erano altro che un buco nero che non avrebbe prodotto alcun beneficio né al sistema economico italiano né alla sostenibilità ambientale. Ricordo quando dicevano che il costo più elevato dell’energia rispetto agli altri paesi europei avrebbe paralizzato il sistema economico e avrebbe reso il nostro sistema produttivo non competitivo (1). In effetti il loro vero obiettivo era quello di venderci, con malizia e falsità, il nucleare, gli inceneritori, il CIP6, il carbone “pulito”, l’olio combustibile e il petrolio quali fonti energetiche “alternative” e “green”. Noi, che la materia un po’ la mastichiamo, lo sapevamo già ma sono stati in molti a mettersi i prosciutti negli occhi e credere a queste falsità.

Ora, però (e finalmente, dico io), sono usciti i dati che riportano un po’ di giustizia sulla materia e che certificano come stiano veramente le cose. Il Rapporto IREX 2014, elaborato dalla società Althesis con il patrocinio del GSE (Gestore Servizi Energetici) ha certificato che lo sviluppo capillare delle rinnovabili sta cambiando i modelli di produzione e di consumo. Da un lato si affacciano sul mercato i Sistemi Efficienti di Utenza (SEU) che abbattono le perdite di distribuzione, cresce l’autoconsumo e si iniziano a diffondere sistemi di accumulo i quali, assieme, rappresentano la manifestazione di una rete distribuita di produzione e di smart grid, cioè sistemi che consentono di essere contemporaneamente produttori e consumatori di energia e che riducono notevolmente gli sprechi creando efficienza. Dall’altro lato lo sviluppo delle rinnovabili ha consentito di ottenere un effetto benefico sul prezzo all’ingrosso dell’elettricità che è diminuito per effetto dell’abbassamento del costo nei momenti di picco. Tale fenomeno ha consentito un risparmio annuale quantificabile in circa un miliardo di euro.

In merito alla valutazione della crescita delle rinnovabili il Rapporto IREX recita: “La valutazione degli effetti della crescita delle rinnovabili sull’intero sistema italiano rimane al centro del dibattito politico e industriale. L’analisi costi-benefici, che parte dal 2008 e che abbraccia uno scenario al 2030, mostra un saldo positivo compreso tra 18,7 e 49,2 miliardi di euro. Tale risultato, nel minimo in linea con quello dell’anno scorso, sconta il minor valore che il mercato attribuisce al fattore ambientale. Il prezzo degli EUA (Diritti di Emissione, ndr) ai quali è valorizzata la riduzione delle emissioni (fino a 83 milioni di ton di CO2 in meno al 2030), è infatti calato di oltre il 40% nel 2012. Sono però notevolmente cresciuti i benefici tangibili dovuti alla riduzione dei prezzi sui mercati elettrici (peak shaving) attribuibili al fotovoltaico, passati dai 400 milioni di euro del 2011 a oltre 1,4 miliardi di quest’anno. L’indotto e l’occupazione sono le altre principali voci positive del bilancio.

Alla luce di questi dati c’è ancora qualcuno che pensa che investire nelle rinnovabili e nella sostenibilità ambientale rappresenti un freno per l’economia?

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(1) I sostenitori degli incentivi, invece, (tra cui, modestamente, c’ero anch’io) ritenevano che un tale progetto avrebbe contribuito a creare un sistema di produzione energetica più flessibile e più efficiente, più democratico perché distribuito tra un grande numero di produttori-cittadini, più moderno a sostegno dell’industria nazionale e dell’occupazione di qualità, più sostenibile e più competitivo dal punto di vista dei costi di produzione. E così, in effetti, è stato.

 

La ragnatela urbana

Avete presente quelle splendide ragnatele che talvolta, di mattina presto, in controluce e, magari, evidenziate anche dalla brina, si disegnano tra i rami degli alberi? Se siete fortunati che qualcuno e qualcosa non le abbia rovinate le potete vedere nella loro interezza cogliendo appieno la loro struttura: una forma che, da un punto centrale parte a raggiera e che ha i raggi portanti della struttura uniti tra loro da segmenti, via via sempre più lunghi e radi più ci si allontana dal centro. Una trappola invisibile, perfetta, per insetti volanti che vi dovessero finire sopra.

Ora, provate a mettere in orizzontale la ragnatela e a trasporla, in dimensioni maggiori, su un qualsiasi territorio, meglio se pianeggiante e senza ostacoli. La potete notare meglio di sera, con i lampioni accesi, ora che l’illuminazione notturna ha raggiunto (ahimè!) anche le strade più remote. Vedrete che la sua forma ricalca perfettamente la struttura delle città e delle sue vie di comunicazione: il fulcro è il centro urbano e i fili delle ragnatele sono le strade o la ferrovia. Quelle a raggiera sono le principali mentre quelle di congiunzione dei raggi sono quelle secondarie, di quartiere o, via via che ci si allontana dal centro, quelle più rade di periferia e di campagna.

Come quella del ragno anche la “ragnatela” del territorio (ragnatela urbana, la si può definire) la potremmo considerare un’enorme trappola. Che non fa prigionieri e morti come quella del ragno ma che porta l’urbanizzazione sempre più lontano dalle città divorando sempre più territorio, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno.

La ragnatela urbana è la conseguenza dei comportamenti e delle decisioni scellerate degli amministratori pubblici per portare “progresso” e “benessere” (e, spesso, anche interessi economici personali e lobbistici) perché si devono costruire nuove strade, per poi fare nuove aree industriali, per poi costruire nuove case, per poi fare nuovi ponti, per poi fare nuove valutazioni di impatto ambientale, per poi fare nuovi progetti, per poi ottenere nuovi finanziamenti, per poi fare nuove strade, per poi…

La ragnatela urbana è anche la conseguenza delle richieste avanzate dagli imprenditori per garantire competitività alle proprie imprese: più vie di comunicazione uguale più facilità nei trasporti e nella movimentazione delle merci e dei prodotti. Inoltre costruire case, aree industriali e infrastrutture è, per loro, anche un ottimo sistema per diversificare gli investimenti.

E noi, cittadini, in mezzo, informati da un sistema di comunicazione che tende ad indagare poco perché non indipendente dai “poteri”, che ci beviamo un po’ tutto convinti che vada bene così.

Al di là di quello che ci viene detto a me sembra che la ragnatela urbana sia piuttosto una trappola e lo proverò a spiegare.
Innanzitutto la ragnatela urbana consuma territorio prezioso sia per l’agricoltura e la sovranità alimentare che per il paesaggio, fonte di reddito nell’ambito turistico. Poi, la ragnatela urbana è inefficiente perché esplode le città e le distribuisce su un territorio sempre più ampio, rendendo più complessi tutti i trasporti: dalle merci, alle informazioni, all’energia. Inoltre la ragnatela urbana contribuisce ad incrementare il consumo di energia, sia per costruirla che per gestirla, oltre che ad avere un effetto indiretto di distribuzione generalizzata dei fenomeni inquinanti.

La natura – che è sempre in lotta con il reperimento dell’energia a basso sforzo e per risparmiarla – a guardarla bene, invece, produce strutture collettive compatte, le uniche in grado di minimizzare gli sforzi e, al contempo, massimizzare le relazioni.

Sulla base di questo principio è necessario che da subito i Comuni e le Regioni inizino a praticare l’obiettivo di consumo netto del territorio (1) pari a ZERO senza attendere i fantomatici regolamenti comunitari o le leggi nazionali, che non arriveranno mai perché realizzate da chi ha anche interessi personali diretti e indiretti sull’edilizia e sulla realizzazione delle infrastrutture.

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(1) Per consumo netto del territorio si intende solo il consumo del territorio vergine, al netto dei recuperi effettuati su territorio già urbanizzato.

 

Le piante imparano dall’esperienza e memorizzano nel tempo

Stefano Mancuso (1) – scienziato, professore associato di Arboricoltura generale e coltivazioni arboree nonché responsabile del LINV (Laboratorio Internazionale di Neurobiologia Vegetale) dell’Università di Firenze – assieme ai ricercatori dell’University of Western Australia Monica Gagliano, Michael Renton e Martial Depczynski, ha sottoposto a stimoli di varia natura alcune piante di Mimosa pudica (2), un arbusto che, se stimolato, è in grado di chiudere le proprie foglie. La reazione di tale pianta, immediata è visibile senza l’ausilio di sofisticati microscopi, ha consentito agli studiosi di analizzare le risposte a diverse tipologie di sollecitazioni, sia innocue che pericolose, come il contatto con un insetto.

“Abbiamo addestrato le piante ad ignorare uno stimolo non pericoloso, come la caduta da un’altezza di 15 cm del vaso dove sono coltivate – spiega Mancuso – ripetendo più volte l’esperienza. Dopo alcune volte la pianta ha iniziato a “capire” e a non chiudere più le foglie, risparmiando energia”. “Inoltre – spiega sempre il ricercatore – abbiamo allevato le piante in due gruppi separati con disponibilità di luce differente e abbiamo osservato che quelle coltivate a livelli luminosi inferiori, con meno energia a disposizione, tendono ad apprendere più in fretta di quelle che ne hanno di più, comportandosi come se non volessero sprecare risorse”. “Le piante – precisa Mancuso – hanno anche mantenuto memoria delle esperienze fatte per oltre 40 giorni”.

Le conclusioni di questo studio, pubblicate sulla rivista scientifica Oecologia, dimostrano sia che le piante sono in grado di apprendere delle informazioni sia che sono in grado di memorizzare nel tempo le informazioni apprese.

La ricerca e le conclusioni a cui è giunta dimostra due concetti fondamentali per la sostenibilità ambientale, che sono la base concettuale di Bioimita e della bioimitazione:

  1. per sopravvivere in natura non è consentito sprecare energia: massima efficienza significa maggiori probabilità di vita duratura;
  2. in natura gli esseri viventi – comprese le piante – sono “progettati” e si sono evoluti per fare esperienza e per avere memoria di tale esperienza: questo garantisce maggiori probabilità di sopravvivenza perché, nei diversi comportamenti, si può tenere conto degli errori già commessi per non ripeterli.

La similitudine dei comportamenti umani con quelli dalla ricerca relativi all’apprendimento (anche) delle piante è molto evidente. Illusi dall’ubriacatura tecnologica pensiamo di essere invincibili e di essere in grado di poter risolvere con la tecnica (le macchine, l’elettronica o la biotecnologia) tutti i vari problemi che inevitabilmente ci si presentano. Invece, a mio avviso, ci dobbiamo comportare come la Mimosa pudica (e altre piante che non abbiamo ancora compreso): dobbiamo iniziare ad essere efficienti nel consumo dell’energia, in quanto scarsa; dobbiamo iniziare a fare veramente esperienza dagli errori del passato e utilizzare tale esperienza per operare rapidi cambiamenti dei nostri comportamenti.

Solo così – e attraverso l’applicazione delle altre pratiche di imitazione della natura – avremo più probabilità di superare le inevitabili avversità della vita e di garantirci un futuro di benessere e prosperità in armonia con ciò che ci circonda.

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(1) Stefano Mancuso, oltre ad essere un ottimo comunicatore e divulgatore scientifico, è anche uno dei fondatori della neurobiologia vegetale, una nuova disciplina che studia i segnali e la comunicazione delle piante a tutti i livelli di organizzazione biologica, dalle singole molecole alle comunità ecologiche. È autore di numerosi libri sulla comunicazione e sul comportamento dei vegetali.

(2) La Mimosa pudica è una piccola pianta di origine tropicale appartenente alla famiglia delle Mimosacee che deve il proprio nome alla sua capacità di rispondere a stimoli tattili o a vibrazioni richiudendo le foglie su se stesse. Per queste sue caratteristiche è stata a lungo oggetto di studi.

 

Verso l’eolico

Verso l’eolico” è un breve video di animazione che tratta l’argomento dell’energia eolica in Sardegna.

L’autore Nicola Vargiu si chiede che cosa sia l’energia eolica, quanto inquini un parco eolico e se sia possibile produrre l’energia eolica senza deturpare il paesaggio. Le sue risposte sono assolutamente positive: poco rumore, basso inquinamento elettromagnetico e nessun campo elettrico. Inoltre l’autore esprime la propria convinzione relativamente alla sostenibilità di tale tipologia di energia facendo riferimento al “Protocollo per la realizzazione di un buon eolico” redatto nel 2002 da ANEV (Associazione Nazionale Energia del Vento), Legambiente, Greenpeace e WWF che prevede:

  1. un controllo totale su territorio, flora e fauna;
  2. una costante manutenzione della viabilità di accesso al parco eolico;
  3. la dismissione totale degli impianti a fine ciclo di vita;
  4. l’esclusione delle aree a particolare pregio e tutela.

Il video è è patrocinato dall’Università degli Studi di Sassari e pone l’accento sulle potenzialità per questo tipo di energia della Sardegna – la regione più ventosa d’Italia – nella quale, però, lo sviluppo di una politica energetica basata sull’eolico è stata frenata da burocrazia, dalle resistenze dei cittadini alle modifiche del paesaggio e da interessi illeciti verso questo business.

La natura funziona ad energia cinetica e pertanto Bioimita non può che essere favorevole alla realizzazione di un buon eolico.

Verso l’eolico from Nicola Vargiu on Vimeo.

 

Il paradosso di Jevons

Per spiegare il paradosso di Jevons desidererei fare un esempio concreto e vorrei considerare, banalmente, la strada che divide casa mia da quella dei miei genitori, nella campagna (esiste ancora la campagna, mah!) a sud di Verona. Questa strada che percorro abitualmente è caratterizzata dalla presenza di alcune aziende agricole le più grandi delle quali, in questi ultimi anni, hanno fatto  investimenti per produrre biogas dalle deiezioni degli animali di allevamento, dal quale ottenere energia elettrica. Sia ben chiaro che l’operazione è assolutamente positiva nell’ambito degli allevamenti industrializzati che caratterizzano l’agricoltura moderna. La cosa che mi stupisce, però, è che da quando queste aziende hanno a disposizione più energia, praticamente gratis, dal miglioramento dell’efficienza del processo, hanno anche riempito l’azienda stessa di un tripudio di fari, accesi tutta la notte, che non fanno altro che aumentare il consumo di energia rispetto a prima. La stessa cosa interessa anche la famiglia dei miei genitori dove, con la “scusa” di pannelli fotovoltaici che hanno sul tetto e con l’idea di poter consumare l’energia prodotta gratuitamente durante le ore diurne, sono considerevolmente aumentati i consumi di energia elettrica rispetto a quando non avevano i pannelli fotovoltaici ed è anche aumentato il numero di elettrodomestici presenti in casa. Tra il dubbio di accendere una lavatrice mezza piena o dosare l’utilizzo del condizionatore in estate, dopo l’installazione dei pannelli fotovoltaici prevale sempre la scelta verso il consumo con la scusa che: “Tanto l’energia è gratis!”.

Ma chi era Jevons? William Stanley Jevons era un economista e logico britannico vissuto nell’800 il quale, osservando il consumo inglese del carbone del suo tempo, si rese conto che miglioramenti di efficienza tecnologica dovuti a sviluppi nei motori e nelle caldaie a vapore non contribuivano a diminuirne il consumo ma, anzi, paradossalmente, in termini generali contribuivano ad incrementarlo.

In sostanza, estendendo questa osservazione in qualsiasi altro campo dove vi è aumento di efficienza a causa di miglioramenti tecnologici, Jevons sviluppò una regola accettata dall’economia (il cosiddetto “paradosso di Jevons”) secondo cui i miglioramenti tecnologici che aumentano l’efficienza di una risorsa possono far aumentare, anziché diminuire, il consumo di quella risorsa. In sostanza le tecnologie efficaci migliorano l’efficienza da un punto di vista tecnologico ma sollecitano la crescita della domanda a livello globale.

L’osservazione che desidero fare parlando del paradosso di Jevons consiste nel fatto che l’efficienza è un concetto assolutamente positivo nell’ambito tecnologico e produttivo perché consente di risparmiare risorse, energia e rifiuti prodotti. Pertanto deve essere sempre perseguita, nell’ottica del miglioramento continuo. Quello che non è affatto positivo, invece, è il comportamento umano che non ne coglie veramente la portata e che, illuso dal fatto di avere a disposizione più risorse per effetto dei miglioramenti di cui è consapevole, aumenta i propri consumi e, assurdamente, vanifica i benefici prodotti dall’efficienza stessa. Ad esempio soddisfatti di avere ridotto il consumo di energia attraverso la coibentazione della casa ci offriamo un viaggio in più ai Caraibi; il treno ad alta velocità va più veloce, allora andiamo più lontano e viaggiamo più spesso; se abbiamo un pannello solare sul tetto per la produzione di acqua calda consumiamo più acqua perché, avendo a disposizione energia gratis, ci laviamo di più e più a lungo.

Paradosso Jevons_grafico auto

Se vogliamo veramente perseguire la sostenibilità ambientale dobbiamo, da un lato, come ci insegna il funzionamento della natura, operare per ottenere la massima efficienza. Contestualmente, però, dobbiamo anche fare uno sforzo culturale e renderci conto che il vero obiettivo non è quello di ottenere l’efficienza per aumentare i consumi, ma quello di perseguirla con lo scopo di operare contestualmente un percorso verso la sobrietà. Altrimenti è come un cane che rincorre la sua coda…

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Grafico: Il grafico indica che, secondo il paradosso di Jevons, la migliore efficienza dovuta al passaggio da un’auto a scoppio ad una ibrida (che costa la metà in termini di costo per 40 km percorsi)  è vanificata dal fatto che si modificano le abitudini di guida ed aumenta il numero di km percorsi settimanalmente (circa 250 km in più).

Foto: William Stanley Jevons

 

La città diffusa è come un cancro…

La città diffusa è come un cancro che divora inesorabilmente tutto il territorio di una determinata area geografica. Strade, case, infrastrutture, capannoni industriali, servizi, centri commerciali si diffondono sempre più numerosi e crescono come funghi velenosi nelle campagne, sulle pendici dei monti, ai bordi delle vie di comunicazione, sulle coste dei mari e dei laghi.

Molti lo chiamano “sviluppo”, soprattutto i politici e gli affaristi locali, ma agli occhi di un osservatore attento appare difficile poterlo definire come tale dal momento che in esso non si riesce ad intuire, nemmeno con la più acuta fantasia, un algoritmo che lo regoli nel profondo. È pura confusione, puro rumore di fondo senza un minimo di armonia.

Certo è che una tale (non) pianificazione territoriale non garantisce uno sviluppo durevole dal momento che per poter funzionare ha bisogno di enormi quantità di energia per gli spostamenti e frammenta, come nello scoppio di una bomba, il tessuto urbano e sociale in mille parti, spesso disunite e difficili da gestire con equilibrio.

La natura, ad osservarla bene invece, ci insegnerebbe l’esatto contrario e gli animali sociali (come l’Homo urbanus, versione moderna dell’Homo sapiens) che in essa vivono, per poter raggiungere la massima efficienza energetica e la massima collaborazione reciproca, dovrebbero vivere in ambienti “concentrati” pur migrando, anche lontano, alla ricerca di risorse. Ecosistemi che noi dovremmo iniziare a studiare approfonditamente e a copiare nell’organizzare le nostre città, le nostre vite e le nostre relazioni.

L’unica soluzione al baratro rappresentato dalla città diffusa è quella, da un lato, di partecipare alla vita sociale e di esercitare un’azione di controllo sulla sfera politica ed economica nonché, dall’altro, di esigere (attraverso il voto e il consenso) che la politica inizi a porsi seriamente delle domande su che cosa sia importante al di là della dimensione presente e inizi a mettere sul tavolo (della legge) regole certe di tutela del territorio e di efficienza urbana che consentano di sperare anche in un futuro più durevolmente prospero.

Temo che quello che ora percepiamo potrebbe essere solo benessere apparente e temporaneo che in questi ultimi anni si sta affievolendo e che presto, forse troppo presto e troppo velocemente, potrebbe anche finire!

 

La storia delle cose

Desiderate capire un po’ di più Bioimita e la bioimitazione?

Bene. Prendetevi una ventina di minuti, rilassatevi sulla sedia, distendete le gambe e guardate questo bel video…

… che vi chiarirà parecchie cose sugli oggetti che ci circondano e sull’effetto diretto e indiretto che hanno sulle nostre misere esistenze.

Come dice la presentatrice: “Quando le persone inizieranno a vedere e capire tutti i collegamenti tra i vari aspetti del nostro sistema lineare, esse saranno in grado di percepire qualcosa di nuovo rispetto al passato e saranno così capaci di immaginare un sistema che non butta via risorse e persone. Ciò che dobbiamo buttare via, invece, è solo la nostra mentalità usa e getta”.

Per approfondire: www.storyofstuff.org

 

Il GSE certifica l’aumento dell’energia da fonti rinnovabili

Il dato, limpido e trasparente, è certificato dal GSE (Gestore Servizi Energetici): in 5 anni (dal 2008 al 2012) il consumo interno lordo (1) di energia da fonti rinnovabili è passato dal 16,5% al 27,1%. Un incremento del 10,6% che dimostra – a dispetto dei “soliti” detrattori che in più occasioni hanno detto maliziosamente un mucchio di falsità e fornito dati sbagliati – come l’investimento da parte dello Stato nell’ambito dell’energia pulita, anche attraverso gli incentivi, sia stato estremamente positivo ed abbia dato buoni frutti.

Tali positività sono rappresentate, in primis, dal minor impatto sull’ambiente (meno CO2, meno inquinamento da combustione). Inoltre sono anche da valorizzare:

  • i minori sprechi (i piccoli impianti sono più efficienti e dissipano meno calore);
  • la maggiore distribuzione della produzione con conseguenti benefici sulla manodopera e sul lavoro;
  • la migliore gestione della rete di distribuzione.

Il totale di energia prodotta da fonti rinnovabili nel 2012 è stato di 92.222 GWh con una potenza installata di 47.345 MW. La prima fonte è l’idroelettrico; seguono solare, eolico, bioenergie e geotermico.

L’idroelettrico – si legge dai dati diffusi dal GSE – ha raggiunto nel 2012 una produzione di 41.875 GWh. Il solare è arrivato a sfiorare i 19.000 GWh, (18.862 GWh). L’energia eolica ha toccato i 13.407 GWh, quella delle bioenergie i 12.487 GWh e la geotermica a 5.592 GWh. Per quanto riguarda la potenza installata, l’idroeletrico nel 2012 è arrivato a 18.232 MW, il solare a 16.420 MW, l’eolico a 8.119 MW, le bioenergie a 3.802 MW, la geotermica a 772 MW.

Produzione lorda energia da fonti rinnovabili

In tutti questi numeri il dato più interessante è rappresentato dal solare che in 5 anni è passata da una produzione di 193 GWh a 18.862 GWh. Non male per una tecnologia nuova che, anche se fortemente e a volte male incentivata, sta dando filo da torcere a una produzione pluricollaudata come quella idroelettrica.

Mi sa proprio che Bioimita ha ragione quando afferma che il “Progresso è imitazione della natura”.

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(1) Produzione lorda di energia + Saldo estero – Produzione da pompaggi

 

Ecodriving

Il Ministero dello sviluppo economico, il Ministero dell’Ambiente e il Ministero dei Trasporti hanno da poco pubblicato la “Guida 2013 al risparmio di carburanti e alle emissioni di CO2 delle auto”.

Il documento è molto lungo e di difficile lettura per un non esperto perché elenca, auto per auto, modello per modello, in una infinita sequenza di pagine, i consumi dichiarati di CO2.

Interessante, però, è quella parte in cui vengono dati agli automobilisti, in pillole, i 10 consigli pratici per una guida ecocompatibile (ecodriving) da applicare giorno per giorno.

  1. Accelerare gradualmente
  2. Inserire al più presto la marcia superiore tenendo il motore a bassi giri
  3. Mantenere una velocità moderata e il più possibile uniforme
  4. Guidare in modo attento e morbido evitando brusche frenate e cambi di marcia inutili
  5. Decelerare gradualmente rilasciando il pedale dell’acceleratore con la marcia innestata
  6. Spegnere il motore quando è possibile, ma solo a veicolo fermo
  7. Mantenere sempre la pressione e il gonfiaggio degli pneumatici entro i valori raccomandati
  8. Rimuovere porta-sci e portapacchi quando non necessari e tenere nel baule solo gli oggetti necessari
  9. Utilizzare i dispositivi elettrici solo per il tempo necessario
  10. Limitare l’uso del climatizzatore.

Si stima che una guida intelligente ed una corretta gestione dell’autovettura possano consentire di ridurre i consumi e le emissioni di CO2 del 10-15%, migliorando anche la sicurezza sulla strada.

Efficienza è una parola chiave nell’ambito della bioimitazione e può essere perseguita, oltre che mediante soluzioni tecniche e progettuali, anche attraverso comportamenti individuali virtuosi.

Se vi interessa poco la CO2 e le alterazioni del clima, così difficili da percepire, almeno pensate al vostro portafoglio e risparmiate un po’ di denaro. Il che, in questi tempi di crisi, non è male!

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10 consigli di ecodriving – [Per approfondire scarica il pdf]

Le lampade a LED ci rubano il sonno

L’illuminazione artificiale – sia quella pubblica disseminata sul territorio sia quella privata presente nelle case – rappresenta un’importante causa di privazione del sonno che può avere conseguenze importanti sulla salute in generale. Si va dal maggior rischio di obesità e diabete a causa del fatto che la veglia prolungata induce a mangiare di più, ben oltre le necessità energetiche dell’organismo; si arriva al maggior rischio di avere problemi di natura neurologica e comportamentale, come la scarsa attenzione, concentrazione e apprendimento fino ad arrivare all’incremento dello stato di ansia e di depressione. Si giunge infine anche al rischio di avere malattie cardiocircolatorie come infarti e ictus. Insomma dormire è molto importante per una vita sana tanto che si possono avere effetti importanti anche sul sistema immunitario.

In generale la scienza ha osservato che stare svegli più a lungo altera l’espressione di centinaia di geni che incidono fortemente sul benessere e sulla salute delle persone. E le lampade a LED, che vengono considerate un’importante soluzione in termini di efficienza energetica, potrebbero anche peggiorare la situazione.

La luce a LED bianca è, infatti, ricca delle componenti blu-verde dello spettro luminoso che sono proprio quelle a cui sono più sensibili le cellule gangliari della retina che trasmettono al cervello le informazioni relative al ritmo sonno-veglia (ritmo circadiano). Il risultato sarà allora il seguente: l’illuminazione artificiale (in particolare quella a LED, compresi i televisori e i computer che si basano sempre di più su questa tecnologia) segnalerà sempre di più al nostro cervello che non è ancora giunta l’ora di dormire con la conseguenza di farci perdere ogni giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, preziose ore di sonno.

La soluzione, già all’attenzione dei progettisti e dei produttori, potrebbe essere quella di correggere la componente blu-verde delle luci a LED con un’emissione più orientata verso la tonalità giallo-arancio.

Si deve però osservare il fatto che un’importante contributo al mantenimento della salute non si può delegare solo alla tecnica ma deve far parte anche di un atteggiamento di maturità critica e culturale delle persone che, da un lato, le porta ad avere rispetto per il riposo anche attraverso l’elaborazione di un senso del limite per la veglia e per l’eccessiva illuminazione delle case e, dall’altro, le spinge a richiedere una minore quantità di illuminazione pubblica.

Le problematiche in discussione evidenziano il fatto che i fenomeni che riguardano gli equilibri ecologici e quelli del benessere psico-fisico delle persone sono estremamente complessi e che lavorare solo in un unico ambito (nel caso delle lampade a LED sul solo versante della mera efficienza energetica) può far perdere di vista l’obiettivo di ottenere miglioramenti che riguardino entrambi gli aspetti.

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Fonte: “Le Scienze

 

Foto ricordo da Fukushima

Se qualcuno avesse ancora dubbi sulla potenziale pericolosità dell’energia nucleare…

… ecco qualche foto ricordo di fiori, frutti, piante o animali nati nella regione dell’incidente nucleare di Fukushima dell’11 marzo 2011.

Esse sono la dimostrazione lampante del motivo per cui la natura non fonda la produzione di energia sulle fonti radioattive. Troppo pericolose!!!

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Foto: Corriere.it

 

Topten | Prodotti efficienti

Topten è una guida on-line gratuita nata con lo scopo di fornire ai consumatori strumenti pratici per risparmiare energia e combattere i cambiamenti climatici scegliendo, in fase di acquisto, prodotti efficienti.

L’obiettivo è quello di permettere ai consumatori di trovare, velocemente, i migliori prodotti in vendita che soddisfino i seguenti requisiti:

  • consumino poca energia
  • siano rispettosi dell’ambiente
  • abbiano una buona funzionalità
  • non siano nocivi per la salute
  • siano di qualità elevata.

Per valutare tali caratteristiche Topten, che desidera rimanere competente, trasparente e neutrale rispetto ai produttori, analizza e valuta i test effettuati da istituti riconosciuti, le etichette e le indicazioni del produttore.

Il sito Topten è nato nel 2000 in Svizzera e rapidamente si è diffuso in tutta Europa. Oggi ne fanno parte 20 Paesi, tra cui gran parte di quelli europei, gli USA, la Cina e, a breve, l’India. L’obiettivo di Topten è quello, primario, di far maturare delle scelte di acquisto consapevoli verso l’efficienza energetica e, secondariamente, di ingaggiare una sfida tra i produttori alla messa in commercio di beni sempre più performanti, indipendentemente dalle normative esistenti nei vari Paesi.

Si pensi che il settore elettrico – che contribuisce per il 37% delle emissioni di CO2 in atmosfera – all’interno dei propri prodotti ha un’energia “nascosta” rappresentata dall’inefficienza, che esiste perché la tecnologia con cui sono stati costruiti non consente di ridurre l’assorbimento inutile (o spreco) di elettricità. Si pensi anche che Europa, USA e Cina contribuiscono per il 55% delle emissioni mondiali di CO2 e il raggiungimento di traguardi di efficienza consentirebbe di risparmiare milioni di tonnellate di CO2 emesse in atmosfera.

Per questo non è cosa banale attaccare la spina di un congelatore qualsiasi, premere il pulsante di una lavatrice qualsiasi, girare la chiave di un’auto qualsiasi.

 

La luce artificiale nuoce alla salute

Per analizzare il fenomeno dell’inquinamento luminoso è sufficiente prestare un po’ di attenzione ai luoghi che si frequentano abitualmente per osservare, negli anni, come si moltiplichino sia i pali per l’illuminazione pubblica sia le fonti di illuminazione privata, nei giardini e davanti alle case (1).

Anno dopo anno sempre più numerosi in un inarrestabile processo di crescita quasi ad indicare l’illusione dell’uomo tecnologico di vincere la notte!

Inquinamento luminoso Italia

Il fenomeno viene anche segnalato da anni sia dai movimenti ambientalisti (che spesso si concentrano di più sul consumo energetico) sia dalla ricerca scientifica che osserva sempre di più problemi legati alla salute delle persone causati dall’eccessiva esposizione all’illuminazione artificiale notturna. Così come l’orecchio ha due funzioni, quella dell’udito e quella dell’equilibrio, anche l’occhio ne ha due, quella della visione ma anche quella di trasmettere al cervello, tramite le cellule gangliari della retina, le informazioni circa la presenza di luce nell’ambiente. Una volta giunti nel cervello questi segnali innescano una serie di effetti diversi: inibiscono i neuroni che promuovono il sonno, sopprimono il rilascio dell’ormone melatonina importante per la regolazione dei cicli sonno-veglia da parte dell’ipofisi, attivano i neuroni orexina nell’ipotalamo che promuovono lo stato di veglia.

In sostanza il quadro è il seguente: l’essere umano si è evoluto secondo i ritmi circadiani regolati sulla luce naturale. Quando c’è luce siamo attivi; quando c’è buio riposiamo. Se, però, durante la notte si accendono le luci artificiali, nel nostro sistema neurovegetativo vengono riprodotti gli stessi segnali che sarebbero propri del giorno. E il fenomeno è sempre più intenso e pervasivo, tantoché nelle zone abitate il buio assoluto quasi non esiste praticamente più!

In un recente articolo de “Le Scienze” viene trattato questo tema osservando che la privazione (o la riduzione) del sonno legata alla presenza di fonti di illuminazione artificiale sia esterne che interne alle abitazioni (compresa la televisione e il pc) predispone ad importanti problemi di salute quali obesità, diabete, malattie cardiovascolari, depressione e ictus.

Secondo le statistiche oramai circa un terzo degli statunitensi adulti attivi lamenta un numero insufficiente di ore di sonno (2), mentre era solo il 3 per cento 50 anni fa. Le cose non sono migliori per i bambini poichè i dati mostrano che, a livello mondiale, ogni notte dormono in media 1,2 ore in meno rispetto a un secolo fa.

Visto l’impatto sempre più evidente (dimostrato dalla scienza) che l’illuminazione notturna ha sulla salute interroghiamoci seriamente su alcuni aspetti ad essa legati:

  • è proprio necessario moltiplicare ogni anno le installazioni luminose pubbliche e private o possiamo valutare di mantenere solo quelle assolutamente necessarie?
  • è proprio necessario che il sistema economico del consumo ci proponga beni e servizi h 24/24 senza valutare la necessità di un’area franca di riposo notturna?
  • è proprio necessario che i nostri comportamenti individuali domestici ci portino a rubare inutilmente ore di sonno al nostro corpo attraverso la televisione e il computer?

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(1) Si pensi che all’illuminazione artificiale viene destinato attualmente il 19 per cento dell’energia prodotta nel mondo!

(2) Normalmente la quantità ideale per gli adulti è di sei ore per notte.

Foto: La crescita dell’inquinamento luminoso in Italia (1971/1998/2025) – www.lightpollution.it

Fonte: “Le Scienze