Category Archives: Economia
Food Inc.
Se desiderate vedere quali potranno essere, di fatto, le conseguenze dell’Accordo TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership o Partenariato Transatlantico per il commercio e gli investimenti-trad.) mettetevi comodi sulla sedia o sul divano per circa 90 minuti e godetevi il documentario “Food Inc.” allegato.
Al di là dei fiumi di parole che si potranno spendere sull’argomento, sia pro che contro, non c’è alcun dubbio che l’accordo in oggetto è una manovra messa in campo da parte delle (poche e sempre meno numerose) multinazionali del cibo per conquistare nuovi mercati attraverso l’industrializzazione spinta dello stesso. Chi vi dirà che il TTIP favorirà le produzioni locali e biologiche si sta prendendo solo gioco di voi.
Buona visione…
Per info: Campagna Stop TTIP (it); STOP TTIP (en)
Sette principi per un’agricoltura sostenibile
Lo scorso mese di maggio Greenpeace ha pubblicato il rapporto “Agricoltura sostenibile – Sette principi per un nuovo modello che metta al centro le persone”. Si tratta di una proposta politico-economica che, basata sulle più recenti innovazioni scientifiche, si propone di mettere al centro l’idea che è necessario produrre alimenti sani lavorando in sinergia con la natura e non contro di essa. Per ottenere ciò, in sintesi, è necessario rimettere al centro le persone e i loro bisogni, non il mero profitto.
L’introduzione al rapporto recita: “Basta guardare i numeri per capire che c’è qualcosa che non va: quasi un miliardo di persone ogni notte va a dormire affamato. Allo stesso tempo nel mondo viene prodotta una quantità di cibo più che sufficiente a sfamare i sette miliardi di persone che popolano la Terra. Circa un miliardo di persone sono sovrappeso od obesi. Una percentuale sconvolgente del cibo prodotto, che arriva al 30%, viene sprecata.
Il problema oggi non è quello di produrre più cibo, ma di produrlo dove ce n’è più bisogno e in un modo rispettoso della natura. L’attuale agricoltura industriale non è in grado di farlo.
Nel frattempo il Pianeta soffre. Stiamo sfruttando in maniera eccessiva le risorse, compromettendo la fertilità del suolo, la biodiversità e la qualità delle acque. Ci stiamo circondando di sostanze tossiche, che si accumulano intorno a noi. La quantità di rifiuti prodotti continua ad aumentare. E tutto questo accade in un contesto di cambiamenti climatici e di crescente pressione sulle risorse del nostro Pianeta, che si stanno riducendo.
L’attuale sistema agricolo è dipendente dall’uso massiccio di sostanze chimiche e di combustibili fossili. È sotto il controllo di un ristretto numero di multinazionali, concentrate in poche aree del mondo, prevalentemente nei Paesi più ricchi e industrializzati. Si basa in modo eccessivo su poche colture, minando alle basi di un sistema sostenibile di produzione del cibo da cui dipende la vita.
Questo modello agricolo inquina le acque, contamina il terreno e l’aria. Contribuisce in maniera significativa ai cambiamenti climatici, minaccia la biodiversità e il benessere di agricoltori e consumatori. Fa parte di un più ampio sistema fallimentare che sta determinando:
- un crescente controllo delle multinazionali in alcune regioni del mondo, che si traduce in una sempre minore indipendenza e autodeterminazione per agricoltori e consumatori, impossibilitati a operare scelte autonome su come e cosa viene coltivato;
- un’insostenibile spreco di cibo (tra il 20 e il 30 per cento), che avviene principalmente nella fase di post-raccolto nei Paesi in via di sviluppo e nella fase di distribuzione e consumo nei i Paesi ricchi;
- l’utilizzo di vaste aree e risorse per l’allevamento (circa il 30 per cento delle terre e il 75 per cento dei terreni agricoli) e per la produzione di biocarburanti;
- un sistema agroalimentare basato sulla coltivazione di poche monocolture, da cui si origina un’alimentazione insostenibile e poco salutare, spesso povera di nutrienti, alla base sia di problemi di malnutrizione sia di obesità;
- gravi impatti sugli ecosistemi, inclusi:cambiamenti climatici (il 25 per cento delle emissioni di gas serra, comprese quelle derivanti dalla conversione dei terreni, deriva dal settore agricolo e inquinamento dell’aria;
- problemi di scarsità e contaminazione delle acque in diverse aree del Pianeta: l’agricoltura utilizza il 70 per cento delle risorse d’acqua dolce; degrado del suolo, compresi fenomeni diffusi di acidificazione dovuti all’uso eccessivo di fertilizzanti chimici o di perdita di materia organica nel suolo; perdita di biodiversità e agrobiodiversità a tutti i livelli, dalla varietà genetica delle colture alla perdita di specie a livello naturale.
Oltre ad affrontare questioni di equità sociale – come la mancanza di un accesso paritario alle risorse per gli agricoltori (in particolare per le donne), la riduzione dei sistemici sprechi di cibo e il diritto a un’alimentazione sana – dobbiamo anche abbandonare l’attuale sistema fallimentare di produzione e dirigerci verso un sistema compatibile con l’agricoltura sostenibile.
L’agricoltura sostenibile è la soluzione per il futuro. È necessario agire adesso per avviare un cambiamento di cui abbiamo estremo bisogno“.
In questo contesto i sette principi per un’agricoltura sostenibile proposti dal rapporto di Greenpeace sono:
1. Sovranità alimentare – Restituire il controllo sulla filiera alimentare a chi produce e chi consuma, strappandolo alle multinazionali dell’agrochimica;
2. Sostegno agli agricoltori e alle comuntà rurali – L’agricoltura sostenibile contribuisce allo sviluppo rurale e alla lotta contro la fame e la povertà, garantendo alle comunità rurali la disponibilità di alimenti sani, sicuri ed economicamente sostenibili;
3. Produrre e consumare meglio – E’ possibile già oggi, senza impattare sull’ambiente e la salute, garantire sicurezza alimentare e, contemporaneamente, lottare contro gli sprechi alimentari. Occorre diminuire il nostro consumo di carne e minimizzare il consumo di suolo per la produzione di agro-energia. Dobbiamo anche riuscire ad aumentare le rese dove è necessario, ma con pratiche sostenibili;
4. Biodiversità – E’ necessario incoraggiare la (bio)diversità lungo tutta la filiera, dal seme al piatto con interventi a tutto campo, dalla produzione sementiera all’educazione al consumo. Ciò vuol dire esaltare i sapori, puntare sul significato di nutrizione e cultura del cibo, migliorando allo stesso tempo l’alimentazione e la salute;
5. Suolo sano e acqua pulita – Significa proteggere e aumentare la fertilità del suolo, promuovendo le pratiche colturali idonee ed eliminando quelle che invece consumano o avvelenano il suolo stesso o l’acqua;
6. Un sistema sostenibile di controllo dei parassiti – Significa consentire agli agricoltori di tenere sotto controllo parassiti e piante infestanti, affermando e promuovendo quelle pratiche (già esistenti) che garantiscono protezione e rese senza l’impiego di costosi pesticidi chimici che possono danneggiare il suolo, l’acqua, gli ecosistemi e la salute di agricoltori e consumatori;
7. Sistemi alimentari resistenti – Un’agricoltura sostenibile crea una maggiore resistenza (resilienza). Significa rafforzare la nostra agricoltura perché il sistema di produzione del cibo si adatti ad un contesto di cambiamenti climatici e di instabilità economica.
_____
Scarica il rapporto completo in italiano [qui]
Gli investimenti sono necessari per la ripresa
In questo particolare periodo storico caratterizzato dalla presenza di una lunga crisi economica che sta mettendo in ginocchio il sistema produttivo e sociale di gran parte degli stati mondiali numerose sono le ricette di politica economico-finanziaria che vengono proposte dagli economisti, dai politici e dalle diverse parti sociali. Si va dalla necessità di far ripartire gli investimenti pubblici al reddito di cittadinanza per chi è indigente o perde lavoro. Si va dalle politiche di acquisto del debito pubblico degli Stati da parte della Banca Centrale Europea (BCE) a quelle di incentivo dei consumi. Si va dalla svendita del patrimonio statale per far cassa attraverso le privatizzazioni alla facile concessione di autorizzazioni per le estrazioni petrolifere e di altri minerali.
OK, tutto corretto! O quasi, perché tali politiche funzionano bene solo nel breve o nel brevissimo periodo, cioè nell’arco massimo di 5 anni. Agli stessi teorici che le propongono (e che di solito appartengono alla classe medio-alta della società) desidererei anche chiedere quale visione del mondo hanno tra 10, 20 o 30 anni. Cosa succederà ai nostri figli quando saranno dei quarantenni/cinquantenni? Che sistema sociale e che sistema economico troveranno? Vivranno in un modo di pace, di civiltà e di democrazia o saranno costretti ad una folle competizione, a difendere con i denti e con la violenza quel poco che hanno e a mendicare dai potenti di turno?
A mio avviso nulla si sta veramente facendo per portarci veramente fuori dalla crisi economica. Quello che vedo sono solo piccole manovre correttive che tendono sempre di più ad impoverire i popoli e i cittadini a vantaggio di quei pochi (tra l’altro sempre meno) che detengono la ricchezza globale del Pianeta.
Prendiamo, ad esempio, gli investimenti pubblici così tanto agognati per fornire la teorica ripresa. Al netto della corruzione, gli interventi pubblici a cui si fa spesso riferimento sono quelli “rousveltiani” della gradi opere: autostrade, ferrovie, tunnel, porti, ponti, EXPO, MOSE e chi più ne ha più ne metta. Ci siamo però mai chiesti chi le usa queste grandi opere faraoniche se le famiglie hanno meno reddito disponibile? E quali sono i costi per le loro manutenzioni? Ci siamo mai chiesti se ci possono essere delle alternative a queste cattedrali nel deserto che, oltre ad essere altamente impattanti dal punto di vista della sostenibilità ambientale, non sono più così necessarie alla crescita economica come lo erano nel periodo della ricostruzione post bellica, quando la gente agognava a possedere beni che non aveva? Ci siamo mai chiesti se, piuttosto che muovere terra, scavare buche, gettare colate infinite di cemento e lastricare il territorio di asfalto non sia più conveniente lavorare, per esempio, per cambiare completamente il sistema produttivo e di approvvigionamento energetico? Ci siamo mai chiesti se invece di creare grandi strutture centralizzate di produzione, di commercio e di distribuzione di beni e servizi non sia più interessante creare piccole reti locali in connessione tra loro che distribuiscano maggiormente la ricchezza e che facciano aumentare i saperi?
Dal lato dei consumi, poi, si continua a ricercare la crescita e la ripresa economica incentivando sistemi consumistici lineari del tipo: produci, consuma e butta (qualcuno, sui muri delle città, scrive “crepa”). Ci siamo mai chiesti se non sia più conveniente iniziare seriamente un percorso che ribalti completamente tale assurdo sistema e che operi in modo più circolare limitando l’uso delle materie e la produzione dei rifiuti?
Nel nostro attuale contesto certifichiamo continue disuguaglianze e viviamo nell’ansia costante di perdere quello che possediamo (attraverso il consumismo) e abbiamo fatto (sacrificando il nostro tempo nel lavoro). Cambiando completamente prospettiva potremo anche gettare le basi perché le comunità siano più eque e le relazioni siano più armoniche. Magari non solo quelle umane ma anche quelle nei confronti della natura!
Il paradosso di Jevons
Per spiegare il paradosso di Jevons desidererei fare un esempio concreto e vorrei considerare, banalmente, la strada che divide casa mia da quella dei miei genitori, nella campagna (esiste ancora la campagna, mah!) a sud di Verona. Questa strada che percorro abitualmente è caratterizzata dalla presenza di alcune aziende agricole le più grandi delle quali, in questi ultimi anni, hanno fatto investimenti per produrre biogas dalle deiezioni degli animali di allevamento, dal quale ottenere energia elettrica. Sia ben chiaro che l’operazione è assolutamente positiva nell’ambito degli allevamenti industrializzati che caratterizzano l’agricoltura moderna. La cosa che mi stupisce, però, è che da quando queste aziende hanno a disposizione più energia, praticamente gratis, dal miglioramento dell’efficienza del processo, hanno anche riempito l’azienda stessa di un tripudio di fari, accesi tutta la notte, che non fanno altro che aumentare il consumo di energia rispetto a prima. La stessa cosa interessa anche la famiglia dei miei genitori dove, con la “scusa” di pannelli fotovoltaici che hanno sul tetto e con l’idea di poter consumare l’energia prodotta gratuitamente durante le ore diurne, sono considerevolmente aumentati i consumi di energia elettrica rispetto a quando non avevano i pannelli fotovoltaici ed è anche aumentato il numero di elettrodomestici presenti in casa. Tra il dubbio di accendere una lavatrice mezza piena o dosare l’utilizzo del condizionatore in estate, dopo l’installazione dei pannelli fotovoltaici prevale sempre la scelta verso il consumo con la scusa che: “Tanto l’energia è gratis!”.
Ma chi era Jevons? William Stanley Jevons era un economista e logico britannico vissuto nell’800 il quale, osservando il consumo inglese del carbone del suo tempo, si rese conto che miglioramenti di efficienza tecnologica dovuti a sviluppi nei motori e nelle caldaie a vapore non contribuivano a diminuirne il consumo ma, anzi, paradossalmente, in termini generali contribuivano ad incrementarlo.
In sostanza, estendendo questa osservazione in qualsiasi altro campo dove vi è aumento di efficienza a causa di miglioramenti tecnologici, Jevons sviluppò una regola accettata dall’economia (il cosiddetto “paradosso di Jevons”) secondo cui i miglioramenti tecnologici che aumentano l’efficienza di una risorsa possono far aumentare, anziché diminuire, il consumo di quella risorsa. In sostanza le tecnologie efficaci migliorano l’efficienza da un punto di vista tecnologico ma sollecitano la crescita della domanda a livello globale.
L’osservazione che desidero fare parlando del paradosso di Jevons consiste nel fatto che l’efficienza è un concetto assolutamente positivo nell’ambito tecnologico e produttivo perché consente di risparmiare risorse, energia e rifiuti prodotti. Pertanto deve essere sempre perseguita, nell’ottica del miglioramento continuo. Quello che non è affatto positivo, invece, è il comportamento umano che non ne coglie veramente la portata e che, illuso dal fatto di avere a disposizione più risorse per effetto dei miglioramenti di cui è consapevole, aumenta i propri consumi e, assurdamente, vanifica i benefici prodotti dall’efficienza stessa. Ad esempio soddisfatti di avere ridotto il consumo di energia attraverso la coibentazione della casa ci offriamo un viaggio in più ai Caraibi; il treno ad alta velocità va più veloce, allora andiamo più lontano e viaggiamo più spesso; se abbiamo un pannello solare sul tetto per la produzione di acqua calda consumiamo più acqua perché, avendo a disposizione energia gratis, ci laviamo di più e più a lungo.
Se vogliamo veramente perseguire la sostenibilità ambientale dobbiamo, da un lato, come ci insegna il funzionamento della natura, operare per ottenere la massima efficienza. Contestualmente, però, dobbiamo anche fare uno sforzo culturale e renderci conto che il vero obiettivo non è quello di ottenere l’efficienza per aumentare i consumi, ma quello di perseguirla con lo scopo di operare contestualmente un percorso verso la sobrietà. Altrimenti è come un cane che rincorre la sua coda…
_____
Grafico: Il grafico indica che, secondo il paradosso di Jevons, la migliore efficienza dovuta al passaggio da un’auto a scoppio ad una ibrida (che costa la metà in termini di costo per 40 km percorsi) è vanificata dal fatto che si modificano le abitudini di guida ed aumenta il numero di km percorsi settimanalmente (circa 250 km in più).
Foto: William Stanley Jevons
Open Source Ecology
L’Open Source Ecology (OSE) è un movimento fondato negli USA da Marcin Jakubowski che si propone di creare, attraverso il coinvolgimento di diversi attori del mondo produttivo (imprenditori, ingegneri, designer, agricoltori e attivisti), una rete di competenze che diano origine ad un’”Open Source Economy”. In sostanza l’obiettivo è quello di far condividere, a livello mondiale, sia conoscenze tecniche che metodologie produttive oppure addirittura progetti di macchine e prodotti con lo scopo di consentirne il libero utilizzo a tutti senza copyright. Chiunque può poi apportare modifiche migliorative e, a sua volta, condividerle in un processo senza fine. In tal modo si riesce ad intraprendere un importante percorso verso la sostenibilità ambientale ed economica perché si libera il sistema produttivo dai monopoli e dai vincoli di riservatezza che frenano, tra le altre cose, anche l’evoluzione ecologica delle produzioni e dei prodotti.
Chi scopre un nuovo processo, un nuovo prodotto o una nuova macchina e desidera aderire all’Open Source Ecology, anziché operare per proteggere con marchi e brevetti la propria invenzione esclusiva, ne libera i contenuti in rete consentendone ad altri sia il pieno utilizzo che possibili interventi migliorativi i quali, a loro volta, dovranno essere condivisi in una catena infinita.
I benefici di tale pratica non consistono nella vendita dei diritti all’utilizzo o nell’esclusività produttiva che, di fatto, bloccano per lungo tempo il progetto, ma consistono in una condivisione del sapere e nel fatto che chi crea può disporre di una rete enorme, distribuita a livello mondiale, di “collaboratori”.
Gran parte dei benefici di tale pratica possono essere sia di tipo economico che ecologico. I primi si hanno perché i miglioramenti progressivi cercano sempre di diminuire i costi di produzione nonché potenziare l’efficienza e la razionalità nell’uso delle risorse. Quelli di tipo ecologico, direttamente collegati ai primi, si muovono anche nella dimensione etica per far sì che le macchine e i prodotti abbiano, in generale, il sempre minor impatto sull’ambiente.
L’Open Source Ecology non è una novità assoluta ma è figlia di altre famose pratiche di open source, già da tempo ben avviate e operative. Nel campo dell’informatica, ad esempio, famoso è il sistema operativo Linux oppure WordPress, operante nell’ambito della progettazione dei siti internet. Nel campo della cultura, invece, famosa è l’enciclopedia libera Wikipedia. Tutti strumenti che, in qualche modo, hanno potuto dare un importantissimo contributo sia all’economia che allo sviluppo e al progresso della società. Visto che funziona in ambito informatico e culturale, perché non dovrebbe funzionare, allora, anche in ambito tecnico?
Bioimita aderisce e sostiene pienamente l’Open Source Ecology perché ritiene che la condivisione delle idee e delle tecnologie possa essere il vero braccio operativo per l’applicazione dei suoi principi.
Per approfondimenti:
Le assurdità del PIL
«Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow Jones né i successi del Paese sulla base del Prodotto Interno Lordo (PIL). Il PIL comprende l’inquinamento dell’aria, la pubblicità delle sigarette, le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine del fine settimana… Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari. Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione e della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia e la solidità dei valori familiari. Non tiene conto della giustizia dei nostri tribunali, né dell’equità dei rapporti fra noi. Non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio né la nostra saggezza né la nostra conoscenza né la nostra compassione. Misura tutto, eccetto ciò che rende la vita degna di essere vissuta». Discorso tenuto il 18 marzo 1968 da Robert Kennedy alla Kansas University.
Uno degli elementi più assurdi che caratterizzano il nostro sistema economico è il PIL (Prodotto Interno Lordo). Si tratta, in sostanza, di un indicatore macroeconomico che si propone di rappresentare il benessere di una collettività nazionale attraverso la misura del valore totale dei beni e servizi prodotti nel corso di un anno in un dato Paese da parte di operatori economici residenti e non residenti e destinati al consumo da parte dell’acquirente finale, agli investimenti privati e pubblici e alle esportazioni. Il PIL non considera la produzione destinata ai consumi intermedi di beni e servizi, necessari per produrre semilavorati.
Il PIL è detto “lordo” perché è al lordo degli ammortamenti, cioè di quei costi di beni a utilità pluriennale che vengono distribuiti su più esercizi. Il PIL è anche la base per il calcolo del reddito pro-capite, dato dal rapporto tra PIL e numero dei cittadini.
Come aveva giustamente fatto notare anche Robert Kennedy nel suo famoso discorso (e che, forse, gli è anche costato la vita) il PIL ha degli enormi limiti.
Innanzitutto tiene conto solo delle transazioni in denaro e trascura tutte quelle a titolo gratuito: in tal modo esclude le prestazioni in ambito familiare e quelle del volontariato che sono la diretta espressione del senso di comunità e, in qualche modo, di positività sociali anche se operano in ambiti problematici.
Il PIL inoltre tratta tutte le transazioni monetarie che avvengono in un Paese come positive e, pertanto, tra esser rientrano anche quelle che avvengono in ambito bellico, sanitario, della malavita o delle bonifiche da inquinamento. Paradossalmente più malati in cura ci sono e più elevato è il PIL; più bambini disadattati in cura ci sono e più elevato è il PIL; più morti ci sono è più elevato è il PIL; più sono le armi acquistate e più elevato è il PIL; più inquinamento bonificato c’è e più elevato è il PIL.
Dobbiamo da subito chiedere ai nostri economisti, ai nostri banchieri, ai nostri imprenditori e ai nostri governanti che si continuano a riempire la bocca di “PIL” che esso non è in grado affatto di misurare il nostro benessere, ma solo l’ampiezza del sistema economico, positivo o negativo che sia. Dobbiamo cominciare a chiedere loro che, più che ricchi materialmente, noi desideriamo essere felici o, visto che la felicità non è un luogo ma una direzione, per lo meno avere la sensazione di esserci incamminati nel giusto percorso verso il raggiungimento della stessa.
È necessario, allora, che si inizi seriamente a pensare che il PIL è un indicatore assurdo e che è al più presto bisogna cambiarlo.
Qualche proposta alternativa è già da tempo in discussione e, tra tutti, l’indicatore che mi piace di più è la Felicità Interna Lorda (FIL). State sintonizzati che al più presto ne parlerò in dettaglio…
_____
Grafico: Il grafico mostra che la felicità delle persone non è legata solo al reddito e che non aumenta inefinitamente all’aumentare dello stesso, attestandosi intorno ad un certo valore (intorno a 8.000 $/anno).
Locale o globale?
In termini di sostenibilità ambientale ha molto più valore favorire le piccole produzioni artigianali locali o le grandi industrie operanti sul mercato globale?
La questione non è facile da dipanare e pone il seguente dilemma.
Le piccole produzioni artigianali locali alimentano – se non in minima parte – un sistema tecnologico legato alla produzione di macchinari o allo sviluppo di processi produttivi e organizzativi ma curano maggiormente la qualità dei materiali, delle lavorazioni, dell’abilità manuale e delle relazioni umane. I prodotti sono un po più cari ma sono destinati a durare di più nel tempo e i loro consumi sono difficilmente influenzabili dalla moda e dal marketing.
La produzione industriale, invece, crea, quando fiorente, enormi flussi monetari che spingono verso la ricerca scientifica e tecnologica, lo sviluppo di processi produttivi basati sulla quantità e lo sviluppo di processi organizzativi basati sulla spersonalizzazione dei saperi. I lavoratori sono “capitale umano”, i clienti sono “consumatori”, le risorse naturali sono “merci” e un’ampia fetta del sistema deve essere impiegata a variare continuamente le caratteristiche dei prodotti e a stimolare i desideri di possesso.
Non pretendo di aver ragione e forse sono sono un tantino ingenuo ma, nei termini della sostenibilità ambientale. a me sembra chiara la risposta.
IKEA
Verona, la mia città, vorrebbe che IKEA si insediasse sul proprio territorio. Lo desidera così come pure Nizza, Ventimiglia e, probabilmente, molte altre città italiane e non che anelano ad IKEA come fosse una specie di manna che piove dal cielo e che dispensa, in una pioggia battente e continua, prosperità per tutti, ricchi e meno ricchi.
Non ho nulla di particolare contro IKEA che, anzi, nell’ambito della grande distribuzione, manifesta standard ecologici ed etici abbastanza elevati. In più produce buon design per tutti!
Quello che contesto, però, a chi vede in IKEA la soluzione dei problemi economici e di piena occupazione di una comunità, è il fatto che essa è solamente un grande magazzino di stoccaggio e di distribuzione di prodotti di ottimo design e di discreto rapporto qualità/prezzo, che dispensa la vera ricchezza ai proprietari svedesi e ai produttori (sia ben inteso non ai lavoratori) normalmente dislocati nelle aree più depresse del mondo. Da noi IKEA offre solamente posizioni impiegatizie di basso profilo nel settore commerciale e nella gestione del magazzino.
La vera ricchezza di una comunità sarebbe rappresentata, invece, dalla promozione di attività industriali innovative dal punto di vista progettuale (a mio avviso si dovrebbe lavorare molto sulla ricerca e sullo sviluppo di prodotti che imitano il funzionamento della natura), nonché sull’artigianato e sull’agricoltura di prodotti di qualità.
Solo così si sosterrebbe l’occupazione e il “benessere”, non solo economico ma anche culturale, di una comunità nel lungo periodo.
Cosa resterebbe, in termini di conoscenza, ad una comunità se IKEA (o altre grandi distribuzioni internazionali), in una sala riunioni a 2.000 o a 20.000 Km di distanza, dovesse decidere di andarsene?
Mi sa proprio che, a guardarlo bene, il desiderio di far installare IKEA in un dato territorio da parte di numerosi soggetti locali sia più che altro un disegno di speculazione edilizia, ben mascherato dietro il solito miraggio del lavoro, dello sviluppo e del benessere.
Tecnocrati
Tecnocrati che percepiscono stipendi milionari ci dicono che la nostra economia è in recessione e professori che hanno aggirato le regole democratiche per ricoprire posizioni di governo ci stanno facendo digerire pillole sociali che ci provocano forti indigestioni. Il tutto condito da politici di professione che non conoscono i veri problemi della gente e che vanno in giro a dire che la crisi è stata causata sempre da “altri” e che solo loro hanno in mente le giuste manovre di crescita per far ripartire l’economia e il benessere.
Questo è, sindacato più giornalista meno, lo scenario del Natale 2012 appena trascorso e del nuovo anno che è appena iniziato.
La verità vera, quella che tanti sanno (o pensano) ma che nessuno osa dire apertamente, è che non si tratta né di una crisi finanziaria né di una delle tante crisi passeggere e cicliche, alle quali, dalla nascita dell’industria e della moderna economia, ci eravamo abituati.
Si tratta, invece, di una crisi profonda di sistema economico e, anzi, più precisamente, di una crisi ecologica che già acuti pensatori, ricercatori e imprenditori degli anni ‘70 avevano previsto con assoluta precisione.
Basta fare qualche piccolo ragionamento approfondito ed incrociare qualche dato scientifico per capire che il “giochino” del capitalismo-consumismo non è più a lungo praticabile, perché si fonda su un enorme consumo di materie (più di quelle che il sistema Terra è in grado di produrre) e sopravvive solo se vi è una forte disuguaglianza tra i popoli, tra chi accede ai suoi “benefici” (pochi) e che non vi accede.
Solo per fare degli esempi si pensi che il USGS (United States Geological Survey) ha stimato gran parte delle materie prime che oggi utilizziamo (in particolare i metalli) entro il secolo in corso non saranno più facilmente disponibili per usi industriali.
Non si devono allora scomodare né illustri professori universitari né rampanti politici per trovare una soluzione al problema. Basta solo guardarci un po’ intorno con attenzione per scoprire che la ricetta per superare questa situazione è molto semplice e prevede una duplice azione: iniziare a parlarne per prepararci con consapevolezza all’inevitabile impatto (economico e sociale) che la crisi porterà con sé ed elaborare nuove strategie di sobrietà e di solidarietà; abbandonare l’idea che l’economia del futuro si possa fondare su un sistema predatorio delle risorse e sulla forzatura del funzionamento della natura, alimentate da grandi quantità di energia.
L’economia, il lavoro e il benessere del futuro si potranno basare solo sui principi di imitazione del funzionamento della natura. Solo così si potrà garantire continuità ai sistemi economici e sociali senza intaccare quel patrimonio di risorse materiali naturali indispensabili per alimentare gli stessi. Qualche tempo fa si diceva di preservare le risorse per le generazioni future.
E se quelle generazioni future fossimo già noi stessi?!?!
Foto: Parlamentari dormono