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Prodotti biologici: garanzia di assenza di pesticidi o trovata commerciale?!
L’Azienda Sanitaria di Firenze ha pubblicato sul proprio sito internet un’interessante tesi di laurea del corso di “Tecniche della prevenzione nell’ambiente e nei luoghi di lavoro” di Arianna Ugolini dal titolo: “Prodotti biologici: garanzia di assenza di pesticidi o trovata commerciale?!”
Il lavoro, dopo aver ampiamente e chiaramente spiegato le caratteristiche dei prodotti fitosanitari in agricoltura e la loro classificazione, ne ha esaminato – focalizzandosi particolarmente sui composti organofosfati (1) – i possibili effetti sulla salute e ha spiegato le regole per un corretto impiego degli stessi nella Regione Toscana, concentrandosi anche nel valutare quali siano i limiti massimi accettabili negli alimenti.
L’obiettivo, visto il corso di laurea, era principalmente quello di capire se sia possibile fare un’azione di prevenzione nei riguardi dei composti organofosfati da parte dei consumatori attraverso il consumo di prodotti biologici oppure se tale prevenzione, in relazione alle caratteristiche e alle contaminazioni degli alimenti, sia del tutto ininfluente nei confronti del loro stato di salute in generale.
L’idea di realizzare questo studio, come osserva l’autrice nella Premessa della sua tesi, nasce dalla lettura di due articoli, antitetici nel loro contenuto. Il primo, tratto dal sito internet Il fatto alimentare, datato 25 febbraio 2015 e intitolato “Consumare biologico fa bene alla salute. Meno pesticidi nell’organismo. Pubblicato il primo studio che evidenzia l’accumulo” afferma che chi consuma abitualmente frutta e verdura biologiche espone il suo organismo a minori quantità di pesticidi ed erbicidi rispetto a chi mangia vegetali coltivati con i metodi convenzionali. E questo risulta particolarmente importante per i composti organofosfati. L’altro testo, tratto dalla rivista Altroconsumo e intitolato “Biologico, c’è chi dice no. La nostra inchiesta” dell’11 settembre 2015, assieme alla risposta alle discussioni suscitate, “Inchiesta bio: alimenti biologici e convenzionali, il confronto”, pubblicata sempre da Altroconsumo il 4 ottobre 2015, in maniera molto dubbiosa vuole invece porre in discussione l’idea che il biologico sia migliore del convenzionale, elencando i punti a favore e quelli contrari, allo scopo di informare correttamente il consumatore e consentirgli di fare corrette scelte alimentari.
Per arrivare alle proprie conclusioni la ricercatrice ha effettuato dei campionamenti sugli alimenti e sull’acqua piovana mirati a verificare, in essi, i residui di fitofarmaci. I rilievi sono stati effettuati su 4 principali canali di produzione/distribuzione:
- coltivatori non biologici
- coltivatori biologici non certificati
- negozi specializzati
- negozi della grande distribuzione (GDO).
Per fare ciò la ricercatrice ha utilizzato il kit BioPARD, Pesticide Analytical Remote Detector, che si basa su un sistema di sensori associato ad un rivelatore elettrochimico per la determinazione rapida di pesticidi organofosforici e carbammici in campioni di cibo, acqua e suolo. Il kit permette solo una valutazione fondamentalmente qualitativa (presenza/assenza di pesticidi) e non quantitativa (se non per una discriminazione di massima tra valori quantitativi definiti “High” e valori più bassi definiti “Medium”, mentre con valori “Low” s’intende l’assenza o la presenza in minime tracce di residui) di pesticidi organofosforici e carbammati. Sulla base di questa discriminazione di massima (High; Medium; Low) Arianna Ugolini ha poi elaborato dei grafici riassuntivi che hanno fornito, in linea di massima, i seguenti risultati: i prodotti biologici sono risultati “High” per circa il 63%, “Medium” per circa il 13% e “Low” per circa il 23%. i prodotti convenzionali sono invece risultati “High” per circa il 90%, “Medium” per circa il 10%; i due campioni di acqua piovana provenienti da Scandicci centro e Ginestra Fiorentina sono risultati rispettivamente “Medium” e “Low”.
Le conclusioni di questo interessante lavoro (Tabella A) arrivano ad affermare che, dal lato della produzione, la certificazione biologica fornisce, in generale, migliori prodotti di quella convenzionale anche se non in assoluto. I prodotti migliori sono infatti quelli che provengono dalle coltivazioni biologiche non certificate. Dal lato della commercializzazione e distribuzione dei prodotti attraverso il canale della grande distribuzione non ci sono invece differenze sostanziali tra prodotti biologici e prodotti non biologici.
Quanto di inaspettato emerge dalla tesi di laurea è un fatto molto interessante, da non sottovalutare nelle scelte alimentari e negli studi della sostenibilità ambientale e alimentare del futuro. La certificazione biologica non è in assoluto uno strumento per misurare la qualità dei prodotti (dal punto di vista dei residui chimici) e la qualità dei prodotti consumati è tanto più elevata quanto più il produttore è consapevole dal punto di vista etico della propria scelta colturale “ecologica”. Questo indipendentemente dall’ottenimento o meno della certificazione biologica. In buona sostanza lo studio osserva che coltivare bene i prodotti agricoli è una scelta chiara e netta operata da parte del produttore e chi produce prodotti biologici solamente per fare più soldi o perché il mercato va in quella direzione, non necessariamente è in grado di immettere sul mercato prodotti di qualità. Come, per altro, chi certifica non è in grado di garantirlo sempre.
Estendendo queste conclusioni nel terreno della bioimitazione ne deduco anche che la sostenibilità ambientale non è – come ci vogliono far credere – solo un processo tecnico-economico che consente di far profitti in modo diverso. Così non funziona e non funzionerà mai! La sostenibilità ambientale è solamente un processo filosofico, del pensiero prima di tutto, che fa concepire la Natura come un tutt’uno, un insieme di processi complessi, nei confronti della quale non è sufficiente che mutiamo l’approccio tecnico-operativo, ma verso la quale dobbiamo mutare radicalmente il nostro modo di pensare consapevoli che nella partita della sostenibilità ambientale dobbiamo essere anche disposti a perdere molto. Altrimenti non funziona!!!
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La tesi di laurea di Arianna Ugolini è liberamente scaricabile qui.
(1) Ai composti organofosfati sono associati a diversi effetti negativi sulla salute umana, sia di tipo acuto (tremori, cefalea, difficoltà respiratorie) che cronico (disturbi neurologici, ansia), nonché, per quanto riguarda l’esposizione in gravidanza dei feti ritardo mentale, basso quoziente intellettivo e altro. Da uno studio condotto tra il 2010 e 2012 da parte dei ricercatori della School of Allied Health Sciences dell’università di Boise in Idaho, è risultato che esiste una relazione dose-dipendente tra consumo di alimenti non biologici e presenza di composti organofosfati nelle urine. (http://www.ilfattoalimentare.it/pesticidi-frutta-verdura-biologica.html).
L’odore della morte
Lo avete mai provato? L’odore di morte è spaventoso e vomitevole. Un misto di sangue, urine, feci che impregna l’aria, ti entra nelle narici e si attacca per lungo tempo ai tuoi vestiti. Quando entri in un macello industriale, se ti avvicini all’area dell’uccisione dell’animale o alle fasi della catena di lavoro immediatamente successive e, in un rumore assordante dovuto alle urla delle povere bestie che “sentono” il patibolo, vieni investito da uno schizzo di sangue che sgorga dalla loro giugulare o che spilla dalle arterie dei loro arti che vengono recisi o del ventre che viene svuotato, capisci senza ombra di dubbio che cosa sia la morte.
Non quella di una zanzara, di una lucertola, di un microbo o di un pesce. Quella di un mammifero – il maiale, la mucca, il cavallo – che sente e vive quasi come te e che, spesso, hai accarezzato o fatto accarezzare ai tuoi figli sui pascoli o nelle stalle quando, con quel suo nasone buffo, ti si è avvicinato per sola curiosità o per scroccare un po’ di cibo.
L’esperienza non è affatto piacevole e, almeno le prime volte, ti resta incollata nel cervello per qualche giorno. Poi, purtroppo, con il tempo ti ci abitui e ti scivola un po’ più addosso.
Quello che ora mi colpisce e ancora mi angustia quando vado in un macello industriale non è tanto il cadavere dell’animale appeso, le sue convulsioni appena viene sgozzato o le fasi dell’eviscerazione e dello squartamento quanto, piuttosto, gli scarti e i rifiuti delle lavorazioni [vedi foto]. Se la carne inizia subito un processo che la porta ad essere lavata, controllata e igienicamente sicura (quindi, permettetemi il termine, “bella”) i rifiuti, invece, manifestano in tutto il loro ribrezzo che cosa sia la morte a livello industriale. In gran parte finiscono, convogliati da nastri trasportatori, verso cassoni o trituratori che ne fanno una poltiglia informe e viscida che mi richiama conati di vomito ogni volta che la vedo. In minima parte i rifiuti della macellazione – e anche questo non mi piace proprio – finiscono sparsi sulla pavimentazione a dimostrazione che la sacralità della vita, quella che esiste in forma rituale in gran parte delle tradizioni e delle religioni, nel sistema del cibo industriale, non esiste. Tutto – dico tutto – è semplicemente o “merce” o “rifiuto”, o “tempo” o “redditività”. E, alla fine, soldi!
Al di là di quello che provo quando frequento i macelli industriali io non sono totalmente contro la carne. Sono convinto che, nell’ultima fase evolutiva del suo percorso terrestre, l’uomo sia “diventato” anche carnivoro (1) e che l’assunzione della giusta dose di proteine animali non sia così deleteria per la salute. Ovviamente i quantitativi da consumare devono essere molto bassi, radi nella loro frequenza e quel poco che viene mangiato deve possedere una dimensione etica (la tipologia di allevamento, il cibo e la macellazione) e deve essere di enorme qualità. Quello che però non concepisco è il fatto che la carne – soprattutto quella di bassa qualità – sia entrata di prepotenza nel nostro immaginario e sia oramai diventata l’alimento ubiquitario e quotidiano dei nostri pasti. Questo mi fa comprendere quanto siamo scarsamente interessati (o quanto siamo scarsamente informati) sia all’etica nel trattamento degli animali sia alla nostra salute e alle sorti del pianeta che abitiamo che, a poco a poco, per far posto agli allevamenti in batteria e alle coltivazioni che garantiscono cibo agli animali, depauperiamo della sua biodiversità e alteriamo nei suoi equilibri chimici.
Sono comunque convinto che non sia necessario bandire totalmente la carne dalla dieta per compiere delle azioni sostenibili dal punto di vista ambientale. Per ottenere questo importantissimo risultato è sufficiente (ri)acquisire semplicemente una sorta di rispetto per l’animale che ci dona la vita perché tutto il resto – eliminazione degli allevamenti intensivi, delle violenze e limitazione delle problematiche legate alla salute – verrà poi di conseguenza. Ne sono certo!
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(1) Per approfondire il tema consiglio la lettura del libro La scimmia nuda. Studio zoologico sull’animale uomo (1967) di Desmond Morris. Ne vale la pena.
Le 15 abitudini alimentari che fanno bene alla salute e all’ambiente
Dan Buettner, giornalista del New York Times, in un progetto sviluppato con il National Geographic ha studiato le popolazioni più longeve della Terra per capire quali possano essere gli alimenti che esse hanno in comune e che contribuiscono a farle invecchiare a lungo mantenendo un generale buono stato di salute. Tali popolazioni vivono nelle cosiddette Blue Zones, le cinque aree del pianeta dove vi è la più alta concentrazione di centenari. Esse sono: Okinawa in Giappone; Loma Linda in California; Ikaria in Grecia; la Penisola di Nycoia in Costarica e l’Ogliastra, in Sardegna.
Quello che è emerso dallo studio è che, al di là delle piccole particolarità alimentari di ciascuna area geografica, tutte le Blue Zones sono accumunate da 15 abitudini alimentari che possono essere considerate gli ingredienti di base per una vita lunga e sana, che non necessità di diete ipocaloriche, di particolari integrazioni vitaminiche o di ampio uso di medicinali.
Al di là delle spiegazioni biochimiche e nutrizionistiche di tali pratiche quello che desidero fare è analizzarle anche dal punto di vista della loro sostenibilità ambientale, perché salute e longevità sono anche collegate a cibo sano e ad ambiente non inquinato. È significativo il fatto infatti che le Blue Zones non si trovino in grandi aree industriali e nemmeno in grandi agglomerati urbani, ma siano ubicate in zone dove vi è una forte naturalità.
Questi 15 abitudini alimentari, a cui anche tutti noi dovremmo attenerci scrupolosamente sono:
- Il 95% di quello che si mangia deve provenire da piante – L’impatto ambientale della coltivazione dei vegetali è decisamente più basso rispetto a quello di produzione della carne. Inoltre buona parte dei vegetali buoni è spontaneo e più che di coltivazioni su larga scala necessita di conoscenza, di frequentazione e rispetto per la natura in modo tale che possa dare con continuità, nel tempo, i suoi frutti.
- Carne: non più di due volte a settimana – La carne, oltre ad avere un forte impatto ambientale nelle fasi dell’allevamento e del trattamento industriale fa anche abbastanza male alla salute, soprattutto quando è cotta alla brace. Tra le poche carni consumate devono poi essere preferite quelle che vengono prodotte a livello familiare e locale, dove gli animali sono liberi di muoversi e di pascolare. E ciò è decisamente più positivo per l’ambiente e per il benessere degli animali rispetto agli allevamenti industriali.
- Consumare fino a 85 grammi di pesce al giorno – Anche se consumare pesce in grandi quantità impoverisce gli oceani e ne depaupera gli stock ittici, è da dire che quello che fa meglio alla salute è il cosiddetto pesce azzurro, pesce di piccola taglia che è alla base della catena alimentare del mare e che è presente in grandi quantità nello stesso.
- Ridurre il consumo di latticini e formaggi – La produzione dei latticini e dei formaggi, soprattutto quelli di mucca, è normalmente legata ad allevamenti intensivi che hanno un enorme impatto sull’ambiente. Si pensi solo che per produrre 4 litri di latte sono necessari circa 3000 litri d’acqua.
- Mangiare fino a tre uova a settimana.
- Legumi cotti ogni giorno (almeno mezza tazza) – I legumi, oltre ad essere un toccasana per la salute, sono anche importanti per l’ambiente perché si tratta di piante azotofissatrici che, se alternate ad altre coltivazioni, possono migliorare la fertilizzazione dei terreni e limitare l’uso di fertilizzanti aggiunti.
- Passare alla “pasta madre” o alla farina di grano integrale – La “pasta madre” deriva da un processo fermentativo ed è legata ad un rapporto collaborativo tra noi e i batteri che la determinano. Questo è positivo per l’ambiente perché più vi sono rapporti collaborativi tra i diversi esseri viventi della Terra, più li impariamo a rispettare e più ci impegniamo a tutelarli. Inoltre la farina di grano integrale, proprio perché costituita da varietà diverse di cereali, ci insegna a capire e a preservare la biodiversità che il mondo industriale, omologato, invece non fa.
- Tagliare il consumo di zucchero.
- Come snack mangiare due manciate di noci – Consumare frutta secca al posto di cibi industriali processati come snack ci riporta alle nostre lontani origini di scimmioni raccoglitori che consumano grandi varietà di cibi diversi piuttosto che numerosi prodotti industriali fatti di pochi e soliti ingredienti.
- Attenersi a cibi riconoscibili per ciò che sono – Consumare interamente cibi riconoscibili significa due cose: imparare a non buttare via nulla dei cibi e a trarre benefici da tutte le loro componenti (bucce, noccioli, ecc.) che nel sistema industriale sono scarti; imparare a consumare cibi semplici, poco processati. Entrambi gli aspetti sono molto positivi per l’ambiente.
- Aumentare l’introito di acqua – L’acqua, soprattutto quella dolce non contaminata, è una fonte preziosa sia per la vita che per l’ambiente. Consumarla “al naturale” (dal rubinetto di casa, non imbottigliata e semplice, senza aromi o anidride carbonica) ci aiuta a capirne l’importanza e preservarla meglio.
- Se proprio si desidera bere alcol, almeno bere vino rosso.
- Bere tè verde.
- Caffeina? Solo dal caffè.
- Un perfetto equilibrio tra le proteine – Per assumere la giusta quantità e il giusto valore di proteine è necessario unire insieme legumi, cereali, noci e verdure. Questo ci aiuta a comprendere con maggiore chiarezza l’importanza della varietà e della (bio)diversità.
Queste 15 buone abitudini alimentari – al di là delle Blue Zones e dei centenari che le abitano i quali possono avere anche una predisposizione genetica alla longevità – ci insegnano che tutto è strettamente interconnesso. Salute, longevità e sostenibilità ambientale sono elementi fortemente collegati tra loro che dimostrano una cosa molto semplice: noi proveniamo, attraverso l’evoluzione, dalla natura e solamente attraverso essa – la sua comprensione, la sua imitazione e il suo rispetto – possiamo sperare di avere salute e benessere.
Tutto il resto è pura illusione.
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Fonte: Corriere della Sera
Il più grande nemico del bio è il qualunquismo
Mentre ero in vacanza durante il periodo natalizio, spinto dalla curiosità di mia figlia ho avuto modo di visitare un frantoio di olive che si trova sulla riviera ligure. Bello e interessante il processo lavorativo che va dallo scarico dei frutti nel macchinario, al loro lavaggio, alle operazioni di spremitura “a freddo” con centrifugazione dei residui, fino alla spillatura del profumato liquido verde nei contenitori dei vari committenti.
La visione nel dettaglio di tutte le varie fasi della molitura delle olive è stata possibile per merito del proprietario del frantoio che ha dotato l’attrezzatura di numerosi vetri e di numerosi accessi sicuri per soddisfare la curiosità dei suoi clienti e dei suoi visitatori.
Non eravamo gli unici a compiere quella visita didattica e, per caso, mentre mi guardavo intorno, ho avuto modo di seguire un discorso tra il proprietario del frantoio – Giorgio – e un visitatore presente. Quello che mi ha colpito, nel dialogo, sono state le risposte di Giorgio alle seguenti domande: “Qual è la differenza tra la molitura a caldo e quella a freddo” e “Ci sono molte coltivazioni biologiche in zona e come riuscite a far sì che il marchio sia garantito voi che lavorate sia il bio che il tradizionale”?
Le domande erano assolutamente legittime e dimostravano che l’interlocutore aveva la idee chiare in merito alla qualità del prodotto e che cercava di avere delle conferme tecniche e organizzative da parte di un operatore esperto per poter effettuare i propri acquisti.
Le risposte di Giorgio sono state, purtroppo, le solite – tristi – parole che senti spesso pronunciare in Italia da un sessantenne che dimostrano come il più grande nemico del progresso e della sostenibilità ambientale – in questo caso l’agricoltura biologica – sia quel qualunquismo disfattista del “tanto non cambia nulla”; del “tanto è tutto uguale”.
Alla domanda sulla spremitura “a freddo” Giorgio replica osservando che non è che cambi nulla con quella “a caldo”. Lo si fa solamente per soddisfare le richieste dei consumatori. Dal momento che tra le due c’è una differenza di costo ma anche di qualità perché la molitura “a freddo” altera molto poco le qualità organolettiche dell’olio, quello che leggo nelle parole di Giorgio è il fatto che l’importante non è pensare di far star bene le persone fornendo loro il meglio a prezzi ragionevoli ma è fare tanti soldi, nella filiera, magari anche a discapito della loro salute. Inoltre Giorgio, indirettamente, dichiara che subisce pochi controlli e che potrebbe anche vendere, lui o altri colleghi, un certo processo al posto dell’altro perché le autorità pubbliche difficilmente fanno prevenzione delle sofisticazioni attraverso controlli preventivi o imposizioni metodologiche.
Alla domanda poi sul biologico, con un sorriso misto tra l’ironico e il furbetto, Giorgio risponde che tanto non cambia nulla, che i controlli e relativa certificazione non servono a nulla e che ci sono molti che dicono di fare il biologico ma poi fanno un po’ quello che vogliono. Le sue osservazioni in effetti sono realistiche e possono rappresentare una triste realtà – che deve essere perseguita dalla giustizia – ma, anziché chiedersi cosa si posa fare per migliorare la situazione, per garantire che in futuro le certificazioni e i controlli siano più incisivi, preferisce buttarla “in vacca” e dire che tanto il bio non serve a nulla. Giorgio, invece di chiedersi come si possa operare per fare un ulteriore salto di qualità – anche per la sua attività imprenditoriale – che superi il metodo biologico per ricercare qualcosa di più, attraverso il suo qualunquismo pone le basi perché si torni indietro senza progresso e senza sufficienti garanzie di salubrità per i cittadini. In tal modo, indirettamente, fa anche il gioco dei grandi produttori e delle multinazionali che chiedono “progresso” (quello che interessa loro), pochi controlli e tanto profitto.
Finché in Italia non ci libereremo della malattia molto contagiosa del qualunquis-disfattismo e non cercheremo la cura nei controlli, nella buona tecnica e nella cultura individuale, come potremo sperare di operare quel passaggio ancora più difficile che porta dal sistema attuale a quello rivoluzionario della bioimitazione?
Personaggi | Anders Nordin
Anders Nordin è un uomo dai modi che possono sembrare rudi. Di poche parole. Uno di quegli uomini del nord abituati agli estremi meteorologici: freddo intenso e buio per quasi tutta la giornata nei lunghissimi inverni ed estati brevissime sempre chiare [scrivo questo articolo intorno a mezzanotte: il sole non c’è più ma il chiarore è così intenso che si può stare all’aperto o scrivere seduti sul divano senza aver bisogno della luce artificiale].
Anders – che è alto quasi 2 metri e che, pur avendo poco meno di settant’anni, porta ancora i capelli lunghi sulle spalle – abita con la moglie nei dintorni di Piteå, nel nord della Svezia, e sta dismettendo la sua fattoria incentrata sull’agricoltura ecologica (come la definisce lui), una forma più estrema di agricoltura biologica, fuori dagli schemi e dalle certificazioni. Le sue mucche da carne infatti non vivono in una stalla e non brucano l’erba nei pascoli recintati ma abitano, in uno stato semi-brado, nella foresta 365 giorni l’anno. Inverno compreso. In tal modo le mucche si nutrono da sole, si accoppiano, partoriscono ed esprimono liberamente le loro relazioni all’interno del branco, con minime forzature ed interventi umani. Nei periodi più difficili, soprattutto invernali, Anders porta loro solo l’erba che ha tagliato e fatto essiccare durante la breve estate. Pur essendo molto selvatiche, con le mucche Anders ha un rapporto empatico molto forte: quando le chiama nel bosco loro lo riconoscono e gli rispondono muggendo.
Durante il mio soggiorno presso la sua fattoria nelle prime due settimane di luglio l’ho aiutato a recuperare, non senza difficoltà, gli animali nella foresta, a portarli nel recinto presso la fattoria e a caricarli sui camion per poi essere trasferiti da un altro allevatore. Anders, con sua immensa tristezza, è arrivato al capolinea della sua attività lavorativa e va finalmente in pensione.
Con lui, la sera, davanti ad un barbecue o nel salotto di casa, ho fatto lunghe chiacchierate di politica e di ecologia. Di ingiustizie sociali e di ignoranza. Di problemi demografici e di immigrazione. Con lui ho cercato di capire i limiti dell’agricoltura biologica e le possibili soluzioni per un’evoluzione della stessa verso orizzonti ancora più ambiziosi. Con lui ho parlato dei limiti della politica (anche quella svedese, figuriamoci quella italiana) di capire le problematiche ecologiche. Con lui ho parlato anche di energie rinnovabili (1), di rifiuti e di soluzioni locali. Anders (2), anche con i suoi silenzi e con i suoi modi burberi, ha contribuito ad aprire la mia conoscenza verso nuovi orizzonti e, per questo, lo ringrazio di avermi dedicato del tempo e di aver soddisfatto la mia curiosità.
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(1) Andars ha installato sul tetto della sua stalla il più grande impianto fotovoltaico privato del nord della Svezia (Norrland).
(2) Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 del secolo scorso Anders Nordin è stato anche un’importante figura politica in Svezia: tra i fondatori del partito dei Verdi svedese (Miljöpartiet de Gröna), lo ha anche guidato per qualche anno ricoprendo per qualche mese l’incarico di parlamentare.
Nota: Con questo articolo desidero parlare di persone “comuni” (o quasi), [tag “personaggi”] normalmente poco conosciute nel circuito della comunicazione di massa, che – a mio personalissimo avviso, tenendo conto del loro curriculum e del loro percorso professionale reperibile in rete – stanno fornendo il loro enorme e silenzioso contributo alla distruzione e al degrado del Pianeta nonché alla speculazione industriale e finanziaria a discapito delle risorse naturali e della sicurezza collettiva oppure stanno facendo azioni importanti di salvaguardia dello stesso sia dal punto di vista culturale che di azioni concrete messe in campo. Si tratta di persone che, nel bene o nel male, con il loro pensiero e con il loro comportamento possono contribuire ad innescare un dibattito sulle tematiche della sostenibilità ambientale.
Quello che mangi diventa te stesso
Se è vera la massima “Tu sei quello che mangi” è valido anche il suo contrario: “Quello che mangi diventa te stesso”. Per comprendere questo concetto è sufficiente osservare che se quel bel pomodoro rosso che hai nel piatto davanti a te è pieno di residui di pesticidi, di diserbanti, di fungicidi e di ormoni della crescita, quando, attraverso la digestione, entra nel tuo sistema metabolico, tu diventi un po’ lui e lui diventa un po’ te stesso. Tu diventi un po’ lui perché il tuo stato di salute generale, nel tempo, tenderà a deteriorarsi più velocemente e/o a sviluppare più facilmente particolari patologie anche a causa del mix di residui di prodotti chimici pericolosi in esso presenti e lui diventerà un po’ te perché le sue componenti – e gli eventuali residui di veleni in esso presenti – entreranno in te stesso ed andranno a formare e costituire le tue cellule e i tuoi organi.
Nutrirsi non vuol dire semplicemente mangiare del cibo e, come se fosse composto di mattoni (le vitamine, i carboidrati, i grassi, le proteine, ecc.) posizionare, per scomposizione, questi ultimi tal quali nelle diverse parti del corpo. Nutrirsi vuol dire trasformare chimicamente i cibi per farli entrare a comporre il sangue, i liquidi corporei, le cellule e i tessuti. Insomma la trasformazione chimica è un processo un po’ più profondo della semplice scomposizione ed è soggetta ad un numero infinito di variabili, scarsamente prevedibili e anche un po’ diverse da animale a animale e da soggetto a soggetto.
Detto questo, nonostante la consapevolezza sempre maggiore sul buono e sul cattivo cibo che viene diffusa dai vari sistemi di comunicazione, assisto comunque spesso a discussioni che mettono in primo piano il prezzo sulla qualità. Avendo a disposizione il medesimo ammontare di denaro si preferisce, quale criterio di scelta, la quantità al valore. Si ragiona, ad esempio, del basso costo delle ciliegie al chilo e molto poco della loro qualità. O, per lo meno, la qualità viene molto dopo il prezzo. Per questo motivo, a me che chiedo se ne valga la pena e se non sia meglio optare, ad esempio, per prodotti biologici piuttosto che sul solo costo, mi viene risposto che “tanto tutto è inquinato” oppure che”sì, sarebbe meglio, ma che costa troppo caro”.
Vorrei osservare che dagli anni ’70 ad adesso le spese medie delle famiglie per il cibo sono più che dimezzate in percentuale sul reddito, passando da circa il 38% a circa il 17/18% di ora. Ciò significa che, anziché concentrare la propria attenzione sulla qualità dei cibi ed eventualmente destinare quanto rimane alle spese futili, si preferisce risparmiare sul cibo e non farsi mancare il nuovo telefono cellulare, la sostituzione frequente dell’auto, le sigarette, le colazioni al bar e spese varie di cose abbastanza inutili.
È come se, in un contesto storico dove aumenta la vita media e quindi dove è anche necessaria maggiore prevenzione attraverso il cibo per garantire una buona salute nel tempo, si fossero perse un po’ di vista le priorità e ci si fosse inebriati di cose futili e non del tutto necessarie.
A mio avviso è necessario iniziare a pensare che la qualità del cibo è un valore che, perché no, può comportare anche un prezzo superiore che siamo disposti a spendere. Ne otterrebbe sicuramente un enorme vantaggio indiretto anche l’ambiente.
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Foto: “Frutteria sottocosto“, negozio di frutta e verdura che ho fotografato in una città italiana.
“The Organic Effect”
La catena alimentare svedese Coop Sverige, in collaborazione con lo Swedish Environmental Research Institute (IVL), ha realizzato uno studio scientifico (“The Organic Effect“) per verificare quali sono gli effetti sulla salute delle persone quando decidono di passare, da un’alimentazione con cibi coltivati tradizionalmente, ad un’alimentazione con cibi coltivati con il metodo biologico.
Lo studio ha preso come campione la famiglia Palmberg composta da 5 persone (papà Mats, 40 anni; mamma Anette, 39 anni; figlie Vendela ed Evelina, figlio Charlie) i cui componenti non fanno uso frequente di cibo biologico anche se sarebbero interessati a farlo. Non se lo possono permettere perché costa un po’ di più di quello convenzionale e le loro finanze non sono sufficienti.
Nella ricerca, la cui durata complessiva è stata di 21 giorni, si è chiesto a tutti i componenti della famiglia di mangiare per la prima settimana cibi tradizionali e poi di modificare le proprie abitudini alimentari e di mangiare solo cibi biologici per due settimane, oltre ad usare anche saponi e prodotti per l’igiene personale organici. Si sono poi confrontate le analisi delle urine fatte, quotidianamente, prima e dopo l’esperimento e si è cercato di capire se nutrirsi totalmente di cibi biologici, anche se per un breve periodo, potesse influire sulla presenza e sulle concentrazioni di sostanze chimiche inquinanti come insetticidi, fungicidi e sostanze utilizzate per regolare la crescita delle piante e dei loro frutti.
Quello che è emerso dalla ricerca è un risultato abbastanza sorprendente: già dopo due settimane, i livelli di tali sostanze nelle urine diminuiscono notevolmente, fino quasi a scomparire per talune. In più la riduzione è già evidente dopo il primo giorno.
Come osservano i responsabili della Coop svedese, i risultati dello studio hanno chiaramente e inequivocabilmente dimostrato che il cibo biologico fa bene alla salute perché riduce la concentrazione nel corpo di sostanze chimiche pericolose e fa bene all’ambiente perché tali sostanze non vengono distribuite in atmosfera, sul terreno e nelle acque superficiali. “Speriamo che i consumatori capiscano l’importanza del cibo biologico e che questo studio possa aprire un dibattito serio sui benefici dello stesso. Si sa molto poco sugli effetti a lungo termine dovuti al mangiare alimenti trattati con pesticidi, sprattutto se si considera che le sostanze chimiche possono essere molto più dannose quando combinate insieme rispetto a quanto lo sono se ingerite singolarmente“.
Dai risultati della ricerca emerge che dobbiamo rifinanziare e ristrutturare il nostro sistema alimentare. Invece di usare le tasse dei contribuenti per finanziare un sistema di produzione che si basa sull’ingegneria genetica per sopportare dosi massicce di erbicidi, insetticidi e pesticidi, è necessario invece che lo ridisegnamo in modo tale che il cibo biologico sia economicamente sostenibile per tutti coloro che lo desiderino consumare. E, magari, anche per tutti.
Se vuoi sapere cosa succede al tuo corpo quando cambi alimentazione e passi da quella convenzionale a quella biologica guarda anche questo breve video pubblicato dalla Coop Sverige.
Quando il cibo può salvare il Pianeta
È stata inaugurata qualche giorno fa l’esposizione universale “EXPO – Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita” dedicata all’alimentazione e al cibo. Al netto di tutti gli scandali e i problemi che hanno interessato la manifestazione negli anni e nei mesi precedenti dove si doveva decidere cosa fare e dove si doveva costruirne le infrastrutture, l’EXPO, ora che si fa, potrebbe essere un utile strumento di discussione sul cibo e anche sul ruolo che ha nel determinare seri problemi ambientali o essere sostenibile.
Parliamo di cibo, allora. Il cibo è fondamentale per l’uomo non solo perché è il “carburante” della vita in quanto fornisce energia e riserve per le attività quotidiane, ma anche perché, in base alle sue caratteristiche, può dare salute, benessere e può contribuire o meno alla sostenibilità ambientale. Produrre e consumare cibi troppo grassi può, nel lungo periodo, nuocere alla salute ma anche contribuire alla deforestazione del pianeta. Produrre e consumare troppo pesce o troppa carne può non essere del tutto salutare e può contemporaneamente contribuire a far depauperare gli stock ittici selvatici o a deforestare per creare pascoli o colture per l’alimentazione animale. Produrre e consumare cibi fuori stagione e molto distanti dal luogo di produzione può creare seri problemi ambientali e può anche contribuire a fornire scarsi nutritivi e poche vitamine a chi se ne nutre. Distribuire non equamente il cibo significa poi ipernutrire una parte della popolazione mondiale (che va incontro poi a gravi problemi di obesità nonché a patologie croniche e gravi) e lasciare a secco un’altra parte della popolazione mondiale (che va incontro ad altrettanto gravi problemi di salute pubblica a causa della scarsa e cattiva nutrizione).
Per ovviare a tali problematiche e a tali ingiustizie il WWF ha pubblicato 10 consigli facili da applicare per educarci ad un’alimentazione sostenibile e salutare.
1) Acquista prodotti locali
2) Mangia prodotti di stagione
3) Diminuisci i consumi di carne
4) Scegli i pesci giusti
5) Riduci gli sprechi di cibo
6) Privilegia i prodotti biologici
7) Cerca di non acquistare prodotti con troppi imballaggi
8) Cerca di evitare cibi eccessivamente elaborati
9) Bevi l’acqua del rubinetto
10) Evita sprechi anche ai fornelli
A ciò io aggiungerei:
11) Rispetta e non nutrirti dei cuccioli
12) Ogni tanto digiuna
13) Il cibo è cultura: apprezza anche quello di altri popoli.
Vediamo se EXPO non sarà solo business ma anche il volano per iniziare a cambiare un po’ rotta…
Scegli quale biscotto mangiare e…
Scegli quale biscotto mangiare e salverai una tigre. Scegli quale brioche mangiare e salverai un orango. Scegli quale torta mangiare e salverai un rinoceronte.
Anche se tali affermazioni possono sembrare un po’ assurde, i dati e le statistiche invece parlano chiaro e certificano che da qualche decennio è in atto un imponente attività di distruzione di gran parte delle foreste tropicali asiatiche (soprattutto dell’Indonesia e della Malesia) per convertirle in monocolture di palma da olio. Da questa palma (Elaeis guineensis) viene estratto un olio alimentare dalle molteplici virtù industriali. È economico ed è solido a temperatura ambiente e, per questo, viene impiegato quale componente grassa in numerosi prodotti trasformati che si trovano nei supermercati (1).
Si pensi, tanto per citare qualche dato sull’entità della distruzione delle foreste, che 50 anni fa l’82% del territorio dell’Indonesia era ricoperto di boschi. Nel 1995 tale percentuale era già scesa al 52% e, al ritmo attuale di deforestazione, nel 2020 le foreste indonesiane saranno definitivamente e irreparabilmente distrutte con conseguenze terribili sia sull’economia delle popolazioni locali che sulla biodiversità e sulla sopravvivenza degli animali selvatici. Si pensi ancora che l’olio di palma è il principale responsabile della deforestazione dell’isola di Sumatra, dove vivono (ancora?) elefanti, tigri e rinoceronti. Tutte specie ridotte a poche manciate di individui in pochi anni (2).
Pertanto quando andate al supermercato e fate i vostri acquisti (purtroppo talvolta anche di prodotti biologici) non guardate solo il prezzo ma cercate di pensare anche alla salvaguardia delle foreste tropicali e degli animali che in esse vicono e scegliete quei prodotti che non contengono tra i loro ingredienti l’olio di palma. Per aiutarvi nella scelta consapevole qui un elenco di biscotti che non lo utilizzano.
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(1) L’olio di palma è costituito per il 50% da acidi grassi saturi (in particolare acido palmitico) e dal restante 50% da acidi grassi insaturi (soprattutto acido oleico, monoinsaturo e acido linoleico, polinsaturo). Proprio l’alto tenore dei grassi saturi rende l’olio di palma interessante per l’industria alimentare in quanto assomiglia al burro (che è molto più costoso) e conferisce una certa solidità agli alimenti a temperatura ambiente. Il problema però è che gli acidi grassi saturi risultano essere particolarmente dannosi per la salute e sono ampiamente coinvolti nel determinare un aumentato rischio di patologie cardiovascolari.
(2) Nell’ambito dell’olio di palma esiste una certificazione, la RSPO (Roundtable on Sustainable Palm Oil), che ne attesta la sostenibilità ambientale. Essa però copre una quota infinitesima della produzione e non è affatto in grado di incidere per mitigare i problemi di deforestazione che sono legati a tale grasso.
Immagine: La deforestazione dell’isola del Borneo (anni 1950-2005) – WWF
Foto: I terribili effetti sugli animali e sul territorio della deforestazione nel sud-est asiatico
Fonte: La Stampa; Il Fatto Alimentare
Con ingredienti naturali al 100%
Qualche settimana fa, mentre ero in attesa del mio treno nella metropolitana di Milano, sono rimasto colpito dal cartello pubblicitario della ADOC (vedi foto). In esso, su uno sfondo azzurro con silhouette di cani più scure spiccava la scritta “ADOC. Naturalmente diverso” e un rettangolo bianco che enfatizzava la presenza di “Ingredienti naturali al 100%”.
Subito dopo averlo letto ci ho ragionato un po’ e mi sono chiesto una cosa che può sembrare banale: ma se questo cibo per cani ha tutti gli ingredienti che sono naturali al 100%, vuol dire allora che è possibile che altri cibi non li abbiano? Se questo si verifica nell’ambito dell’alimentazione animale, può essere che la questione interessi anche quella umana?
Per cercare di dare una risposta alle domande, in effetti due sono gli aspetti che sarebbe interessante osservare:
- che cosa si intende per ingredienti naturali al 100%;
- quali possono essere gli effetti sulla salute – degli animali e delle persone – dovuti alla presenza di ingredienti non totalmente naturali.
Innanzitutto è da osservare il fatto che sulla Terra non esiste nulla di innaturale perché tutto si origina dagli elementi chimici presenti nella tavola periodica degli elementi che fanno parte del nostro “Sistema”. Caso mai – e forse è questo il concetto di “innaturale” – l’unione di alcuni elementi e la creazione di alcune molecole richiede metodi così complessi che in natura è praticamente impossibile che si possano realizzare, se non in condizioni estreme. Ecco allora, ad esempio, che la plastica è fatta di elementi chimici ovviamente naturali anche se la natura non è in grado di produrre autonomamente i legami molecolari che la caratterizzano. Inoltre non è detto che i prodotti “naturali al 100%” siano per forza salutari. Anzi, in natura esistono numerosi prodotti tossici e addirittura mortali. Per togliere qualsiasi dubbio al consumatore che, come me, vede la pubblicità e magari è invogliato a scegliere ciò che gli dà più fiducia, bisognerebbe cercare di spiegare un po’ meglio un po’ a tutti quale sia il concetto di “naturale” e bisognerebbe vietarne l’uso generico in pubblicità. Detto ciò si può senza dubbio affermare che “naturale al 100%” non vuol dire assolutamente nulla!
Dopo aver chiarito questo importante aspetto è necessario cercare di capire la sostanza della nostra analisi: quand’è che ci possono essere effetti sulla salute a causa della presenza nei cibi di prodotti non naturali o, meglio, di sintesi? Dare una risposta a questa questione è molto complesso sia perché le nostre conoscenze sono molto limitate ad hanno ancora numerosissimi buchi, sia perché il problema della salute legato ai cibi non è solo quello diretto dovuto alla loro ingestione, ma anche quello indiretto dovuto all’inquinamento che i cibi e i loro metodi produttivi possono determinare. Tutto ciò si riflette, poi, anche sull’ambiente circostante e infine arriva a lambire, partendo da lontano, la salute delle persone. Da questo punto di vista si fa sinceramente fatica ad esprimere un giudizio univoco sulla pericolosità dei prodotti di sintesi.
Quello che però si può dire – e che io sostengo da tempo attraverso Bioimita – è il fatto che noi ci siamo evoluti in un “Sistema”, il pianeta Terra, che prevede certe regole di funzionamento e ha certe caratteristiche specifiche. All’interno di questo “Sistema” l’evoluzione della vita è stata tortuosa e lunga, molto lunga. Talmente lunga che pensare al fatto che si sia verificata in più di 3,5 miliardi di anni quando la vita media umana è di circa 80, è cosa praticamente impossibile. Fuori scala! Ecco allora che nella produzione dei cibi e nella conseguente alimentazione, nella produzione energetica e in quella di beni e servizi, nella gestione degli scarti (rifiuti) e nelle dinamiche sociali dobbiamo partire da quelli che sono gli elementi di base del nostro “Sistema”, senza introdurre distorsioni (gli elementi di sintesi o squilibri chimico-fisici) che, alla fine, perseguono solamente scopi puramente commerciali o economici di generare profitti (1) ed incidono solo apparentemente sul nostro benessere.
Anche se le nostre conoscenze sui pilastri di funzionamento del “Sistema” non sono ancora molto evolute, dobbiamo comunque renderci conto che possiamo partire solo da lì perché qualsiasi forzatura ci darà l’illusione momentanea di una soluzione semplicistica a problemi complessi ma, poi, in un modo o nell’altro, ci si rivolterà inevitabilmente contro con conseguenze inaspettate nei confronti delle quali saremo impreparati e che potranno avere conseguenze anche molto gravi.
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(1) L’evoluzione, ad esempio, ci fornisce molti strumenti di difesa nei confronti di gran parte degli agenti naturali negativi mentre risulta molto più impreparata nei confronti degli agenti di sintesi. La carne in putrefazione ha un forte odore e noi, per difesa evolutiva, ne abbiamo repulsione poiché ci farebbe molto male alla salute. Il Bisfenolo A, invece, che simula il funzionamento di alcuni ormoni e che interferisce anche in maniera molto grave con la nostra salute, lo possiamo liberamente ingerire attraverso gli alimenti e le bevande senza avere alcun strumento innato di allerta e protezione.
Chi è la bestia?
Indovinello di fine estate: tra l’uomo e il bufalo chi è la bestia? [vedi il video]
Dopo la pubblicazione del video e l’eco che ha avuto sui media e sul web, le scuse da parte del Consorzio Mozzarella di Bufala Campana DOP risultano un po’ ipocrite e, soprattutto, tardive. Tutti sanno che negli allevamenti e nei mattatoi industriali – almeno prima delle denunce e delle campagne di sensibilizzazione – l’etica viene lasciata un po’ in disparte per far posto al reddito. Pertanto piangere, dispiacersi e tentare di proporre soluzioni solo dopo che qualcuno, a fatica e spesso dopo aver subito violenze ed attacchi, riesce a filmare e a far venire a galla le bestialità che in vari modi vengono fatti agli animali nel “sistema” industriale, non rappresenta assolutamente la cura al problema.
Le bestialità esercitate nei confronti degli animali spariranno solo dopo che sarà cambiato modello culturale, di produzione e di consumo.
Il modello culturale deve cambiare e dobbiamo semplicemente iniziare a pensare di non essere più né gli esseri predominanti né quelli più intelligenti.
Il modello di produzione deve cambiare e dobbiamo iniziare a pensare che non sia più tollerabile sacrificare la vita e il benessere di un essere vivente per soddisfare meri interessi economici: la vita è sacra e deve essere in qualche modo slegata dal profitto.
Il modello di consumo deve cambiare e dobbiamo iniziare a consumare meno carne per orientare la nostra alimentazione prevalentemente verso i vegetali. Oltre all’ambiente ne ricava grandi benefici anche la salute!
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ATTENZIONE: alcune immagini contengono scene di violenza esplicita e potrebbero urtare la vostra sensibilità.
Il paradosso del pomodoro
Qualche anno fa, in Francia, due camion fecero uno scontro frontale terribile. La cosa non è strana, ne capitano tutti i giorni. Quello che è particolare, nell’incidente, è il fatto che entrambi i mezzi lasciarono sull’asfalto il medesimo prodotto: pomodori. Il paradosso è poi il fatto che un camion viaggiava da nord a sud e trasportava pomodori dall’Olanda a Barcellona e l’altro viaggiava da sud a nord e trasportava, sempre pomodori, da Almeria, in Spagna, all’Olanda.
Questa storia, che viene attribuita al contadino e filosofo francese Pierre Rabhi, è in grado di descrivere meglio di mille ricerche scientifiche e meglio di mille marce ambientaliste la follia che sta dietro al sistema della grande distribuzione organizzata (GDO) delle merci e dei trasporti delle stesse. Ci spiega, senza troppi giri di parole, che è un’assurdità il fatto che, alla ricerca del prezzo più basso di produzione con l’idea della sola massimizzazione dei profitti in un’agricoltura industriale, si possano produrre beni alimentari dove più conviene, per poi trasportarli in giro per il mondo, magari anche a discapito della qualità.
Se si vuole perseguire la vera sostenibilità ambientale I cibi devono essere prodotti e consumati localmente, magari creando rapporti di fiducia diretti con i produttori. A cosa serve coltivare (e consumare) le mele biologiche se poi il mercato di vendita è a 10.000 km di distanza? A cosa serve pagare un chilo di pomodori pochi centesimi di euro se poi non hanno gusto e la loro buccia è così dura (per ragioni di conservazione) che non si riesce a provare il piacere di addentarli? A cosa serve mangiare in primavera le vitamine di una pera che viene dal Cile se poi ci inquina indirettamente con i residui dei trasporti?
L’incidente dei camion di pomodori e l’assurdità che lo caratterizza dimostra bene questo paradosso ed è buona cosa che noi consumatori, attraverso le nostre scelte, vi poniamo fine. A tale proposito Pierre Rabhi è solito raccontare un’altra storia, quella del colibrì. “Un giorno – secondo tale storia – vi è un immenso incendio nella foresta. Tutti gli animali rimangono atterriti e impotenti di fronte a tale disastro e, tra loro, solo il piccolo colibrì è infaticabile nel trasportare con il suo piccolo becco l’acqua per spegnere il fuoco. Ad un certo punto l’armadillo, in tono sarcastico, gli chiede il perché di tale agitazione, visto e considerato che non saranno quelle piccole gocce sufficienti a spegnere l’incendio. Con molta naturalezza il colibrì gli risponde che sì, lui lo sa, ma vuole comunque fare la sua parte”.
L’assurdo spreco di cibo negli USA
Negli Stati Uniti si spreca circa il 40% del cibo prodotto, pari ad un valore di circa 165 miliardi di dollari. Si tratta di cibo buono, non avariato, spesso non cucinato, che viene gettato nella spazzatura ancora confezionato direttamente da parte degli acquirenti. La causa più frequente è legata al raggiungimento e al superamento della data di scadenza (anche se non è detto che il cibo sia immangiabile!) dovuti alla sovrabbondanza di cibo presente nelle dispense di una famiglia media che, semplicemente, ne acquista troppo e si dimentica di averlo.
E pensare che questo cibo potrebbe anche aiutare quei 50 milioni di americani (circa il 16% della popolazione totale degli USA) che sono poveri e fanno fatica a procurarsi da mangiare.
Per spiegare questo fenomeno è interessante osservare l’esperienza di Nick Papadopulos, un agricoltore biologico californiano. Stanco di buttare intere cassette di frutta o verdura rimaste invendute, Papadopulos ha iniziato a confrontarsi con altri produttori locali interessati dallo stesso fenomeno. La sua soluzione è stata quella di creare CropMobster, un servizio per trovare persone interessate a comperare, a prezzi più vantaggiosi, prodotti invenduti.
L’ampliamento del mercato, però, non è l’unica strada da percorrere per risolvere il problema. Servirebbe anche più informazione dei cittadini sia sull’alimentazione che sulle questioni tecniche legate alla coltivazione, alla trasformazione e alla conservazione del cibo. Innanzitutto bisognerebbe insegnare loro a non acquistare il cibo solo per il suo bell’aspetto estetico ma, soprattutto, a tener conto della sua qualità. Inoltre bisognerebbe spiegare loro che le date di scadenza riportate sulle confezioni non sono valide in senso assoluto ma forniscono solamente un’indicazione di massima. Prima di consumarlo, il cibo, deve essere sempre assaggiato. Anche se ciò avviene entro la data di scadenza!
Lo spreco di cibo è una follia. Lo è sia dal punto di vista umano ed etico che dal punto di vista di sostenibilità ambientale. Produrre cibo “consuma” lavoro, energia, materie e produce inquinamento, diretto o indiretto. Purtroppo l’agricoltura è stata interessata da un progressivo fenomeno di industrializzazione che l’ha spinta, come per le produzioni meccaniche, chimiche o altro, verso l’obiettivo della massimizzazione della produttività e l’abbassamento dei prezzi, preoccupandosi relativamente della qualità. Ma il cibo, si sa, è molto diverso da un manufatto. Lo ingeriamo e, attraverso il metabolismo, diventa noi e noi diventiamo un po’ lui.
Paradossalmente, per risolvere il problema dello spreco di cibo ancora buono, si dovrebbe fare una cosa semplice e apparentemente assurda. Si dovrebbe puntare all’aumento dei prezzi di vendita. In un sistema industriale che tende a massimizzare la produzione e a fornire cibo a prezzi bassi ma a discapito della qualità, si dovrebbe aumentarne il valore per far comprendere ai cittadini la sua vera importanza.
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Fonte: Internazionale
Il pesce è sempre più caro? La colpa è degli Omega-3
Su “Il Venerdì di Repubblica” del 28 febbraio scorso Loretta Napoleoni, economista, nella sua rubrica “Follow the money” parla dei motivi per cui il pesce è caro (anche quello di allevamento).
Per argomentare le sue tesi scrive: “Quest’anno mangeremo più pesce di allevamento che selvaggio […]. Il motivo è presto detto: da oltre un decennio la domanda ittica mondiale aumenta a un ritmo che oscilla tra il 5 e il 10 per cento annuo e i responsabili sono in primis i Paesi in via di sviluppo, man mano che si arricchiscono cresce la voglia di mangiare pesce […]. Il pianeta mangia pesce ad un ritmo molto più elevato di quello della riproduzione, anche dell’allevamento”.
Sacrosante parole. “Secondo le previsioni – prosegue l’articolo – l’allevamento ittico aumenterà ancora di un 14 per cento prima di raggiungere il massimo della capacità, a meno che non si verifichi un cambiamento radicale, come una rivoluzione tecnologica che permetta di rimuovere l’ostacolo maggiore: per produrre il pesce bisogna usare come alimento principale il pesce”.
“Prendiamo il salmone, forse il pesce più gettonato al mondo, la dieta di quello di allevamento deve contenere una certa quantità di Omega-3, che si trova principalmente nei pesci dell’America Latina, che iniziano a scarseggiare. Questo spiega perchè dal 2013 il costo del salmone è in netto aumento […]. Ora la Monsanto sta studiando la possibilità di estrarre Omega-3 dalla soia, e altre multinazionali sperimentano l’utilizzo delle alghe. Una cosa è certa: finché qualcuno non trova la formula giusta, il prezzo del salmone continuerà a salire”.
Cara sig.ra Napoleoni, per risolvere il problema del prezzo del pesce che cresce a causa del depauperamento degli stock ittici che non sono oramai più in grado di soddisfare né la richiesta mondiale di pesce selvaggio né quella dell’industria dei mangimi per il pesce di allevamento non si può solo ragionare in termini di tecnica e di tecnologia. Non si può solo pensare che la soluzione possa essere quella di ottenere gli Omega-3 attraverso l’uso abbondante di energia per estrarli a forza dai prodotti agricoli come la soia o le alghe (che potrebbero essere consumati anche direttamente) al solo scopo di alimentare l’industria dell’allevamento. In più mettendo in competizione il mondo agricolo che produce direttamente cibo con quello che produce beni per l’industria.
La soluzione potrebbe (e dovrebbe) essere, invece, quella che passa attraverso il concetto della “sufficienza”, cioè l’ottenimento del benessere per la più ampia fetta possibile di popolazione mondiale attraverso la riduzione dei livelli di consumo e il miglioramento in termini qualitativi del consumo attuale. Nell’ambito del prezzo in aumento del pesce questo concetto della sufficienza dovrebbe esprimersi sostanzialmente in due direzioni fondamentali:
- diminuire i consumi di pesce e crostacei per quella fetta ricca della popolazione mondiale che ne consuma (e spesso ne getta) troppi;
- orientare i consumi alimentari verso i vegetali (di qualità, altrimenti finiamo dalla pentola alla brace) piuttosto che verso le carni.
Salute e sostenibilità ambientale sono concetti strettamente interconnessi
La sostenibilità ambientale passa inevitabilmente attraverso la salute e la salute passa attraverso la sostenibilità ambientale, in un pieno rapporto biunivoco. Senza la sostenibilità ambientale non ci può essere salute (soprattutto prevenzione, che è la componente più importante della salute) e senza salute (cioè senza una chiara idea di che cosa sia la salute e la prevenzione) non ci può essere sostenibilità ambientale.
Provo a fare degli esempi. Chi abusa dei farmaci (necessari, ma pur sempre tossici) per togliere qualsiasi sintomo senza preoccuparsi delle cause che lo determinano come può avere una chiara idea di che cosa sia la sostenibilità ambientale? Chi mangia male (cibo spazzatura) e specula sul prezzo del cibo (consumando cibo di bassa qualità) per avere più beni effimeri e non necessari come può agire per perseguire la sostenibilità ambientale? Chi butta la spazzatura a terra anziché adoperarsi per smaltirla correttamente come può capire a fondo cosa sia la salute e la prevenzione? Chi abusa di pesticidi e diserbanti (in agricoltura, negli spazi pubblici, negli spazi verdi privati) come può adoperarsi correttamente per garantire salute a se stesso e ai propri cari nel lungo periodo? E gli esempi potrebbero essere innumerevoli…
A tale proposito qualche giorno fa sono rimasto colpito da un bell’articolo del dott. Roberto Gava pubblicato su Il Fatto Quotidiano nel quale afferma un concetto fondamentale per ragionare in termini di salute e di sostenibilità ambientale: noi stessi siamo la causa delle nostre patologie (e del nostro benessere, aggiungo io).
Quello che afferma il dott. Gava – basandolo sulla propria esperienza clinica – è il fatto che la quasi totalità delle nostre patologie attuali – spesso croniche e invalidanti – sia il frutto di errori pubblici e sociali (ad esempio tollerare ancora elevati tassi di inquinamento per alimentare un sistema economico senza fine basato sulla continua produzione e consumo) e sulla scarsa cultura della prevenzione da parte delle persone. In tutto questo, io mi chiedo dove erano e dove sono i medici e i farmacisti? Qual è il loro ruolo nel rapporto con i pazienti all’interno del processo di mantenimento della salute e di cura? Cosa sanno e cosa percepiscono veramente della salute attraverso la prevenzione e del ruolo che ha la sostenibilità ambientale nel garantirla?
Per promuovere la salute il dott. Gava parla, nel dettaglio, di prevenzione alimentare e dei principali errori che si commettono nel campo della nutrizione:
- Troppi zuccheri semplici, comprendendo quelli che aggiungiamo noi e quelli che aggiunge l’industria alimentare.
- Troppi cereali, rispetto a verdure, legumi, frutta e proteine vegetali.
- Troppi carboidrati raffinati rispetto a quelli complessi.
- Troppi grassi saturi (grassi animali) e pochi grassi buoni (polinsaturi omega-3 di origine vegetale o ittica e monoinsaturi dell’olio di oliva).
- Carenza di micronutrienti essenziali: la produzione industriale del cibo li ha gravemente ridotti, insieme allo sfruttamento del terreno e all’inquinamento (viviamo in una situazione di carenza cronica che, di solito, non induce avitaminosi, ma altera il metabolismo dell’organismo e induce una instabilità genomica con maggior suscettibilità al danno del DNA con scarsa capacità di ripararlo).
- Carenza di fibra alimentare (assente in cibi raffinati) con conseguenti: stipsi, accumulo di sostanze tossiche, mancato legame di zuccheri e grassi (che verrebbero escreti più facilmente riducendo anche il colesterolo-LDL e aumentando il colesterolo-HDL) e aumento di diabete e vasculopatie aterosclerotiche.
- Alterazione dell’equilibrio acido-base con spostamento verso l’acidosi metabolica a causa di eccessivo consumo di cibi acidificanti (cibi confezionati, carne, uova, latte, formaggi, sale, additivi chimici, ecc.) a cui conseguono: perdita del tono muscolare, osteoporosi, calcoli renali, ipertensione arteriosa, infiammazione tessutale, ecc.
- Alterato equilibrio sodio/potassio con aumento del sodio (contenuto in abbondanza nei cibi industriali) e calo del potassio (che è scarso in carboidrati raffinati, latte e formaggi), con conseguente aumentato rischio di ipertensione arteriosa, ictus cerebrale, calcoli renali, osteoporosi, asma, insonnia, ecc.
Oltre a tener conto dei punti precedenti tra le possibili soluzioni elenca:
- La riduzione dell’introito calorico quale miglior modo per rallentare l’invecchiamento e per prevenire le patologie croniche;
- La restrizione calorica quale modo per facilitare l’eliminazione di cellule danneggiate e la loro sostituzione con cellule nuove derivate dalle riserve staminali.
A ciò io aggiungerei anche:
- La scelta di prodotti alimentari coltivati e prodotti con il minor impatto ambientale possibile che, per semplificazione, potrebbero essere quelli certificati biologici o biodinamici, sono fondamentali per limitare l’inquinamento e garantire più alti livelli di salute sociale nonché per fornire cibi più sani alle persone;
- La scelta di prodotti alimentari locali che vengono coltivati o prodotti vicino al luogo di consumo viaggiano di meno: in tale modo possono essere raccolti al raggiungimento della maturazione e, per questo, possono garantire maggiore e migliore apporto di vitamine e nutrienti;
- La scelta di prodotti alimentari semplici e non troppo industrializzati. In tal modo si limitano inutili additivi (conservanti e insaporenti) e si garantisce più genuinità dei cibi;
- La scelta di prodotti alimentari che abbiano pochi imballaggi per limitare la produzione dei rifiuti che indirettamente, attraverso l’inquinamento che producono, possono contribuire a diminuire la qualità della salute pubblica.
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Foto: La nuova piramide alimentare
Patè de fois gras. Slurp!
Quando vedo un video come quello di Animal Equality sull’allevamento delle oche destinate alla produzione del paté de fois gras (paté di fegato d’oca o di anatra) (1), penso che l’unico VERO animale presente sulla Terra sia l’uomo.
La nostra consapevole brutalità non ha pari. La nostra bestialità nel procurare inutile dolore e sofferenza ad altri esseri viventi non ha pari. La nostra consapevole insensibilità per l’ottenimento di un prodotto non essenziale per la sopravvivenza non ha pari. Il nostro lucido calcolo puramente materialistico non ha pari. Tutto ciò non ha pari nemmeno tra i più sanguinari carnivori del Pianeta, come le tigri, i coccodrilli o gli squali che agiscono istintivamente (senza premeditazione o senza scopi materiali, come il denaro) solo per procurarsi il cibo destinato alla sopravvivenza, loro e del loro clan familiare.
Tornando al video, esso mostra i diversi passaggi produttivi necessari per ottenere il famoso fois gras. Dall’allevamento degli animali in minuscole gabbie, all’alimentazione forzata degli stessi che vengono ingozzati a forza, fino ad arrivare alla loro truce macellazione. Tutto ciò con un unico scopo: procurare agli animali un ingrossamento anomalo del fegato e grandi depositi di grasso nello stesso che gli conferiscono quella consistenza gelatinosa così tanto ricercata dalla gastronomia e dai consumatori.
Il video è stato messa in rete da parte di Animal Equality, l’organizzazione internazionale in difesa degli animali. “Ciò che abbiamo documentato sono scene terribili di animali confinati in minuscole gabbie, affetti da stress e depressione, feriti dal tubo che ogni giorno viene loro spinto con forza nell’esofago [fino anche a farlo sanguinare] per far passare il cibo, oppressi da problemi respiratori e di deambulazione per le abnormi dimensioni raggiunte dal fegato, maltrattati e lasciati morire senza cure” afferma Francesca Testi, portavoce di Animal Equality in Italia. Il tutto senza senso, senza uno scopo importante, direi io. Con il solo oboettivo di accontentare il palato ad un’umanità capricciosa e senz’anima.
Sono certo che la nostra sopravvivenza futura dovrà passare inevitabilmente anche attraverso il rispetto degli animali. Boicottiamo il paté di fois gras e aderiamo con partecipazione alla campagna di sensibilizzazione di Animal Equality.
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(1) Wikipedia riporta che il fois gras è definito dalla legge francese come “fegato di anatra e di oca fatta ingrassare tramite alimentazione forzata”. […] L’alimentazione forzata induce una crescita abnorme del fegato ed un aumento di grassi nelle cellule epatiche noto come steatosi. Questo fenomeno è stato interpretato come un adattamento naturale da alcuni esperti, ma come una vera e propria patologia, la steatosi epatica, da altri.
Video: ATTENZIONE: alcune immagini contengono scene di violenza esplicita e potrebbero urtare la vostra sensibilità.
2014: anno dell’agricoltura familiare
In Italia e, suppongo, nei paesi “occidentali” che hanno il baricentro sociale spostato sull’industria e sui servizi, l’agricoltura viene oramai relegata ad un ruolo gregario all’interno del sistema economico: tutti concordano sul fatto che serva e che sia fondamentale ma poi la snobbano o la superfinanziano senza criterio preferendo ad essa l’industria o l’edilizia, perché sono in grado di essere molto redditizie e di portar soldi agli investitori in tempi molto brevi, quelli che l’agricoltura non si può permettere. Nonostante i piccoli segnali di ripresa di questi ultimi anni dovuti alla crisi che porta sempre più giovani intraprendere la strada (e l’avventura) nel settore primario, l’agricoltura, da noi, viene vista comunque nell’ottica industriale fatta di mezzi meccanici sempre più sofisticati, di additivi chimici e biotecnologici, di assenza di manodopera nonché di grandi guadagni speculativi che spesso esulano dalla produzione del cibo e virano verso la produzione di energia o verso la gestione dei rifiuti.
È importante sapere, però, che questa idea di agricoltura interessa una minoranza di persone al mondo dove, invece, in massima parte, la stessa è basata sulla piccola agricoltura familiare (1) che coinvolge circa 400 milioni di famiglie di coltivatori diretti con meno di due ettari di terra, circa 100 milioni di pastori e circa 100 milioni di pescatori. In sostanza il 40% della forza lavoro del Pianeta è coinvolto nell’agricoltura familiare che produce circa il 70% del cibo disponibile.
L’agricoltura familiare è caratterizzata principalmente da tre elementi positivi:
- contribuisce sostanzialmente alla sicurezza alimentare mondiale;
- difende i prodotti alimentari tradizionali e contribuisce a garantire una dieta bilanciata per le persone povere salvaguardando, contestualmente, l’agro-biodiversità e l’uso sostenibile delle risorse naturali;
- rappresenta un’opportunità per migliorare ed accrescere le economie locali.
In quest’ottica la FAO ha dichiarato il 2014 “l’anno dell’agricoltura familiare” con lo scopo di porre l’attenzione pubblica sul suo importante ruolo nell’eradicazione della denutrizione e della povertà, nel garantire la sicurezza alimentare e il miglioramento delle condizioni di vita, nella corretta gestione delle risorse naturali, nella protezione dell’ambiente e nel raggiungimento di uno sviluppo sostenibile e durevole, soprattutto delle aree rurali. L’obiettivo è quello di posizionare l’agricoltura familiare al centro delle politiche sociali, ambientali ed economiche degli stati, quale volano per uno sviluppo dell’uomo più equo e bilanciato rispetto a quello che può essere garantito dall’agricoltura industriale.
Bioimita sostiene l’agricoltura familiare perché rappresenta un punto focale dei suoi principi. Essa, in effetti, è caratterizzata dal fatto di avere caratteristiche specifiche per ciascuna area geografica; essa, essendo di piccola scala è necessariamente basata su una rete di relazioni tra diversi soggetti che si devono scambiare le sementi, le conoscenze, i prodotti; essa favorisce la biodiversità in quanto, non essendo industriale, valorizza i prodotti locali.
Salva un agnello
È semplicemente disumano fare ad un essere vivente quello che è ben documentato dal video di Animal Equality. In particolare – per chi è genitore può ben capire – se fatto ad un cucciolo.
Che cittadino, che genitore, che compagno, che educatore potrà mai essere colui che maltratta gli animali o che consente ad altri di farlo?
Oltre a chiedere comportamenti etici all’industria della carne, limitiamone fortemente anche il consumo. Ne beneficerà l’ambiente e, soprattutto, la nostra salute!
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Foto: www.campaniasuweb.it
Video: Salva un Agnello – ATTENZIONE: alcune immagini contengono scene di violenza esplicita e potrebbero urtare la vostra sensibilità.
Plutarco e la carne
“Se sei convinto di essere naturalmente predisposto a mangiar carne, prova anzitutto ad uccidere tu stesso l’animale che devi mangiare. Ma ammazzalo tu in persona, con le tue mani, senza ricorrere ad un coltello, ad un bastone o ad una scure. Fa come i lupi, gli orsi e i leoni che ammazzano da sé quanto mangiano”.
Con una lucidità incredibile e una lungimiranza inimmaginabile sui riflessi negativi che l’eccessivo consumo di carne avrebbe determinato qualche decina di secoli dopo, Plutarco elaborò questo suo pensiero nel I secolo d.C.
È troppo facile delegare altri (ad esempio l’asettica industria) per procurare la morte degli animali destinati al cibo. Sono certo, anche a seguito delle mie esperienze professionali nei macelli industriali, che gran parte dei consumatori di carne (1) desisterebbe da tale pratica di fronte al proprio coinvolgimento diretto nella morte di un animale, di fronte alla sua sofferenza, alla sua resistenza e al sua attaccamento alla vita.
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(1) Ci sto provando da tempo e, prima o poi, diventerò vegetariano.
66 milioni
Con i suoi 66 milioni di tonnellate prodotti nel 2012 il pesce allevato ha superato la quantità del manzo allevato (63 milioni di tonnellate annue). Ad incidere fortemente su questo superamento e sul trend in crescita del consumo di pesce è l’allevamento ittico cinese che, da solo, copre il 62% della produzione mondiale.
I dati sono riportati dalla rivista inglese “New Scientist” che, anziché sottolineare solamente gli aspetti positivi riferiti a tale dato (minore deforestazione, minore emissioni di metano, uso poco efficiente delle risorse agricole legate alla produzione della carne e minore sfruttamento degli stock ittici oceanici), evidenzia, citando un rapporto dell’Earth Policy Institute di Washington, che la pescicoltura può rappresentare anche una grave minaccia per gli ecosistemi. I motivi di preoccupazione per tale minaccia sono rappresentati dal fatto che spesso, per ragioni puramente commerciali o di moda alimentare, vengono allevate le specie “sbagliate”, quelle cioè che hanno il maggior impatto sull’ambiente.
Le specie “sbagliate” sono quelle carnivore (come il salmone, il branzino o il tonno) che, per essere nutrite, necessitano di animali o mangimi prodotti con pesci più piccoli, pescati in mare aperto. Ecco che così si ripropone il problema che si desiderava (o sperava) risolvere: quello della pesca insostenibile e del depauperamento degli stock ittici oceanici.
Le specie “giuste”, invece, sono quelle tipiche dell’allevamento cinese che, una volta tanto, rappresenta un elevato standard di sostenibilità ambientale. Esso è principalmente basato sull’allevamento della carpa argentata o di specie simili che, vivendo nelle risaie ed essendo essenzialmente vegetariane, possono nutrirsi di erbe, plankton e detriti organici e possono avere un limitato impatto ambientale. Anzi, possono addirittura limitare l’inquinamento delle acque dove sono presenti e migliorare le produzioni agricole.
I dubbi e le preoccupazioni che caratterizzano l’allevamento del pesce fanno emergere un concetto molto importante che la bioimitazione si propone di analizzare, di comprendere e di risolvere: in natura tutto è collegato da una serie infinita di relazioni che interessano le specie viventi, l’equilibrio del Pianeta, la salute e il benessere degli esseri umani. Se tale rapporto viene fortemente e malamente perturbato può dare origine a effetti o reazioni a catena che possono manifestarsi anche in ambiti e con modalità non del tutto prevedibili.
Pertanto perdere (o mettere fortemente a repentaglio) gli stock ittici dei mari potrebbe non solo mettere in difficoltà l’approvvigionamento di proteine animali per una elevata percentuale di popolazione mondiale ma potrebbe avere anche effetti sugli equilibri biochimici degli oceani che ora facciamo fatica a comprendere appieno.
Il cibo, come le lingue, le culture e il sapere è stato ed è in continua evoluzione. Facciamo in modo che possa essere, anziché una fonte di problemi da risolvere, un importante mezzo per la salvaguardia del Pianeta.
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Foto: Il Fatto Alimentare