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Quattrocentoventimila

Il pedigree dell’INAIL è chiaro a tutti: non si tratta né di una delle più dure associazioni ambientaliste né di una delle organizzazioni più anarchiche e rivoluzionarie operanti in Italia.
Eppure, con il suo progetto Expah, co-finanziato dall’Unione europea, desidera studiare approfonditamente gli effetti sulla salute umana degli idrocarburi policiclici aromatici (IPA) (1) contenuti nel particolato presente soprattutto nelle aree fortemente urbanizzate. Le polveri sottili, infatti, possono avere effetti nocivi sulla salute colpendo soprattutto l’apparato respiratorio e quello cardiovascolare delle persone esposte.
Dal momento che le principali cause di inquinamento atmosferico sono legate al traffico veicolare, ai sistemi di riscaldamento domestico, alle emissioni industriali e di produzione energetica, l’idea dell’INAIL – che opera in collaborazione con l’Azienda sanitaria locale Roma E, il CNR, la società Arianet e il National Institute for Health and Welfare finlandese (THL) – è quella di ridurre l’inquinamento non mediante progetti ipertecnologici ma “banalmente” attraverso l’applicazione delle tecnologie già esistenti, supportando politiche ambientali e una legislazione in questo specifico ambito.
Sulla base delle misurazioni delle IPA e di altri inquinanti ambientali effettuate ed elaborando dei modelli matematici di esposizione della popolazione, si è potuto stimare che in Europa, ogni anno, muoiono presumibilmente almeno 420.000 persone a causa dell’inquinamento. “Una cifra assolutamente inaccettabile” secondo il commissario UE all’Ambiente Janez Potočnik (e non solo per lui!).
Finalmente si sta sgretolando il muro di scetticismo che nel tempo è stato eretto a difesa del sistema tecnologico e produttivo basato sulla combustione di materiali organici e, oltre alle associazioni indipendenti, anche Enti ed istituzioni governative cominciano a pensare che sia anche più vantaggioso economicamente nel medio-lungo periodo investire ora, per migliorare sia la produzione di energia e di beni che l’efficienza energetica dei prodotti, delle abitazioni e dei trasporti.
Una ulteriore conferma che per ottenere il massimo vantaggio per la salute e per le attività umane sia necessario imitare la natura che basa il proprio funzionamento “sull’energia solare e sull’energia cinetica, senza combustione”.
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(1) Gli idrocarburi policiclici aromatici (IPA) – il più famoso dei quali è il benzo(a)pirene, ritenuto cancerogeno – sono sostanze chimiche presenti nelle polveri fini atmosferiche prodotte dalla combustione incompleta di materiale organico. Le principali fonti di emissione sono il traffico stradale, le caldaie del riscaldamento domestico e le emissioni industriali. Le IPA hanno una elevata capacità di penetrare negli ambienti chiusi.
Foto: Struttura tridimensionale (modello space-filling) del corannulene, IPA strutturalmente formato dalla condensazione di 5 anelli benzenici e un anello centrale di ciclopentano. (Fonte Wikipedia)
Foto ricordo da Fukushima

Se qualcuno avesse ancora dubbi sulla potenziale pericolosità dell’energia nucleare…
… ecco qualche foto ricordo di fiori, frutti, piante o animali nati nella regione dell’incidente nucleare di Fukushima dell’11 marzo 2011.
Esse sono la dimostrazione lampante del motivo per cui la natura non fonda la produzione di energia sulle fonti radioattive. Troppo pericolose!!!
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Foto: Corriere.it
Brutti, fastidiosi e antipatici

Qualche volta, di notte, durante i miei viaggi autostradali o percorrendo le strette e tortuose strade di campagna, mi soffermo a pensare a quell’innumerevole schiera di falene, moscerini, zanzare o coleotteri che appaiono improvvisamente alla luce dei fari e che, immediatamente dopo, lasciano inesorabilmente i loro corpi a disegnare graffiti sulle carrozzerie e sui vetri di auto e camion, compresa la mia. Vite che la velocità dell’automobile spezza su lunotti, su frontali cromati, su paraurti in plastica o su fanalini di vetro. Residui che, poi, al termine della stagione estiva risultano pure difficili da pulire e che lasciano segni sulle carrozzerie di vernice metallizzata pagate, magari, anche a rate.
Spesso il mio pensiero va alle loro umili vite e al ruolo apparentemente inutile ma, invece, estremamente prezioso, che essi hanno nel “tutto”.
Tra loro ci saranno sì dei parassiti per l’uomo e le sue attività ma anche animali di indubbia utilità agricola e ambientale. Tra loro ci saranno anche insetti senza una qualche particolare attrattiva naturalistica ma anche animali rari o particolarmente interessanti. Tra loro ci sono, comunque, vite che vanno rispettate in quanto tali perché partecipi di una funzione globale che è il mantenimento, nel trascorrere del tempo, della vita sul Pianeta, compresa anche la nostra.
Mi chiedo, allora, quali perdite ecologiche tali morti di massa possano comportare. Non è infatti un mistero che la massa vivente sulla terra (di cui gran parte è composta di insetti) si stia contraendo in termini di volumi, vuoi per effetto di una antropizzazione diffusa, vuoi per effetto di cambiamenti climatici che determinano la scomparsa di habitat, vuoi per effetto di una agricoltura sempre più invadente ed invasiva, vuoi per i sempre più “mostruosi” mezzi di trasporto umani.
La natura, per ben funzionare ha bisogno di tutti e ha bisogno che tra tutti gli esseri viventi esistano relazioni continue, non sempre necessariamente pacifiche.
Nostra cura dovrà essere quella di far sì che, nello svolgimento delle nostre vite e nell’esercizio delle attività economiche, tutte le specie, anche quelle apparentemente insignificanti, siano considerate “specie a rischio di estinzione” e siano oggetto di attenzioni e di protezione.
Progettisti e ingegneri di tutto il mondo, siete pronti ad accettare la sfida?
Barroso e la transizione verso la green economy

Quando le mie orecchie sentono parlare di sostenibilità e in qualche modo di “decrescita” figure politiche del calibro di José Manuel Barroso (Presidente della Commissione Europea) mi sorge spontanea una domanda: ci crederanno veramente a quello che dicono o ci stanno solo vendendo la solita minestra (economico-politica) ben mascherata con una rassicurante patina “verde”? Avendo un minimo di esperienza sulle spalle so che l’attuale sistema economico predatorio basato sui consumi e sulle merci è estremamente resistente e difficile da scardinare perché, oltre che rappresentare un’importante fonte di ricchezza personale per le oligarchie economiche mondiali che sfruttano politici compiacenti, è anche ben radicato nella nostra filosofia sociale. Nonostante ciò, però, una piccola speranza comincia a farsi luce e, via via che passa il tempo, diventa sempre più luminosa. Essa, alimentata da una crisi economica sempre più dura da combattere e che si preannuncia duratura perché insita nel malfunzionamento del sistema capitalistico, comincia a far breccia anche tra la classe dirigente del vecchio continente in cerca di soluzioni per mantenere in vita l’apparato socio-politico europeo. Questa speranza è rappresentata dalla cosiddetta green economy e dallo sviluppo sostenibile.
Senza entrare troppo nel merito del ritardo almeno trentennale con cui i nostri politici se ne sono accordi e dell’entità esigua degli aiuti finanziari a sostegno di pratiche economico-sociali sostenibili (una briciola rispetto a quelli che tengono in vita il sistema produttivo-finanziario tradizionale), desidero fare solo un’osservazione, fondamentale perché tale onda di pensiero basata sull’ecologia e sull’attenzione per il benessere degli individui possa avere successo nel lungo periodo.
È estremamente importante che non si faccia poggiare la green economy sugli stessi pilastri ideologici della fase economica precedente!!!
Pertanto, nel disegnare la nuova economia del futuro deve essere abbandonata la logica cieca e unica della crescita e deve essere dato, invece, più “ascolto” alla natura e ai principi del suo funzionamento. Principi che devono poi essere applicati al sistema economico, produttivo e sociale.
Solo così si potrà sperare di uscire veramente dal tunnel della insostenibilità ambientale e di creare un sistema economico-produttivo duraturo e in grado di interessare la più ampia percentuale possibile di popolazione mondiale.
La luce artificiale nuoce alla salute

Per analizzare il fenomeno dell’inquinamento luminoso è sufficiente prestare un po’ di attenzione ai luoghi che si frequentano abitualmente per osservare, negli anni, come si moltiplichino sia i pali per l’illuminazione pubblica sia le fonti di illuminazione privata, nei giardini e davanti alle case (1).
Anno dopo anno sempre più numerosi in un inarrestabile processo di crescita quasi ad indicare l’illusione dell’uomo tecnologico di vincere la notte!
Il fenomeno viene anche segnalato da anni sia dai movimenti ambientalisti (che spesso si concentrano di più sul consumo energetico) sia dalla ricerca scientifica che osserva sempre di più problemi legati alla salute delle persone causati dall’eccessiva esposizione all’illuminazione artificiale notturna. Così come l’orecchio ha due funzioni, quella dell’udito e quella dell’equilibrio, anche l’occhio ne ha due, quella della visione ma anche quella di trasmettere al cervello, tramite le cellule gangliari della retina, le informazioni circa la presenza di luce nell’ambiente. Una volta giunti nel cervello questi segnali innescano una serie di effetti diversi: inibiscono i neuroni che promuovono il sonno, sopprimono il rilascio dell’ormone melatonina importante per la regolazione dei cicli sonno-veglia da parte dell’ipofisi, attivano i neuroni orexina nell’ipotalamo che promuovono lo stato di veglia.
In sostanza il quadro è il seguente: l’essere umano si è evoluto secondo i ritmi circadiani regolati sulla luce naturale. Quando c’è luce siamo attivi; quando c’è buio riposiamo. Se, però, durante la notte si accendono le luci artificiali, nel nostro sistema neurovegetativo vengono riprodotti gli stessi segnali che sarebbero propri del giorno. E il fenomeno è sempre più intenso e pervasivo, tantoché nelle zone abitate il buio assoluto quasi non esiste praticamente più!
In un recente articolo de “Le Scienze” viene trattato questo tema osservando che la privazione (o la riduzione) del sonno legata alla presenza di fonti di illuminazione artificiale sia esterne che interne alle abitazioni (compresa la televisione e il pc) predispone ad importanti problemi di salute quali obesità, diabete, malattie cardiovascolari, depressione e ictus.
Secondo le statistiche oramai circa un terzo degli statunitensi adulti attivi lamenta un numero insufficiente di ore di sonno (2), mentre era solo il 3 per cento 50 anni fa. Le cose non sono migliori per i bambini poichè i dati mostrano che, a livello mondiale, ogni notte dormono in media 1,2 ore in meno rispetto a un secolo fa.
Visto l’impatto sempre più evidente (dimostrato dalla scienza) che l’illuminazione notturna ha sulla salute interroghiamoci seriamente su alcuni aspetti ad essa legati:
- è proprio necessario moltiplicare ogni anno le installazioni luminose pubbliche e private o possiamo valutare di mantenere solo quelle assolutamente necessarie?
- è proprio necessario che il sistema economico del consumo ci proponga beni e servizi h 24/24 senza valutare la necessità di un’area franca di riposo notturna?
- è proprio necessario che i nostri comportamenti individuali domestici ci portino a rubare inutilmente ore di sonno al nostro corpo attraverso la televisione e il computer?
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(1) Si pensi che all’illuminazione artificiale viene destinato attualmente il 19 per cento dell’energia prodotta nel mondo!
(2) Normalmente la quantità ideale per gli adulti è di sei ore per notte.
Foto: La crescita dell’inquinamento luminoso in Italia (1971/1998/2025) – www.lightpollution.it
Fonte: “Le Scienze”
Gli alberi sono catalizzatori di polveri sottili

A livello intuitivo potrebbe sembrare cosa ovvia ma quando lo dice una ricerca scientifica pubblicata su riviste autorevoli la questione acquista maggior valore. Si tratta di quantificare l’importanza degli alberi nel contesto urbano non solo dal punto di vista paesaggistico e del benessere prodotto ma anche dal punto di vista depurativo e catalizzatore per le polveri sottili.
Le polveri sottili (o particolato fine) sono quella forma tipica di inquinamento delle nostre città. Esse derivano dalla combustione del carbonio (principalmente traffico veicolare, riscaldamento, industrie e inceneritori) e determinano una mortalità precoce non solo per infiammazioni croniche delle vie respiratorie ma anche per un’accelerata arteriosclerosi e per alterazioni delle funzioni cardiache. Oltre al carbonio e ai residui della combustione possono contenere anche metalli e agenti chimici vari. Inoltre la loro pericolosità è direttamente proporzionale alla loro dimensione: più le particelle di polvere derivante dalla combustione sono piccole e più riescono a penetrare in profondità nel corpo sino ad infiltrarsi (quando la loro dimensione è nanometrica) in tutti gli organi, con enormi difficoltà ad essere smaltite.
La ricerca (pubblicata da Environmental Pollution) è stata condotta in dieci grandi città statunitensi dal U.S. Forest Service e dal Davey Institute e rappresenta il primo sforzo per stimare l’impatto complessivo del verde urbano sulle concentrazioni delle polveri sottili inferiori ai 2,5 micron: le cosiddette Pm 2,5. Dallo studio, che ha interessato le città di Atlanta, Baltimora, Boston, Chicago, Los Angeles, Minneapolis, New York, Philadelphia, San Francisco e Syracuse (Stato di New York), è emerso che gli alberi urbani sono in grado di rimuovere il particolato fine dall’atmosfera e, pertanto, possono incidere fortemente sulla prevenzione di malattie gravi, potenzialmente mortali per i cittadini.
La quantità totale di Pm 2,5 rimossa annualmente dagli alberi varia dalle 4,7 tonnellate a Syracuse alle 64,5 tonnellate di Atlanta.
«Abbiamo bisogno di più ricerca per migliorare queste stime» – dice David J. Nowak, uno dei ricercatori – «ma il nostro studio suggerisce, una volta di più, che gli alberi sono uno strumento efficace nella riduzione dell’inquinamento dell’aria e la creazione di ambienti urbani più sani».
Spiega inoltre Michael T. Rains, Direttore della stazione di ricerca del servizio forestale: «Questo studio illustra chiaramente che i boschi urbani degli Stati Uniti sono investimenti di capitale perché, aiutando a produrre aria e acqua pura, riducono i costi energetici e rendono la città più vivibile. Semplicemente, le foreste urbane migliorano la vita!».
E tu, caro Sindaco, cosa scegli? Bosco o tunnel? (1)
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(1) Il riferimento è al Sindaco della città di Verona che desidererebbe costruire una nuova importante arteria (auto)stradale (in parte sotto un tunnel) nei pressi della città.
La morte del paesaggio

Mi fa inorridire sentir dire a priori, senza alcun spirito critico, che l’Italia è bella solo perché ha un invidiabile patrimonio artistico-culturale e un magnifico paesaggio. Balle!
L’Italia, è vero, ha un enorme patrimonio artistico-culturale che vanta il più grande numero di siti UNESCO del mondo ma, invece di essere coccolato e difeso, viene in gran parte lasciato marcire nei magazzini dei musei, viene fatto crollare o viene pian piano sommerso da strade, cavalcavia, capannoni industriali o da villette a schiera, spesso abusive. Se questa è bellezza?!
L’Italia, è altrettanto vero, vanta interessanti paesaggi naturali, spesso associati ad attività agricole o a centri abitati e borghi che fondano le loro origini nell’antichità. Sempre più spesso, però, questi capolavori di armonia estetica, frutto di secoli di lavoro e di ingegno umano, vengono orribilmente deturpati da imprenditori senza scrupoli e da amministratori privi di idee che approvano, spesso nei luoghi più impensabili, la distruzione del territorio attraverso la costruzione di nuove periferie abitative fatte di case anonime senza estetica, di rotatorie inguardabili, di aree industriali senza identità, di strade, di capannoni isolati, di ponti, di cavalcavia, di ferrovie, di pollai, di muri di cemento armato…
La difesa, nel tempo, dell’economia e del benessere sociale deve passare anche attraverso la salvaguardia del territorio, fatto di paesaggi e di patrimonio artistico-culturale, molto spesso interconnessi.
Noi cittadini, per questo, ci dobbiamo indignare nei confronti di chi ha minacciato e continua a minacciare tale risorsa e dobbiamo iniziare a chiedere, da subito, che il Parlamento vari due semplici provvedimenti già da tempo sperimentati dagli altri paesi europei più evoluti di noi:
- Una maggiore tassazione del patrimonio immobiliare rispetto al reddito, con esenzione o limitazione delle tasse per chi non consumi territorio attraverso restauri o recuperi di aree già urbanizzate;
- Una limitazione annua del consumo di territorio a livello globale che impedisca l’espansione eccessiva del sistema economico dell’edilizia e delle infrastrutture consentendo allo stesso (quello più meritevole in termini di capacità imprenditoriale) di sopravvivere più a lungo nel tempo.
Da questi due nuovi capisaldi normativi si deve poi immaginare un nuovo sistema urbanistico compatto che è più efficiente in termini energetici e che conserva la bellezza dei paesaggi nonché un sistema di infrastrutture realizzato in funzione dei flussi e delle necessità reali piuttosto che fondato sul principio che gli appalti, anche se non necessari, sono comunque il volano dell’economia.
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Foto: www.verdeepaesaggio.it
The Copenhagenize Index

Nell’immaginario comune la città più ciclabile d’Europa (e, forse, anche del mondo) è Amsterdam. In effetti tale risultato viene confermato dalla Copenhagenize Design Co., un’organizzazione che si occupa di cultura del ciclismo, di pianificazione urbana, di traffico, di comunicazione nell’ambito del ciclismo urbano e della vivibilità delle città e che, a partire dal 2011, elabora una classifica delle città più vivibili del mondo per gli utenti a due ruote.
Nella classifica del 2013 (The Copenhagenize Index) il primo posto è occupato da Amsterdam (con votazione 83), seguita da Copenhagen (votazione 82) e Utrecht (votazione 77). I dati per elaborare tale graduatoria vengono forniti da 400 persone che vivono sparse per le diverse città del mondo e che aiutano a verificare la rispondenza dei 13 criteri utilizzati per la valutazione:
- Advocacy: quanto le organizzazioni della città si occupano di mobilità in bicicletta e quale influenza hanno sulla politica locale;
- Cultura della bicicletta: quanto la bicicletta viene percepita dai cittadini come mezzo di trasporto;
- Infrastrutture per le biciclette: quanto nella città sono presenti infrastrutture specifiche per il trasporto in bicicletta (piste ciclabili, rampe, ponti, spazi sui mezzi di trasporto);
- Tasso infrastrutturale per le biciclette: in quale percentuale sono presenti le infrastrutture per la bicicletta;
- Programma di bike-sharing: quanto è presente e utilizzato il programma di bike-sharing;
- Utilizzo di genere: quanto la bicicletta è usata dalle donne;
- Modal share per le biciclette: obiettivi di sostenibilità urbana orientati allo sviluppo della cultura della bicicletta;
- Incremento del modal share dal 2006: quanto è incrementata la sostenibilità urbana legata all’uso della bicicletta dal 2006;
- Percezione della sicurezza: qual è la percezione della sicurezza dei ciclisti legata all’uso volontario del casco;
- Politica: qual è l’atteggiamento della politica locale nei confronti della mobilità in bicicletta;
- Accettazione sociale: quanto gli autisti e la comunità in generale considera la mobilità in bicicletta;
- Pianificazione urbanistica: quanto l’amministrazione comunale investe nelle infrastrutture ciclistiche e quanto è consapevole delle migliori pratiche;
- Limitazione del traffico: quanto l’amministrazione comunale fa nell’ambito della limitazione della velocità delle auto e nella limitazione del traffico per aumentare la sicurezza di pedoni e ciclisti.
Sia nella classifica del 2011 che in quella del 2013 non compare nessuna città italiana! Sarà forse un messaggio per capire che si deve fare subito qualcosa in più e considerare la mobilità in bicicletta e le sue infrastrutture un importante valore socio-economico piuttosto che una parola che riempie solo la bocca in occasione delle campagne elettorali?
Basta solo prendere i 13 criteri ed iniziare ad investire…
Il passaporto dei prodotti

Sussulto quando le mie orecchie sentono figure politiche del calibro di Janez Potočnik (Commissario europeo all’Ambiente) affermare che in Europa, per mantenere competitiva l’industria, è necessario cambiare il modo in cui si produce e si consuma. Il motivo del sussulto è che, dopo anni – forse già decenni – che “noi” ambientalisti lo diciamo, se ne sono finalmente accorti anche “loro”. Loro che, invece, fino ad ora, ci hanno sempre detto che tutto andava bene e che dovevamo essere solo più ottimisti.
La realtà dei fatti è che nel mondo – vuoi per l’emergere di nuove economie che ci fanno competizione, vuoi per la scarsità delle risorse che si profila, all’orizzonte, sempre più profonda – vi è sempre meno disponibilità di materie e, se si desiderano acquistare, i loro prezzi sono elevati.
L’idea che ha lanciato il Commissario Potočnik, spinto da alcuni paesi europei (tra cui l’Italia) e da alcune ONG, è quella di istituire una sorta di “Passaporto dei prodotti”, allo scopo di massimizzare l’uso delle risorse europee, il riciclo e il riuso dei materiali.
In sostanza l’idea del Commissario è quella di creare un’economia circolare delle risorse interne all’Ue, possibile solamente se, a monte, si conosce come è composto un prodotto e quali sono le modalità per disassemblarlo e riutilizzarne correttamente i materiali. Inoltre i prodotti devono anche essere (ri)progettati e fabbricati con l’idea di riutilizzarne poi i materiali che li compongono.
Secondo le stime della Ue da questa manovra si potrebbe ridurre realisticamente la richiesta di materiali fra il 17% e il 24%, aumentando il Pil e creando fra 1,4 e 2,8 milioni di posti di lavoro.
All’interno del progetto proposto potrebbero essere previste anche norme riguardanti l’uso di agenti chimici e prodotti pericolosi in agricoltura nonché azioni verso l’eliminazione progressiva dei sussidi nocivi per l’ambiente e la salute pubblica come quelli ai carburanti fossili, nel settore energetico nonché sull’uso dell’acqua in agricoltura e nell’industria.
Se dalle parole si passerà ai fatti si vedranno realizzare concretamente i principi della bioimitazione.
Chapeau!
L’Islanda ha ripreso la caccia alle balene

Greenpeace, la nota ONG ambientalista, sul suo sito internet riporta la notizia che l’Islanda ha da poco ripreso la caccia alle balene nonostante l’esistenza di un divieto alla caccia commerciale delle stesse stabilito dalla Commissione Baleniera Internazionale (IWC – International Whaling Commission).
Sempre secondo quello che riporta Greenpeace, il primo esemplare ad essere catturato è stato un maschio di balenottera comune (Balaenoptera pysalus) lungo più di 20 metri che è stato macellato nel porto di Hvalfjörður, vicino a Reykjavik.
Nonostante il fatto che la balenottera comune faccia parte della lista rossa delle specie minacciate di estinzione redatta da parte del IUCN (International Union for Conservation of Nature), i balenieri islandesi, in pieno disprezzo delle regole e sostenuti dal Governo del loro Paese, hanno intenzione di cacciarne quest’estate addirittura fino a 180 esemplari.
È da notare che la gran parte delle balene catturate in Islanda vengono inviate in Giappone dove, però, il consumo di carne di balena sta progressivamente calando e dove, in massima parte, vengono impiegate per la produzione di cibo per cani. A tale riguardo anche gli operatori turistici islandesi si sono espressi sull’argomento sostenendo che il whale watching porta al Paese decisamente più benefici economici rispetto alla caccia delle balene.
La questione della caccia alle balene è una questione che periodicamente torna alla ribalta e che rivela, a mio avviso, l’assurdità del nostro sistema economico-produttivo. Un sistema predatorio e distruttivo che non ha nessuna capacità di “vedere” (nel senso di osservare e capire) le relazioni profonde della natura, fatta di continui interscambi tra le specie viventi.
Sia ben chiaro che la caccia è un fenomeno assolutamente naturale che non voglio affatto demonizzare per preconcetto, ma farla mettendo a repentaglio una specie già a rischio vuol dire che l’uomo che la pratica non ha nemmeno a cuore il senso della propria sopravvivenza, tipico di ogni specie animale.
Dal momento che Bioimita si interessa di sostenibilità ambientale applicata ai prodotti e ai servizi, oltre a sviluppare la cultura e la conoscenza sulla materia, propone anche di boicottare con qualsiasi mezzo l’Islanda per le sue scelte in materia di caccia alle balene perché ritiene possa essere uno strumento commerciale efficace per far cambiare loro strategia.
Il carbone è un killer dei polmoni

Lo studio “Silent Killer” commissionato da Greenpeace all’università di Stoccarda ha dimostrato che il carbone è il killer dei polmoni (cioè della salute in generale) e del clima. I Paesi dove questo fenomeno è più intenso sono la Polonia, la Germania, la Romania e la Bulgaria.
Le oltre 300 centrali elettriche a carbone in funzione nell’Unione europea e le 52 in costruzione o in progettazione uccidono (e uccideranno) prematuramente circa 22.300 persone l’anno, circa 60 al giorno che corrispondono a 5 persone ogni 2 ore. I gas e le micro polveri emesse determinano, inoltre, la perdita di 5 milioni di giornate lavorative l’anno per malattie.
In più il carbone avvelena pesantemente anche il clima visto che, a parità di energia prodotta, le sue emissioni di CO2 sono più che doppie rispetto a quelle del metano.
Come afferma Andrea Boraschi, responsabile della campagna Energia e Clima di Greenpeace Italia, « Lo studio è l’ennesima prova che il carbone pulito sbandierato dalle compagnie energetiche non esiste. Il carbone è una delle principali cause di avvelenamento dell’aria e per salvare i nostri polmoni dobbiamo mettere fine all’era del carbone e avviare una radicale rivoluzione energetica».
Le centrali a carbone producono un quarto dell’energia elettrica consumata nell’Ue, ma emettono il 70% degli ossidi di zolfo e più del 40% degli ossidi di azoto provenienti dal settore elettrico. Inoltre le circa 300 centrali europee sono la fonte di quasi la metà di tutte le emissioni industriali di mercurio, di un terzo di quelle di arsenico e producono quasi un quarto del totale delle emissioni europee di CO2. L’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA) il 10 giugno scorso ha reso noto che nel 2012 le emissioni di CO2 provenienti dalle centrali elettriche sono aumentate, nel mondo, dell’1,2%.
Lo studio “Silent Killer” è la prova lampante che non esistono centrali a carbone né di terza né di quarta e né di quinta generazione che si possano definire innocue per la salute della popolazione. Se è vero che quelle più evolute dal punto di vista tecnologico sono un po’ migliori rispetto a quelle degli anni precedenti, è anche vero che, di fondo, si poggiano su un fondamento sbagliato: quello della combustione, sulla quale NON si fonda il corretto funzionamento della natura. Di cui i morti, i malati e le alterazioni del clima ne sono una prova evidente!
In questa triste notizia si può però intravvedere una luce di speranza che ben presto il carbone verrà eliminato dalla scena europea. Basandosi sugli andamenti storici della produzione di energia elettrica in Europa è possibile definire uno scenario per l’anno 2030 che si fonda sui seguenti pilastri (si veda il grafico):
- aumento delle rinnovabili, secondo il trend esponenziale degli ultimi 20 anni
- calo del nucleare, secondo il trend decrescente degli ultimi 7 anni
- aumento del gas, secondo il trend attuale
- diminuzione del carbone, con una riduzione annua del 10%
- diminuzione dell’olio combustibile (petrolio), fino ad azzerarsi nel 2025
- i consumi totali rimarranno più o meno stabili grazie all’aumento dell’efficienza energetica e alla moderazione dei consumi individuali.
L’uso del carbone per produrre energia è, in proiezione, già consegnato alla storia. Spetta a noi chiedere ai decisori politici che il processo sia il più veloce possibile per evitare inutili sofferenze umane e danni all’equilibrio del clima.
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Grafico: EcoAlfabeta
Foto: www.ecologiae.com
Fonte: Greenpeace, EcoAlfabeta
Il disco rotto

A casa non ho la televisione ma quando dormo in albergo per missioni di lavoro (1) mi capita spesso di trascorrere le mie serate, stanco e svogliato, in camera davanti all’elettrodomestico infernale. Ciò che mi attrae di più (mi potrei vedere un bel film ma, lo so, sono masochista) sono le trasmissioni dove si dibatte di politica e di società: i cosiddetti talk-show dove un giornalista spesso finge di domare eminenti politici o influenti opinionisti che dibattono della loro visione del mondo e dove spesso finge anche di fare, con domande ovvie e preconfezionate, il suo mestiere di giornalista/“mastino del potere”.
Questa routine si ripete da anni e da anni vedo sempre gli stessi politici, gli stessi giornalisti, gli stessi sindacalisti, gli stessi opinionisti, gli stessi esperti economici che si illudono di convincere i telespettatori delle loro idee e delle loro ricette “per il bene degli italiani” e “per le riforme del Paese”, senza rendersi conto che, invece, cercano solo di autoconvincere sé stessi sulla bontà dei concetti espressi, spesso invece ovvi e banali. Questo, sia ben chiaro, non vale per tutti, ma per una buona parte di loro è assolutamente vero.
Ad avere una macchina del tempo potremmo mettere la manovella in una serata a caso di questi ultimi trent’anni e potremmo osservare la circolarità dei discorsi televisivi. Una sorta di disco rotto che, arrivato al difetto, ritorna al punto di partenza in una sequenza infinita, lamentuosa e cacofonica.
Ad osservarli bene gran parte dei loro discorsi sono incentrati sulle questioni economiche e sociali: la crisi, le tasse, la casa, la giustizia, il lavoro relativamente ai quali partoriscono solamente soluzioni semplicistiche che non hanno né un riferimento al passato (per capire l’andamento dei fenomeni e gli errori) né una proiezione nel futuro (per sognare un risultato), ma poggiano esclusivamente nel presente. Quasi mai si parla di etica (quella vera), di responsabilità (è sempre quella degli altri) e di credibilità della politica (quella vera), che impone anche le dimissioni dell’esponente incauto (o furbo) prima che la giustizia abbia esaurito il suo corso.
Mai si parla di quella che, secondo il mio modesto parere, è la causa prima dei diversi sintomi osservabili intorno a noi: i limiti dello sviluppo (2) e l’insostenibilità complessiva del nostro sistema economico, produttivo e sociale. Se non capiamo questo e non iniziamo seriamente ad interrogarci sul fatto che per risolvere il problema del lavoro, il problema delle tasse, dei servizi, della competitività, della scuola il sistema deve essere radicalmente riformato, non ne veniamo fuori.
Cari commentatori (almeno voi che avete la mia stessa percezione) non abbiate paura ad iniziare a parlarne perché, volenti o nolenti, è giunto il tempo di cambiare il disco e di suonare una musica nuova.
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(1) Oramai quasi settimanalmente
(2) Nel 1972 il Club di Roma aveva commissionato ad eminenti scienziati del MIT di studiare quali fossero le prospettive future dell’umanità, basandosi sul contesto economico e sociale del tempo. Tale rapporto fu pubblicato con il titolo “I limiti dello sviluppo“.
Sfalcio

Lo spiegamento di uomini e di mezzi è notevole. In più transennamento di strade, deviazione del traffico, cartelli stradali, lampeggianti, polvere e rumore.
Non si stanno descrivendo né operazioni straordinarie dell’esercito né trasporti eccezionali o lavori di costruzione di ponti o di gallerie. L’immagine riguarda “semplicemente” le operazioni di sfalcio meccanico dell’erba ai bordi delle strade, soprattutto quelle ad elevata percorrenza.
A cosa servirà mai tutto ciò?
Ad evitare terribili incidenti stradali? Mi sa proprio di no (tranne nelle aree sensibili di incroci o rotatorie). Ad evitare pandemie per la popolazione a causa di una qualche spora o polline sconosciuti? Sicuramente no. Ad abbellire i cigli delle strade? Forse (per qualcuno).
Essendo dubbioso sulla vera utilità di tali operazioni mi viene il sospetto che le immani operazioni stradali siano un sistema utilizzato dalle amministrazioni e dagli Enti di “dare lavoro”, attraverso gli appalti piuttosto che attività dotate di una qualche importante utilità sociale. Sistema che, a causa della sua indubbia utilità e degli sprechi che incorpora, potrebbe, a mio avviso, essere dirottato verso altro.
Se si volesse anche cambiare la prospettiva sui vegetali (che qualcuno chiama anche “erbacce”) presenti ai bordi delle strade, si può notare come, a ben guardarli, rappresentino anche un relitto di biodiversità. Con i loro fiori colorati, con le loro specificità locali (adattabilità ai climi secchi o umidi, freddi o caldi oppure ai terreni) rappresentano un mondo che faceva parte di un passato e che ora, a causa dell’agricoltura industrializzata e dell’antropizzazione spinta, non esiste (quasi) più.
L’analisi di questo articolo non ha certo la pretesa di ritornare ai tempi dei nostri nonni perché migliori. Il suo scopo è quello di far luce sulla necessità che, anche in ambiti inaspettati, si cominci ad avere la percezione dell’importanza della natura (manifesta attraverso la sua diversità) e del ruolo che essa ha nella vita dell’uomo e nel mantenimento del suo benessere. Ad esempio tra quelle piante si potrebbero “nascondere” erbe con proprietà medicinali attualmente non conosciute.
In più, dobbiamo iniziare anche a considerare il fatto che un ambiente selvatico lasciato libero alle proprie dinamiche sia anche bello da vedere e doni alle nostre strade e all’ambiente che viviamo un tocco originale di “paesaggio”.
Lampione. Ma quanto ci costi?

Quanto ci costa, in termini economici e in termini di inefficienza energetica, illuminare le nostre città di notte?
Per tenere accesi lampioni e semafori le amministrazioni italiane spendono oltre 1 miliardo di euro l’anno, pari a circa 20 euro per ogni abitante del Bel Paese. Secondo l’ENEA (Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile) le luci stradali notturne consumano circa il 12% di tutta l’energia impiegata per l’illuminazione in generale. Gran parte viene utilizzata per i lampioni (90%) mentre una minima parte va a finire nei semafori (10%).
Al di là dell’aspetto economico (ad es. un Comune di 10.000 abitanti spende indicativamente 200 mila euro l’anno), ciò che questi dati dimostrano è l’inefficienza energetica e gli sprechi che tale pratica incarna, spesso dovuta a vecchie tecnologie, a mancati investimenti, a incapacità della classe politica di fare delle scelte adeguate, all’idea della sicurezza cavalcata da alcuni movimenti ideologici, alla pratica elettorale di accontentare tutti i cittadini (anche quelli che vivono in luoghi isolati) per ottenere voti e consenso.
I risultati, dopo decenni di mediocrità generalizzata, sono i seguenti: in Italia vi è un consumo annuo di energia pro capite per illuminazione pubblica pari a 105 kWh, più del doppio rispetto a quello della Germania che si attesta intorno a 42 kWh. Punto!
Per invertire la rotta e consentire risparmi generalizzati, tanto salutari sia per i bilanci comunali (e indirettamente per diminuire la pressione fiscale) che per la sostenibilità ambientale ottenuta attraverso l’efficienza energetica, sarebbe necessario iniziare da subito ad applicare le seguenti iniziative:
- razionalizzare la quantità di lampioni a quelli strettamente necessari (*);
- migliorare i corpi illuminanti dei lampioni installando tecnologie meno energivore;
- applicare tecnologie di controllo dei lampioni che consentono di regolare l’intensità dell’illuminazione sia sulla base dell’ora della notte (in piena notte è meno necessario illuminare) che al traffico di auto e dei pedoni presenti;
- impiegare maggiormente tecnologie a pannelli fotovoltaici con sistemi di accumulo dell’energia per consentirne utilizzi notturni.
«Si stima che con l’attuazione di interventi idonei a rendere il sistema più efficiente – spiega Giovanni Lelli, commissario ENEA – si possano ridurre i consumi del 30%, con una diminuzione consistente del fabbisogno di energia che comporterebbe un risparmio economico di circa 400 milioni di euro ogni dodici mesi».
È vero che dobbiamo riformare i costi della politica e della “casta”, ma i veri danni che i cattivi amministratori fanno sono più quelli che paralizzano l’innovazione e l’efficienza attraverso scelte senza senso o, peggio, fatte solo nell’ottica di aiutare gli amici degli amici degli amici.
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(*) l’illuminazione notturna necessaria è quella urbana e quella agli incroci che consente sicurezza a pedoni biciclette, mentre è del tutto superflua quella sulle strade secondarie.
Global Wind Day (Giornata Mondiale del Vento)

Siamo oramai giunti alla settima edizione del “Global Wind Day”, la Giornata Mondiale del Vento, che si terrà oggi, 15 giugno.
Per fornire qualche dato interessante, nel 2012, a livello mondiale, la produzione di energia dal vento ha raggiunto i 520 TWh (di cui 200 TWh di produzione europea) e sta crescendo con andamento esponenziale tanto che, alle cifre attuali, raddoppierà in 3 anni.
L’energia prodotta dal vento è un’energia pulita che, nel rispetto del 1° principio della bioimitazione, direttamente non produce alcun gas climalterante (CO2 o metano) e alcun inquinamento. Inoltre essa è generatrice di lavoro distribuito sul territorio, sia in fase di installazione delle pale che in fase di manutenzione periodica delle stesse.
Eppure, nonostante ciò, secondo il Global Wind Energy Council (GWEC), per ogni euro di finanziamento governativo alle energie rinnovabili, le energie fossili ricevono ben 6 euro.
Per far sentire la propria voce e le proprie sacrosante ragioni basate sulla sostenibilità ambientale e sul benessere sociale, il GWEC ha lanciato un appello al G8 che si terrà la prossima settimana a Belfast, chiedendo ai Capi di Stato che venga ridotto progressivamente il sostegno pubblico alle fonti fossili (petrolio, gas e carbone) ed venga aumentato contestualmente quello nei confronti delle fonti rinnovabili. Quelle vere, che non includono l’incenerimento dei rifiuti.
Per dare peso alle proprie richieste il GWEC ha creato una campagna di sensibilizzazione dei cittadini e della politica.
Non perdere l’occasione di essere parte del cambiamento. Aderisci anche tu!
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Fonte: EcoAlfabeta
Il mancato ritorno delle rondini

Si sono appena concluse, con i ballottaggi, le elezioni amministrative per la nomina dei sindaci e delle giunte comunali.
Nella campagna elettorale si è parlato, come al solito, di infrastrutture, di ospedali, di progresso, di piani di assetto del territorio, di patto di stabilità, di servizi, di biblioteche, di concessioni, di mense scolastiche, di sicurezza e chi più ne ha più ne metta.
Nel mio comune nessuno tra i candidati – ma credo che in Italia siano stati molto pochi a farlo – si è preoccupato anche del mancato ritorno delle rondini.
E questo è un grave problema perché se vogliamo veramente intraprendere quella “rivoluzione ecologica” da molti invocata come soluzione alla crisi economica, ecologica e sociale di questi anni, non possiamo tralasciare anche questi temi che sembrerebbero apparentemente insignificanti rispetto alla cassa integrazione, alla chiusura delle attività produttive o ai tagli alla sanità ma che, invece, rispecchiano un nuovo approccio, indispensabile per poterla realizzare compiutamente. La “rivoluzione ecologica” si avrà solo attraverso una radicale modifica dell’atteggiamento culturale e non potrà invece assolutamente realizzarsi se rimarranno inalterate le fondamenta ideologiche che ci hanno portato in questo pantano.
Sagre e feste paesane insostenibili

Con l’arrivo dell’estate si apre la stagione delle fiere, delle sagre e delle feste paesane che dal nord al sud del Bel Paese allieteranno piacevolmente le serate in ricordo di santi patroni o di antiche tradizioni enogastronomiche locali dove, anche nel più sperduto angolo d’Italia, si è elaborato un cibo leggermente diverso da quello del paese vicino.
Le sagre, si sa, rappresentano anche sistemi molto criticabili messi in atto dalle Pro-Loco o dalle associazioni per generare, talvolta, una discutibile economia locale e raccogliere ingenti guadagni, spesso esentasse e al di fuori delle regole autorizzative ed igieniche. Ecco allora spuntare feste della birra dove quest’ultima non viene prodotta; ecco spuntare feste per ogni anonimo quartiere o strada; ecco spuntare feste della polenta, feste della costina, dell’asparago, della lumaca o della lepre dove questi prodotti o questi animali non si erano mai visti.
Ad un attento osservatore quello che impressiona di tali feste e al quale bisogna assolutamente dire “BASTA!”, è l’enorme quantità di rifiuti non differenziabili che in esse si utilizzano e la scarsa differenziazione del materiale riciclabile che le caratterizza. Basta fare un giro dietro le quinte o nei pressi delle cucine per appurare la montagna di sacchi di spazzatura prodotti!
Piatti, bicchieri, posate, tazzine del caffè, tovaglie, coprivassoi pubblicizzati, bottiglie di plastica e chi più ne ha più ne metta, vengono raccolti in sacchi di materiale indistinto, senza che vi sia un minimo accenno alla raccolta differenziata (anche se molti materiali sarebbero in sé facilmente differenziabili). E spesso senza che qualche amministratore locale dica poco o nulla, anche presso quei Comuni dove vi è una raccolta differenziata molto spinta (porta a porta) dei rifiuti.
Personalmente ritengo che il solo riciclo dei rifiuti non sia la vera e unica soluzione al problema e, pertanto, sono convinto che, per rendere le sagre sostenibili, si debbano stabilire da subito delle regole ben chiare che provo ad elencare in ordine di importanza:
- favorire l’utilizzo di piatti, bicchieri e posate lavabili e riutilizzabili;
- per i prodotti usa e getta vietare l’uso di quelli in materiale plastico non riciclabile e obbligare l’uso di quelli compostabili;
- sanzionare chi non effettua la raccolta differenziata dei rifiuti.
A noi cittadini spetta il compito di non frequentare, boicottandole, quelle sagre, fiere o feste paesane che non adempiano a tali principi e che non perseguano concretamente il percorso verso la sostenibilità ambientale.
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Foto: www.igorvitale.org
Compensare i costi ambientali delle vacanze

Fare il turista e viaggiare per piacere (e non per le più disparate e tristi necessità migratorie) è una delle più importanti conquiste raggiunte attraverso il benessere economico.
Viaggiare per il piacere di conoscere altri luoghi, altri popoli, altri cibi, altre lingue, altre abitudini dalle proprie è un’importante scuola di vita. Senza la quale, personalmente, non potrei vivere.
Quando poi si inizia ad assaporare il piacere del viaggio e della scoperta si è portati, nel tempo, a cercare sempre nuove mete che, inevitabilmente, possono portare anche molto lontano.
Ovviamente il viaggio che ho in mente è il più possibile sostenibile dal punto di vista ambientale e sociale, senza inutili pretese, lussi ed eccessi. Viaggiare però, soprattutto con gli aerei e con i mezzi a motore, comporta inevitabilmente la combustione di grandi quantità di carburante e l’immissione in atmosfera di CO2 nonché un minimo impatto ambientale che il vero viaggiatore – colui che dal viaggio desidera trarre un insegnamento di vita – deve in qualche modo cercare di evitare.
Nella mia esperienza, che vorrei condividere, ho deciso che ogni viaggio di piacere incorpora un costo occulto di poche decine di euro (l’entità dipende dal tipo di viaggio) che verso ad una associazione ambientalista o ad un ente serio che si occupa di compensare la CO2 attraverso la creazione di parchi e foreste in giro per il mondo (1).
Non si tratta di lavarmi semplicemente la coscienza ma di valutare con razionalità che il soddisfacimento di un mio piacere non può compromettere la qualità della vita di altre persone che, come me, vivono su questa grande palla verde-blu.
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(1) I miei versamenti li ho fatti (e li farò) a: Greenpeace; WWF; Survival
Lucciole

Non so chi abbia stessa fortuna che ho io di avere, in questo periodo dell’anno, le lucciole nel proprio giardino. Sono animali splendidi, effimeri, delicati, anonimi di giorno ma che, al calar del buio, con quel loro corpo nero affusolato, dall’addome producono un fascio luminoso pulsante.
Vederle volare, la sera, è uno spettacolo che toglie di dosso lo stress di una dura giornata di lavoro o le preoccupazioni più diverse.
Le lucciole, però, sono sempre meno frequenti nei nostri giardini o nelle campagne. Per le cause più diverse che sarebbe difficile elencare. Ne è prova la scienza, ne è prova sia la mia esperienza personale sia i racconti di nonni e genitori che narrano di averne viste in grandi quantità nella loro infanzia. Della loro scomparsa ne parlò anche Pier Paolo Pasolini in un articolo del 1 febbraio 1975 pubblicato sul Corriere della Sera.
Mi chiedo se noi, che siamo andati sulla luna (forse!?), che voliamo in poche ore da un paese all’altro, che effettuiamo trapianti di organi, che comunichiamo in tempo reale da un continente ad un altro, ci possiamo permettere di chiamare “progresso” anche la perdita delle lucciole!
La vera green economy non è quella che si autoincensa di perseguire la sostenibilità ambientale senza in realtà mutare nulla rispetto al passato o creando addirittura problemi più gravi ma è quella che si preoccupa, nell’ambito del progresso dell’uomo, anche della difesa di esseri apparentemente insignificanti come le lucciole. Sembra difficile da comprendere ma la nostra sopravvivenza passa anche attraverso la loro difesa.
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Yanomami

Gli Yanomami sono un popolo indigeno che vive nella foresta pluviale di aree remote del nord del Brasile e del sud del Venezuela. Essi abitano in grandi case comuni che possono ospitare fino a 400 individui la cui area centrale viene utilizzata per attività rituali, feste o giochi nonché per il fuoco collettivo attorno al quale vengono appese le amache dove la gente si tiene al caldo durante la notte. Ogni famiglia dispone poi di uno spazio proprio dove prepara e cucina il cibo durante il giorno. Gli Yanomami, che vivono in comunità indipendenti le une dalle altre, credono fortemente nell’eguaglianza delle persone. Infatti non riconoscono capi e le decisioni vengono prese mediante consenso che si perfeziona anche dopo lunghi dibattiti dove tutti possono prendere la parola.
Come tutte le tribù amazzoniche i compiti sono divisi tra i sessi: gli uomini cacciano e spesso usano il curaro per avvelenare le loro prede (tapiri, cervi, scimmie, pècari). La carne rappresenta solo il 10% del cibo degli Yanomami ma viene considerato un alimento molto prezioso soprattutto per la gestione delle relazioni sociali. Infatti nessun cacciatore mangia la carne che ha cacciato ma la divide tra i propri famigliari e i propri amici. In cambio riceve la carne per sé da altri cacciatori. Le donne invece gestiscono gli orti dove coltivano circa 60 specie di piante dalle quali ricavano l’80% del cibo di cui la famiglia ha bisogno. Inoltre si occupano della raccolta delle noci, delle larve di insetti e delle conchiglie. Il miele è molto apprezzato per le sue proprietà energetiche e curative e gli Yanomami ne raccolgono ben 15 specie diverse.
Sia gli uomini che le donne pescano e normalmente usano il veleno per le battute di pesca collettive che consistono nello sbattere dei fasci di edere sulla superficie dell’acqua per attrarre i pesci che vengono storditi dal liquido velenoso e infine raccolti. Si pensi che vengono addirittura utilizzate 9 specie differenti di edera per tale tipo di pesca.
Gli Yanomami hanno un’immensa conoscenza botanica e utilizzano quasi esclusivamente la foresta (circa 500 piante) per tutti gli scopi della loro esistenza. Le piante selvatiche commestibili sono utilizzate regolarmente per integrare quelle coltivate negli orti e diventano particolarmente importanti quando gli Yanomami viaggiano lontano dai loro villaggi. Il legno è usato per costruire case, utensili e armi, ma anche come combustibile e per molti altri scopi. Varie specie fibrose sono utilizzate per realizzare corde e fasce, per intrecciare cesti e amache temporanee. Da molte altre specie poi ricavano tinture, veleni, medicine, pitture per il corpo, tetti, profumi, droghe allucinogene e così via. Essi si sostengono in parte attraverso la caccia, la raccolta e la pesca ma la maggior parte del fabbisogno alimentare deriva dalla coltivazione di piante in grandi orti ricavati nella foresta che rinnovano ogni 2/3 anni a causa del fatto che il suolo dell’Amazzonia non è molto fertile.
Il mondo spirituale ha un ruolo fondamentale nella vita degli Yanomami. Ogni creatura, pietra, albero o montagna possiede uno spirito. Talvolta gli spiriti sono malevoli e gli Yanomami ritengono che essi siano la causa delle malattie.
In merito alla conoscenza (1) che gli Yanomami hanno dell’ecologia della foresta si può osservare, ad esempio, che sanno quali sono gli alberi che, una volta caduti e in fase di decomposizione, ospitano larve d’insetto commestibili (a volte li fanno cadere deliberatamente a questo scopo). Conoscono le specie che nutrono la popolazione dei bruchi commestibili in certi periodi dell’anno, e quali sono i fiori preferiti dalle numerose specie di api da miele selvatico che loro riconoscono. Tuttavia, non è solo una conoscenza utilitarista: gli Yanomami sono grandi osservatori della natura e nel corso di tutta la vita continuano ad accumulare conoscenze sulle complesse relazioni tra piante e animali, sulla base delle proprie esperienze dirette.
Tale loro conoscenza li porta ad avere un impatto totalmente sostenibile sull’ambiente circostante in quanto parte di un sistema instaurato da molto tempo e sviluppato in modo tale da impedire loro di rimanere a corto di risorse. Quando gli animali scarseggiano, spesso la comunità si sposta, abbandona le radure create attorno al villaggio per ritornarvi solo dopo qualche anno quando la foresta ha iniziato a ristabilirsi. Usano comunque il veleno per catturare i pesci nei fiumi, riducono la popolazione dei mammiferi, abbattono alberi e a volte spogliano interi palmeti per ricoprire i tetti delle loro case, ma quel che conta è che prendono dalla foresta solo quanto occorre per sopravvivere. E lo fanno in modo ponderato, basandosi su un’approfondita comprensione di quello che fanno e di quello che la foresta può o non può dare.
In merito alla medicina e alla salute, per gli Yanomami ogni problema di salute ha le sue cure attraverso ciò che trovano e che riconoscono nella foresta, ad eccezione di alcune malattie infettive introdotte dall’esterno (soprattutto da parte dei visitatori “civili”), di cui essi hanno un’esperienza limitata.
Purtroppo gli Yanomami, come un po’ tutte le popolazioni tribali, sono minacciati dalla nostra avidità economica: in particolare dai tagliatori di legname e dai minatori che, sia in passato sia ancora adesso, si addentrano nella foresta e usano violenza per scacciare le tribù dalle loro terre. In più i cercatori d’oro inquinano le terre e i fiumi con il mercurio che sta seriamente minacciando la loro salute.
Perdere una tale popolazione e un tale patrimonio di conoscenze può rappresentare un’enorme vuoto per il genere umano sia dal lato degli aspetti tecnici di utilizzo dei prodotti della foresta sia dal lato della conoscenza botanica ed erboristica. Inoltre perdere gli Yanomami potrebbe rappresentare un enorme vuoto dal punto di vista filosofico perché l’ambiente e la terra sono talmente radicati nella loro cultura (materiale e spirituale) che la sola idea di poterli distruggere risulta per loro totalmente ripugnante. A differenza di noi, invece, che con la nostra arroganza culturale, tecnico-scientifica e di stile di vita abbiamo perso totalmente il contatto con la natura tanto da non renderci conto sia dei danni che stiamo provocando sia delle possibili soluzioni condivise e praticabili per risolverli.
A pensarci bene la cosa che più mi inquieta di noi e della nostra “civiltà evoluta” è il fatto che, mentre nella foresta gli Yanomami si devono difendere collettivamente dagli animali selvatici, noi, nelle nostre città, ci dobbiamo difendere individualmente da altri esseri umani. Su queste basi mi sa che abbiamo molto da imparare dagli Yanomami!
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(1) Informazioni fornite dal dott. William Milliken, etnobotanico presso i Giardini Botanici Reali di Kew a Londra e grande studioso dei rapporti tra popolazioni indigene americane, biodiversità e risorse.
Fonte: Survival
Foto: Survival