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Siamo sicuri che ci proteggano del tutto?

Con questa affermazione mi riferisco ai numerosi carabinieri, poliziotti, vigili e soldati che quotidianamente effettuano servizio di protezione dei cittadini, soprattutto nel centro storico e nei principali luoghi di aggregazione delle nostre città. L’obiettivo è quello di tutelare la nostra sicurezza contro la malavita in generale e, dopo i terribili eventi di Parigi dello scorso mese di novembre e di Bruxelles dello scorso mese di marzo, contro eventuali atti terroristici

Ma siamo sicuri che ci proteggano del tutto?

Sinceramente non ho conoscenze approfondite in materia per capire se effettuino correttamente i loro interventi di dissuasione delle azioni malavitose e terroristiche. La mia percezione però non è troppo rassicurante. In effetti nulla o poco succede in una città di provincia come la mia, e ciò potrebbe essere dovuto anche al caso.

Quello che però posso osservare da utente pedone e ciclista del centro storico della mia città, Verona, è il fatto che tutte queste forze dell’ordine presenti lo appestano con i gas di scarico delle loro auto, normalmente SUV, dei loro mezzi anfibi e dei loro camion militari che tengono costantemente accesi anche se sono parcheggiati e non effettuano alcuna attività di pattugliamento. In più con i loro mezzi frequentano – a volte solo per andare a bere un caffè – anche le aree pedonali, unici piccoli spazi dove i motori a scoppio sono banditi e dove da essi i cittadini trovano un po’ di pace (1).

Visto e considerato che oramai da tutte le parti ci dicono che lo smog fa male alla salute e che è necessario operare, nell’agire umano, verso una maggiore sostenibilità ambientale, mi chiedo se non sia anche il caso di intervenire anche in questo ambito, chiedendosi cosa si può migliorare pur garantendo il medesimo servizio e la stessa efficacia di intervento.

Ragionando nell’ottica della bioimitazione, ribadendo la mia estraneità a tattiche militari o a servizi di polizia, provo ad elencare alcuni semplici interventi che potrebbero rendere più sostenibile il servizio di ordine pubblico e di pattugliamento del territorio.

Innanzitutto è necessario che vengano eliminate tutte quelle auto SUV impiegate. Esse potrebbero essere utili se gli interventi fossero effettuati in alta montagna o dove la strada è sterrata ma nei centri storici, anzi, possono essere più ingombranti o meno efficienti. Meglio sarebbe utilizzare auto ibride od elettriche (2) che oramai forniscono una buona autonomia di esercizio e si potrebbero muovere più agevolmente dove le strade sono strette e affollate di gente. In più sarebbero silenziose e, se devi pedinare qualcuno, forse è meglio non farsi sentire e vedere. Per alcuni servizi di pattugliamento poi sarebbe più agevole utilizzare agenti in bicicletta che possono più facilmente effettuare inseguimenti e vigilare più a fondo il territorio.

Polizia biciIn secondo luogo, nell’ottica dell’efficienza energetica e dei sistemi di abbattimento dei gas di scarico dei mezzi, mi chiedo se sia proprio necessario tenerli sempre accesi anche quando sono fermi. Se, come è giusto che sia, gli operatori devono avere un minimo di comfort termico (caldo in inferno e fresco in estate), è anche vero che tali obiettivi possono essere realizzati in modo diverso sui mezzi, magari con piccole modifiche tecniche senza per forza far funzionare a vuoto il motore a combustione interna che produce calore solo come effetto collaterale, non voluto.

Infine, a conclusione, mi chiedo se non sia meglio realizzare delle stazioni mobili motorizzate nei luoghi strategici e sensibili da cui gli operatori dell’ordine pubblico si possano spostare a piedi, in bicicletta o con mezzi (auto o moto) elettriche per effettuare i pattugliamenti sul territorio.

Polizia auto elettricaMi sembra che l’attuale attività – anche se le finalità sono positive – sia gestita invece con un atteggiamento di misto pressapochismo ambientale e di piccola arroganza nei confronti dei diritti dei cittadini e credo proprio che si possa e si debba fare qualcosa in più per cambiare.

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(1) Naturalmente l’inquinamento urbano non è dovuto solamente ai gas di scarico degli automezzi che circolano in strada ma rilevante è anche quello che rimane sospeso in aria e che deriva da più fonti. Ciò che però fanno i mezzi inquinanti è riversare i fumi di combustione prima in aree – le strade, le piazze – dove i pedoni li possono facilmente respirare e poi contribuire ad incrementare quello di fondo che rimane sospeso in atmosfera.
(2) Qualche giorno fa ho visto finalmente fare pattugliamenti nel centro storico di Verona ad un’auto totalmente elettrica. Forse era solo un miraggio ma dopo anni, era ora. Bene!

 

La CO2 non è l’unico problema

Qualche mese fa a Parigi, in occasione della COP21 sul clima (1), più che le sacrosante tematiche ambientali e la sacrosanta salvaguardia della nostra casa comune – la Terra – ha sfilato l’ipocrisia. Quella dei leader mondiali che si stringono le mani, che sorridono per le foto, si abbracciano, parlano di civiltà e benessere, citano nei loro discorsi Seneca (Matteo Renzi: “Tutta l’arte è imitazione della natura”) o fanno riferimento alla responsabilità per le generazioni future (Barack Obama) ma, poi, si “dimenticano” i principi generali della democrazia non consentendo ai cittadini di dire la loro manifestando pacificamente il loro dissenso. Dall’incontro di Parigi si sono fatti tanti bei discorsi e si sono espressi tanti bei propositi per il futuro ma, se saremo fortunati, le soluzioni concrete messe in campo – che misureremo da qui a qualche anno o a qualche decennio – saranno nettamente al ribasso rispetto a quello che si dovrebbe fare per contenere il riscaldamento del pianeta per cause antropiche almeno al di sotto dei 2° C. Quello che veramente è stato in discussione alla COP21 non è la salvaguardia del clima. Quello che è stato in discussione è il mantenimento dello status quo degli stili di vita e di consumo sperando, malignamente, che siano gli altri paesi a fare di più (2). A parole tutti avevano l’intenzione di essere virtuosi ma nessuno – tranne piccoli paesi che non incidono sul PIL mondiale – si è impegnato concretamente ad interrompere da subito l’estrazione del petrolio o l’utilizzo del carbone per la produzione di energia elettrica. Nessuno si è impegnato da subito a rivoluzionare i trasporti o i metodi di produzione e di consumo di cibo, sia per il grande uso di idrocarburi che ad esso è collegato sia per porre limiti al consumo di carne. Nessuno si è impegnato a cambiare il paradigma consumistico che vede protagonista le merci, i prodotti e la produzione dei rifiuti.

Tutti si sono impegnati nei fatti per il “F U T U R O”, tra 25-30 anni, sapendo che per quel tempo sarà compito di qualcun altro risolvere i problemi che, tra l’altro, saranno sempre più grandi.

A Parigi era in discussione il riscaldamento globale del pianeta dovuto al cambiamento climatico che vede la CO2 essere il principale imputato, anche se metano e altri gas non sono da meno (anzi, lo sono di più) per provocare il cosiddetto effetto serra. La CO2, però, non è l’unico problema ecologico che dobbiamo affrontare. Uno dei più evidenti, con effetti concreti, che causa morti e malati ora e che in qualche modo è collegato al riscaldamento globale, è quello dell’inquinamento dell’aria.

Non è affatto un caso che, proprio alla vigilia della COP21, l’Agenzia Europea dell’Ambiente (EEA – European Environmental Agency) abbia pubblicato un rapporto nel quale si descrivono i morti stimati nei 28 paesi dell’Unione europea a causa dell’inquinamento dell’aria. Tra gli inquinanti presi in considerazione ci sono tre agenti particolarmente dannosi: le micro polveri sottili (PM 2,5), il biossido di azoto (NO2) e l’ozono (O3).

A questi inquinanti lo studio – che si riferisce al 2012 – attribuisce circa 491.000 morti all’anno tra tutti i 28 paesi UE, di cui 403.000 alle polveri sottili, 72.000 al biossido di azoto e 16.000 all’ozono. Tra i paesi europei poi quello più colpito è l’Italia che conta un totale di 84.400 morti annui così suddivisi: 59.500 per le polveri sottili, 21.600 per il biossido di azoto e 3.300 per l’ozono.

Si tratta di un’ecatombe, che interessa prevalentemente la Pianura Padana e, in particolare, le città di Brescia, Monza, Milano e Torino che fanno registrare il numero più elevato di superamenti annui dei limiti degli inquinanti fissato a livello europeo (25 microgrammi per metro cubo d’aria per le polveri sottili). Se, invece, si considerassero i limiti più restrittivi (10 microgrammi per metro cubo d’aria) previsti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità sarebbero interessate dal fenomeno anche città come Roma, Firenze, Napoli e Bologna.

I risultati della conferenza COP21 di Parigi sul clima e quelli dello studio dell’Agenzia Europea dell’Ambiente sull’inquinamento atmosferico che provoca morti premature, malattie cardiache, malattie respiratorie e cancro parlano chiaro: basta parole!

È giunta l’ora che la politica si prenda delle responsabilità per tutelare la nostra salute ora e il benessere delle generazioni per il futuro facendo delle scelte anche radicali. Noi, dal nostro punto di vista, abbiamo il dovere di informarci e di capire che la buona o cattiva salute non è un caso ma, in gran parte, dipende dai nostri comportamenti, dalle nostre scelte e abitudini sbagliate. Anche se molti vi diranno che non serve a nulla, cambiarle (e i dati parlano chiaro) ci può salvare la vita!

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(1) COP21 dell’UNFCCC è l’acronimo che identifica la ventunesima Conferenza delle parti della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. Si tratta, in sostanza, di un incontro politico che, tra il 30 novembre e l’11 dicembre del 2015, si è tenuto a Parigi e nel quale si è cercato di mettere in campo strategie comuni – dal momento che il cambiamento climatico non è un fenomeno locale ma riguarda tutti – per ridurre l’emissione in atmosfera di gas derivanti dalle varie attività umane che possono determinare un aumento dell’effetto serra terrestre.
(2) I dati purtroppo parlano chiaro e, nonostante altre conferenze sul clima e altri accordi passati (es. quello di Kyoto del 1997) che hanno vincolato parte delle emissioni, soprattutto di CO2, queste ultime nel tempo sono inesorabilmente aumentate dirottando sulle generazioni future il possibile caos climatico. A tale proposito è significativo il fatto che gli scienziati non usino più solamente le parole “riscaldamento globale” e “cambiamento climatico”, ma inizino anche a parlare di “mitigazione degli effetti” e di “adattamento”, consapevoli che oramai il danno è fatto e che si può solo cercare di mettere delle pezze e adattarsi a possibili cambiamenti (di temperature ma anche di produttività delle piante che forniscono cibo e di innalzamento dei mari) oramai certi.

 

Il padrone della festa

Voglio che le cariche importanti / dove si decide per il mondo / vengano assegnate solo a donne madri di figli.
Sarei così curioso di vedere / se all’interno delle loro decisioni / riuscirebbero a scordarsi il loro futuro.
Il tetto delle nostre aspettative / è così basso che si potrebbe anche toccare, / la vita media di una prospettiva / è una campagna elettorale.
”Ambiente” non è solo un’atmosfera, / una rogna nelle mani di chi resta / e il sasso su cui poggia il nostro culo / è il padrone della festa.
Dicono che fossero giganti, / i primi uomini che camminavano sul mondo / per questo forse allora di errori così grandi non c’era bisogno, / no non c’era bisogno di sacrificarci a un dio di poche lire / pagarlo col silenzio perché / si deve progredire ma / è come un albero che cresce nella direzione opposta: / le radici perse in aria e la testa nascosta.
Invece ciò che ti riguarda mi riguarda, / come ciò che lo riguarda, / ti riguarda.
Se siamo ammanettati tutti insieme alla stessa bomba.
Ora per ora per ora, un passo alla volta / uno per uno per uno fino alla svolta / ora per ora per ora, un passo alla volta / uno per uno per uno fino alla svolta / perché il sasso su cui poggia il nostro culo / è il padrone della festa.

Nell’album “Il padrone della festa” di Fabi-Silvestri-Gazzè, la bellissima canzone omonima racconta di quanto la politica e il profitto, in un abbraccio mortale, siano responsabili della grave crisi ambientale che l’uomo sta attualmente vivendo. Ignari – per ignoranza, ma più spesso per cinismo – che, nonostante tutto il loro potere o tutta la loro ricchezza, siamo comunque tutti ammanettati alla stessa bomba e che l’unico vero padrone della festa è quel sasso su cui poggia il nostro culo!

Immagini sublimi che esprimono con lucido dolore quanto stupidi siamo. Ma anche sane illusioni che, passo dopo passo, uno dietro l’altro, con consapevolezza potremmo anche giungere ad una svolta.

FABI_SILVESTRI_GAZZE

 

Le 15 abitudini alimentari che fanno bene alla salute e all’ambiente

Dan Buettner, giornalista del New York Times, in un progetto sviluppato con il National Geographic ha studiato le popolazioni più longeve della Terra per capire quali possano essere gli alimenti che esse hanno in comune e che contribuiscono a farle invecchiare a lungo mantenendo un generale buono stato di salute. Tali popolazioni vivono nelle cosiddette Blue Zones, le cinque aree del pianeta dove vi è la più alta concentrazione di centenari. Esse sono: Okinawa in Giappone; Loma Linda in California; Ikaria in Grecia; la Penisola di Nycoia in Costarica e l’Ogliastra, in Sardegna.

Quello che è emerso dallo studio è che, al di là delle piccole particolarità alimentari di ciascuna area geografica, tutte le Blue Zones sono accumunate da 15 abitudini alimentari che possono essere considerate gli ingredienti di base per una vita lunga e sana, che non necessità di diete ipocaloriche, di particolari integrazioni vitaminiche o di ampio uso di medicinali.

Al di là delle spiegazioni biochimiche e nutrizionistiche di tali pratiche quello che desidero fare è analizzarle anche dal punto di vista della loro sostenibilità ambientale, perché salute e longevità sono anche collegate a cibo sano e ad ambiente non inquinato. È significativo il fatto infatti che le Blue Zones non si trovino in grandi aree industriali e nemmeno in grandi agglomerati urbani, ma siano ubicate in zone dove vi è una forte naturalità.

Questi 15 abitudini alimentari, a cui anche tutti noi dovremmo attenerci scrupolosamente sono:

  1. Il 95% di quello che si mangia deve provenire da piante – L’impatto ambientale della coltivazione dei vegetali è decisamente più basso rispetto a quello di produzione della carne. Inoltre buona parte dei vegetali buoni è spontaneo e più che di coltivazioni su larga scala necessita di conoscenza, di frequentazione e rispetto per la natura in modo tale che possa dare con continuità, nel tempo, i suoi frutti.
  2. Carne: non più di due volte a settimana – La carne, oltre ad avere un forte impatto ambientale nelle fasi dell’allevamento e del trattamento industriale fa anche abbastanza male alla salute, soprattutto quando è cotta alla brace. Tra le poche carni consumate devono poi essere preferite quelle che vengono prodotte a livello familiare e locale, dove gli animali sono liberi di muoversi e di pascolare. E ciò è decisamente più positivo per l’ambiente e per il benessere degli animali rispetto agli allevamenti industriali.
  3. Consumare fino a 85 grammi di pesce al giorno – Anche se consumare pesce in grandi quantità impoverisce gli oceani e ne depaupera gli stock ittici, è da dire che quello che fa meglio alla salute è il cosiddetto pesce azzurro, pesce di piccola taglia che è alla base della catena alimentare del mare e che è presente in grandi quantità nello stesso.
  4. Ridurre il consumo di latticini e formaggi – La produzione dei latticini e dei formaggi, soprattutto quelli di mucca, è normalmente legata ad allevamenti intensivi che hanno un enorme impatto sull’ambiente. Si pensi solo che per produrre 4 litri di latte sono necessari circa 3000 litri d’acqua.
  5. Mangiare fino a tre uova a settimana.
  6. Legumi cotti ogni giorno (almeno mezza tazza) – I legumi, oltre ad essere un toccasana per la salute, sono anche importanti per l’ambiente perché si tratta di piante azotofissatrici che, se alternate ad altre coltivazioni, possono migliorare la fertilizzazione dei terreni e limitare l’uso di fertilizzanti aggiunti.
  7. Passare alla “pasta madre” o alla farina di grano integrale – La “pasta madre” deriva da un processo fermentativo ed è legata ad un rapporto collaborativo tra noi e i batteri che la determinano. Questo è positivo per l’ambiente perché più vi sono rapporti collaborativi tra i diversi esseri viventi della Terra, più li impariamo a rispettare e più ci impegniamo a tutelarli. Inoltre la farina di grano integrale, proprio perché costituita da varietà diverse di cereali, ci insegna a capire e a preservare la biodiversità che il mondo industriale, omologato, invece non fa.
  8. Tagliare il consumo di zucchero.
  9. Come snack mangiare due manciate di noci – Consumare frutta secca al posto di cibi industriali processati come snack ci riporta alle nostre lontani origini di scimmioni raccoglitori che consumano grandi varietà di cibi diversi piuttosto che numerosi prodotti industriali fatti di pochi e soliti ingredienti.
  10. Attenersi a cibi riconoscibili per ciò che sono – Consumare interamente cibi riconoscibili significa due cose: imparare a non buttare via nulla dei cibi e a trarre benefici da tutte le loro componenti  (bucce, noccioli, ecc.) che nel sistema industriale sono scarti; imparare a consumare cibi semplici, poco processati. Entrambi gli aspetti sono molto positivi per l’ambiente.
  11. Aumentare l’introito di acqua – L’acqua, soprattutto quella dolce non contaminata, è una fonte preziosa sia per la vita che per l’ambiente. Consumarla “al naturale” (dal rubinetto di casa, non imbottigliata e semplice, senza aromi o anidride carbonica) ci aiuta a capirne l’importanza e preservarla meglio.
  12. Se proprio si desidera bere alcol, almeno bere vino rosso.
  13. Bere tè verde.
  14. Caffeina? Solo dal caffè.
  15. Un perfetto equilibrio tra le proteine – Per assumere la giusta quantità e il giusto valore di proteine è necessario unire insieme legumi, cereali, noci e verdure. Questo ci aiuta a comprendere con maggiore chiarezza l’importanza della varietà e della (bio)diversità.

Queste 15 buone abitudini alimentari – al di là delle Blue Zones e dei centenari che le abitano i quali possono avere anche una predisposizione genetica alla longevità – ci insegnano che tutto è strettamente interconnesso. Salute, longevità e sostenibilità ambientale sono elementi fortemente collegati tra loro che dimostrano una cosa molto semplice: noi proveniamo, attraverso l’evoluzione, dalla natura e solamente attraverso essa – la sua comprensione, la sua imitazione e il suo rispetto – possiamo sperare di avere salute e benessere.

Tutto il resto è pura illusione.

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Fonte: Corriere della Sera

 

Trivella SI, trivella NO, se famo du spaghi

Trivella SI, trivella NO, se famo du spaghi!?”.

Parafrasando la bellissima canzone La Terra dei Cachi di Elio e le Storie Tese (1) vorrei esprimere anche la mia modesta opinione, nel mare magnum dell’informazione, sul referendum del prossimo 17 aprile – il primo chiesto dalle Regioni – relativo ad un aspetto piuttosto tecnico riguardante il fatto se i permessi per estrarre idrocarburi in mare, entro 12 miglia dalla costa, debbano durare fino all’esaurimento del giacimento (come avviene ora) oppure fino alla fine della concessione. In pratica se il referendum dovesse avere una prevalenza di si (oltre al superamento del quorum del 50% degli aventi diritto), le piattaforme presenti in mare a meno di 12 miglia dalla costa dovranno essere smantellate una volta scaduta la concessione o quest’ultima dovrà essere rinegoziata.

Lasciando perdere le tristi vicende giudiziarie di queste ultime settimane che hanno presumibilmente collegato ministri, fidanzati dei ministri, speculatori, compagnie petrolifere e investimenti pubblici a episodi di (solita) malapolitica e di (solito) malaffare, vorrei concentrarmi invece su alcuni aspetti tecnici che possano far ben comprendere come le situazioni che si verificherebbero con la vittoria dei no o dell’astensionismo (quelle a esaurimento del giacimento) non servano né all’Italia né agli italiani. Anzi.

Innanzitutto è da dire che inevitabilmente estrarre olio fossile o metano dal mare potenzialmente inquina, in vario modo, lo stesso, i suoi abitanti e coloro che lo frequentano saltuariamente per svago e per sport (cioè noi). Tale inquinamento è senza dubbio più elevato quando si estrae petrolio e nelle aree vicine alle piattaforme, ma si può anche diffondere fino a raggiungere le rive e i fondali. Inoltre vi possono anche essere gravi incidenti che possono compromettere con abbondanti fenomeni di inquinamento enormi aree di mare e di coste.

In secondo luogo è importante osservare che gran parte delle piattaforme entro le 12 miglia (92 in totale) estraggono soprattutto metano. Secondo i dati del Ministero dello Sviluppo Economico nel 2015 queste piattaforme hanno contribuito al 28,1% della produzione nazionale di gas e al 10% di quella petrolifera. In relazione all’entità dei consumi nazionali di tali idrocarburi e dal momento che una parte delle concessioni è attribuita ad aziende straniere, tali percentuali crollano fino ad arrivare a soddisfare fra il 3 e il 4 per cento dei consumi nazionali di gas e l’1 per cento di quelli di petrolio. Un’inezia! L’Italia quindi è fortemente dipendente dalle importazioni estere e le nostre piattaforme fanno ben poco per i nostri consumi. A mio avviso forse sarebbe meglio che le esigue disponibilità nazionali di idrocarburi [si veda il grafico n. 2] fossero tenute a riserva per fronteggiare eventuali crisi mondiali (energetiche e non) future, che potrebbero essere molto probabili.

Dal quadro di cui sopra si evince che l’unica vera strada da percorrere in ambito energetico – strada che hanno ad esempio percorso paesi come la Norvegia, molto più dotati di idrocarburi rispetto all’Italia – è solo quella di investire nelle energie rinnovabili. Purtroppo l’impulso positivo verso questo settore (che, in termini netti, necessita di più manodopera impiegata) iniziato negli anni passati con gli incentivi e che aveva visto l’Italia essere all’avanguardia a livello mondiale, per colpa di decisioni politiche sbagliate si sta esaurendo e i risultati sono, a partire dal 2014, quelli di una netta diminuzione della produzione [si veda il grafico n. 1]. Secondo quanto osserva il GSE (Gestore dei Servizi Energetici) nel 2015 le cosiddette fonti alternative hanno contribuito a soddisfare il 17,3% dei consumi nazionali di energia. E il dato è in costante aumento se si pensa che nel 2004 la quota rinnovabile di energia era solo del 6,3%.

Alla luce di tutto questo mi sembra che non ci siano dubbi: al referendum del prossimo 17 aprile l’unica soluzione praticabile è quella di VOTARE SI.

01_Energia elettrica da FR e da gas metano

02_Produzione ed importazione di gas e petrolio in Italia

03_Produzione gas italiano da piattaforme marine

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(1) La canzone, per chi la conosce, sintetizza bene quello che sta succedendo intorno al referendum del prossimo 17 aprile. Si tratta del solito mix a cui noi italiani siamo ben abituati – al di là del colore politico di chi governa – di ipocrisia, di qualunquismo, di ignoranza e di malaffare. La Terra dei Cachi, insomma, dove “Italia si’ Italia no Italia gnamme, se famo du spaghi. / Italia sob Italia prot, la terra dei cachi. / Una pizza in compagnia, una pizza da solo; / Un totale di due pizze e l’Italia e’ questa qua…”.
Fonte: L’Espresso; Legambiente; Marco Pagani (grafici)

 

Il giardino delle (bio)diversità

Ora che è sopraggiunta la primavera e la natura si è risvegliata dopo il torpore invernale intorno a me vedo giardini curati come fossero prodotti industriali di plastica, uniformi nel materiale e nei colori. Erba rasata alla perfezione senza impurità di altre specie. Gruppi di fiori uniformi e ipertrofici. Aiuole ben definite, con riga e compasso. Siepi perfettamente squadrate e alberi – quei pochi presenti – sempre ben tagliati e potati per non dare troppo disturbo e per non sporcare.

Ma questi non sono giardini. Sono trasposizioni nella “natura” di prodotti industriali tutti uguali, tutti uniformi, tutti precisi che nulla hanno di veramente naturale. Per ottenerli necessitano di un grande dispendio di lavoro, di energia, di utensili e di prodotti chimici vari le cui conseguenze principali sono inquinamento diffuso – anche rumore – e perdita di biodiversità.

È da anni che io, invece, cerco di concepire il mio giardino (1) come un piccolo angolo di diversità, sia di specie viventi che in esso vivono, sia di mescolamento e di distribuzione casuale in esso delle stesse. In sostanza, ispirandomi alla natura spontanea che vedo intorno a me, cerco di fare in modo che nel mio giardino un po’ tutte le specie vegetali possano avere spazio (cerco di contenere un minimo solamente quelle troppo invasive) e che esse non abbiano un luogo dedicato dove crescere ma che possano diffondersi il più liberamente possibile. Nella scelta delle piante poi – che naturalmente in gran parte anch’io acquisto – cerco di prediligere quelle perenni o quelle che hanno capacità autonoma di diffusione, evitando possibilmente quelle che derivano da selezione troppo spinta o da ibridazione. Per quel che posso raccolgo le piante nei giardini di altre persone o, compatibilmente con le regole ambientali, anche in natura per poi ripiantarle nel mio. Oltre alle specie vegetali, nel mio giardino tento di attrarre anche uccelli (mettendo nidi e mangiatoie nel periodo invernale), pipistrelli e insetti, soprattutto farfalle. Questo mi obbliga a tollerare anche specie nocive, come limacce e insetti parassiti, perché spesso sono il nutrimento di lucciole, di insetti utili, di pipistrelli e di ricci.

In questo modo cerco di determinare uno spazio dove venga ricostruita una sorta di armonia naturale e vi sia – compatibilmente con le interferenze dei mie vicini che nel loro giardini fanno un po’ di tutto – il raggiungimento di un certo equilibrio tra le specie.

Se ho una specie invasiva da contenere, ad esempio, non penso a quale diserbante chimico o meccanico utilizzare per debellarla ma altresì penso a quali altre piante posso piantare che con la loro crescita possano rallentare la diffusione di quelle invasive. Inoltre non penso che vi siano “malerbe” o “erbe infestanti” da combattere a tutti i costi ma, piuttosto, cerco che tutte le specie vegetali abbiano il loro spazio e si possano diffondere in maniera equilibrata.

In questo modo, applicando il principio della bioimitazione secondo cui la natura è basata su una rete di reciproche relazioni e collaborazioni, noto che, rispetto agli altri, il mio giardino è più colorato, è più ricco di fiori, ha alberi frondosi e abbondanti ed è più sostenibile dal punto di vista ambientale.

Ecco qualche foto che lo rappresenta…

Giardino bio-diversità 01

Giardino bio-diversità 02

Giardino bio-diversità 03

Giardino bio-diversità 04

Giardino bio-diversità 05

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(1) Abito in un vecchio fienile ristrutturato in una zona rurale prevalentemente dedita alla coltura della vite e dell’actinidia (kiwi) sulla morena del Lago di Garda, in provincia di Verona.

 

Giornate ecologiche. Ma per piacere!

Il fallimento delle giornate ecologiche che, soprattutto durante il periodo invernale, periodicamente vengono messe in campo un po’ a casaccio per contrastare il fenomeno tristemente reale dello smog nelle nostre città dimostra due importanti aspetti:

  • il fenomeno dell’inquinamento non si può contrastare solamente attraverso comportamenti virtuosi collettivi messi in pratica dai cittadini;
  • i principi della bioimitazione sono corretti e vanno assolutamente perseguiti per la ricerca delle soluzioni.

Ma andiamo con ordine e cerchiamo di approfondire i punti di cui sopra.

Contrastare l’inquinamento dell’aria, che interessa in particolare alcune aree geografiche (ad es. la Pianura Padana) e comunque, chi più chi meno, tutti i centri abitati, è un dovere assoluto perché – secondo studi recenti pubblicati da parte dell’Agenzia Europea dell’Ambiente – determina poco meno di 500 mila morti premature all’anno in Europa e circa 85 mila solo in Italia. A tale riguardo ciò che la politica sa mettere in campo per contrastare tale fenomeno è solo cercare di educare i cittadini ad avere singolarmente dei comportamenti virtuosi – cosa assolutamente inefficace di cui ho già parlato in un altro articolo – attraverso l’istituzione delle cosiddette giornate ecologiche, cioè giornate in cui i centri urbani sono interdetti alla circolazione delle auto, oppure di altre azioni palliative come la giornata delle biciclette o la circolazione a targhe alterne. Ma la politica non deve fare educazione, a questo ci pensa già la letteratura, l’arte, la radio, la televisione. La politica deve trovare soluzioni concrete e queste risiedono solamente nei finanziamenti a sistemi di produzione di utilizzo di energie più sostenibili (tutte le energie, non solo quelle dedicate al trasporto), al contrasto mediante le leggi a sistemi di trasporto inquinanti, al potenziamento dei servizi di trasporto pubblico e di mezzi alternativi di mobilità (es. biciclette).

Che non si voglia essere incisivi è talmente palese se si pensa al fatto che tali misure vengono messe in campo solo di domenica (per non “disturbare” il sistema economico, si intende) e a macchia di leopardo, senza una regia comune. Ecco che allora può capitare che una città abbia il blocco del traffico e quella a qualche chilometro di distanza abbia organizzato il mercatino dell’antiquariato o i carri allegorici del carnevale. Così i piccoli benefici della prima vengono vanificati dalle scelte di senso contrario della seconda.

E, in effetti, queste misure sono talmente inefficaci e disgustose per i cittadini che, durante la loro applicazione, si rilevano addirittura picchi di traffico veicolare con intasamento delle arterie cittadine periferiche e riempimento totale dei parcheggi a pagamento.

Per quanto riguarda le soluzioni a tale fenomeno dell’inquinamento dell’aria da smog, determinato per un terzo circa dai sistemi di trasporto, per un terzo circa dal sistema di produzione industriale e per un terzo circa dal sistema domestico, sono fermamente convinto – e i dati mi danno ampiamente ragione – che i principi della bioimitazione vengano in soccorso per adottare quelle misure necessarie sia nel breve periodo ma, soprattutto, nel lungo periodo, dove gli effetti dello smog sulla salute si fanno maggiormente sentire. Da un lato la bioimitazione osserva che in natura l’energia non viene prodotta attraverso la combustione ma è di derivazione solare e cinetica. Pertanto è necessario che si riproponga urgentemente tale pratica anche nei sistemi umani impedendo al più presto, per quanto già possibile, l’uso del carbone, del petrolio e di altri gas e favorendo metodi rinnovabili ed ecologici di produzione. Inoltre la bioimitazione, attraverso i suoi principi, ci dice che la natura usa solamente l’energia di cui ha bisogno. Pertanto sono troppi gli sprechi e le inefficienze sui quali si deve intervenire a livello tecnico per evitare che venga prodotta – male – l’energia che poi contribuisce all’inquinamento. Infine sempre la bioimitazione ci dice che la natura si fonda su una serie di reciproche collaborazioni.

In buona sostanza se vogliamo limitare l’inquinamento derivante dai trasporti è necessario che si inizi a pensare di dissuadere il trasporto privato (di solito rappresentato da una grande massa, quella del veicolo, che serve per muovere una sola persona) e di passare all’intermodalità, fatta di mezzi privati, di sistemi di trasporto pubblico, di veicoli a pedali e di pedoni. Per fare questo bisogna cominciare seriamente ad investire per (ri)orientare ed obbligare le scelte di trasporto verso queste direzioni.

Solo così si potrà contrastare seriamente il problema dell’inquinamento atmosferico ed evitare che la risposta alla giornata ecologica sia: “Ma per piacere!”.

 

Bike the Nobel

L’idea di candidare la bicicletta al Nobel per la Pace (1) mi sembra un geniale progetto di comunicazione che poggia su una rilevante base scientifica. È venuta ai conduttori di Caterpillar, la storica trasmissione radiofonica di Radio2 (RAI) che va in onda il tardo pomeriggio e che ascolto con regolarità quando mi muovo in auto.

La motivazione di tale candidatura – chiamata “Bike the Nobel” – è dovuta ai seguenti aspetti, di base corretti e condivisibili:

  • La bicicletta è il mezzo di spostamento più democratico a disposizione dell’umanità perché permette a tutti di muoversi, poveri e ricchi, più o meno alle stesse condizioni. Per questo riduce le differenze sociali.
  • La bicicletta non causa guerre perché riduce il bisogno di petrolio ed i conflitti si fanno spesso per il petrolio.
  • La bicicletta cambia il modello di sviluppo perché ogni chilometro pedalato genera un beneficio di 16 centesimi di euro per la società, mentre ogni chilometro percorso in auto provoca un danno di 10 centesimi. (Copenhagen Bicycle Account).
  • La bicicletta causa ed è oggetto di meno incidenti stradali mortali rispetto a quelli che avvengono a causa del traffico motorizzato.
  • La bicicletta non inquina perché è alimentata dalla forza muscolare umana e aiuta a rimanere in salute perché riduce per le persone il rischio di malattie e fa risparmiare ai sistemi sanitari i costi delle cure.
  • La bicicletta è stata uno strumento dei movimenti di liberazione e resistenza di molti paesi.
  • La bicicletta è un strumento di crescita per l’infanzia perché rende i bambini autonomi e indipendenti.
  • La bicicletta elimina le distanze fra i popoli perché i cicloviaggiatori sono accolti ovunque con favore: la bici è un mezzo che comunica rispetto e avvicina le persone e le culture.
  • La bicicletta “È la chiave di movimento e lettura delle grandi città. Un contributo sociale. E non ha controindicazioni. Fa bene al corpo e all’umore. Chi va in bici, fischietta, pensa, progetta, canta, sorride. Chi va in macchina, s’incattivisce o s’intristisce. La bicicletta non mi ha mai deluso. La bicicletta è sorriso, e merita il Nobel per la pace”. (Alfredo Martini, Marco Pastonesi, La vita è una ruota, Ediciclo, 2014).

Sulla base di queste premesse i conduttori di Caterpillar hanno fatto sul serio e si sono attivati concretamente affinché la causa fosse sostenuta con sondaggi, testimonianze e una raccolta firme ufficiale. Per suggellare poi tale richiesta hanno inviato la ciclista Paola Gianotti in bicicletta da Milano ad Oslo (circa 2000 km) per portare simbolicamente le firme raccolte alla Commissione di candidatura dei Nobel, che le ha accettate.

Ora mi auguro che tale iniziativa non rimanga un mero esercizio di comunicazione e che finalmente alla bicicletta venga riconosciuto l’importante ruolo sociale ed ambientale che effettivamente ha. Oltre alla mobilitazione dei singoli cittadini (vi invito a firmare la candidatura), perché l’obiettivo simbolico del Nobel per la Pace sia raggiunto, è necessario che aderiscano anche tutti gli altri attori della società, in primis la politica.

Il raggiungimento del Nobel per la Pace sarebbe uno strumento importante per dare visibilità a livello planetario alla bicicletta quale mezzo di trasporto, quale mezzo di liberazione dei popoli e dei generi nonché quale strumento fondamentale per la sostenibilità ambientale.

Non vedo l’ora che arrivi l’autunno e che i Nobel vengano assegnati per vedere come andrà a finire…

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(1) Bike the Nobel è un progetto che fa parte della campagna storica di Caterpillar “M’illumino di meno”, dedicata al risparmio energetico e alla produzione di energie rinnovabili. Giunta oramai alla 12esima edizione (si svolgerà oggi 19 febbraio 2016) e diventata molto famosa con l’adesione di numerosissimi enti, personaggi pubblici e cittadini comuni, nel 2016 la campagna M’illumino di meno è stata dedicata anche alla mobilità sostenibile.

 

Capitozzatura

Grande spiegamento di uomini e mezzi. Tripudio di elmetti gialli e giubbini catarifrangenti. Transenne. Sbarramenti di strade. Cartelli stradali. Motoseghe scoppiettanti. Non mancava nemmeno l’immancabile enorme piattaforma a braccio che raggiunge (in sicurezza, per fortuna) altezze inimmaginabili. Così qualche giorno fa ho partecipato, involontariamente, alle operazioni di potatura (ma io le definirei più propriamente operazioni di “capitozzatura”) di splendidi grandi alberi ubicati in un parco pubblico di Milano, a ridosso di una strada che ho percorso a piedi per recarmi al lavoro.

Ma così non si taglia un albero. Gli si fa solamente del male (in senso filosofico e botanico, si intende) e lo si rende addirittura più pericoloso per chi transiti sulla strada o desideri godere degli spazi pubblici verdi.

Ma andiamo con ordine e, per spiegare la cosa, vediamo cosa si intende per capitozzatura e vediamo quali possono (e devono) essere le soluzioni per far sì che il doveroso lavoro di potatura periodica degli alberi sia ben fatto per la salute degli esseri viventi in oggetto e per la sicurezza di chi in qualsiasi circostanza si trovi sotto le loro chiome.

La capitozzatura è una pratica di arboricoltura che prevede il taglio indiscriminato delle branche di un albero, soprattutto allo scopo di ridurre le sue dimensioni generali e di renderlo (a torto) più sicuro. La capitozzatura, però, non è il giusto metodo di contenimento della crescita di una pianta e di diminuzione dei pericoli ad essa connessi. Anzi, nel lungo periodo, la capitozzatura rende l’albero più pericoloso. Vediamo il perché.

Capitozzatura e Potatura correttaLa capitozzatura è una pratica che rimuove improvvisamente e quasi istantaneamente la chioma di un albero, dal 50% al 100% del suo volume. La risposta della pianta – che trae l’energia della propria sopravvivenza dalle foglie e che tale pratica elimina quasi completamente dall’albero – è quella di far innescare un meccanismo di sopravvivenza attivando le gemme latenti e forzando la rapida crescita dei germogli attorno ad ogni taglio. Lo scopo della pianta è quello di ri-costruire nel più breve tempo possibile una nuova chioma (1). Un albero così danneggiato, oltre ad essere più facilmente attaccato da malattie, da funghi e da insetti parassiti che, nel lungo periodo, lo possono fortemente indebolire, è anche portato a produrre un’enorme quantità di piccoli rami che non si sviluppano nelle condizioni ottimali e che presentano un tessuto di ancoraggio al moncone molto precario che, nel tempo, tende ad indebolirli e a predisporli più facilmente alla rottura. La capitozzatura, oltre a ciò, è una pratica che imbruttisce enormemente gli alberi delle nostre città, dei nostri parchi e dei nostri giardini ed è anche molto costosa perché impone frequenti (più frequenti di altre pratiche) interventi di ulteriore potatura.

capitozzatura_1

Ecco allora che, per tutte queste ragioni, è necessario osservare e studiare la natura per imparare da essa a come meglio intervenire per ottenere una sana potatura dell’albero. È pertanto necessario affidarsi a professionisti esperti che siano in grado di studiare la pianta, di capire le esigenze del luogo in cui si trova, di comprendere che l’intervento si fa sempre su un essere vivente – molto diverso da noi ma che condivide lo stesso pianeta e che ha più o meno i nostri stessi scopi – e poi di operare i giusti tagli che garantiscano sicurezza ma, nel contempo, rispettino anche la sopravvivenza e il benessere dell’albero.

Capitozzatura_03

La bioimitazione è anche questo e il mio sogno è quello di non vedere più quei tronconi osceni senza vita che ci imbruttiscono l’anima e che non rispettano la vita.

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(1) L’accrescimento di gran parte delle piante e dei fiori oppure la distribuzione delle foglie sui rami avviene secondo la serie di Fibonacci che contribuisce a creare in natura ordine e armonia, ma anche efficienza ed efficacia con il minimo sforzo.
Fonte: www.mrgreenservices.it
Disegno: [disegno originale]

 

Più guardo l’uomo e più penso che siamo ridicoli

Che cosa voglio dire dichiarando che l’uomo è ridicolo? (1) L’affermazione può sembrare un’ipocrisia assoluta e un enorme insulto se pensiamo alla (apparente) supremazia che abbiamo raggiunto rispetto agli altri esseri viventi che popolano la Terra. Se pensiamo alla tecnologia che abbiamo raggiunto, alla manipolazione della chimica, alla genetica, alla grande disponibilità di energia e di cibo. Se pensiamo alla longevità della nostra vita rispetto a quella dei nostri antenati, alle possibilità di cura in caso di malattia e alle regole sociali che siamo riusciti ad elaborare. Se pensiamo all’economia, al linguaggio, all’arte, alla musica, alla religione e, in generale, alla profondità del pensiero simbolico che abbiamo sviluppato in poche generazioni evolutive, durate solo qualche decina di migliaia di anni.

Quello che voglio osservare con questa affermazione è il fatto, da me percepito, che l’illusione di essere superiori alla natura e artefici attivi, non più passivi, delle sue dinamiche ci ha fatto perdere di vista l’obiettivo primario della vita, quello di vivere, di procreare e di garantire un futuro per i nostri discendenti. Il che, tradotto per i tempi moderni e per l’umanità attuale è: vivere sereni e felici, cioè avere benessere (ben-essere, che non è solo quello economico); godere delle relazioni familiari e amicali, magari accudendo anche la prole (non necessariamente quella biologica); garantire a se stessi, ma soprattutto alle generazioni future, le stesse opportunità di benessere su questo insostituibile pianeta.

Quando si osservano, invece, le dinamiche umane tutte collegate in una rete infinita di relazioni fatte di soprusi, di guerre, di disuguaglianze, di religioni, di manipolazioni del pensiero, di distruzione delle risorse ambientali, di alterazione profonda degli equilibri planetari non si può non pensare che siamo semplicemente ridicoli. Se non peggio!

Quando si pensa alla scienza in balia del narcisismo e del vantaggio economico, alla salute svenduta al profitto, alla finanza fine a se stessa che gioca alla roulette russa con i bisogni dei cittadini, alle aziende che anziché essere al servizio del progresso e dei bisogni dei cittadini sono finalizzate solo al becero profitto, come non pensare che l’uomo sia ridicolo.

Quando si pensa alla funzione delle nostre guide (politici, capi religiosi, intellettuali) e si vedono i loro comportamenti ipocriti fatti di gestione del mero potere, di arricchimento economico personale e di manipolazione delle libertà individuali per biechi fini propagandistici come non pensare che l’uomo sia ridicolo.

Quando ci si guarda indietro nella storia delle nostre “civiltà” e si vede distruzione, guerre, ipocrisia, cattiveria, opportunismo, follia collettiva ma, soprattutto, continuità senza fine dell’azione umana senza concrete svolte radicali come non pensare che l’uomo sia ridicolo.

Quando si pensa agli altri esseri viventi che con noi condividono ora il pianeta Terra ma che lo hanno abitato da più tempo di noi, anche quando non c’eravamo o eravamo solo un abbozzo evolutivo, come non pensare che siamo ridicoli. Come non pensare che siamo ridicoli noi che abbiamo bisogno di un telefono cellulare per comunicare, di un gps per orientarci, di vestiti per coprirci, di supermercati per mangiare, di ospedali per curare problemi che in gran parte noi stessi abbiamo generato. Come non pensare che siamo ridicoli noi che diciamo che una lumaca “fa schifo”, che un lupo “è cattivo”,che un topo “è sporco”, che una mucca è un “bene di consumo”, che un pipistrello “non è intelligente”.

Ebbene sì, quando si pensa a tutto questo – e a molto altro – come non pensare che siamo ridicoli. E forse anche stupidi!

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(1) Anch’io appartengo alla specie Homo sapiens e, per questo, non mi posso considerare estraneo al problema.

 

Vietato fumare. Il fumo fa male

Un paio di anni fa è venuto a mancare mio padre per un carcinoma polmonare, un tumore molto aggressivo che ha resistito impavido e subdolo alle numerose cure a cui si è sottoposto. Carlo, che aveva 69 anni, aveva fumato 20 sigarette al giorno per più di 50 anni e, anche se vi possono essere state altre piccole concause e non sia scientificamente dimostrabile la sola relazione con il fumo per la sua malattia, quelle maledette 365.000 sigarette (1) – una più, una meno – che negli anni si è fumato hanno sicuramente e profondamente inciso sul suo stato generale di salute.

È infatti risaputo che nel tabacco di sigaretta e nella carta che lo contiene, a seguito della combustione si producono circa 4 mila sostanze chimiche, tra cui alcune di esse risultano essere cancerogene e/o estremamente pericolose per la salute come la nicotina, il benzene, l’ammoniaca, il polonio 210, i metalli pesanti e gli idrocarburi policiclici aromatici. Tutto questo è abbastanza conosciuto ed è da anni che tali informazioni ci vengono continuamente portate a conoscenza. Non solo si cerca di dissuadere i singoli individui dal fumare ma da una decina di anni a questa parte si è anche iniziato a pensare di tutelare i non fumatori – in primis bambini e donne in stato di gravidanza – stabilendo per legge il divieto di fumo nel locali pubblici chiusi, in particolare bar, ristoranti, uffici pubblici e luoghi di lavoro (2).

Quello che però poco si dice è il fatto che gli agenti chimici che si producono dalla combustione della sigaretta non fanno male solamente alla salute ma altresì all’ambiente e, indirettamente, sempre al nostro benessere fisico.

Finalmente qualche tempo fa l’ENEA (Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile) e la SITAB (Società Italiana di Tabaccologia) hanno cercato di evidenziare il problema dell’inquinamento ambientale proveniente dai rifiuti prodotti dai fumatori ed abbandonati un po’ ovunque facendo riferimento alle varie pubblicazioni scientifiche sull’argomento. Lo scopo è quello di promuovere una certa consapevolezza sul tema e porre l’attenzione sulla corretta raccolta di rifiuti molto pericolosi – le “cicche” – che singolarmente non vengono percepiti come tali ma che, se si considerano i 72 miliardi di sigarette consumate ogni anno in Italia, rappresentano di certo un enorme problema.

Cicche sigarettaDal punto di vista tecnico il filtro di sigaretta è composto di un materiale, l’acetato di cellulosa, che è dotato di un elevato potere filtrante ma che, come è abbastanza intuibile, si impregna facilmente di tutti i veleni prodotti dalla combustione del tabacco e della carta. Si pensi che nel mondo, si stima, vengono annualmente gettati più di 5 trilioni (5 mila miliardi) di mozziconi. In Italia, invece, si stima che dei 72 miliardi di sigarette consumate all’anno vengano gettati a terra circa 50 miliardi di mozziconi. Con le sole cicche gettate a Roma (circa 1,7 miliardi), mettendole in fila una dietro all’altra, si coprirebbe una distanza di circa 51 mila km (3), molto di più della circonferenza dell’equatore (40.075 km). Questi mozziconi poi, impregnati di agenti chimici pericolosi, in circa 5 anni si disgregano ma continuano a persistere nell’ambiente inquinando senza sosta acque superficiali, mari e terreni.

È seriamente giunta l’ora – dice l’ENEA e la SITAB – che si inizi a considerare tali cicche come dei rifiuti speciali da non abbandonare nell’ambiente. È giunta anche l’ora che si inizi ad obbligare i fumatori a buttare i mozziconi in contenitori specifici disseminati nelle città e, in loro assenza, in contenitori tascabili che ognuno di loro deve avere in dotazione con sé. È giunta l’ora che si inizi a sanzionare seriamente chi abbandona le cicche nell’ambiente (4).

È giunta l’ora – direi io con uno sguardo più ampio e nell’ottica della bioimitazione (5) – che, se si vuole consentire la liberta di scelta agli individui di fumare o meno, si inizi allora a considerare tutta la produzione di sigarette, dalla coltivazione del tabacco alla produzione delle stesse fino allo smaltimento dei rifiuti, anche dal punto di vista della sostenibilità ambientale di tale pratica.

In quest’ottica nulla depone a favore del fumo, tranne le schifose accise sulla vendita delle sigarette e gli enormi immorali profitti per i pochi produttori mondiali. Bisognerebbe avere magari anche il coraggio di dire una volta per tutte che il fumo fa male ed è vietato fumare!

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(1) 20 x 365 x 50 = 365.000. Pensando che una sigaretta sia lunga in media circa 8 cm, se si mettessero una vicino all’altra tutte quelle sigarette coprirebbero una distanza di 29.200 metri, equivalenti a circa 29/30 km. Caspita!
(2) L’art. 51 della legge 16 gennaio 2003, n. 3 “Disposizioni ordinamentali in materia di pubblica amministrazione” s’intitola: “Tutela della salute dei non fumatori” e definisce le misure che servono ad eliminare l’esposizione al fumo passivo in tutti i luoghi chiusi, pubblici e privati.
(3) 1.700.000.000 x 3 cm (misura indicativa del mozzicone) = 51.000 km
(4) Nella nuova legge sul fumo pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 18 gennaio 2016 (D.Lgs. 6/2016 di recepimento della Direttiva comunitaria 2014/40/UE) dal prossimo 2 febbraio 2016, oltre a varie regole di prevenzione sul fumo, è stata stabilita anche una norma punitiva su chi butta i mozziconi per strada e che può essere multato fino a 300 euro in base al collegato “Green economy“ della nuova legge di Stabilità (art. 40 della legge 28 dicembre 2015 n. 221). In particolare tale articolo “Rifiuti di prodotti da fumo e rifiuti di piccolissime dimensioni“ afferma che “E’ vietato l’abbandono di mozziconi dei prodotti da fumo sul suolo, nelle acque e negli scarichi”.
(5) Nella logica della bioimitazione tutto ciò che non è in linea con il funzionamento della natura non andrebbe fatto, senza compromessi, perché prima o poi si trasferirà alla collettività come costo indiretto (economico e sociale).
N.B. Dedico questo articolo a mio padre Carlo e al suo inutile “sacrificio”. Ciao papà.

 

In coda al semaforo

Qualche mattina fa ero in coda al semaforo e, nella corsia a fianco della mia, su una bella vettura costosa la mia attenzione è stata catturata da una interessante scena familiare fatta di discorsi animati e di sorrisi tra una madre e un figlio dall’età apparente di circa 10/12 anni. Nonostante si stessero presumibilmente recando a scuola l’atmosfera era comunque spensierata e gioiosa.

Il mio interesse (1) è stato però anche calamitato da un particolare della scena: sia la madre che il figlio NON indossavano le rispettive cinture di sicurezza, obbligatorie per il Codice della Strada a partire dalla fine degli anni ’80 del secolo scorso. La signora aveva la cintura attaccata al gancio (altrimenti suona, e se suona!!!) ma la teneva sotto il corpo mentre il ragazzino non ce l’aveva nemmeno attaccata.

Subito ho pensato che quelle persone, nell’ambito della circolazione stradale fatta di traffico, di alta velocità, talvolta di mancato rispetto delle distanze di sicurezza e, spesso, di disattenzioni varie, stavano mettendo a serio rischio la loro incolumità, senza arrivare per forza alla perdita della loro vita. Un incidente, anche banale, poteva far diventare quei corpi dei proiettili in balìa degli eventi – air-bag compresi – che avrebbero potuto determinare infortuni e lasciare sul loro corpo invalidità anche permanenti. Poi, però, ad evento accaduto si piange, si recrimina e, magari, si cita in giudizio la casa costruttrice per difetti progettuali o costruttivi oppure si chiedono anche grossi risarcimenti alle assicurazioni e ai fondi per le vittime della strada!

Subito ho fatto un parallelismo con le tematiche della sostenibilità ambientale e della bioimitazione che tratto in questo blog e mi sono chiesto come, al di là di tutte le ricerche autorevoli, di tutta la comunicazione in materia, al di là di tutta l’energia che si spende per “convincere” le persone sulla bontà delle soluzioni proposte – spesso malviste e considerate o disfattiste o “sempre contro” – sia possibile fare breccia e raggiungere l’obiettivo educativo su soggetti così apparentemente “normali” che, però, violano in maniera evidente e disinteressata regole che sono state stabilite solo a loro favore e per tutelare la loro sicurezza. Dietro non c’è nessuna lobby della cintura o nessuna organizzazione degli arrotolatori che ottengano vantaggi personali, eppure le regole vengono violate…

L’unica soluzione che mi viene in mente per ottenere il risultato del rispetto delle regole è quella – dopo aver ovviamente operato nell’ambito educazione e di aver lasciato il tempo che le regole siano assimiliate – di lasciare liberi i comportamenti ma di non fornire più gratuitamente i diversi servizi che in caso di incidente si dovessero rendere necessari. Ecco allora che, se accertata la palese violazione della regola di indossare la cintura di sicurezza, deve essere pagata l’ambulanza che esce a soccorrere gli incidentati; deve essere pagata la pattuglia delle forze dell’ordine che effettuano i rilievi; deve essere pagato il servizio di pronto soccorso ospedaliero. Magari non tutta la spesa ma una quota simbolica che faccia capire che il mancato rispetto delle regole – a seguito di un evento – incide economicamente sulle tasse pagate da chi le regole le rispetta e, pertanto, deve continuare ad avere servizi gratuiti.

Credo che potrebbero diminuire subito di molto i “furbetti” e credo che una tale pratica del chi sceglie di sbagliare paga applicata anche in alcuni ambiti ambientali dove sono interessati direttamente i comportamenti dei cittadini e le loro scelte possa portare a migliorare notevolmente i risultati desiderati.

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(1) Per lavoro mi occupo di prevenzione e di analisi dei rischi in ambito di salute e sicurezza e sul tema ho una discreta sensibilità.

 

Cosa non va nel riciclo della carta

Qualche tempo fa, mentre mi trovavo a Roma per lavoro, passo davanti ad un ufficio e rimango colpito da una persona che sta mettendo minuziosamente dei pezzi di carta in un sacchetto di plastica. Cosa inusuale per il suo lavoro di impiegato commerciale. Alla mia comprensibile curiosità mi viene risposto che sta “semplicemente” preparando la carta da portare a casa e da avviare al riciclo perché non è convinto che in azienda la separazione dei rifiuti venga ben fatta o, addirittura, non venga fatta per nulla nonostante si tratti di una multinazionale dotata di protocolli e rigide procedure interne nonché di certificazioni internazionali di ogni tipologia e grado.

Io, che sono particolarmente sensibile alla materia, cerco di approfondire la questione (magari ne viene fuori anche un bel articolo per Bioimita…) e scopro che per lui comportarsi in questo modo è una cosa assolutamente normale ma non viene ben visto dai colleghi che, quasi quasi, lo deridono per la piccola perdita di tempo e per la sensibilità un po’ troppo eccessiva (se non stupida) rispetto ad un problema secondario del lavoro o della vita come la gestione dei rifiuti prodotti sul lavoro. In effetti ci sono gli addetti alle pulizie che hanno il compito di liberare i cestini dai rifiuti a fine lavoro. Se, poi, non li avviano al previsto riciclo e li mescolano che vuoi che sia. Non cascherà mica il mondo!

Ragionando in seguito e con calma sull’episodio (mentre mi sto addormentando in albergo, tanto che devo prendere un foglio di carta e una penna dal comodino per appuntarmi le idee) penso che, in ambito lavorativo, per ogni persona che abbia questa spiccata sensibilità per il problema del riciclo dei rifiuti e della sostenibilità ambientale, ce ne siano purtroppo almeno 50 (o, forse, anche 100) che non si pongono affatto il problema o che, se se lo pongono, se lo pongono in maniera troppo superficiale e non fanno quasi nulla di concreto per risolverlo.

L’episodio è anche la dimostrazione evidente che un sistema basato sul continuo consumo delle materie e sulla conseguente produzione di rifiuti (anche se da avviare al riciclo) non può essere risolto solo dal punto di vista organizzativo e tecnico e non può prescindere dal comportamento e dalla cultura degli esseri umani-cittadini.

Il riciclo dei rifiuti, per funzionare veramente e per garantire una duratura sostenibilità ambientale come ci viene da più parti sbandierato, deve essere molto vicino al 100%. Cioè, all’interno della filiera, dovrebbero essere correttamente smaltiti tutti i rifiuti prodotti senza errori. Nessuno può permettersi di sbagliare contenitore e nessuno può permettersi di sbagliare le procedure. Mentre invece, come si sa, c’è sempre chi è “distratto” e sbaglia bidone; c’è chi è menefreghista e qualche volta si “dimentica”; c’è chi, come gli operatori della raccolta, non è attento sul lavoro. E chi più ne ha più ne metta…

Dal momento che il riciclo dei rifiuti non è adeguato quale strumento per garantire sostenibilità ambientale duratura perché è troppo influenzato da variabili comportamentali che è estremamente difficile poter orientare verso la direzione voluta, è allora necessario che in quest’ambito, cioè quello del fine vita dei prodotti, si operi a livelli diversi in modo tale da escludere il più possibile scelte troppo razionali e consapevoli da parte degli utenti.

In particolare è necessario che il sistema tecnocratico (la politica) e la forza critica dei consumatori spingano il sistema produttivo a farsi carico di riconsiderare la produzione riprogettando i beni nell’ottica finale della NON produzione dei rifiuti attraverso una maggiore riparabilità, il riuso tal quale delle parti e delle materie e, solo alla fine, il trattamento degli stessi attraverso il riciclo. In quest’ottica il sistema produttivo deve iniziare a ragionare che il rifiuto, così come lo abbiamo conosciuto fino ad ora da avviare all’incenerimento, alla discarica o, se va bene, al riciclo, non deve più esistere.

Ce lo mostra la natura che funziona in questo modo e ce lo chiede il futuro dei nostri figli.

 

Il più grande nemico del bio è il qualunquismo

Mentre ero in vacanza durante il periodo natalizio, spinto dalla curiosità di mia figlia ho avuto modo di visitare un frantoio di olive che si trova sulla riviera ligure. Bello e interessante il processo lavorativo che va dallo scarico dei frutti nel macchinario, al loro lavaggio, alle operazioni di spremitura “a freddo” con centrifugazione dei residui, fino alla spillatura del profumato liquido verde nei contenitori dei vari committenti.

La visione nel dettaglio di tutte le varie fasi della molitura delle olive è stata possibile per merito del proprietario del frantoio che ha dotato l’attrezzatura di numerosi vetri e di numerosi accessi sicuri per soddisfare la curiosità dei suoi clienti e dei suoi visitatori.

Non eravamo gli unici a compiere quella visita didattica e, per caso, mentre mi guardavo intorno, ho avuto modo di seguire un discorso tra il proprietario del frantoio – Giorgio – e un visitatore presente. Quello che mi ha colpito, nel dialogo, sono state le risposte di Giorgio alle seguenti domande: “Qual è la differenza tra la molitura a caldo e quella a freddo” e “Ci sono molte coltivazioni biologiche in zona e come riuscite a far sì che il marchio sia garantito voi che lavorate sia il bio che il tradizionale”?

Le domande erano assolutamente legittime e dimostravano che l’interlocutore aveva la idee chiare in merito alla qualità del prodotto e che cercava di avere delle conferme tecniche e organizzative da parte di un operatore esperto per poter effettuare i propri acquisti.

Le risposte di Giorgio sono state, purtroppo, le solite – tristi – parole che senti spesso pronunciare in Italia da un sessantenne che dimostrano come il più grande nemico del progresso e della sostenibilità ambientale – in questo caso l’agricoltura biologica – sia quel qualunquismo disfattista del “tanto non cambia nulla”; del “tanto è tutto uguale”.

Alla domanda sulla spremitura “a freddo” Giorgio replica osservando che non è che cambi nulla con quella “a caldo”. Lo si fa solamente per soddisfare le richieste dei consumatori. Dal momento che tra le due c’è una differenza di costo ma anche di qualità perché la molitura “a freddo” altera molto poco le qualità organolettiche dell’olio, quello che leggo nelle parole di Giorgio è il fatto che l’importante non è pensare di far star bene le persone fornendo loro il meglio a prezzi ragionevoli ma è fare tanti soldi, nella filiera, magari anche a discapito della loro salute. Inoltre Giorgio, indirettamente, dichiara che subisce pochi controlli e che potrebbe anche vendere, lui o altri colleghi, un certo processo al posto dell’altro perché le autorità pubbliche difficilmente fanno prevenzione delle sofisticazioni attraverso controlli preventivi o imposizioni metodologiche.

Alla domanda poi sul biologico, con un sorriso misto tra l’ironico e il furbetto, Giorgio risponde che tanto non cambia nulla, che i controlli e relativa certificazione non servono a nulla e che ci sono molti che dicono di fare il biologico ma poi fanno un po’ quello che vogliono. Le sue osservazioni in effetti sono realistiche e possono rappresentare una triste realtà – che deve essere perseguita dalla giustizia – ma, anziché chiedersi cosa si posa fare per migliorare la situazione, per garantire che in futuro le certificazioni e i controlli siano più incisivi, preferisce buttarla “in vacca” e dire che tanto il bio non serve a nulla. Giorgio, invece di chiedersi come si possa operare per fare un ulteriore salto di qualità – anche per la sua attività imprenditoriale – che superi il metodo biologico per ricercare qualcosa di più, attraverso il suo qualunquismo pone le basi perché si torni indietro senza progresso e senza sufficienti garanzie di salubrità per i cittadini. In tal modo, indirettamente, fa anche il gioco dei grandi produttori e delle multinazionali che chiedono “progresso” (quello che interessa loro), pochi controlli e tanto profitto.

Finché in Italia non ci libereremo della malattia molto contagiosa del qualunquis-disfattismo e non cercheremo la cura nei controlli, nella buona tecnica e nella cultura individuale, come potremo sperare di operare quel passaggio ancora più difficile che porta dal sistema attuale a quello rivoluzionario della bioimitazione?

 

Viva la burocrazia

La retorica comune, dall’amministratore delegato alla casalinga, dal parlamentare al giornalista, dal politico locale all’imprenditore, è fermamente convinta che la burocrazia sia il vero male della nostra società e il vero nemico del benessere economico perché rallenta il progresso ed è contraria al “fare”. In parte non possiamo negare che tale considerazione sia vera – ovviamente – soprattutto quando essa ostacola di proposito il corretto svolgimento della vita e delle attività delle persone per un qualche tornaconto personale o per scarso impegno lavorativo da parte dei funzionari pubblici che ne sono il motore, ma alla burocrazia dobbiamo anche riconoscere dei meriti e delle virtù perché, se non esistesse, sono convinto ci sarebbe meno giustizia sociale, meno giustizia economica e meno democrazia (1).

La burocrazia, che nella sua definizione è quella sorta di organizzazione di persone e risorse destinate alla realizzazione di un fine collettivo secondo criteri di razionalità, imparzialità e impersonalità, rappresenta quel collante sociale, quel sistema di controllo e di garanzia di rispetto delle regole che, mancando, farebbe venir meno quel patto sociale simbolico che esiste tra persone che, nonostante le loro numerose differenze, costituiscono e rappresentano la società nel suo insieme in quanto ne condividono diritti e doveri.

Per comprendere appieno questa mia considerazione qualche tempo fa mi ha colpito una lettera aperta a vari sindaci scritta da parte del WWF veronese che lamentava la richiesta da parte di un privato – il proprietario – di trasformare 4 ettari di terreno, facenti parte di un Sito di Importanza Comunitaria (SIC) per la salvaguardia della natura, in un “vigneto di tipo moderno e intensivo”. E molto remunerativo, direi io. Dalla lettura approfondita della lettera – tra l’altro contestata da parte di altre associazioni ambientaliste locali in quanto troppo morbida e troppo accondiscendente – si comprende che i terreni oggetto di tale progetto agro-industriale sono stati prima sottoposti allo screening X per poi avere la relazione Y, contestata dalla valutazione Z. Insomma su quei miseri 4 ettari di terreno, che non sono nulla dal punto di vista economico ma che rappresentano una boccata di ossigeno per la natura in un territorio fortemente antropizzato quale è l’hinterland veronese, si sono espressi un po’ tutti – la burocrazia – e, per fortuna, ancora nulla è successo in termini di trasformazione agricola. Almeno spero, visto che nonho più seguito la vicenda.

Proviamo ora ad immaginare se non fosse esistita la burocrazia cosa ne sarebbe di quei 4 ettari di terreno. Giusto! Proviamo ora a pensare cosa ne sarebbe di una splendida isola, di una splendida scogliera, di una magnifica montagna o di una magnifica collina. Esatto! Proviamo solo ad immaginare che fine avrebbe fatto il paesaggio o la tutela del patrimonio artistico, quelli considerati dall’art. 9 della Costituzione (2). Risposta corretta! Proviamo solamente ad immaginare  – nel Paese degli abusi edilizi e dei numerosi condoni – quali scempi urbanistici, più di quelli attuali, ci sarebbero stati senza burocrazia. Giusto!

E allora, cosa ci lamentiamo a fare. Dobbiamo solo dire: “Viva la burocrazia”! (3)

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(1) I paesi civili del nord Europa e del nord America funzionano meglio del nostro non perché non esiste la burocrazia – anzi ce n’è molta – ma perché esiste la giustizia sociale. Quella della troppo burocrazia è solo una scusa.
(2) L’art. 9 della Costituzione recita: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica. / Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.
(3) La burocrazia siamo noi. Solo la cultura, il senso etico e il senso civico sono i motori della giustizia sociale e dell’economia.

 

Lo scimmione nudo

Vi dice qualcosa la definizione di “scimmione nudo”? Per facilitarvi nella soluzione dell’enigma non ci troviamo ne in uno zoo e nemmeno in una riserva africana ma invece, più banalmente, all’interno delle città e negli spazi di vita a noi umani molto familiari. Infatti, se ci pensate bene, quello scimmione nudo siamo proprio noi, Homo sapiens, unica specie di scimmie – tra le 193 esistenti in totale – a non essere ricoperte di pelo.

Questa definizione un po’ ironica e un po’ irriverente dell’uomo la diede per la prima volta lo zoologo inglese Desmond Morris nel suo famoso libro scientifico-divulgativo “The Nacked Ape: a zoologist’s study of the uman animal” (tradotto in italiano con il titolo “La scimmia nuda – Studio zoologico sull’animale uomo”), pubblicato nel 1967 (1).

Come osserva Morris siamo una razza estremamente capace che trascorre molto tempo ad esaminare i propri moventi più nobili ma altrettanto tempo ad ignorare quelli fondamentali rappresentati dal fatto di essere rimasta in moltissimi elementi una scimmia che si comporta ancora istintivamente e impulsivamente. Per una serie di circostanze fortunose e anche casuali siamo diventati, in breve tempo, l’animale predominante della Terra ma non ce ne dobbiamo compiacere troppo e non dobbiamo essere presuntuosi di pensare di essere eterni. Molte specie sensazionali del passato si sono estinte e noi non costituiamo un’eccezione a tale regola biologica. Prima o poi scompariremo per far posto a qualcos’altro, ma se vogliamo che ciò avvenga il più tardi possibile è necessario che cominciamo a considerarci in modo attento e spietato come esemplari biologici e cominciamo a renderci conto dei nostri limiti.

Alcuni – osserva Morris – sostengono che poiché l’uomo ha sviluppato un elevato livello di intelligenza e un potente impulso all’invenzione, sarà sempre e in ogni caso in grado di adattarsi a tutte le nuove situazioni che si verificheranno sul pianeta Terra, magari anche modificando la natura. In realtà la nostra primitiva natura animale e i nostri comportamenti opportunistici non lo consentiranno mai. Sarà solo riconoscendo apertamente i nostri limiti che avremo maggiori probabilità di sopravvivenza.

Ciò non significa – approfondisce ancora Morris – per forza un ingenuo “ritorno alla natura”, ma vuol dire semplicemente che dovremo adattare i nostri progressi dovuti all’intelligenza alle caratteristiche del nostro comportamento, aggressivo e talvolta violento. In sostanza dobbiamo migliorare in qualità piuttosto che in quantità e in forza. Potremo così continuare a progredire tecnologicamente in modo sensazionale e sbalorditivo senza necessariamente negare la nostra eredità evolutiva di rimanere pur sempre degli animali. In caso contrario i nostri compressi impulsi biologici si accumuleranno fino a far crollare la diga e tutta la nostra complessa esistenza sarà spazzata via dalla piena.

Non male come analisi per essere stata fatta quasi 50 anni fa. E, alla luce di quanto è successo in questa manciata di anni (in rapporto al tempo della nostra evoluzione), quanta ragione Morris aveva?

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(1) Desmond Morris afferma nel libro di aver “deliberatamente insultato la nostra specie, usando una espressione come “scimmione nudo” per “mantenere il senso delle proporzioni che ci obbliga ad osservare quello che accade appena al di sotto della nostra superficie di esseri superiori”.

 

Il più grande esperto di inquinamento? Il Papa

Ma i morti per smog saranno 25 mila, 650 mila o 68 mila? Ma saranno più dannose le polveri sottili PM 10 o PM 2,5? Ma questo smog sarà causato dal trasporto veicolare privato, dall’industria, dai riscaldamenti domestici o dall’incenerimento dei rifiuti?

Queste domande non potranno avere risposte univoche e, in parte, sono anche un po’ retoriche o buttate là nel calderone dell’opinione pubblica (come il numero dei morti, stimabile a grandi linee ma in sé difficilmente quantificabile). Quello che è abbastanza certo in questi ultimi giorni pre e post natalizi è che gli strumenti di rilevazione dell’inquinamento dell’aria stanno impazzendo, causa un anomalo inverno tiepido e una lunghissima siccità che non ha fatto piovere in Italia da più di due mesi.

Qualsiasi commentatore o politico a caccia di consenso ora si improvvisa “esperto” e si sente legittimato a dire qualsiasi cosa sul tema anche se fino a ieri si è occupato di economia, di politica interna o, più banalmente, di gossip. E magari criticava anche gli ambientalisti o gli scienziati di essere contro il progresso. A tale riguardo vorrei ricordare a tutti noi una cosa molto semplice: il problema dell’inquinamento atmosferico e urbano non è un fenomeno recente ma sono almeno 40 anni che gli scienziati (sia coloro che si occupano di materie tecniche, sia coloro che si occupano di curare i malati) ci dicono che c’è un problema e che questo problema deve essere assolutamente affrontato e risolto.

Mettere – come hanno fatto alla spicciolata qualche sindaco, qualche prefetto o qualche governatore di regione – gli autobus gratis la domenica, le targhe alterne il giorno di Natale o il blocco totale del traffico per 2/3 giorni durante le vacanze invernali (per non disturbare il “lavoro”) è semplicemente una cosa ridicola che non risolve il problema dello smog e prende in giro i cittadini, soprattutto quelli malati o quelli che si ammaleranno negli anni futuri.

È giunta finalmente l’ora di essere onesti e di dire che lo smog siamo noi! Si, certo, avete capito bene. Lo smog è Alessandro (io), Paola, Marco, Laura, Giovanna, Luca, Patrizia, Franco, Marta… Lo smog non è una cosa che nasce dal nulla e che improvvisamente, come è arrivato, svanirà! Lo smog è il frutto del nostro agire quotidiano, del nostro stare comodi in casa in maniche corte quando fuori è sotto zero. Del nostro andare a prendere il pane e il giornale con il culo ben piantato sul sedile della nostra auto diesel con filtro antiparticolato quando abitiamo a soli 200 metri dai negozi. Del nostro comprare e buttare imballaggi. Del nostro spreco alimentare. Della nostra bulimia di oggetti e di elettronica usa e getta. Della nostra arroganza verso la natura. Della nostra…

Tutto questo produce smog! E quest’ultimo sparirà solo dopo che avremo radicalmente cambiato i nostri comportamenti. Tutto il resto, invece, è solo fuffa che svanirà agli occhi dell’opinione pubblica non appena le concentrazioni rilevate si saranno un po’ abbassate e i media smetteranno di parlarne.

A parte i “soliti” che è da anni che studiano l’argomento e che si esprimono con precisione e grande conoscenza della materia, in questi giorni di trambusto emotivo sull’inquinamento mi ha molto colpito il Papa che, nella notte di Natale, si è espresso da grande esperto della materia. Sotto la forma dell’ammonimento morale si è spinto a dire: “In una società spesso ebbra di consumo e di piacere, di abbondanza e lusso, Lui ci chiama ad un comportamento sobrio, cioè semplice, equilibrato, lineare capace di cogliere e vivere l’essenziale”.

Un duro e per nulla velato attacco (finalmente da parte di una grande autorità) al modello di sviluppo industriale e consumistico. Quale migliore ricetta contro lo smog!?

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Per approfondire
Video: con questa classe politica, con quello che pensa e con l’arroganza che dimostra verso la scienza sarà molto difficile (sig.) ottenere dei validi risultati nell’ambito della lotta all’inquinamento.

 

Bioimita – Anno Terzo

Il tempo passa velocemente e oggi, 1 gennaio 2016, è il terzo anno che Bioimita ha preso vita. Nonostante il tempo trascorra e i miei impegni di lavoro (quello “ufficiale”) aumentino, devo dire che mantengo inalterato, rispetto all’inizio, il mio desiderio di approfondire e di comunicare sui temi della sostenibilità ambientale e della bioimitazione. È vero, l’argomento mi piace e incontra le mie attitudini, ma posso dire che lo sento anche come un dovere. Quello di amplificare il più possibile i gravi problemi ecologici che zavorrano il nostro agire di ora, pregiudicando quello futuro, e che, a ben guardare il funzionamento della natura, in parte potrebbero essere anche risolti attraverso soluzioni semplici, che non richiedono né troppo impegno tecnologico né troppa dedizione individuale. Basta solo che i decisori politici, in parte legati a filo doppio con i principali inquinatori, in parte non troppo pungolati dai cittadini, decidano di intervenire. E il gioco sarebbe (quasi) fatto!

Venendo a qualche dato, i numeri di Bioimita – malgrado la mia cronica mancanza di tempo e la mancanza di collaborazione per la redazione degli articoli – dicono che il sito è in lieve crescita. Nonostante il numero degli articoli annuali sia più o meno lo stesso dello scorso anno (1), Bioimita vede leggermente crescere sia il numero dei totale dei visitatori, delle sessioni aperte e delle pagine viste (2). Merito anche del fatto che, per metà del 2015 mi sono anche concentrato ad utilizzare altri canali comunicativi, come i social network, che fino ad ora avevo lasciato abbastanza in disparte.

L’obiettivo primario per il 2016 – oltre a cercare di descrivere con dovizia di particolari e approfondimenti la realtà vista sempre nell’ottica della bioimitazione – sarà anche quello di iniziare nuovi argomenti (es. autocostruzioni di oggetti) e di trovare ulteriori percorsi comunicativi.

Di certo tutti questi obiettivi saranno quasi impossibili da raggiungere da solo, con le scarse forze che mi rimangono dopo il lavoro e dopo la gestione di una casa e di una famiglia. Avrò sicuramente bisogno di un aiuto e, se per caso desiderate cimentarvi in un percorso di questo tipo o se per caso desiderate aiutare in qualche modo, le porte di Bioimita saranno sempre aperte e sarete senz’altro i benvenuti. We want (and we need) you!

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(1) Nel 2015 ho pubblicato 48 articoli per il “BLOG” e 4 per la categoria “PRODOTTI”.
(2) È difficile dare un numero univoco dei visitatori totali, delle sessioni e delle pagine viste perché da quest’anno (non dall’inizio) utilizzo due sistemi di analisi statistica (Google Analytics e Jetpack di WordPress) che mi forniscono dati leggermente discordanti tra loro. Ad ogni modo dai grafici annuali si può vedere l’andamento in lieve crescita.

 

Rapporto sul Benessere Equo e Sostenibile in Italia

L’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT) ha da poco presentato la terza edizione del “Rapporto sul Benessere Equo e Sostenibile in Italia (BES |2015)(1), un quadro integrato dei principali fenomeni sociali, economici e ambientali che stanno caratterizzando l’evoluzione del nostro Paese in questi anni recenti. Anche quest’anno il Rapporto BES analizza i fattori che hanno un impatto diretto sul benessere umano e sull’ambiente attraverso l’analisi dei seguenti 12 argomenti (commentati).

  1. Salute – Vita media in aumento, ma stabile quella in buona salute. Disuguaglianze territoriali in crescita, disuguaglianze di genere in diminuzione.
  2. Istruzione e Formazione – Migliorano i livelli di formazione e si riduce il divario con l’Europa, in crescita la partecipazione culturale.
  3. Lavoro e conciliazione dei tempi di vita – Primi segnali di ripresa ma ancora forti divari e lontani dall’Europa.
  4. Benessere economico – Dal 2014 segnali di miglioramento della condizione economica delle famiglie. Non si attenuano le disuguaglianze.
  5. Relazioni sociali – Aumenta la fiducia negli altri, cresce la rete potenziale di aiuto e cala la partecipazione politica.
  6. Politica e istituzioni – Cresce la presenza delle donne nei luoghi decisionali economici e politici, ma resta elevata la sfiducia nelle istituzioni.
  7. Sicurezza – Dopo anni di sostenuto aumento della criminalità predatoria, rallenta la crescita dei reati. Diminuisce la violenza contro le donne ma aumenta la sua gravità.
  8. Benessere soggettivo – Cresce l’ottimismo verso il futuro, soddisfazione per la vita ancora stabile.
  9. Paesaggio e patrimonio culturale – Progressi insufficienti nella tutela dei beni comuni.
  10. Ambiente – Passi in avanti ma ancora criticità per la gestione delle risorse naturali e della qualità dell’ambiente.
  11. Ricerca e innovazione – Poche sorprese sul fronte della ricerca e innovazione. La situazione resta in gran parte stabile.
  12. Qualità dei servizi – Graduale miglioramento dell’erogazione di acqua, energia elettrica, gas e rifiuti. Ancora criticità per servizi sociali, mobilità e carceri.

Mentre dal Rapporto BES 2015 emerge che la situazione è abbastanza positiva sul lato dei temi socio-economici con buoni livelli di salute, di formazione e di lavoro nonché una buona percezione da parte dei cittadini sia per le relazioni sociali che – stranamente – per la loro condizione economica, dal Rapporto stesso emerge, invece, che la situazione è alquanto negativa relativamente ai temi socio-ambientali, in particolare il paesaggio, il patrimonio culturale e l’ambiente in generale.

Emissioni gas serra_BES 2015Se si considerano in maniera più approfondita i temi che manifestano aspetti di più spiccata negatività, ci si rende conto che la tutela del paesaggio e dell’ambiente non è sufficiente a garantire quei livelli necessari perché si configuri benessere per i cittadini.

Abusivismo edilizio_BES 2015Dal lato della tutela del paesaggio e del patrimonio culturale, anche se alcuni obiettivi si possono dire quasi raggiunti (es. piccolo rallentamento nel consumo di territorio agricolo a causa della crisi del settore edile), altrettanto non si può dire dal lato della dismissione di aree agricole interne che non vengono più coltivate e da quello dell’espansione delle monocolture industriali. Purtroppo sul piano del paesaggio vi è una forte disparità regionale e territoriale (tra Nord e Sud) sulla capacità delle istituzioni di tutelare i beni pubblici e vi è un elevato abusivismo edilizio, non riscontrabile in altre economie avanzate. In Italia, poi, nonostante la grande vocazione turistica per i paesaggi e per i beni culturali, vi è un’inadeguata spesa pubblica dedicata a tali scopi. Elementi fortemente negativi sono presenti anche riguardo la percezione da parte dei cittadini per il paesaggio, che li rende fortemente insoddisfatti, soprattutto al Nord.

Paesaggio degradato_BES 2015Dal lato poi dell’Ambiente in generale, pur avendo il patrimonio naturalistico in Italia anche una importante funzione economica (per l’agricoltura e per il turismo), vi è comunque una scarsa tutela degli ecosistemi che richiederebbe, invece, maggiori sforzi anche in considerazione dei cambiamenti climatici in atto. La protezione dell’ambiente rappresenta una chiave determinante e lungimirante per le scelte del sistema Paese ed anche dei singoli cittadini. Le azioni volte oggi ad uno sviluppo ecosostenibile possono condurre, domani, al miglioramento del benessere delle persone. Le azioni di tutela dell’ambiente, di gestione sostenibile delle risorse naturali e di lotta ai cambiamenti climatici, con un piano di sviluppo legato alle energie rinnovabili e all’efficienza energetica, possono aggiungere valore e proteggere i nostri territori, sostenere la società e l’economia. Luci e ombre sono ancora presenti fra le varie aree del Paese e fra i diversi aspetti che costituiscono la tematica ambientale, anche se nel corso degli ultimi anni, con l’impulso delle normative e dei vincoli europei, sono stati compiuti passi in avanti in quest’ambito. Aumenta la disponibilità di aree verdi urbane a disposizione dei cittadini, si riduce l’inquinamento dell’aria in diverse città, cresce l’energia prodotta da fonti rinnovabili, si contraggono le emissioni di gas serra e il consumo di materiale interno, questi ultimi anche come conseguenza della crisi economica. A questi progressi non resta insensibile neanche la popolazione italiana che esprime più consapevolezza sulle problematiche ambientali, maggiore partecipazione attiva e migliori scelte di spesa. È ancora evidente però, la necessità di interventi sostanziali sul territorio in termini di tutela e gestione dell’ambiente. Nel settore dei rifiuti urbani si riduce la quota dello smaltimento in discarica, anche se l’Italia rimane in netto ritardo rispetto agli altri paesi europei. Resta anche grave, soprattutto in alcune regioni del Mezzogiorno e dell’Italia centrale, la dispersione di acqua potabile dalle reti di distribuzione comunale, così come la depurazione delle acque reflue urbane. Ugualmente grave la presenza di diversi siti inquinanti da bonificare diffusi sul territorio nazionale. Permane infine la presenza di diverse aree del territorio con problemi di dissesto idrogeologico e alluvioni accentuati dall’incremento di eventi climatici estremi.

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(1) Nato nel 2010, il BES si è ispirato ad iniziative internazionali simili anche se il quadro di riferimento adottato in Italia risulta tra i più ambiziosi proponendosi di misurare non solo il livello di benessere attraverso l’analisi degli aspetti rilevanti della qualità della vita dei cittadini, ma anche la sua l’equità in termini di distribuzione delle determinanti del benessere tra soggetti sociali e la sua sostenibilità, a garanzia che lo stesso livello di benessere possa essere fornito anche alle generazioni future.

 

L’EXPO è già un lontano ricordo

Prendo la metropolitana che dal centro di Milano porta alla Fiera di Rho almeno un paio di volte la settimana da quasi 15 anni. Si tratta di una linea, quella “rossa” M1 che, passando dal centro della città, scarica un fiume di persone alle fermate “Duomo” e “S. Babila”, un po’ meno alla fermata “Cadorna FN”, qualcuna in meno a “Lotto” e, più si va verso la periferia, più i passeggeri si diradano fino quasi a scomparire. Questa è la norma tranne alcune anomalie che si verificano nei giorni dell’anno in cui si svolgono le principali iniziative fieristiche. Durante i mesi dell’EXPO, soprattutto nella fase finale dei mesi di settembre e ottobre scorsi, le normali proporzioni quotidiane dei passeggeri si sono completamente ribaltate, per poi tornare agli equilibri di affluenza normale non appena sono stati chiusi i cancelli della manifestazione.

Quello che colpisce ora, a pochi mesi dalla fine dell’EXPO, è il fatto che da nessuna parte si rileva traccia dell’enorme movimento dei mesi passati. Tranne qualche vecchio residuo di cartellone pubblicitario degli sponsor principali non ancora coperto da quelli nuovi, della kermesse fieristica internazionale a Milano non è rimasto praticamente nulla.

Al di là dei dati economici e degli equilibri finanziari (1) che, si spera, saranno analizzati con dovizia di particolari da esperti contabili e revisori dei conti, quello che mi colpisce e mi rattrista è il fatto che di tutti i messaggi di sostenibilità (“EXPO: nutrire il Pianeta, energia per la vita”) e di tutte le “Carte di Milano” non sia rimasto praticamente più niente. Nessuno ne parla e nessuno ne scrive più. Svaniti!

Senza andare troppo a scavare nei dati e nelle statistiche e senza cercare motivazioni troppo complicate, a mio modesto parere questa è la vera e semplice dimostrazione dell’inutilità e dell’inefficacia educativa di EXPO. Bisognava solo attendere qualche mese dalla chiusura dei cancelli per potersene rendere conto. Et voilà.

Proprio da questo generale disinteresse per la manifestazione che si nota già solo pochi mesi dopo la fine (non ne parla più la politica, non ne parla più la stampa e non ne parlano più gli amici o i conoscenti entusiasti che ci sono andati più volte ma che ora sui social network enfatizzano altro) si deduce quanto siano stati ipocriti i vari messaggi che hanno prima giustificato all’opinione pubblica e poi sostenuto la manifestazione durante il suo svolgersi. Era tutto un fiorire di messaggi “green” – dal tema principale, il nutrimento per il Pianeta al risparmio energetico; dall’uso di auto ecologiche alla “Carta di Milano” – che  il disinteresse di questi giorni ha dimostrato essere solo marketing. Questo generalizzato distacco per EXPO dimostra quanto il vero scopo della manifestazione, che noi (giustamente) sospettavamo fin dall’inizio, fosse altro rispetto ai temi sacrosanti che avrebbe dovuto trattare. Lo scopo era, in primis, costruire i padiglioni e le infrastrutture (e indirettamente consumare territorio) e, in secondo luogo, accontentare le multinazionali a creare, con soldi pubblici, un evento da consumare in breve termine nel quale commercializzare e promuovere beni alimentari o attività legate al cibo che poco o nulla hanno a che fare con la salvaguardia dell’ambiente e il (giusto) nutrimento del Pianeta.

È vero, in generale chi ci è andato si è divertito. Ma nulla di più che trascorrere una giornata al parco divertimenti o allo zoo. Viste queste considerazioni mi permetto di fare un appello alla politica: giustificare una manifestazione molto costosa pagata dai soldi dei cittadini attraverso falsi scopi ambientali è una cosa immorale che dovreste evitare, per il futuro, di fare. La sostenibilità ambientale è una cosa troppo seria da poter essere manipolata ad libitum per obiettivi che nulla hanno a che fare con essa. Please!

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(1) Il Fatto Quotidiano osserva che, in sei mesi, all’EXPO ci sono stati 20 milioni di ingressi, di cui quelli effettivi, tolti i vari movimenti del 14mila addetti, sono stati circa 18 milioni. Per ottenere il pareggio finanziario ci sarebbero voluti 20 milioni di biglietti venduti in media ad almeno 19 euro ciascuno. Secondo fonti interne, invece, il prezzo medio è stato di 10 euro ciascuno, poco più della metà di quello ottimale.