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Prodotti biologici: garanzia di assenza di pesticidi o trovata commerciale?!

Prodotti bio

L’Azienda Sanitaria di Firenze ha pubblicato sul proprio sito internet un’interessante tesi di laurea del corso di “Tecniche della prevenzione nell’ambiente e nei luoghi di lavoro” di Arianna Ugolini dal titolo: “Prodotti biologici: garanzia di assenza di pesticidi o trovata commerciale?!

Il lavoro, dopo aver ampiamente e chiaramente spiegato le caratteristiche dei prodotti fitosanitari in agricoltura e la loro classificazione, ne ha esaminato – focalizzandosi particolarmente sui composti organofosfati (1) – i possibili effetti sulla salute e ha spiegato le regole per un corretto impiego degli stessi nella Regione Toscana, concentrandosi anche nel valutare quali siano i limiti massimi accettabili negli alimenti.

L’obiettivo, visto il corso di laurea, era principalmente quello di capire se sia possibile fare un’azione di prevenzione nei riguardi dei composti organofosfati da parte dei consumatori attraverso il consumo di prodotti biologici oppure se tale prevenzione, in relazione alle caratteristiche e alle contaminazioni degli alimenti, sia del tutto ininfluente nei confronti del loro stato di salute in generale.

L’idea di realizzare questo studio, come osserva l’autrice nella Premessa della sua tesi, nasce dalla lettura di due articoli, antitetici nel loro contenuto. Il primo, tratto dal sito internet Il fatto alimentare, datato 25 febbraio 2015 e intitolato “Consumare biologico fa bene alla salute. Meno pesticidi nell’organismo. Pubblicato il primo studio che evidenzia l’accumulo” afferma che chi consuma abitualmente frutta e verdura biologiche espone il suo organismo a minori quantità di pesticidi ed erbicidi rispetto a chi mangia vegetali coltivati con i metodi convenzionali. E questo risulta particolarmente importante per i composti organofosfati. L’altro testo, tratto dalla rivista Altroconsumo e intitolato “Biologico, c’è chi dice no. La nostra inchiesta” dell’11 settembre 2015, assieme alla risposta alle discussioni suscitate, “Inchiesta bio: alimenti biologici e convenzionali, il confronto”, pubblicata sempre da Altroconsumo il 4 ottobre 2015, in maniera molto dubbiosa vuole invece porre in discussione l’idea che il biologico sia migliore del convenzionale, elencando i punti a favore e quelli contrari, allo scopo di informare correttamente il consumatore e consentirgli di fare corrette scelte alimentari.

Per arrivare alle proprie conclusioni la ricercatrice ha effettuato dei campionamenti sugli alimenti e sull’acqua piovana mirati a verificare, in essi, i residui di fitofarmaci. I rilievi sono stati effettuati su 4 principali canali di produzione/distribuzione:

  • coltivatori non biologici
  • coltivatori biologici non certificati
  • negozi specializzati
  • negozi della grande distribuzione (GDO).

Per fare ciò la ricercatrice ha utilizzato il kit BioPARD, Pesticide Analytical Remote Detector, che si basa su un sistema di sensori associato ad un rivelatore elettrochimico per la determinazione rapida di pesticidi organofosforici e carbammici in campioni di cibo, acqua e suolo. Il kit permette solo una valutazione fondamentalmente qualitativa (presenza/assenza di pesticidi) e non quantitativa (se non per una discriminazione di massima tra valori quantitativi definiti “High” e valori più bassi definiti “Medium”, mentre con valori “Low” s’intende l’assenza o la presenza in minime tracce di residui) di pesticidi organofosforici e carbammati. Sulla base di questa discriminazione di massima (High; Medium; Low) Arianna Ugolini ha poi elaborato dei grafici riassuntivi che hanno fornito, in linea di massima, i seguenti risultati: i prodotti biologici sono risultati “High” per circa il 63%, “Medium” per circa il 13% e “Low” per circa il 23%. i prodotti convenzionali sono invece risultati “High” per circa il 90%, “Medium” per circa il 10%; i due campioni di acqua piovana provenienti da Scandicci centro e Ginestra Fiorentina sono risultati rispettivamente “Medium” e “Low”.

Le conclusioni di questo interessante lavoro (Tabella A) arrivano ad affermare che, dal lato della produzione, la certificazione biologica fornisce, in generale, migliori prodotti di quella convenzionale anche se non in assoluto. I prodotti migliori sono infatti quelli che provengono dalle coltivazioni biologiche non certificate. Dal lato della commercializzazione e distribuzione dei prodotti attraverso il canale della grande distribuzione non ci sono invece differenze sostanziali tra prodotti biologici e prodotti non biologici.

Quanto di inaspettato emerge dalla tesi di laurea è un fatto molto interessante, da non sottovalutare nelle scelte alimentari e negli studi della sostenibilità ambientale e alimentare del futuro. La certificazione biologica non è in assoluto uno strumento per misurare la qualità dei prodotti (dal punto di vista dei residui chimici) e la qualità dei prodotti consumati è tanto più elevata quanto più il produttore è consapevole dal punto di vista etico della propria scelta colturale “ecologica”. Questo indipendentemente dall’ottenimento o meno della certificazione biologica. In buona sostanza lo studio osserva che coltivare bene i prodotti agricoli è una scelta chiara e netta operata da parte del produttore e chi produce prodotti biologici solamente per fare più soldi o perché il mercato va in quella direzione, non necessariamente è in grado di immettere sul mercato prodotti di qualità. Come, per altro, chi certifica non è in grado di garantirlo sempre.

Estendendo queste conclusioni nel terreno della bioimitazione ne deduco anche che la sostenibilità ambientale non è – come ci vogliono far credere – solo un processo tecnico-economico che consente di far profitti in modo diverso. Così non funziona e non funzionerà mai! La sostenibilità ambientale è solamente un processo filosofico, del pensiero prima di tutto, che fa concepire la Natura come un tutt’uno, un insieme di processi complessi, nei confronti della quale non è sufficiente che mutiamo l’approccio tecnico-operativo, ma verso la quale dobbiamo mutare radicalmente il nostro modo di pensare consapevoli che nella partita della sostenibilità ambientale dobbiamo essere anche disposti a perdere molto. Altrimenti non funziona!!!

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La tesi di laurea di Arianna Ugolini è liberamente scaricabile qui.
(1) Ai composti organofosfati sono associati a diversi effetti negativi sulla salute umana, sia di tipo acuto (tremori, cefalea, difficoltà respiratorie) che cronico (disturbi neurologici, ansia), nonché, per quanto riguarda l’esposizione in gravidanza dei feti ritardo mentale, basso quoziente intellettivo e altro. Da uno studio condotto tra il 2010 e 2012 da parte dei ricercatori della School of Allied Health Sciences dell’università di Boise in Idaho, è risultato che esiste una relazione dose-dipendente tra consumo di alimenti non biologici e presenza di composti organofosfati nelle urine. (http://www.ilfattoalimentare.it/pesticidi-frutta-verdura-biologica.html).

 

L’odore della morte

Lo avete mai provato? L’odore di morte è spaventoso e vomitevole. Un misto di sangue, urine, feci che impregna l’aria, ti entra nelle narici e si attacca per lungo tempo ai tuoi vestiti. Quando entri in un macello industriale, se ti avvicini all’area dell’uccisione dell’animale o alle fasi della catena di lavoro immediatamente successive e, in un rumore assordante dovuto alle urla delle povere bestie che “sentono” il patibolo, vieni investito da uno schizzo di sangue che sgorga dalla loro giugulare o che spilla dalle arterie dei loro arti che vengono recisi o del ventre che viene svuotato, capisci senza ombra di dubbio che cosa sia la morte.

Non quella di una zanzara, di una lucertola, di un microbo o di un pesce. Quella di un mammifero – il maiale, la mucca, il cavallo – che sente e vive quasi come te e che, spesso, hai accarezzato o fatto accarezzare ai tuoi figli sui pascoli o nelle stalle quando, con quel suo nasone buffo, ti si è avvicinato per sola curiosità o per scroccare un po’ di cibo.

L'odore della morte_02L’esperienza non è affatto piacevole e, almeno le prime volte, ti resta incollata nel cervello per qualche giorno. Poi, purtroppo, con il tempo ti ci abitui e ti scivola un po’ più addosso.

Quello che ora mi colpisce e ancora mi angustia quando vado in un macello industriale non è tanto il cadavere dell’animale appeso, le sue convulsioni appena viene sgozzato o le fasi dell’eviscerazione e dello squartamento quanto, piuttosto, gli scarti e i rifiuti delle lavorazioni [vedi foto]. Se la carne inizia subito un processo che la porta ad essere lavata, controllata e igienicamente sicura (quindi, permettetemi il termine, “bella”) i rifiuti, invece, manifestano in tutto il loro ribrezzo che cosa sia la morte a livello industriale. In gran parte finiscono, convogliati da nastri trasportatori, verso cassoni o trituratori che ne fanno una poltiglia informe e viscida che mi richiama conati di vomito ogni volta che la vedo. In minima parte i rifiuti della macellazione – e anche questo non mi piace proprio – finiscono sparsi sulla pavimentazione a dimostrazione che la sacralità della vita, quella che esiste in forma rituale in gran parte delle tradizioni e delle religioni, nel sistema del cibo industriale, non esiste. Tutto – dico tutto – è semplicemente o “merce” o “rifiuto”, o “tempo” o “redditività”. E, alla fine, soldi!

L'odore della morte_04Al di là di quello che provo quando frequento i macelli industriali io non sono totalmente contro la carne. Sono convinto che, nell’ultima fase evolutiva del suo percorso terrestre, l’uomo sia “diventato” anche carnivoro (1) e che l’assunzione della giusta dose di proteine animali non sia così deleteria per la salute. Ovviamente i quantitativi da consumare devono essere molto bassi, radi nella loro frequenza e quel poco che viene mangiato deve possedere una dimensione etica (la tipologia di allevamento, il cibo e la macellazione) e deve essere di enorme qualità. Quello che però non concepisco è il fatto che la carne – soprattutto quella di bassa qualità – sia entrata di prepotenza nel nostro immaginario e sia oramai diventata l’alimento ubiquitario e quotidiano dei nostri pasti. Questo mi fa comprendere quanto siamo scarsamente interessati (o quanto siamo scarsamente informati) sia all’etica nel trattamento degli animali sia alla nostra salute e alle sorti del pianeta che abitiamo che, a poco a poco, per far posto agli allevamenti in batteria e alle coltivazioni che garantiscono cibo agli animali, depauperiamo della sua biodiversità e alteriamo nei suoi equilibri chimici.

L'odore della morte_05Sono comunque convinto che non sia necessario bandire totalmente la carne dalla dieta per compiere delle azioni sostenibili dal punto di vista ambientale. Per ottenere questo importantissimo risultato è sufficiente (ri)acquisire semplicemente una sorta di rispetto per l’animale che ci dona la vita perché tutto il resto – eliminazione degli allevamenti intensivi, delle violenze e limitazione delle problematiche legate alla salute – verrà poi di conseguenza. Ne sono certo!

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(1) Per approfondire il tema consiglio la lettura del libro La scimmia nuda. Studio zoologico sull’animale uomo (1967) di Desmond Morris. Ne vale la pena.

 

Le 15 abitudini alimentari che fanno bene alla salute e all’ambiente

Dan Buettner, giornalista del New York Times, in un progetto sviluppato con il National Geographic ha studiato le popolazioni più longeve della Terra per capire quali possano essere gli alimenti che esse hanno in comune e che contribuiscono a farle invecchiare a lungo mantenendo un generale buono stato di salute. Tali popolazioni vivono nelle cosiddette Blue Zones, le cinque aree del pianeta dove vi è la più alta concentrazione di centenari. Esse sono: Okinawa in Giappone; Loma Linda in California; Ikaria in Grecia; la Penisola di Nycoia in Costarica e l’Ogliastra, in Sardegna.

Quello che è emerso dallo studio è che, al di là delle piccole particolarità alimentari di ciascuna area geografica, tutte le Blue Zones sono accumunate da 15 abitudini alimentari che possono essere considerate gli ingredienti di base per una vita lunga e sana, che non necessità di diete ipocaloriche, di particolari integrazioni vitaminiche o di ampio uso di medicinali.

Al di là delle spiegazioni biochimiche e nutrizionistiche di tali pratiche quello che desidero fare è analizzarle anche dal punto di vista della loro sostenibilità ambientale, perché salute e longevità sono anche collegate a cibo sano e ad ambiente non inquinato. È significativo il fatto infatti che le Blue Zones non si trovino in grandi aree industriali e nemmeno in grandi agglomerati urbani, ma siano ubicate in zone dove vi è una forte naturalità.

Questi 15 abitudini alimentari, a cui anche tutti noi dovremmo attenerci scrupolosamente sono:

  1. Il 95% di quello che si mangia deve provenire da piante – L’impatto ambientale della coltivazione dei vegetali è decisamente più basso rispetto a quello di produzione della carne. Inoltre buona parte dei vegetali buoni è spontaneo e più che di coltivazioni su larga scala necessita di conoscenza, di frequentazione e rispetto per la natura in modo tale che possa dare con continuità, nel tempo, i suoi frutti.
  2. Carne: non più di due volte a settimana – La carne, oltre ad avere un forte impatto ambientale nelle fasi dell’allevamento e del trattamento industriale fa anche abbastanza male alla salute, soprattutto quando è cotta alla brace. Tra le poche carni consumate devono poi essere preferite quelle che vengono prodotte a livello familiare e locale, dove gli animali sono liberi di muoversi e di pascolare. E ciò è decisamente più positivo per l’ambiente e per il benessere degli animali rispetto agli allevamenti industriali.
  3. Consumare fino a 85 grammi di pesce al giorno – Anche se consumare pesce in grandi quantità impoverisce gli oceani e ne depaupera gli stock ittici, è da dire che quello che fa meglio alla salute è il cosiddetto pesce azzurro, pesce di piccola taglia che è alla base della catena alimentare del mare e che è presente in grandi quantità nello stesso.
  4. Ridurre il consumo di latticini e formaggi – La produzione dei latticini e dei formaggi, soprattutto quelli di mucca, è normalmente legata ad allevamenti intensivi che hanno un enorme impatto sull’ambiente. Si pensi solo che per produrre 4 litri di latte sono necessari circa 3000 litri d’acqua.
  5. Mangiare fino a tre uova a settimana.
  6. Legumi cotti ogni giorno (almeno mezza tazza) – I legumi, oltre ad essere un toccasana per la salute, sono anche importanti per l’ambiente perché si tratta di piante azotofissatrici che, se alternate ad altre coltivazioni, possono migliorare la fertilizzazione dei terreni e limitare l’uso di fertilizzanti aggiunti.
  7. Passare alla “pasta madre” o alla farina di grano integrale – La “pasta madre” deriva da un processo fermentativo ed è legata ad un rapporto collaborativo tra noi e i batteri che la determinano. Questo è positivo per l’ambiente perché più vi sono rapporti collaborativi tra i diversi esseri viventi della Terra, più li impariamo a rispettare e più ci impegniamo a tutelarli. Inoltre la farina di grano integrale, proprio perché costituita da varietà diverse di cereali, ci insegna a capire e a preservare la biodiversità che il mondo industriale, omologato, invece non fa.
  8. Tagliare il consumo di zucchero.
  9. Come snack mangiare due manciate di noci – Consumare frutta secca al posto di cibi industriali processati come snack ci riporta alle nostre lontani origini di scimmioni raccoglitori che consumano grandi varietà di cibi diversi piuttosto che numerosi prodotti industriali fatti di pochi e soliti ingredienti.
  10. Attenersi a cibi riconoscibili per ciò che sono – Consumare interamente cibi riconoscibili significa due cose: imparare a non buttare via nulla dei cibi e a trarre benefici da tutte le loro componenti  (bucce, noccioli, ecc.) che nel sistema industriale sono scarti; imparare a consumare cibi semplici, poco processati. Entrambi gli aspetti sono molto positivi per l’ambiente.
  11. Aumentare l’introito di acqua – L’acqua, soprattutto quella dolce non contaminata, è una fonte preziosa sia per la vita che per l’ambiente. Consumarla “al naturale” (dal rubinetto di casa, non imbottigliata e semplice, senza aromi o anidride carbonica) ci aiuta a capirne l’importanza e preservarla meglio.
  12. Se proprio si desidera bere alcol, almeno bere vino rosso.
  13. Bere tè verde.
  14. Caffeina? Solo dal caffè.
  15. Un perfetto equilibrio tra le proteine – Per assumere la giusta quantità e il giusto valore di proteine è necessario unire insieme legumi, cereali, noci e verdure. Questo ci aiuta a comprendere con maggiore chiarezza l’importanza della varietà e della (bio)diversità.

Queste 15 buone abitudini alimentari – al di là delle Blue Zones e dei centenari che le abitano i quali possono avere anche una predisposizione genetica alla longevità – ci insegnano che tutto è strettamente interconnesso. Salute, longevità e sostenibilità ambientale sono elementi fortemente collegati tra loro che dimostrano una cosa molto semplice: noi proveniamo, attraverso l’evoluzione, dalla natura e solamente attraverso essa – la sua comprensione, la sua imitazione e il suo rispetto – possiamo sperare di avere salute e benessere.

Tutto il resto è pura illusione.

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Fonte: Corriere della Sera

 

Il più grande nemico del bio è il qualunquismo

Mentre ero in vacanza durante il periodo natalizio, spinto dalla curiosità di mia figlia ho avuto modo di visitare un frantoio di olive che si trova sulla riviera ligure. Bello e interessante il processo lavorativo che va dallo scarico dei frutti nel macchinario, al loro lavaggio, alle operazioni di spremitura “a freddo” con centrifugazione dei residui, fino alla spillatura del profumato liquido verde nei contenitori dei vari committenti.

La visione nel dettaglio di tutte le varie fasi della molitura delle olive è stata possibile per merito del proprietario del frantoio che ha dotato l’attrezzatura di numerosi vetri e di numerosi accessi sicuri per soddisfare la curiosità dei suoi clienti e dei suoi visitatori.

Non eravamo gli unici a compiere quella visita didattica e, per caso, mentre mi guardavo intorno, ho avuto modo di seguire un discorso tra il proprietario del frantoio – Giorgio – e un visitatore presente. Quello che mi ha colpito, nel dialogo, sono state le risposte di Giorgio alle seguenti domande: “Qual è la differenza tra la molitura a caldo e quella a freddo” e “Ci sono molte coltivazioni biologiche in zona e come riuscite a far sì che il marchio sia garantito voi che lavorate sia il bio che il tradizionale”?

Le domande erano assolutamente legittime e dimostravano che l’interlocutore aveva la idee chiare in merito alla qualità del prodotto e che cercava di avere delle conferme tecniche e organizzative da parte di un operatore esperto per poter effettuare i propri acquisti.

Le risposte di Giorgio sono state, purtroppo, le solite – tristi – parole che senti spesso pronunciare in Italia da un sessantenne che dimostrano come il più grande nemico del progresso e della sostenibilità ambientale – in questo caso l’agricoltura biologica – sia quel qualunquismo disfattista del “tanto non cambia nulla”; del “tanto è tutto uguale”.

Alla domanda sulla spremitura “a freddo” Giorgio replica osservando che non è che cambi nulla con quella “a caldo”. Lo si fa solamente per soddisfare le richieste dei consumatori. Dal momento che tra le due c’è una differenza di costo ma anche di qualità perché la molitura “a freddo” altera molto poco le qualità organolettiche dell’olio, quello che leggo nelle parole di Giorgio è il fatto che l’importante non è pensare di far star bene le persone fornendo loro il meglio a prezzi ragionevoli ma è fare tanti soldi, nella filiera, magari anche a discapito della loro salute. Inoltre Giorgio, indirettamente, dichiara che subisce pochi controlli e che potrebbe anche vendere, lui o altri colleghi, un certo processo al posto dell’altro perché le autorità pubbliche difficilmente fanno prevenzione delle sofisticazioni attraverso controlli preventivi o imposizioni metodologiche.

Alla domanda poi sul biologico, con un sorriso misto tra l’ironico e il furbetto, Giorgio risponde che tanto non cambia nulla, che i controlli e relativa certificazione non servono a nulla e che ci sono molti che dicono di fare il biologico ma poi fanno un po’ quello che vogliono. Le sue osservazioni in effetti sono realistiche e possono rappresentare una triste realtà – che deve essere perseguita dalla giustizia – ma, anziché chiedersi cosa si posa fare per migliorare la situazione, per garantire che in futuro le certificazioni e i controlli siano più incisivi, preferisce buttarla “in vacca” e dire che tanto il bio non serve a nulla. Giorgio, invece di chiedersi come si possa operare per fare un ulteriore salto di qualità – anche per la sua attività imprenditoriale – che superi il metodo biologico per ricercare qualcosa di più, attraverso il suo qualunquismo pone le basi perché si torni indietro senza progresso e senza sufficienti garanzie di salubrità per i cittadini. In tal modo, indirettamente, fa anche il gioco dei grandi produttori e delle multinazionali che chiedono “progresso” (quello che interessa loro), pochi controlli e tanto profitto.

Finché in Italia non ci libereremo della malattia molto contagiosa del qualunquis-disfattismo e non cercheremo la cura nei controlli, nella buona tecnica e nella cultura individuale, come potremo sperare di operare quel passaggio ancora più difficile che porta dal sistema attuale a quello rivoluzionario della bioimitazione?

 

L’EXPO è già un lontano ricordo

Prendo la metropolitana che dal centro di Milano porta alla Fiera di Rho almeno un paio di volte la settimana da quasi 15 anni. Si tratta di una linea, quella “rossa” M1 che, passando dal centro della città, scarica un fiume di persone alle fermate “Duomo” e “S. Babila”, un po’ meno alla fermata “Cadorna FN”, qualcuna in meno a “Lotto” e, più si va verso la periferia, più i passeggeri si diradano fino quasi a scomparire. Questa è la norma tranne alcune anomalie che si verificano nei giorni dell’anno in cui si svolgono le principali iniziative fieristiche. Durante i mesi dell’EXPO, soprattutto nella fase finale dei mesi di settembre e ottobre scorsi, le normali proporzioni quotidiane dei passeggeri si sono completamente ribaltate, per poi tornare agli equilibri di affluenza normale non appena sono stati chiusi i cancelli della manifestazione.

Quello che colpisce ora, a pochi mesi dalla fine dell’EXPO, è il fatto che da nessuna parte si rileva traccia dell’enorme movimento dei mesi passati. Tranne qualche vecchio residuo di cartellone pubblicitario degli sponsor principali non ancora coperto da quelli nuovi, della kermesse fieristica internazionale a Milano non è rimasto praticamente nulla.

Al di là dei dati economici e degli equilibri finanziari (1) che, si spera, saranno analizzati con dovizia di particolari da esperti contabili e revisori dei conti, quello che mi colpisce e mi rattrista è il fatto che di tutti i messaggi di sostenibilità (“EXPO: nutrire il Pianeta, energia per la vita”) e di tutte le “Carte di Milano” non sia rimasto praticamente più niente. Nessuno ne parla e nessuno ne scrive più. Svaniti!

Senza andare troppo a scavare nei dati e nelle statistiche e senza cercare motivazioni troppo complicate, a mio modesto parere questa è la vera e semplice dimostrazione dell’inutilità e dell’inefficacia educativa di EXPO. Bisognava solo attendere qualche mese dalla chiusura dei cancelli per potersene rendere conto. Et voilà.

Proprio da questo generale disinteresse per la manifestazione che si nota già solo pochi mesi dopo la fine (non ne parla più la politica, non ne parla più la stampa e non ne parlano più gli amici o i conoscenti entusiasti che ci sono andati più volte ma che ora sui social network enfatizzano altro) si deduce quanto siano stati ipocriti i vari messaggi che hanno prima giustificato all’opinione pubblica e poi sostenuto la manifestazione durante il suo svolgersi. Era tutto un fiorire di messaggi “green” – dal tema principale, il nutrimento per il Pianeta al risparmio energetico; dall’uso di auto ecologiche alla “Carta di Milano” – che  il disinteresse di questi giorni ha dimostrato essere solo marketing. Questo generalizzato distacco per EXPO dimostra quanto il vero scopo della manifestazione, che noi (giustamente) sospettavamo fin dall’inizio, fosse altro rispetto ai temi sacrosanti che avrebbe dovuto trattare. Lo scopo era, in primis, costruire i padiglioni e le infrastrutture (e indirettamente consumare territorio) e, in secondo luogo, accontentare le multinazionali a creare, con soldi pubblici, un evento da consumare in breve termine nel quale commercializzare e promuovere beni alimentari o attività legate al cibo che poco o nulla hanno a che fare con la salvaguardia dell’ambiente e il (giusto) nutrimento del Pianeta.

È vero, in generale chi ci è andato si è divertito. Ma nulla di più che trascorrere una giornata al parco divertimenti o allo zoo. Viste queste considerazioni mi permetto di fare un appello alla politica: giustificare una manifestazione molto costosa pagata dai soldi dei cittadini attraverso falsi scopi ambientali è una cosa immorale che dovreste evitare, per il futuro, di fare. La sostenibilità ambientale è una cosa troppo seria da poter essere manipolata ad libitum per obiettivi che nulla hanno a che fare con essa. Please!

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(1) Il Fatto Quotidiano osserva che, in sei mesi, all’EXPO ci sono stati 20 milioni di ingressi, di cui quelli effettivi, tolti i vari movimenti del 14mila addetti, sono stati circa 18 milioni. Per ottenere il pareggio finanziario ci sarebbero voluti 20 milioni di biglietti venduti in media ad almeno 19 euro ciascuno. Secondo fonti interne, invece, il prezzo medio è stato di 10 euro ciascuno, poco più della metà di quello ottimale.

 

Il cambiamento degli “stili di vita” funziona?

Prendo spunto dall’interessante articolo “Stili di vita. La ricetta neo-liberista” pubblicato qualche tempo fa dal sito saluteinternazionale.info per avventurarmi in un’analisi sociologica di quali siano i possibili limiti per far sì che una maggiore consapevolezza ecologica si traduca poi in azioni concrete da parte dei singoli individui verso una sempre più profonda sostenibilità ambientale. Peraltro necessaria.

È vero, l’articolo in questione parla di salute pubblica e non di ecologia ma gli argomenti in discussione – salute e sostenibilità ambientale – sono così strettamente interconnessi nei loro obiettivi, nelle loro dinamiche sociali e nei loro risultati che si possono perfettamente sovrapporre.

In particolare nell’articolo si osserva quanto siano inefficaci le campagne di educazione di massa sulla salute (quelle che si propongono di modificare gli “stili di vita”) basate sul presupposto che la causa ultima delle malattie – e l’obiettivo su cui agire – risieda quasi esclusivamente nei singoli individui e nelle libere scelte che essi compiono. Focalizzare l’attenzione sulla responsabilità individuale fornisce un alibi ai decisori di aver fatto tutto il possibile per risolvere i problemi, anche se poi i risultati o sono scarsi o, se positivi, risultano troppo lenti nel realizzarsi. Inoltre la scelta di agire sul cambiamento dei nostri comportamenti – sapendo che sono lunghi nel concretizzarsi – può destare anche il sospetto che le loro decisioni siano fortemente influenzate dalle lobby che vogliono guadagnare soldi sulle nostre disgrazie.

Attualmente la visione dominante relativa alla promozione della salute tra gli operatori del settore igienico-sanitario e tra i decisori politici è solo quella che coinvolge il cambiamento dello “stile di vita” che ogni singolo individuo è sollecitato a compiere. La letteratura scientifica sull’argomento, però, dimostra la scarsa efficacia di tale approccio educativo-individualistico ponendo l’attenzione, invece, su un approccio strutturale e globale esercitato da parte della politica – cioè da parte dello Stato – che si pone un obiettivo a lungo termine ed agisce da più fronti per perseguirlo. Anche, se necessario, imponendolo.

Lavorare sugli individui e sui loro comportamenti essenzialmente vuol dire non voler risolvere i problemi ma mantenerli sempre vivi – pur facendo finta di risolverli – per assecondare il desiderio di medicalizzazione spinta della società che viene sostenuta da chi ne trae vantaggi. Solo lo Stato, invece, è in grado di incidere su cambiamenti rapidi e duraturi, attraverso scelte fiscali, scelte tecniche e scelte organizzative anche forti ed estreme.

Spostando ora l’attenzione sulle questioni ambientali si può osservare esattamente la stessa dinamica. I decisori politici fanno (apparentemente?) di tutto per “educarci” ad essere più ecologici e più sensibili alle tematiche ambientali anche se poi continuano ad accettare incenerimento dei rifiuti, traffico veicolare urbano, ampio uso di chimica in agricoltura e chi più ne ha più ne metta. Questo atteggiamento però – maliziosamente o inconsapevolmente – tende a rallentare molto un processo che, invece, dovrebbe concretizzarsi in breve tempo perché la situazione è grave e dovrebbe essere risolta presto. Meglio sarebbe, invece, l’individuazione delle priorità d’azione inderogabili e la messa in campo di interventi forti da parte dello Stato nel perseguimento degli obiettivi.

Per capire meglio il concetto si prenda tra i tanti, ad esempio, due temi importanti dal punto di vista ambientale: la produzione di energia utilizzando fonti rinnovabili e la corretta gestione dei rifiuti, ponendo l’attenzione soprattutto sul riuso e sul riciclo dei materiali.

In merito alla produzione di energia è evidente comprendere come sia cosa molto lenta – e forse non del tutto efficace – coinvolgere individualmente i cittadini (un po’ tutti, anche quelli che hanno scarso interesse o scarsa cultura in materia) che prima devono analizzare nel dettaglio il problema, capirne l’importanza e, poi, agire concretamente o per richiedere sul mercato energia prodotta da fonti rinnovabili o per prodursela da soli. Se invece lo Stato imponesse delle tasse a chi produce energia inquinando e fornisse, come in parte ha fatto ma si è fermato sul più bello, forti incentivi (ripagati dalle tasse di cui prima) a chi produca o utilizzi energia da fonti rinnovabili, si capirebbe anche intuitivamente quali sarebbero i risultati.

Venendo ai rifiuti, alla limitazione della loro produzione, alla loro corretta gestione e al loro corretto trattamento, si fa veramente fatica ad educare, in breve tempo e verso una direzione univoca, una massa di individui che hanno diverse personalità e diverse culture. Inoltre, in quest’ambito, il cattivo comportamento di pochi potrebbe determinare danni ambientali anche molto gravi che coinvolgono tutti (ad es. gli incendi o l’abbandono dei rifiuti che si verificano soprattutto in alcune regioni d’Italia). Migliori risultati si otterrebbero invece attraverso un intervento molto forte dello Stato che tassa già alla fonte i materiali poco riciclabili, che crea politiche che incentivano il riuso dei materiali, che penalizza chi produce troppi imballaggi e così via.

Sulla base di queste considerazioni – replicabili in una infinità di ambiti – si comprende facilmente come la modifica dei comportamenti individuali sia inefficace. Solo un forte intervento pubblico, invece, dispiegato in numerosi settori (tassazione, educazione, organizzazione, punizione, ecc.) può perseguire il raggiungimento di obiettivi concreti.

Il dubbio, però, è se qualcuno li voglia veramente perseguire!!!

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Immagine: www.controlacrisi.org

 

L’Indonesia brucia

In Indonesia siamo finalmente arrivati alla fine del cosiddetto “Musim kabut“ come la chiamano loro, la “stagione fumosa”. Ma per mesi – circa da giugno ad ottobre – oramai da un po’ di anni, l’Indonesia ha bruciato intensamente e il fumo acre e venefico misto a cenere degli incendi con la sua coltre giallastra ha avvolto foreste, campagne, villaggi e grandi città raggiungendo, in estensione, buona parte del sud-est asiatico.

Dico a voi industriali del settore alimentare, lobbysti e scienziati da quattro soldi, sostenitori dell’olio di palma e mentitori di professione riguardo la sostenibilità della coltivazione della relativa pianta (1). Cosa se ne fanno gli indonesiani degli incendi delle foreste? Per caso, all’equatore, si scaldano per il freddo?

L'Indonesia brucia_03

L'Indonesia brucia

L'Indonesia Brucia_Singapore

f0511071 – 5th November 2007. KUALA CENAKU AREA, RIAU PROVINCE, SUMATRA, INDONESIA. An aerial picture shows the destroyed ancient peatland forest area made way for palm oil plantation in Riau province, Sumatra, Indonesia. Deforestation rates in Indonesia are amongst the highest in the world and according to recent estimates Indonesia is the third largest greenhouse gas emitter after China and the United States, mainly due to the destruction of peatland forests. Indonesia will host a major 11-day United Nations conference on global warming which begins 03 December 2007 on Bali island, with a tasked to create a plan for negotiations on a global climate change accord to come into force after the first stage of the UN's Kyoto Protocol ends in 2012. ©Greenpeace/Ardiles Rante GREENPEACE HANDOUT - NO ARCHIVE - NO RESALE - OK FOR ONLINE REPRO

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(1) Come osservato e documentato da parte di numerose fonti, da qualche anno a questa parte l’Indonesia è funestata per mesi da numerosi incendi che servono per distruggere velocemente la foresta primordiale e le torbiere umide per far spazio a coltivazioni di palma da olio, in primis, e a coltivazioni di piante da cellulosa. I fumi di questi incendi si espandono in tutto il sud-est asiatico e, oltre a rilasciare in atmosfera enormi quantità di CO2, si stima uccidano ogni anno circa 100 mila persone a causa delle conseguenze di ciò che respirano. Questo terribile fenomeno – oramai ampiamente documentato anche con l’ausilio dei droni – sta minacciando alcuni parchi naturali, habitat di numerose specie animali, tra cui gli oranghi.
Ciò che preoccupa è anche il fatto che gli incendi delle torbiere umide, la cui biomassa si accumula sotto il pelo del’acqua ed è sottoposta ad un lungo processo di maturazione che la trasforma in torba, sono degli immensi serbatoi di carbonio che, prima attraverso la loro bonifica ed essicazione e, poi, con gli incendi, rilasciano in atmosfera enormi quantità di CO2, uno dei principali gas che sta determinando il preoccupante cambiamento climatico in atto sulla Terra.
Se anche l’olio di palma non fosse così pericoloso per l’alimentazione umana (o, per lo meno, potrebbe essere paragonabile al burro) lo è invece in maniera estrema per gli equilibri biochimici della Terra.
Meditate quando mordete un bel pasticcino invitante…

 

Personaggi | Anders Nordin

Anders Nordin è un uomo dai modi che possono sembrare rudi. Di poche parole. Uno di quegli uomini del nord abituati agli estremi meteorologici: freddo intenso e buio per quasi tutta la giornata nei lunghissimi inverni ed estati brevissime sempre chiare [scrivo questo articolo intorno a mezzanotte: il sole non c’è più ma il chiarore è così intenso che si può stare all’aperto o scrivere seduti sul divano senza aver bisogno della luce artificiale].

Anders – che è alto quasi 2 metri e che, pur avendo poco meno di settant’anni, porta ancora i capelli lunghi sulle spalle – abita con la moglie nei dintorni di Piteå, nel nord della Svezia, e sta dismettendo la sua fattoria incentrata sull’agricoltura ecologica (come la definisce lui), una forma più estrema di agricoltura biologica, fuori dagli schemi e dalle certificazioni. Le sue mucche da carne infatti non vivono in una stalla e non brucano l’erba nei pascoli recintati ma abitano, in uno stato semi-brado, nella foresta 365 giorni l’anno. Inverno compreso. In tal modo le mucche si nutrono da sole, si accoppiano, partoriscono ed esprimono liberamente le loro relazioni all’interno del branco, con minime forzature ed interventi umani. Nei periodi più difficili, soprattutto invernali, Anders porta loro solo l’erba che ha tagliato e fatto essiccare durante la breve estate. Pur essendo molto selvatiche, con le mucche Anders ha un rapporto empatico molto forte: quando le chiama nel bosco loro lo riconoscono e gli rispondono muggendo.

Durante il mio soggiorno presso la sua fattoria nelle prime due settimane di luglio l’ho aiutato a recuperare, non senza difficoltà, gli animali nella foresta, a portarli nel recinto presso la fattoria e a caricarli sui camion per poi essere trasferiti da un altro allevatore. Anders, con sua immensa tristezza, è arrivato al capolinea della sua attività lavorativa e va finalmente in pensione.

Con lui, la sera, davanti ad un barbecue o nel salotto di casa, ho fatto lunghe chiacchierate di politica e di ecologia. Di ingiustizie sociali e di ignoranza. Di problemi demografici e di immigrazione. Con lui ho cercato di capire i limiti dell’agricoltura biologica e le possibili soluzioni per un’evoluzione della stessa verso orizzonti ancora più ambiziosi. Con lui ho parlato dei limiti della politica (anche quella svedese, figuriamoci quella italiana) di capire le problematiche ecologiche. Con lui ho parlato anche di energie rinnovabili (1), di rifiuti e di soluzioni locali. Anders (2), anche con i suoi silenzi e con i suoi modi burberi, ha contribuito ad aprire la mia conoscenza verso nuovi orizzonti e, per questo, lo ringrazio di avermi dedicato del tempo e di aver soddisfatto la mia curiosità.

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(1) Andars ha installato sul tetto della sua stalla il più grande impianto fotovoltaico privato del nord della Svezia (Norrland).
(2) Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 del secolo scorso Anders Nordin è stato anche un’importante figura politica in Svezia: tra i fondatori del partito dei Verdi svedese (Miljöpartiet de Gröna), lo ha anche guidato per qualche anno ricoprendo per qualche mese l’incarico di parlamentare.
Nota: Con questo articolo desidero parlare di persone “comuni” (o quasi), [tag “personaggi”] normalmente poco conosciute nel circuito della comunicazione di massa, che – a mio personalissimo avviso, tenendo conto del loro curriculum e del loro percorso professionale reperibile in rete – stanno fornendo il loro enorme e silenzioso contributo alla distruzione e al degrado del Pianeta nonché alla speculazione industriale e finanziaria a discapito delle risorse naturali e della sicurezza collettiva oppure stanno facendo azioni importanti di salvaguardia dello stesso sia dal punto di vista culturale che di azioni concrete messe in campo. Si tratta di persone che, nel bene o nel male, con il loro pensiero e con il loro comportamento possono contribuire ad innescare un dibattito sulle tematiche della sostenibilità ambientale.

 

Portulaca oleracea

Mio padre, con involontario disprezzo, in dialetto veronese chiamava la Portulaca oleraceaporsilana”. In effetti il nome italiano di questa pianta succulenta è portulaca ma nelle varie regioni italiane è conosciuta anche con nomi dialettali diversi: porcellana o erba grassa in Lombardia; purcacchia nel Lazio; porcacchia nelle Marche; precacchia in Abruzzo tanto per citarne alcuni esempi.

La portulaca è una pianta medicinale conosciuta fin dall’antico Egitto che ha proprietà diuretiche, depurative, dissetanti e anti-diabetiche. Nella medicina popolare orientale – da cui probabilmente è originaria – viene utilizzata anche per il trattamento della diarrea, del vomito, in caso di enterite acuta, di emorroidi e di emorragie post-partum. Inoltre le foglie di portulaca vengono utilizzate come impacco in caso di punture di insetti, acne ed eczema.

Negli ultimi tempi si è scoperto che la portulaca è ricca di acidi grassi polinsaturi di tipo omega-3, considerati molto importanti nella prevenzione delle malattie cardiovascolari. In particolare 100 g di foglie di portulaca contengono circa 350 mg di acido α-linoleico (acido grasso facente parte del gruppo degli omega-3). Tale acido, come altri del gruppo omega-3, aiutano a ridurre il colesterolo LDL (quello”cattivo”) e i trigliceridi favorendo una migliore circolazione del sangue. In sostanza la portulaca è una panacea!

La portulaca può essere impiegata principalmente in cucina dove viene utilizzata sia a crudo per la preparazione di insalate, sia cotta come ingrediente di minestre, condimenti, ripieni per ravioli e pasta fresca, frittate. A casa mia la utilizzo da anni a crudo nelle insalate e desidererei scoprirne presto anche la bontà da cotta.

La portulaca è il tipico esempio di come, spesso, la sostenibilità ambientale non debba per forza passare attraverso complesse formule matematiche, alchimie chimiche o tecnologie elettroniche spinte. Basta solo (ri)scoprire le virtù nutrizionali – patrimonio spesso dimenticato delle conoscenze dei nostri antenati – di una pianta estiva infestante che mio padre e i miei nonni non amavano e diserbavano a fatica (o, peggio, utilizzando pericolosi intrugli chimici). Et voilà, il gioco è fatto. Meno pesticidi, più rispetto per la natura – non quella esotica della savana che immaginiamo ma quella che abbiamo sotto casa nelle aiuole e nei vasi dei fiori – più stagionalità nel consumo di frutta e verdura, più consapevolezza delle capacità auto guaritrici (per la precisione: prevenzionistiche) che ciascuno di noi può mettere in pratica con comportamenti alimentari quotidiani.

La portulaca è la dimostrazione che per essere “ambientalisti” non bisogna per forza solo incatenarsi agli alberi secolari o associarsi a movimenti di lotta e di protesta. Lo si può fare anche e soprattutto con comportamenti quotidiani semplici, quasi banali, che non richiedono troppi sforzi. Basta solo avere la voglia di mettersi in discussione e di essere aperti – con conoscenza – ai cambiamenti.

Guardate bene le foto e non abbiate timore di cercarla nei vostri giardini e nei vostri vasi dei fiori (1). Raccoglietene all’inizio qualche foglia gustatela. Quando vi sarete convinti che si tratta di una pianta edibile qualsiasi non abbiate timore ad utilizzarla per insaporire i vostri piatti. Si tratta di un piccolo sforzo che dà grandi benefici. Soprattutto gratis!

Portulaca oleracea_01

Credit: Photo by L.R.

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(1) Avvertenza: le piante spontanee vanno raccolte con consapevolezza e conoscenza, magari consultando qualche libro e confrontandosi con chi le raccoglie e le conosce bene.
Foto: L.R.

 

Food Inc.

Se desiderate vedere quali potranno essere, di fatto, le conseguenze dell’Accordo TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership o Partenariato Transatlantico per il commercio e gli investimenti-trad.) mettetevi comodi sulla sedia o sul divano per circa 90 minuti e godetevi il documentario “Food Inc.” allegato.

Al di là dei fiumi di parole che si potranno spendere sull’argomento, sia pro che contro, non c’è alcun dubbio che l’accordo in oggetto è una manovra messa in campo da parte delle (poche e sempre meno numerose) multinazionali del cibo per conquistare nuovi mercati attraverso l’industrializzazione spinta dello stesso. Chi vi dirà che il TTIP favorirà le produzioni locali e biologiche si sta prendendo solo gioco di voi.
Buona visione…

Per info: Campagna Stop TTIP (it); STOP TTIP (en)

TTIP-no-fucking

TAFTA

TTIP_Podemos

 

Quello che mangi diventa te stesso

Se è vera la massima “Tu sei quello che mangi” è valido anche il suo contrario: “Quello che mangi diventa te stesso”. Per comprendere questo concetto è sufficiente osservare che se quel bel pomodoro rosso che hai nel piatto davanti a te è pieno di residui di pesticidi, di diserbanti, di fungicidi e di ormoni della crescita, quando, attraverso la digestione, entra nel tuo sistema metabolico, tu diventi un po’ lui e lui diventa un po’ te stesso. Tu diventi un po’ lui perché il tuo stato di salute generale, nel tempo, tenderà a deteriorarsi più velocemente e/o a sviluppare più facilmente particolari patologie anche a causa del mix di residui di prodotti chimici pericolosi in esso presenti e lui diventerà un po’ te perché le sue componenti – e gli eventuali residui di veleni in esso presenti – entreranno in te stesso ed andranno a formare e costituire le tue cellule e i tuoi organi.

Nutrirsi non vuol dire semplicemente mangiare del cibo e, come se fosse composto di mattoni (le vitamine, i carboidrati, i grassi, le proteine, ecc.) posizionare, per scomposizione, questi ultimi tal quali nelle diverse parti del corpo. Nutrirsi vuol dire trasformare chimicamente i cibi per farli entrare a comporre il sangue, i liquidi corporei, le cellule e i tessuti. Insomma la trasformazione chimica è un processo un po’ più profondo della semplice scomposizione ed è soggetta ad un numero infinito di variabili, scarsamente prevedibili e anche un po’ diverse da animale a animale e da soggetto a soggetto.

Detto questo, nonostante la consapevolezza sempre maggiore sul buono e sul cattivo cibo che viene diffusa dai vari sistemi di comunicazione, assisto comunque spesso a discussioni che mettono in primo piano il prezzo sulla qualità. Avendo a disposizione il medesimo ammontare di denaro si preferisce, quale criterio di scelta, la quantità al valore. Si ragiona, ad esempio, del basso costo delle ciliegie al chilo e molto poco della loro qualità. O, per lo meno, la qualità viene molto dopo il prezzo. Per questo motivo, a me che chiedo se ne valga la pena e se non sia meglio optare, ad esempio, per prodotti biologici piuttosto che sul solo costo, mi viene risposto che “tanto tutto è inquinato” oppure che”sì, sarebbe meglio, ma che costa troppo caro”.

Vorrei osservare che dagli anni ’70 ad adesso le spese medie delle famiglie per il cibo sono più che dimezzate in percentuale sul reddito, passando da circa il 38% a circa il 17/18% di ora. Ciò significa che, anziché concentrare la propria attenzione sulla qualità dei cibi ed eventualmente destinare quanto rimane alle spese futili, si preferisce risparmiare sul cibo e non farsi mancare il nuovo telefono cellulare, la sostituzione frequente dell’auto, le sigarette, le colazioni al bar e spese varie di cose abbastanza inutili.

È come se, in un contesto storico dove aumenta la vita media e quindi dove è anche necessaria maggiore prevenzione attraverso il cibo per garantire una buona salute nel tempo, si fossero perse un po’ di vista le priorità e ci si fosse inebriati di cose futili e non del tutto necessarie.

A mio avviso è necessario iniziare a pensare che la qualità del cibo è un valore che, perché no, può comportare anche un prezzo superiore che siamo disposti a spendere. Ne otterrebbe sicuramente un enorme vantaggio indiretto anche l’ambiente.

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Foto: “Frutteria sottocosto“, negozio di frutta e verdura che ho fotografato in una città italiana.

 

Perché non andrò all’EXPO

Qualche giorno fa mentre salutavo alcuni amici sulla soglia di casa e si facevano gli ultimi discorsi parlando del più e del meno mi veniva da loro proposto di passare assieme una domenica all’EXPO. In fin dei conti la città di Milano non è poi così lontana da dove abito e il logo della manifestazione si trova un po’ ovunque, dalla bolletta della Telecom al biglietto del treno; dall’imballaggio degli alimenti alle pagine dei giornali che è difficile non esserne in qualche modo attratti.

Ho ripensato qualche giorno più tardi a quella proposta e mi sono chiesto se, al di là della mia refrattarietà alla manifestazione già ampiamente documentata su questo blog, esistano comunque dei validi motivi per andare a fare una capatina all’EXPO per curiosare tra i padiglioni e ammirare il cibo del mondo. In fin dei conti, dopo tante critiche, ora che la fiera è operativa e si può toccare con mano, non sarebbe male poterlo fare di persona. E, perché no, magari cambiare anche idea.

Alla luce dell’invito ho iniziato ad approfondire ulteriormente l’argomento e, da quello che ne è emerso, sono sempre più convinto che ad EXPO non ci voglio proprio andare e che questa mia convinzione non sia frutto di una presa di posizione aprioristica basata su dei preconcetti ma che si fondi su una mia profonda coerenza comportamentale e su delle motivazioni molto concrete che provo ad elencare e a motivare.

1) Secondo quanto afferma Vandana Shiva nel suo blog sull’Huffington Post, EXPO più che essere una manifestazione che cerca di approfondire sul cibo, sulla produzione dello stesso, sulla salute alimentare e sulla sostenibilità sociale ed ambientale che ad esso sono collegate (1), è piuttosto una manifestazione che funge da vetrina per le multinazionali dell’alimentazione e della chimica che, invece di “nutrire il pianeta”, pensano piuttosto a nutrire se stesse e i loro affari. Ne è una dimostrazione il fatto che tra i principali sponsor vi siano McDonald’s e Coca Cola (ma anche Monsanto, Syngenta, Nestlé, Eni, Dupont, Pioneer) e che ad EXPO – per esempio – non siano previste particolari iniziative sull’agricoltura familiare che coinvolge centinaia di milioni di persone nel mondo oppure sull’agricoltura alternativa e di nicchia, alternativa addirittura al biologico che anch’esso oramai è un affare.

Expo-2015-multinazionali

Ovviamente il tutto, agli occhi dei cittadini, deve in qualche modo essere mascherato: ad esempio ci si concentra sul non spreco del cibo – cosa sacrosanta e giusta – senza pensare troppo a quale sia la qualità o la salubrità del cibo che si spreca. Ad esempio si parla di cibo regionale ma non ci si chiede troppo quanta chimica, quanta acqua, quante manipolazioni genetiche (OGM) o quanta energia sia necessaria per produrlo. Ad esempio si mette nel calderone tutto il cibo senza pensare troppo a quale possa essere il suo impatto sulla salute, sull’ambiente e sulla biodiversità.

Lo scopo è vendere. E la fiera EXPO deve far incrementare i fatturati delle industrie (2). Se poi ci sono degli effetti collaterali… si affronteranno in altre sedi.

2) EXPO è stata una enorme operazione di inutile cementificazione del territorio. Come affermano illustri esperti in materia sia di architettura che di cibo, si sarebbe potuto realizzare la manifestazione – in modo diverso rispetto alle precedenti, e qui stava la grande novità tecnologica e il grande progresso – senza utilizzare neanche un chilo di cemento. Inoltre si sarebbe potuto cercare di alimentare completamente la fiera con energia da fonti rinnovabili. E, invece, si sono riempiti milioni di metri quadrati di erba con milioni di metri cubi di edifici. Se poi ci sono le auto della polizia elettriche oppure quelle della manifestazione ecologiche alimentate a metano, oppure se c’è la raccolta differenziata dei rifiuti queste non sono atro che operazioni di greenwashing atte a creare confusione e a dare l’impressione di sostenibilità ambientale ad una cosa che con la vera sostenibilità ambientale, quella profonda, non quella di facciata, non ha nulla a che fare.

3) Gli edifici e le strutture che ora ospitano EXPO e che sono state realizzate anche con i soldi delle mie tasse non hanno, ad ora, una collocazione futura. In buona sostanza non si sa che cosa sarà di esse dopo il 31 ottobre prossimo. Città delle musica e del cinema? Mah! Università? Mah! Area manifatturiera o espositiva? Mah! I presupposti sono per ora quelli che tutto andrà presumibilmente in malora come molte delle strutture costruite per altri EXPO in giro per il mondo oppure per le olimpiadi varie che ogni 4 anni fingono di promuovere lo sport.

Al di là del fatto che si sarebbe dovuto utilizzare solo materiali rinnovabili per la realizzazione delle varie strutture, è da dire che si sarebbe anche dovuto progettare il tutto già nell’ottica della dismissione o della destinazione urbanistica finale. Si sarebbe dovuto fare come Londra che, dopo l’ubriacatura economica delle olimpiadi di qualche anno fa, sta ricavando denaro e sta producendo posti di lavoro anche dalla dismissione e dalla collocazione alternativa delle strutture sportive.

In conclusione anche se so che le critiche le dovrei fare dopo aver visto di persona, ritengo che questi tre motivi siano già più che sufficienti per esprimere il mio dissenso verso EXPO, non tanto e non solo per manifestazione in sé, quanto, e soprattutto, per le importanti occasioni perse.

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(1) Carlo Petrini, fondatore di Slow Food, dopo una prima polemica con gli organizzatori di EXPO per non aver invitato i pescatori, gli allevatori e gli agricoltori, ora propone di invitare a Milano, dal 3 al 6 ottobre 2015,  5.000 giovani contadini, allevatori e artigiani da 170 paesi per parlare finalmente di cibo e di produzione dello stesso.
(2) Come scrive La Repubblica la Regione Lombardia, attraverso le parole dell’assessore regionale Valentina Aprea che scrive una letera ai dirigenti scolastici, invita gli alunni delle scuole ad andare all’EXPO e di godere degli eccezionali sconti di prezzo da McDonald’s.

 

Tossico come un pesticida

È stato da poco pubblicato il rapporto “Tossico come un pesticida” di Greenpeace, uno studio molto approfondito (1) che analizza gli effetti sulla salute umana delle sostanze chimiche utilizzate in agricoltura.

Riporto integralmente la prefazione allo studio che, da sola, è in grado di spiegare bene il fenomeno e di far capire quali siano i numerosi e gravi rischi di salute pubblica che stiamo correndo. Si tratta solo di esserne consapevoli per accettarli nella logica del sistema economico-finanziario che ce li impone (anche se ci dovessero colpire direttamente o dovessero colpire un componente della nostra famiglia) oppure per contrastarli adoperandosi perché ciò che mangiamo non sia solo poco costoso ma anche – e soprattutto – il meno nocivo possibile per gli addetti del settore, per i consumatori e per i cittadini in generale attraverso le varie contaminazioni ambientali.

Dal 1950 la popolazione mondiale è più che raddoppiata, mentre l’area destinata alle coltivazioni è cresciuta solo del 10 per cento. C’è un’enorme pressione a produrre sempre più cibo, a basso costo, su terreni che diventano inesorabilmente più poveri, sempre più privati delle sostanze nutritive. L’attuale sistema agricolo – intensivo e su scala industriale – si regge sull’impiego abbondante di input esterni come fertilizzanti e pesticidi, sostanze conosciute anche come fitofarmaci, agrofarmaci, antiparassitari.

I pesticidi sintetici sono stati usati in maniera massiccia in agricoltura industriale a partire dagli anni Cinquanta. Col passare del tempo, a causa del loro uso diffuso e, in alcuni casi, della loro persistenza, molti pesticidi hanno finito per accumularsi nell’ambiente. Alcuni, come il DDT e i suoi derivati, si degradano in tempi molto lunghi e pur essendo vietati da decenni continuano a circolare e a essere rilevati nell’ambiente.

La persistenza di queste sostanze e i potenziali rischi ambientali hanno favorito una crescita esponenziale delle ricerche sui loro effetti (Köhler e Triebskorn, 2013) che, come è ormai chiaro, sono vari e diffusi. Nello stesso periodo è aumentata anche la conoscenza scientifica sugli effetti dei pesticidi per la salute umana. Gli studi rivelano associazioni statistiche tra esposizione e aumento del rischio di sviluppare disabilità, disturbi neurologici e al sistema immunitario, alcuni tipi di cancro.

Dimostrare che l’esposizione a un determinato pesticida è la causa di una malattia presenta varie difficoltà. Anzitutto perché non esistono fasce di popolazione totalmente non esposte ai pesticidi, e in secondo luogo perché la maggior parte delle malattie non è causata da un singolo fattore, ma da una molteplicità di fattori che rendono molto complessa l’analisi (Meyer-Baron et al. 2015). Inoltre, la maggioranza delle persone è esposta quotidianamente a veri e propri mix di composti chimici (non solo pesticidi) tramite diverse vie di esposizione. E i pesticidi contribuiscono ad aumentare questo carico di tossicità (2).

In generale siamo tutti esposti a un cocktail di pesticidi attraverso il cibo che consumiamo ogni giorno. Nelle aree agricole, dove queste sostanze chimiche circolano nell’aria quando sono irrorate sui coltivi (il cosiddetto “effetto deriva”), i pesticidi inquinano il terreno e le acque, e in alcuni casi vengono assorbiti anche dalle piante a cui non sono destinate (organismi non-target). In città le persone più esposte sono quelle che vivono nei dintorni delle aree verdi, ma l’uso domestico dei pesticidi può contaminare anche abitazioni e giardini.

Le fasce di popolazione maggiormente esposte e più vulnerabili includono:

  • agricoltori e operatori addetti ai trattamenti con i pesticidi, compresi quelli che lavorano nelle serre, esposti ad alti livelli di sostanze chimiche durante lo svolgimento delle loro mansioni. Questa vulnerabilità è stata ampiamente dimostrata dai livelli trovati nel sangue e nei capelli di queste persone;
  • bambini e feti in fase di sviluppo: le donne in gravidanza esposte ai pesticidi possono trasmettere alcune di queste sostanze direttamente al feto, particolarmente vulnerabile alla tossicità delle sostanze chimiche.

In generale i bambini sono più a rischio degli adulti poiché il loro tasso di esposizione è maggiore, per esempio a causa dell’abitudine di toccare le superfici e di portarsi le mani alla bocca. Anche dimensioni e peso corporeo ridotti contano, senza considerare che l’organismo dei bambini ha una capacità inferiore di metabolizzare le sostanze tossiche. Gli effetti sulla salute registrati nei bambini esposti ad alti livelli di pesticidi durante la gestazione includono ritardi dello sviluppo cognitivo, problemi comportamentali e difetti alla nascita. Esiste inoltre una forte correlazione tra l’esposizione ai pesticidi e l’incidenza dei casi di leucemia infantile.

Alcuni studi mettono anche in relazione una forte esposizione ai pesticidi con un aumento dell’incidenza di vari tipi di tumori (prostata, polmoni e altri) e di malattie neurodegenerative come il Parkinson e l’Alzheimer. Altre evidenze suggeriscono inoltre che alcuni pesticidi interferiscono con le normali funzioni del sistema endocrino e del sistema immunitario.

Mentre i processi che portano a queste disfunzioni rimangono in parte oscuri, è invece chiaro che in alcuni casi vengono compromesse le funzioni enzimatiche e altri importanti meccanismi di comunicazione cellulare. Le ricerche indicano inoltre che alcune di queste sostanze chimiche interferiscono con l’espressione genica, e che queste interferenze possono trasmettersi anche alle generazioni che non sono state direttamente esposte ai pesticidi (la cosiddetta “eredità epigenetica”). Ciò significa che gli effetti dannosi derivanti dall’uso dei pesticidi possono perdurare per moltissimo tempo anche dopo che queste sostanze sono state messe fuori legge.

Questo rapporto prende in esame una serie di studi e ricerche – in continuo aumento – che mettono in luce gli effetti conosciuti o sospetti dei pesticidi sulla salute umana. Pur non negando l’esistenza di incertezze e punti oscuri, né la presenza di ricerche contrastanti, le prove scientifiche raccolte nel rapporto “Pesticides and our health – a growing concern” mostrano che l’attuale modello di agricoltura industriale basato sull’uso massiccio di pesticidi sintetici minaccia la salute degli agricoltori, delle loro famiglie e di una più vasta fascia di popolazione.

Tra i principi attivi potenzialmente dannosi in circolazione troviamo per esempio il clorpirifos, un organofosfato spesso rilevato negli alimenti e nel latte materno che diversi studi mettono in relazione con tumori, disfunzioni nello sviluppo dei bambini, disfunzioni neurologiche, Parkinson e fenomeni di ipersensibilità.

L’unico modo sicuro per ridurre la nostra esposizione ai pesticidi tossici è abbandonare l’attuale modello di produzione industriale del cibo, fortemente dipendente dalla chimica, e investire in un’agricoltura sostenibile. Serve un approccio moderno e basato sull’efficienza in grado di produrre cibo sano e sicuro per tutti che non dipenda da prodotti chimici tossici. È questo l’unico modo per nutrire una popolazione mondiale in crescita e allo stesso tempo tutelare la salute umana e gli ecosistemi che ci sostengono. Sono quindi necessari accordi giuridicamente vincolanti a livello nazionale e internazionale per iniziare immediatamente a eliminare tutti i pesticidi dannosi per gli organismi non target“.

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(1) Rapporto integrale in inglese e bibliografia completa qui
(2) La IARC (International Agency for Research on Cancer) lo scorso 20 marzo ha pubblicato un aggiornamento relativo alla classificazione di 5 pesticidi. Si tratta di un erbicida (glifosate) e di due insetticidi (malathion e diazinon) che sono stati dichiarati probabili cancerogeni per l’uomo (Gruppo 2A). Altri due insetticidi (parathion e tetrachlorvinphos) sono stati invece riconosciuti come possibili cancerogeni umani (Gruppo 2B).

 

“The Organic Effect”

La catena alimentare svedese Coop Sverige, in collaborazione con lo Swedish Environmental Research Institute (IVL), ha realizzato uno studio scientifico (“The Organic Effect“) per verificare quali sono gli effetti sulla salute delle persone quando decidono di passare, da un’alimentazione con cibi coltivati tradizionalmente, ad un’alimentazione con cibi coltivati con il metodo biologico.

Lo studio ha preso come campione la famiglia Palmberg composta da 5 persone (papà Mats, 40 anni; mamma Anette, 39 anni; figlie Vendela ed Evelina, figlio Charlie) i cui componenti non fanno uso frequente di cibo biologico anche se sarebbero interessati a farlo. Non se lo possono permettere perché costa un po’ di più di quello convenzionale e le loro finanze non sono sufficienti.

Nella ricerca, la cui durata complessiva è stata di 21 giorni, si è chiesto a tutti i componenti della famiglia di mangiare per la prima settimana cibi tradizionali e poi di modificare le proprie abitudini alimentari e di mangiare solo cibi biologici per due settimane, oltre ad usare anche saponi e prodotti per l’igiene personale organici. Si sono poi confrontate le analisi delle urine fatte, quotidianamente,  prima e dopo l’esperimento e si è cercato di capire se nutrirsi totalmente di cibi biologici, anche se per un breve periodo, potesse influire sulla presenza e sulle concentrazioni di sostanze chimiche inquinanti come insetticidi, fungicidi e sostanze utilizzate per regolare la crescita delle piante e dei loro frutti.

Quello che è emerso dalla ricerca è un risultato abbastanza sorprendente: già dopo due settimane, i livelli di tali sostanze nelle urine diminuiscono notevolmente, fino quasi a scomparire per talune. In più la riduzione è già evidente dopo il primo giorno.

Come osservano i responsabili della Coop svedese, i risultati dello studio hanno chiaramente e inequivocabilmente dimostrato che il cibo biologico fa bene alla salute perché riduce la concentrazione nel corpo di sostanze chimiche pericolose e fa bene all’ambiente perché tali sostanze non vengono distribuite in atmosfera, sul terreno e nelle acque superficiali. “Speriamo che i consumatori capiscano l’importanza del cibo biologico e che questo studio possa aprire un dibattito serio sui benefici dello stesso. Si sa molto poco sugli effetti a lungo termine dovuti al mangiare alimenti trattati con pesticidi, sprattutto se si considera che le sostanze chimiche possono essere molto più dannose quando combinate insieme rispetto a quanto lo sono se ingerite singolarmente“.

Dai risultati della ricerca emerge che dobbiamo rifinanziare e ristrutturare il nostro sistema alimentare. Invece di usare le tasse dei contribuenti per finanziare un sistema di produzione che si basa sull’ingegneria genetica per sopportare dosi massicce di erbicidi, insetticidi e pesticidi, è necessario invece che lo ridisegnamo in modo tale che il cibo biologico sia economicamente sostenibile per tutti coloro che lo desiderino consumare. E, magari, anche per tutti.

Se vuoi sapere cosa succede al tuo corpo quando cambi alimentazione e passi da quella convenzionale a quella biologica guarda anche questo breve video pubblicato dalla Coop Sverige.

 

Quando il cibo può salvare il Pianeta

È stata inaugurata qualche giorno fa l’esposizione universale “EXPO – Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita” dedicata all’alimentazione e al cibo. Al netto di tutti gli scandali e i problemi che hanno interessato la manifestazione negli anni e nei mesi precedenti dove si doveva decidere cosa fare e dove si doveva costruirne le infrastrutture, l’EXPO, ora che si fa, potrebbe essere un utile strumento di discussione sul cibo e anche sul ruolo che ha nel determinare seri problemi ambientali o essere sostenibile.

Parliamo di cibo, allora. Il cibo è fondamentale per l’uomo non solo perché è il “carburante” della vita in quanto fornisce energia e riserve per le attività quotidiane, ma anche perché, in base alle sue caratteristiche, può dare salute, benessere e può contribuire o meno alla sostenibilità ambientale. Produrre e consumare cibi troppo grassi può, nel lungo periodo, nuocere alla salute ma anche contribuire alla deforestazione del pianeta. Produrre e consumare troppo pesce o troppa carne può non essere del tutto salutare e può contemporaneamente contribuire a far depauperare gli stock ittici selvatici o a deforestare per creare pascoli o colture per l’alimentazione animale. Produrre e consumare cibi fuori stagione e molto distanti dal luogo di produzione può creare seri problemi ambientali e può anche contribuire a fornire scarsi nutritivi e poche vitamine a chi se ne nutre. Distribuire non equamente il cibo significa poi ipernutrire una parte della popolazione mondiale (che va incontro poi a gravi problemi di obesità nonché a patologie croniche e gravi) e lasciare a secco un’altra parte della popolazione mondiale (che va incontro ad altrettanto gravi problemi di salute pubblica a causa della scarsa e cattiva nutrizione).

Per ovviare a tali problematiche e a tali ingiustizie il WWF ha pubblicato 10 consigli facili da applicare per educarci ad un’alimentazione sostenibile e salutare.

1) Acquista prodotti locali
2) Mangia prodotti di stagione
3) Diminuisci i consumi di carne
4) Scegli i pesci giusti
5) Riduci gli sprechi di cibo
6) Privilegia i prodotti biologici
7) Cerca di non acquistare prodotti con troppi imballaggi
8) Cerca di evitare cibi eccessivamente elaborati
9) Bevi l’acqua del rubinetto
10) Evita sprechi anche ai fornelli

A ciò io aggiungerei:
11) Rispetta e non nutrirti dei cuccioli
12) Ogni tanto digiuna
13) Il cibo è cultura: apprezza anche quello di altri popoli.

Vediamo se EXPO non sarà solo business ma anche il volano per iniziare a cambiare un po’ rotta…

Quel che consum consuma il pianeta

 

Bionade | Bibita analcolica

Oltre agli ingredienti tutti biologici, alla scelta di gusti molto particolari ed al processo di produzione che deriva da una fermentazione naturale, il fascino della bibita analcolica Bionade è dovuto anche alla sua particolarissima storia. Essa è nata quasi per caso dall’invenzione del bavarese Dieter Leipold, maestro birraio di Ostheim in der Rhön che, a causa della crisi che aveva colpito il suo piccolo birrificio, ha sperimentato un nuovo processo di fermentazione dell’acqua e del malto per venire incontro ai nuovi gusti dei giovani tedeschi che da qualche tempo avevano iniziato ad abbandonare la birra.

Per entrare più nel dettaglio della produzione, la Bionade ha le sue basi nella classica fermentazione a base d’acqua e malto che non si finalizza però con la produzione di alcol, ma altresì di un enzima, l’acido gluconico (1), fisiologicamente importante nell’alimentazione umana e ricco di calcio e di magnesio. Dopo la fermentazione il liquido ottenuto viene filtrato, viene diluito con acqua, viene arricchito di anidride carbonica e di essenze naturali di frutti e/o di erbe che conferiscono alla bevanda, totalmente analcolica, dei gusti un po’ particolari ed originali.

bionade-gamma

Bionade non contiene dolcificanti e coloranti, ha un basso tenore di zuccheri e quindi pochissime calorie. Inoltre, pur partendo dal malto d’orzo, attraverso il suo particolare processo produttivo Bionade è senza glutine.

Bionade attualmente è offerta sul mercato ai seguenti gusti: sambuco, litchi, erbe, zenzero e arancia, cola biologica.

Per il prossimo futuro l’azienda intende sviluppare maggiormente un rapporto di solidarietà con l’agricoltura locale utilizzando possibilmente materie prime prodotte nei campi vicino alla fabbrica.

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(1) L’acido gluconico è normalmente presente anche nella frutta, nel vino e nel miele prodotto dalle api.

 

Scegli quale biscotto mangiare e…

Scegli quale biscotto mangiare e salverai una tigre. Scegli quale brioche mangiare e salverai un orango. Scegli quale torta mangiare e salverai un rinoceronte.

Anche se tali affermazioni possono sembrare un po’ assurde, i dati e le statistiche invece parlano chiaro e certificano che da qualche decennio è in atto un imponente attività di distruzione di gran parte delle foreste tropicali asiatiche (soprattutto dell’Indonesia e della Malesia) per convertirle in monocolture di palma da olio. Da questa palma (Elaeis guineensis) viene estratto un olio alimentare dalle molteplici virtù industriali. È economico ed è solido a temperatura ambiente e, per questo, viene impiegato quale componente grassa in numerosi prodotti trasformati che si trovano nei supermercati (1).

Si pensi, tanto per citare qualche dato sull’entità della distruzione delle foreste, che 50 anni fa l’82% del territorio dell’Indonesia era ricoperto di boschi. Nel 1995 tale percentuale era già scesa al 52% e, al ritmo attuale di deforestazione, nel 2020 le foreste indonesiane saranno definitivamente e irreparabilmente distrutte con conseguenze terribili sia sull’economia delle popolazioni locali che sulla biodiversità e sulla sopravvivenza degli animali selvatici. Si pensi ancora che l’olio di palma è il principale responsabile della deforestazione dell’isola di Sumatra, dove vivono (ancora?) elefanti, tigri e rinoceronti. Tutte specie ridotte a poche manciate di individui in pochi anni (2).

Deforestazione isola del BorneoPertanto quando andate al supermercato e fate i vostri acquisti (purtroppo talvolta anche di prodotti biologici) non guardate solo il prezzo ma cercate di pensare anche alla salvaguardia delle foreste tropicali e degli animali che in esse vicono e scegliete quei prodotti che non contengono tra i loro ingredienti l’olio di palma. Per aiutarvi nella scelta consapevole qui un elenco di biscotti che non lo utilizzano.

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(1) L’olio di palma è costituito per il 50% da acidi grassi saturi (in particolare acido palmitico) e dal restante 50% da acidi grassi insaturi (soprattutto acido oleico, monoinsaturo e acido linoleico, polinsaturo). Proprio l’alto tenore dei grassi saturi rende l’olio di palma interessante per l’industria alimentare in quanto assomiglia al burro (che è molto più costoso) e conferisce una certa solidità agli alimenti a temperatura ambiente. Il problema però è che gli acidi grassi saturi risultano essere particolarmente dannosi per la salute e sono ampiamente coinvolti nel determinare un aumentato rischio di patologie cardiovascolari.
(2) Nell’ambito dell’olio di palma esiste una certificazione, la RSPO (Roundtable on Sustainable Palm Oil), che ne attesta la sostenibilità ambientale. Essa però copre una quota infinitesima della produzione e non è affatto in grado di incidere per mitigare i problemi di deforestazione che sono legati a tale grasso.
Immagine: La deforestazione dell’isola del Borneo (anni 1950-2005) – WWF
Foto: I terribili effetti sugli animali e sul territorio della deforestazione nel sud-est asiatico
Fonte: La Stampa; Il Fatto Alimentare

Deforestazione in Borneo

 

Pesticidi nel piatto

Oramai è assodato da ricerche scientifiche e da controlli effettuati da parte degli Enti di gestione delle acque pubbliche (1) che, assieme ai cibi, assieme all’acqua e attraverso altre esposizioni ingurgitiamo e veniamo in contatto anche con un mix di componenti chimici rientranti genericamente sotto il nome di “pesticidi”. In pratica si tratta di sostanze che appartengono a 2 macrogruppi di additivi che vengono sparsi sui terreni o sulle piante: gli antiparassitari (per debellare funghi, batteri, virus o insetti); gli erbicidi (o diserbanti).

La complessità delle molecole utilizzate, la loro enorme variabilità commerciale, la loro interazione reciproca e le cattive tecniche di gestione da parte degli utilizzatori rendono molto difficile identificare quali siano i veri rischi per la salute degli utilizzatori diretti (in particolare gli agricoltori) ma anche di chi ne viene in contatto indirettamente, cioè attraverso i cibi e la popolazione in generale che vive e che frequenta il proprio territorio.

pestipiatto_LegambienteSi hanno numerose evidenze scientifiche che l’esposizione a pesticidi possa comportare, tra le più gravi, principalmente problematiche neurologiche e tumorali. Pertanto è assolutamente necessario che si inizi a fare qualcosa di concreto sia per avvertire i cittadini del rischio sia per trovare delle alternative tecniche e organizzative che evitino la diffusione, spesso non necessaria, di tali agenti chimici nell’ambiente.

Solo così si farà vera prevenzione e si opererà con intelligenza per evitare inutili sofferenze e cure per patologie evitabili o, per lo meno, la cui incidenza sia fortemente limitabile.

Pesticidi nel piattoSul tema sabato 17 gennaio 2015 a Sommacampagna (VR) si terrà la conferenza [vedi locandina] “Pesticidi nel piatto – Pericolosità dei pesticidi per la salute umana e per tutti gli esseri viventi: il cambiamento è possibile!”. Interverranno il prof. Gianni Tamino, biologo; il dott. Roberto Magarotto, oncologo; la dott.ssa Renata Alleva, nutrizionista e il dott. Daniele degli Innocenti, ricercatore universitario. Partecipate numerosi…

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(1) L’ISPRA (Istituto Superiore per la Ricerca e la Protezione dell’Ambiente) nei suoi rapporti annuali descrive, anno dopo anno, situazioni di contaminazione da pesticidi – sia in termini di quantità che di qualità – delle acque superficiali e sotterranee. Basti pensare che nell’ambito dei prodotti fitosanitari dell’agricoltura si usano annualmente (dati ufficiali che non tengono conto delle situazioni illecite) circa 350 sostanze diverse per quantitativi totali superiori a 140.000 ton. L’Istituto rivela inoltre che la contaminazione è molto più diffusa nella Pianura Padano-Veneta a causa delle sue caratteristiche idrogeologiche, dell’intensa vocazione agricola della sua economia e del fatto che le indagini (fornite dalle Regioni e dalle Agenzie regionali di protezione dell’ambiente in base ai loro monitoraggi) risultano più complete e rappresentative nelle regioni del nord.
Foto e immagini: Legambiente

 

Con ingredienti naturali al 100%

Qualche settimana fa, mentre ero in attesa del mio treno nella metropolitana di Milano, sono rimasto colpito dal cartello pubblicitario della ADOC (vedi foto). In esso, su uno sfondo azzurro con silhouette di cani più scure spiccava la scritta “ADOC. Naturalmente diverso” e un rettangolo bianco che enfatizzava la presenza di “Ingredienti naturali al 100%”.

ADOC_Con ingredienti naturali 100

Subito dopo averlo letto ci ho ragionato un po’ e mi sono chiesto una cosa che può sembrare banale: ma se questo cibo per cani ha tutti gli ingredienti che sono naturali al 100%, vuol dire allora che è possibile che altri cibi non li abbiano? Se questo si verifica nell’ambito dell’alimentazione animale, può essere che la questione interessi anche quella umana?

Per cercare di dare una risposta alle domande, in effetti due sono gli aspetti che sarebbe interessante osservare:

  1. che cosa si intende per ingredienti naturali al 100%;
  2. quali possono essere gli effetti sulla salute – degli animali e delle persone – dovuti alla presenza di ingredienti non totalmente naturali.

Innanzitutto è da osservare il fatto che sulla Terra non esiste nulla di innaturale perché tutto si origina dagli elementi chimici presenti nella tavola periodica degli elementi che fanno parte del nostro “Sistema”. Caso mai – e forse è questo il concetto di “innaturale” – l’unione di alcuni elementi e la creazione di alcune molecole richiede metodi così complessi che in natura è praticamente impossibile che si possano realizzare, se non in condizioni estreme. Ecco allora, ad esempio, che la plastica è fatta di elementi chimici ovviamente naturali anche se la natura non è in grado di produrre autonomamente i legami molecolari che la caratterizzano. Inoltre non è detto che i prodotti “naturali al 100%” siano per forza salutari. Anzi, in natura esistono numerosi prodotti tossici e addirittura mortali. Per togliere qualsiasi dubbio al consumatore che, come me, vede la pubblicità e magari è invogliato a scegliere ciò che gli dà più fiducia, bisognerebbe cercare di spiegare un po’ meglio un po’ a tutti quale sia il concetto di “naturale” e bisognerebbe vietarne l’uso generico in pubblicità. Detto ciò si può senza dubbio affermare che “naturale al 100%” non vuol dire assolutamente nulla!

Dopo aver chiarito questo importante aspetto è necessario cercare di capire la sostanza della nostra analisi: quand’è che ci possono essere effetti sulla salute a causa della presenza nei cibi di prodotti non naturali o, meglio, di sintesi? Dare una risposta a questa questione è molto complesso sia perché le nostre conoscenze sono molto limitate ad hanno ancora numerosissimi buchi, sia perché il problema della salute legato ai cibi non è solo quello diretto dovuto alla loro ingestione, ma anche quello indiretto dovuto all’inquinamento che i cibi e i loro metodi produttivi possono determinare. Tutto ciò si riflette, poi, anche sull’ambiente circostante e infine arriva a lambire, partendo da lontano, la salute delle persone. Da questo punto di vista si fa sinceramente fatica ad esprimere un giudizio univoco sulla pericolosità dei prodotti di sintesi.

Quello che però si può dire –  e che io sostengo da tempo attraverso Bioimita – è il fatto che noi ci siamo evoluti in un “Sistema”, il pianeta Terra, che prevede certe regole di funzionamento e ha certe caratteristiche specifiche. All’interno di questo “Sistema” l’evoluzione della vita è stata tortuosa e lunga, molto lunga. Talmente lunga che pensare al fatto che si sia verificata in più di 3,5 miliardi di anni quando la vita media umana è di circa 80, è cosa praticamente impossibile. Fuori scala! Ecco allora che nella produzione dei cibi e nella conseguente alimentazione, nella produzione energetica e in quella di beni e servizi, nella gestione degli scarti (rifiuti) e nelle dinamiche sociali dobbiamo partire da quelli che sono gli elementi di base del nostro “Sistema”, senza introdurre distorsioni (gli elementi di sintesi o squilibri chimico-fisici) che, alla fine, perseguono solamente scopi puramente commerciali o economici di generare profitti (1) ed incidono solo apparentemente sul nostro benessere.

Anche se le nostre conoscenze sui pilastri di funzionamento del “Sistema” non sono ancora molto evolute, dobbiamo comunque renderci conto che possiamo partire solo da lì perché qualsiasi forzatura ci darà l’illusione momentanea di una soluzione semplicistica a problemi complessi ma, poi, in un modo o nell’altro, ci si rivolterà inevitabilmente contro con conseguenze inaspettate nei confronti delle quali saremo impreparati e che potranno avere conseguenze anche molto gravi.

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(1) L’evoluzione, ad esempio, ci fornisce molti strumenti di difesa nei confronti di gran parte degli agenti naturali negativi mentre risulta molto più impreparata nei confronti degli agenti di sintesi. La carne in putrefazione ha un forte odore e noi, per difesa evolutiva, ne abbiamo repulsione poiché ci farebbe molto male alla salute. Il Bisfenolo A, invece, che simula il funzionamento di alcuni ormoni e che interferisce anche in maniera molto grave con la nostra salute, lo possiamo liberamente ingerire attraverso gli alimenti e le bevande senza avere alcun strumento innato di allerta e protezione.

 

Une carafe d’eau

Durante la settimana di vacanza recentemente trascorsa a Parigi con la mia famiglia non poteva mancare la consumazione del pasto in un vero locale parigino: la brasserie. Una di quelle tipiche, ubicata all’angolo di un bel palazzo, con i tavolini sul marciapiede e con la vista sulla gente che passa a qualche palmo di mano. Magret de canard (carne di anatra) in salsa di miele, omelette ai funghi, patate al forno e patate fritte (frittes) sono le leccornie che ci vengono portate al tavolo. Oltre, ovviamente, alla bella vista da lontano della chiesa di Mont Martre che, forse, in piccola parte ci viene anche fatta pagare sul prezzo delle pietanze.

Beviamo anche una Coca Cola (per tentare di digerire i fritti e non rimanere appesantiti tutto il pomeriggio) e sul tavolo ci viene portata anche una bella caraffa d’acqua fresca, gentilmente “offerta” dal sindaco di Parigi. Per averla è sufficiente dire al cameriere “Une carafe d’eau” e lui, senza battere ciglio e senza fare l’offeso per il mancato guadagno derivante dalla vendita di una bottiglia d’acqua che gli costa 0,30 € e viene venduta almeno a 2,50 € (guadagno del 600%), ci porta quanto richiesto.

Un tale servizio viene anche offerto dai bar e da tutti i servizi pubblici. Senza. Problema. Alcuno.

La cosa è semplice e non sarebbe male istituire un tale semplice comportamento anche da noi che, già dal momento che ci sediamo al tavolo, abbiamo il primo obolo da pagare che nel conto compare con la voce di “coperto”. Sarebbe una soluzione di correttezza nei confronti dei clienti che hanno diritto ad avere acqua gratis; sarebbe un’importante iniziativa a favore dell’ambiente perché farebbe risparmiare migliaia di tonnellate l’anno di imballaggi usa e getta per l’acqua, migliaia di tonnellate di CO2 e di inquinamento atmosferico dovuti ai trasporti dell’acqua imbottigliata, oltre che depauperare le fonti idriche montane con le concessioni.

Poiché ad ottenere un tale risultato in Italia ci hanno già provato in tanti ottenendo modesti e limitati risultati soprattutto a causa della forte lobby dei produttori di acqua minerale e di quella dei ristoratori che vendono ai loro clienti letteralmente acqua a peso d’oro, a mio avviso la vera soluzione del problema dovrebbe essere di natura politico-amministrativa. Il Parlamento (o chi ne ha l’autorità a livello nazionale) dovrebbe emanare un atto che obblighi i gestori di esercizi pubblici a fornire GRATUITAMENTE ai loro ospiti l’acqua del rubinetto nel momento in cui si siedono al tavolo. Punto.

Tutte le scuse accampate di scarsa qualità dell’acqua pubblica e di scarsa igiene dei contenitori non sigillati sono ignobili farse per non far progredire il Paese e per ingessare comportamenti sbagliati che dovrebbero da subito cambiare.

Chiediamo allora ai nostri referenti politici di attuare immediatamente questa semplice regola. Vedrete che saranno maggiormente responsabilizzati i sindaci a fornirci acqua di migliore qualità e non ci saranno particolari contraccolpi economici per i ristoratori che, per ripagare economicamente il loro lavoro, potranno concentrarsi più sulla fornitura di buoni cibi e sulla scelta di bevande diverse dall’acqua.