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La zuppa di plastica. Una ricetta tutta mediterranea
Con questa ricetta purtroppo non stiamo parlando della famosa dieta mediterranea ricca di vegetali, olio d’oliva e varia conosciuta da tutti per garantire longevità ai suoi consumatori. No, questa volta parliamo di una ricetta ben diversa, la cosiddetta “zuppa di plastica del Mediterraneo”, un brodo più o meno denso di frammenti di plastica, piccoli e addirittura invisibili, che inquina tutti i mari del Pianeta e, senza eccezione alcuna ma anzi con peculiarità, anche il Mediterraneo.
Recentemente l’Istituto di Scienze Marine del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Lerici (ISMAR-CNR), in collaborazione con le Università di Ancona, del Salento e Algalita Foundation (California) ha pubblicato su Nature/Scientific Reports una ricerca relativa alla stima della presenza, nel 2013, di microplastica (1) galleggiante nel Mediterraneo occidentale. Il ricercatore dell’ISMAR-CNR Stefano Aliani osserva che: “Per la prima volta sono stati individuati i polimeri che costituiscono la microplastica galleggiante in mare e la loro distribuzione. Si tratta principalmente di polietilene (2) e polipropilene (3), ma anche di frammenti più pesanti come poliammidi e vernici, oltre a policaprolactone, un polimero considerato (teoricamente, ndr) biodegradabile”. “Questo tipo di informazioni – osserva ancora Aliani – sono importanti per avere una stima precisa della dimensione del problema generato dai rifiuti di microplastica in mare e per attivare opportuni programmi di riduzione della presenza di questi inquinanti”. “I polimeri sono distribuiti in modo disomogeneo nel Mediterraneo e le ragioni dipendono dalle diversi sorgenti di rifiuti, che possono essere le aree densamente abitate lungo la costa, i fiumi e i processi di trasporto marino tipici di un bacino”. “Si pensi – prosegue il ricercatore – che nel mondo vengono prodotte circa 300 milioni di tonnellate di plastica e si stima che fino a 12 milioni di tonnellate (cioè il 4 % del totale) finiscano in mare”.
La ricerca pubblicata e le parole terrificanti del ricercatore dimostrano con inequivocabile dubbio che il tempo per le plastiche e per i materiali non biodegradabili è giunto al termine. Non ci possiamo più permettere il lusso che materiali derivanti da fonti non rinnovabili (il petrolio) e persistenti in natura (ad esempio le plastiche) siano prodotti e vengano utilizzati per la produzione di beni su larga scala, soprattutto usa e getta.
Purtroppo si pensa ancora che la soluzione sia da ricercare nella corretta gestione dei rifiuti e nelle opere di bonifica e depurazione dell’ambiente. Sbagliato! La soluzione va invece ricercata nell’ambito della produzione imponendo soluzioni alternative e tassando quei materiali che non siano più sostenibili dal punto di vista ambientale. In buona sostanza si devono favorire le produzioni e i metodi cosiddetti ecologici e si devono prevedere delle elevate tassazioni per i prodotti e i materiali inquinanti e/o non rinnovabili, anche se molto economici, in modo da considerare i costi indiretti a carico dell’ecosistema che vadano a compensare il loro smaltimento, il loro degrado e i danni che essi producono.
Dal mio punto di vista credo che l’unica soluzione alla zuppa di plastica mediterranea sia solo una: la bioimitazione in quanto unica metodologia tecnico-produttiva compatibile con il Sistema in cui viviamo e operiamo e dal quale non possiamo (più) prescindere.
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(1) La microplastica è costituita da quei frammenti di plastica più piccoli di 2 millimetri che, per quanto non visibili o difficilmente visibili ad occhio nudo, sono stati trovati un po’ ovunque nei mari mondiali, anche se le concentrazioni maggiori sono proprio quelle del Mediterraneo. Si pensi che nel vortice subtropicale dell’Oceano Pacifico sono stati stimati 335.000 frammenti di plastica ogni km2, mentre nel Mar Mediterraneo si parla di una media di circa 1,25 milioni per km2.
(2) Il polietilene (sigla: PE) viene prevalentemente utilizzato per i flaconi, per tappi di plastica, per prodotti usati in edilizia e per gli imballaggi in generale.
(3) Il polipropilene (sigla: PP) viene utilizzato per numerosi prodotti in edilizia e per la produzione di mobili. Inoltre viene usato per numerosi imballaggi e per la produzione di numerosi parti delle auto.
Immagine: Mappa della concentrazione delle microplastiche nel Mar Mediterraneo occidentale.
Foto: Setaccio manuale delle microplastiche presenti nel campione d’acqua.
Vaquita
Il nome “vaquita” (piccola mucca in lingua spagnola) è tutto un programma. Non si riferisce ad un animale terrestre erbivoro di grandi dimensioni con un grande naso e dallo sguardo un po’ triste ma, più precisamente, ad un mammifero marino: la focena del Golfo di Caifornia (Phocoena sinus). Si tratta di uno dei più piccoli cetacei esistenti (circa 150 cm di lunghezza per circa 50 kg di peso) che è molto schivo all’uomo e che vive in una zona estremamente limitata della parte settentrionale del Golfo di California (Mare di Cortez) [vedi immagine]. La vaquita presenta una colorazione grigio scura sul dorso e grigio chiara sul ventre, ha un grande anello nero intorno agli occhi e delle macchie sul labbro tanto che, come commenta un ricercatore, “questi animali sembrano truccati, con rossetto e mascara intorno agli occhi”. Questo cetaceo vive in lagune basse e scure situate lungo la costa e raramente è stato avvistato in acque più profonde di 30 metri. La vaquita è così schiva che vi sono pochissime segnalazioni di essa in natura e quello che sappiamo su di lei spesso o deriva dallo studio degli esemplari morti oppure da strumentazioni elettroniche posizionate in mare.
La vaquita non è cacciata direttamente dall’uomo ma, dal momento che nuota e si alimenta molto lentamente, finisce facilmente intrappolata nelle reti da pesca – sia legali che non – che vengono impiegate per pescare un altro pesce endemico del Golfo di California, il totoaba (1), molto richiesto soprattutto dai cinesi a causa della sua vescica natatoria che viene utilizzata sia come cibo ma, soprattutto, come rimedio nella medicina tradizionale e può raggiungere migliaia di dollari al chilo (2).
La vaquita è oramai sull’orlo dell’estinzione tanto che, si stima, ne esistano attualmente solamente 97 esemplari. Il problema del declino della specie è noto sin dalla fine degli anni ’50 del secolo scorso (quando, molto probabilmente, ne esistevano circa un migliaio di individui) ma si sta manifestando in tutta la sua gravità solamente in questi ultimi anni nonostante gli interventi sovranazionali di difesa della specie e gli sforzi economici del governo messicano che ha investito tutte le risorse possibili per ottenere il risultato sperato. Le attuali previsioni, in base alle caratteristiche della popolazione attuale, sanciscono la scomparsa definitiva di tale cetaceo intorno al 2018.
L’umanità potrà sopravvivere benissimo anche senza vaquita perché, data la sua limitata diffusione nel mondo e il suo già esiguo numero originario, la sua scomparsa non rappresenterà una grande perdita, né in termini di nutrimento né per altro scopo. L’estinzione della vaquita, però, rappresenta il fallimento dell’agire umano nel suo complesso perché dimostra come le nostre attività siano fortemente invasive nei confronti degli equilibri naturali da essere potenzialmente in grado non solo di far estinguere un piccolo e insignificante cetaceo ma anche di influire profondamente su altri equilibri – come gli oceani o le foreste – ben più importanti per la possibile sopravvivenza armonica di 7 e oltre miliardi di individui. Nonostante la nostra consapevolezza dei problemi che il nostro agire arreca agli ecosistemi, molto spesso non siamo in grado di invertire la rotta.
Per dimostrare a noi stessi che siamo veramente “intelligenti” (come ci autodefiniamo) e di non autoannientarci miseramente è pertanto necessario che facciamo di tutto per salvare la vaquita. Le azioni da mettere in campo sono tante ma, a mio avviso, per prima cosa dobbiamo eliminare filosoficamente il denaro dal rappresentare l’unico scopo della vita: il denaro è utile per vivere ma non dobbiamo sacrificare ad esso la nostra vita, la nostra salute e il Pianeta dove viviamo. In secondo luogo poi,come ho più volte motivato, dobbiamo iniziare a considerare le aree più significative e più vulnerabili della Terra come delle aree super-protette, collegate in rete tra loro, disponibili solo per la vita selvaggia e totalmente inaccessibili a qualsiasi attività umana, anche la più apparentemente benefica (o meno negativa) quale può essere la ricerca scientifica o il turismo.
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(1) Il totoaba è anch’essa una specie di pesce in pericolo di estinzione che si presenta molto simile alla vaquita potendo raggiungere una lunghezza di 1,8 metri e pesare fino a 136 chilogrammi.
(2) Le vaquite rimangono impigliate principalmente nelle reti illegali che vengono disseminate nel Mare di Cortez per pescare il totoaba, un pesce la cui pesca è vietata ma che è molto richiesto dal mercato cinese. Nonostante il fatto che i pescatori vengano risarciti per le mancate entrate economiche derivanti dalle limitazioni della pesca, solamente pochi di essi riescono a resistere alla tentazione di avere molti soldi dalla vendita illegale dei pesci vietati e, di conseguenza, pescano il totoaba e, indirettamente, causano la morte delle vaquite.
Fonte: Wikipedia; National Geographic
Il giro del mondo in barca a vela con orto e galline
Lo scorso 19 ottobre Matteo Miceli è salpato con la sua Eco 40 da Riva di Traiano per effettuare , in solitaria, il giro del mondo in barca a vela. Fino a qua nulla di strano. Nonostante non sia una passeggiata, l’hanno oramai fatto in tanti e tanti, con l’aiuto della tecnologia – anche alimentare fatta di barrette liofilizzate e cibi preparati – sono riusciti nell’impresa.
Ciò che contraddistingue, però, lo skipper Matteo Miceli dagli altri, non è solo nel fatto di utilizzare una barca ecologica, la “Eco 40” ma, soprattutto, nel fatto che egli ha portato con sé alcune galline (la Bionda e la Mora) e cerca di coltivare, sulla barca, addirittura un orto. L’obiettivo primario di questo viaggio è infatti quello di tentare di ripercorrere i viaggi degli antichi navigatori che erano interamente basati sull’autosufficienza. Innanzitutto quella alimentare perché non disponevano di prodotti sofisticati, di conservanti e nemmeno di tecnologia del raffreddamento e, per questo, dovevano portare con sé animali vivi a bordo e dovevano coltivare un orto (che veniva chiamato “giardinetto”), di solito nella parte di poppa della nave.
Oltre all’autosufficienza alimentare Matteo Miceli è stato il primo skipper ad intraprendere un viaggio intorno al mondo anche in totale autosufficienza energetica. “In barca – ha dichiarato Miceli – non ci sarà una goccia di combustibile, neanche per cucinare. Tutto sarà elettrico e rigenerato, perché starò in mare per cinque mesi”. Per questo la barca è dotata di 12 m2 di pannelli solari, due impianti eolici e due turbine ad idrogeno che alimentano tutti i dispositivi elettrici della nave, soprattutto il dissalatore, i sistemi di comunicazione e il pilota automatico. (1)
Purtroppo l’orto si è rovesciato durante la prima burrasca e lo skipper non ha deciso di ricostruirlo perché le lampade artificiali che consentivano la crescita degli ortaggi consumavano troppa energia. Anche le galline hanno sofferto un po: la Bionda è morta quasi subito e la Mora, pur non manifestando particolari problemi di adattamento al viaggio, ha smesso ben presto di fare le uova.
Il 13 marzo 2015, allo ore 15.40 ci sono però delle cattive cattive notizie. Nel bel mezzo dell’Oceano Atlantico, circa sulla linea dell’Equatore, in condizioni di tempo e di mare favorevoli, Eco 40 ha perso la chiglia (probabilmente andando a sbattere contro un cetaceo) e Matteo Miceli è stato costretto ad abbandonare la barca e l’impresa del giro del mondo in solitaria (Progetto “Roma Ocean World”) (2). Nel naufragio, oltre alla perdita di tutto il materiale (che si cercherà di recuperare) è purtroppo morta anche la gallina superstite.
A circa due settimane dall’arrivo previsto a Roma e dal completamento dell’impresa qualche cosa è andato storto (sig) e l’interessante progetto, come osserva il testardo e coraggioso Miceli, dovrà essere riprogrammato. Buon vento, allora!
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(1) Oltre alla sfida sportiva il Progetto “Roma Ocean World” si proponeva anche di effettuare una ricerca sui cambiamenti climatici. Attraverso strumenti sofisticati durante il viaggio sono stati registrati anche alcuni parametri quali temperatura, pressione dell’acqua e dell’aria, movimento delle onde che verranno resi disponibili della comunità scientifica.
(2) Il Progetto “Roma Ocean World” si propone:
- di mostrare direttamente i cambiamenti climatici in atto
- di contribuire direttamente all’indagine scientifica oceanografica e biologica attraverso campionamenti e misurazioni
- dimostrare che l’attuale tecnologia e un atteggiamento responsabile consentono di poter vivere e navigare bene, in modo ecologicamente sostenibile e utilizzando solo fonti energetiche rinnovabili
Attenzione: animale sanguinario
Attenzione: animale sanguinario in mare! Il più pericoloso della Terra.
Ogni anno massacra milioni di esseri viventi, spesso senza ragione. Addirittura riesce ad uccidere e mutilare brutalmente (1) esseri della sua stessa specie. È anche in grado di devastare in poco tempo il proprio ecosistema tanto da mettere a repentaglio la sua stessa sopravvivenza. È poi particolarmente furbo e aggressivo, soprattutto in branco, ed è meglio stare lontano dal suo territorio. Per celebrare la sua terribile fama è stato anche protagonista di numerose pellicole cinematografiche che hanno terrorizzato grandi e piccini.
Fate attenzione alla foto perché accanto a lui vedrete nuotare, pacificamente, un enorme squalo bianco (2).
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(2) Con la guerra e con le armi
(1) Ogni anno 10 milioni di squali muoiono agonizzanti a causa del finning [vedi il video], una pratica inumana che consiste nel tagliare le loro pinne e di gettare i loro corpi ancora in vita nel mare. Gli squali morenti o vengono divorati da altri pesci mentre sono ancora in vita oppure muoiono annegati a causa della loro impossibilità a muoversi. Le pinne raccolte vanno ad alimentare il mercato asiatico del cibo che considera la zuppa di pinne di squalo una vera prelibatezza.
Plastic bags kill
“I sacchetti di plastica uccidono” (Plastic bags kill, ndt).
Uccidono in particolare se finiscono in mare e vengono scambiati dagli animali acquatici per cibo, soprattutto per delle meduse.
Al netto di qualsiasi parola e descrizione le immagini che seguono, da sole, spiegano ampiamente il triste e assurdo fenomeno.
Non vi chiedo di rinunciare ai sacchetti di plastica quando andate ad acquistare in negozio. Lo do già per scontato. Vi chiedo qualcosa di più: chiedete ai vostri rappresentanti politici di operare per mettere al bando definitivamente la plastica per gli imballaggi (1), attualmente ancora largamente presente in Italia e nell’Unione europea. Solo così potremo incidere, di riflesso, nei confronti dei Paesi in via di sviluppo che sono anche quelli che contribuiscono maggiormente all’inquinamento dei mari!
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(1) Bandire la plastica dagli imballaggi non significa accontentare la lobby del settore e consentire quel “pasticcio” della plastica con additivi che, al contatto con i raggi ultravioletti del sole, permettono alla stessa di rompersi in miroframmenti. Questi ultimi, non essendo biodegradabili, si mescolano all’acqua ed entrano facilmente nella catena alimentare. Bandire la plastica dalla produzione degli imballaggi significa solamente vietarne la produzione e consentire, in alternativa, solo quella con materiali biodegradabili di origine vegetale.
Il pesce è sempre più caro? La colpa è degli Omega-3
Su “Il Venerdì di Repubblica” del 28 febbraio scorso Loretta Napoleoni, economista, nella sua rubrica “Follow the money” parla dei motivi per cui il pesce è caro (anche quello di allevamento).
Per argomentare le sue tesi scrive: “Quest’anno mangeremo più pesce di allevamento che selvaggio […]. Il motivo è presto detto: da oltre un decennio la domanda ittica mondiale aumenta a un ritmo che oscilla tra il 5 e il 10 per cento annuo e i responsabili sono in primis i Paesi in via di sviluppo, man mano che si arricchiscono cresce la voglia di mangiare pesce […]. Il pianeta mangia pesce ad un ritmo molto più elevato di quello della riproduzione, anche dell’allevamento”.
Sacrosante parole. “Secondo le previsioni – prosegue l’articolo – l’allevamento ittico aumenterà ancora di un 14 per cento prima di raggiungere il massimo della capacità, a meno che non si verifichi un cambiamento radicale, come una rivoluzione tecnologica che permetta di rimuovere l’ostacolo maggiore: per produrre il pesce bisogna usare come alimento principale il pesce”.
“Prendiamo il salmone, forse il pesce più gettonato al mondo, la dieta di quello di allevamento deve contenere una certa quantità di Omega-3, che si trova principalmente nei pesci dell’America Latina, che iniziano a scarseggiare. Questo spiega perchè dal 2013 il costo del salmone è in netto aumento […]. Ora la Monsanto sta studiando la possibilità di estrarre Omega-3 dalla soia, e altre multinazionali sperimentano l’utilizzo delle alghe. Una cosa è certa: finché qualcuno non trova la formula giusta, il prezzo del salmone continuerà a salire”.
Cara sig.ra Napoleoni, per risolvere il problema del prezzo del pesce che cresce a causa del depauperamento degli stock ittici che non sono oramai più in grado di soddisfare né la richiesta mondiale di pesce selvaggio né quella dell’industria dei mangimi per il pesce di allevamento non si può solo ragionare in termini di tecnica e di tecnologia. Non si può solo pensare che la soluzione possa essere quella di ottenere gli Omega-3 attraverso l’uso abbondante di energia per estrarli a forza dai prodotti agricoli come la soia o le alghe (che potrebbero essere consumati anche direttamente) al solo scopo di alimentare l’industria dell’allevamento. In più mettendo in competizione il mondo agricolo che produce direttamente cibo con quello che produce beni per l’industria.
La soluzione potrebbe (e dovrebbe) essere, invece, quella che passa attraverso il concetto della “sufficienza”, cioè l’ottenimento del benessere per la più ampia fetta possibile di popolazione mondiale attraverso la riduzione dei livelli di consumo e il miglioramento in termini qualitativi del consumo attuale. Nell’ambito del prezzo in aumento del pesce questo concetto della sufficienza dovrebbe esprimersi sostanzialmente in due direzioni fondamentali:
- diminuire i consumi di pesce e crostacei per quella fetta ricca della popolazione mondiale che ne consuma (e spesso ne getta) troppi;
- orientare i consumi alimentari verso i vegetali (di qualità, altrimenti finiamo dalla pentola alla brace) piuttosto che verso le carni.
Sacchi a mare !!!
Come poter risolvere l’enorme problema dei rifiuti e dell’inquinamento del mare se fosse vero quanto riportato dal video mandato in onda lo scorso 20 dicembre della televisione brasiliana Sbt, terza emittente televisiva del Paese per numero di telespettatori?
In pratica, secondo quanto affermato e documentato con video da parte di Sergio da Silva Oliveira, sembra che dalla nave da crociera MSC “Magnifica” siano stati gettati in mare alcuni sacchi neri in prossimità della costa brasiliana, addirittura nei pressi di un santuario naturalistico. “Non si trattava di rifiuti organici – racconta Sergio da Silva Oliveira parlando ai microfoni di Sbt – si sentiva il rumore delle bottiglie e delle lattine: una delle buste si è strappata e ne sono uscite scatole di tetrapack che sono rimaste a galleggiare in mare”.
Il presunto smaltimento irregolare dei rifiuti da parte della compagnia italo-svizzera MSC Crociere dimostra che la filiera dei rifiuti – dalla produzione dei prodotti e degli imballaggi, alla gestione del loro smaltimento una volta esaurita la loro utilità – è troppo, troppo fragile. Basta poco (e in questo caso potrebbe essere anche stato un dipendente dell’azienda poco istruito sulla gestione dei rifiuti o poco controllato dai superiori) per creare un problema ben più grave, sia per l’ambiente che per l’immagine di MSC Crociere.
Nonostante MSC Crociere affermi di essere a posto con la legislazione relativa al trattamento dei rifiuti del settore della navigazione, di essere impegnata in ambito ambientale e di aver ottenuto certificazioni riguardo a tale impegno, in ogni caso il problema dell’inquinamento, anche involontario del mare, permane.
L’unica via per combatterlo passa inevitabilmente attraverso i seguenti punti:
- una politica di “rifiuti zero”, espressa sia in termini legislativi che culturali;
- una legislazione orientata a favorire chi produce e chi consuma prodotti biodegradabili e a penalizzare chi non lo fa;
- una legislazione che spinga i produttori a realizzare beni tenendo conto del ciclo di vita dei materiali, del riuso e della riparabilità degli stessi;
- un sistema chiaro di sanzioni che penalizzi chi venga trovato ad inquinare o a smaltire illegalmente i rifiuti nell’ambiente;
- un atteggiamento critico da parte dei consumatori che pongano, tra gli elementi di scelta di un fornitore o di un bene, non solo il prezzo o i servizi offerti ma anche le performance ambientali e di responsabilità sociale.
Solo così si verrà veramente fuori dal problema dei rifiuti e si provvederà a salvaguardare quell’enorme “pattumiera blu” che è il mare.
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Fonte: Il Fatto Quotidiano
La generosità del mare
Il mare è generoso, molto generoso e, prima o poi, restituisce tutto quello che gli gettiamo dentro. O come rifiuto; o come inquinamento e conseguente perdita di salute.
La gran parte dei rifiuti che il mare restituisce sono di materiale plastico: bottiglie, bidoni, bicchieri, boe, reti e chi più ne ha più ne metta (1). Un’altra parte dei rifiuti del mare sono in metallo e di materiale organico (principalmente alghe e tronchi).
Per quanto riguarda, invece, l’inquinamento, il mare non restituisce altro inquinamento. È più subdolo e restituisce sofferenza e morte per gli animali acquatici che lo popolano (e che dovrebbero fornire a noi una parte del nutrimento) e perdita di salute per gli esseri umani che abitano nelle sue vicinanze, che in esso si divertono o che si nutrono degli animali che in esso vivono.
Al di là di queste considerazioni – mi chiedo – forse un po’ troppo elaborate, mi è capitato recentemente di essere stato in vacanza in una località marittima da poco interessata da una forte mareggiata. Quello che mi ha stupito non è stato solo vedere la spiaggia piena di rifiuti e di detriti. Tanto, magari non riciclandoli, prima o poi verranno rimossi. Quello che invece mi ha stupito e profondamente turbato è stato constatare la totale indifferenza e apatìa delle persone (sia presenti in spiaggia sia di mia conoscenza) di fronte ai rifiuti presenti. Una sorta di assuefazione pericolosa che non è assolutamente positiva nell’ottica della ricerca urgente di soluzioni per la sostenibilità ambientale che, a mio avviso, oltre che attraverso soluzioni tecnologiche e produttive, dovranno passare per forza anche attraverso comportamenti individuali virtuosi e, molto probabilmente, una maggiore sobrietà di comportamenti.
Vi lascio, per ricordo, qualche foto che ho scattato nelle spiagge di Bordighera e Vallecrosia.
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(1) Gran parte dei rifiuti di plastica che il mare restituisce sono imballaggi e prodotti usa e getta. Per salvaguardarlo e per garantire VERA sostenibilità ambientale è assolutamente necessario che si provveda con urgenza a favorire – in qualsiasi modo – la produzione e il consumo di materiali plastici di origine vegetale completamente biodegradabili e si pongano limiti, di qualsiasi natura, alla produzione di materiale plastici di origine petrolifera e sintetica.
Una gita in barca al Polo Nord
Le immagini girate dalla webcam del North Pole Environmental Observatory di Washington mostrano in timelapse quello che è successo al ghiaccio del Polo Nord dal 16 aprile 2013 al 24 luglio 2013.
La sequenza è impressionante e certifica con assoluta certezza come, a causa delle straordinariamente alte temperature raggiunte quest’anno, oramai il Polo Nord sia perfettamente navigabile.
Ne sa qualcosa anche un equipaggio inglese che qualche anno fa lo ha raggiunto in barca a remi.
Da quando sono iniziate le le rilevazioni (anni ’70), nel 2013 il ghiaccio ha raggiunto il livello minimo mai registrato. Quanto dovremo ancora aspettare per fare qualcosa per il clima? Che l’aria diventi rovente e non sia più respirabile?
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Foto: foto del Polo Nord del 25 luglio 2013, ore 13.23