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Category Archives: Abitare

Il consumo del territorio semplicemente mi sconvolge

Il consumo del territorio. Uomo mangia alberi

Nell’opinione pubblica gli ambientalisti sono sempre quelli del “NO” e quelli contrari al “progresso” e alla “tecnologia”. Sono quelli conservatori che vorrebbero tornare a vivere come l’uomo di Neanderthal senza benessere e senza medicine. Sono anche quelli – per dirne alcune – che hanno liberato le nutrie nei fiumi, quelli che hanno portato in Europa la zanzara tigre o quelli che minacciano l’economia montana in quanto difensori di orsi e lupi.

Per confutare questa tesi io, che mi definisco orgogliosamente ambientalista (1), voglio esprimere il mio profondo dissenso e disgusto per il terribile fenomeno del consumo del territorio e della cementificazione selvaggia al quale si deve per forza porre un freno. Lo desidero fare esprimendo la mia profonda contrarietà nei confronti di due episodi particolari – uno vissuto direttamente da me l’altro letto su Il Fatto Quotidiano – verso i quali mi preoccupo di proporre delle valide e benefiche alternative.

Innanzitutto vorrei partire dal concetto secondo cui io non sono a priori contrario alla realizzazione di infrastrutture urbane che, se necessario, potrebbero anche utilizzare del territorio vergine, cioè prima adibito a verde o ad agricoltura. Le cose importanti e fondamentali, però, sono almeno due: che siano fatte nella logica del benessere per i potenziali utilizzatori e non invece per ingrassare l’economia clientelare degli appalti; che siano realizzate da persone molto competenti in materia e non dagli amici degli amici che hanno poche qualifiche e che mirano solamente ad ottenere il massimo profitto personale. Perché, se realizzate male, le opere infrastrutturali ed urbane consumano irrimediabilmente territorio (una risorsa non facilmente rinnovabile) e contemporaneamente non sono utili per i potenziali beneficiari, cioè i cittadini.

Ora, detto ciò, vengo a descrivere le due situazioni di cui sopra. Le possibili soluzioni non richiedono troppe spiegazioni ma verranno direttamente da sé.

Qualche tempo fa sono stato con mia figlia a vedere il Museo delle Scienze di Trento (MUSE). Al di là del fatto che il museo è molto interessante, moderno e frequentato da moltissime persone, esso è stato realizzato in un contesto urbano – le Albere – pensato e progettato da Renzo Piano per recuperare l’area di una vecchia fabbrica di pneumatici. Quello che mi ha colpito dell’insediamento è il fatto che esso sia diventato, con il suo enorme parco alberato, con il museo e con le attività commerciali insediate, un importante luogo di aggregazione dei cittadini. Mi ha dato l’idea che essi non solo vadano in quel luogo per svolgere le loro attività ma desiderino recarsi proprio lì per vivere serenamente qualche ora e godere di una parte della loro città. Passandoci un pomeriggio quel luogo mi ha anche dato l’idea che poteva essere progettato in mille modi ma farlo progettare da uno dei migliori ha fatto senza dubbio la differenza. Come affermò il progettista «Le Albere è un classico esempio di trasformazione dei brownfields, i terreni industriali dismessi, in greenfields, un terreno cementato che diventa in gran parte verde, l’opposto di quello che si è fatto per tanti anni nelle città» aggiungendo che «Usare il legno è già di per sé un’attività intelligente perché è un materiale che viene dalle foreste, e le foreste si rinnovano, per cui di fatto è energia rinnovabile oltre che perfettamente riciclabile».

Leggo qualche giorno fa su Il Fatto Quotidiano l’articolo di Alex Corlazzoli “Ho visitato una scuola svizzera. E sono rimasto sconvolto” nel quale racconta la sua personale esperienza in una scuola elvetica di secondo grado (la nostra scuola media). Al di là degli strumenti didattici e della possibile fruizione della scuola che ne possono fare i professori (che possono accedervi sempre, con chiavi personali, anche di domenica e di sera) e al di là del rispetto che gli alunni hanno per il bene pubblico, quello che mi ha colpito è il fatto che la scuola fosse dotata, oltre che di sala professori con ogni comfort, di mensa ben progettata, anche addirittura di un teatro, di un laboratorio d’arte, di un’emeroteca e di una ludoteca aperta ai ragazzi. La realizzazione di tale scuola non è stata data ad un progettista qualsiasi ma era stato affidato a Santiago Calatrava che non ha scopiazzato un progetto a caso di una scuola qualsiasi ma ha tentato di “pensare” questo spazio abitativo pubblico in funzione dei ragazzi e dei professori. Uno spazio pensato per assolvere in maniera chiara ad una funzione educativa. E non credo sia un caso che, se educati in tali ambiti, i cittadini svizzeri siano poi dei cittadini modello.

I due esempi sono chiari riferimenti al fatto che dobbiamo iniziare a pretendere che il consumo del territorio sia una cosa seria che deve rientrare prioritariamente nell’agenda della politica che non deve solamente pensare di limitarne il consumo ma anche iniziare ad imporre regole che tolgano dal sistema della progettazione a personaggi incompetenti che lavorano in quanto amici degli amici o finanziatori e sostenitori degli amici. Sono certo che, in un tale contesto operativo, la limitazione del consumo del territorio verrebbe anche un po’ da sé…

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(1) La definizione di “ambientalista” non è chiara e ben definita ma si riferisce a colui che ha a cuore, attraverso la cultura e la conoscenza e spesso attraverso il buon senso, il futuro benessere dei propri figli. Essere ambientalista è essere semplicemente “padre” (o “madre”). E io mi sento pienamente di esserlo.
Foto 1: Quartiere Le  Albere visto dall’alto
Foto 2: Scuola Media di Bellinzona, Svizzera

 

Il giardino delle (bio)diversità

Ora che è sopraggiunta la primavera e la natura si è risvegliata dopo il torpore invernale intorno a me vedo giardini curati come fossero prodotti industriali di plastica, uniformi nel materiale e nei colori. Erba rasata alla perfezione senza impurità di altre specie. Gruppi di fiori uniformi e ipertrofici. Aiuole ben definite, con riga e compasso. Siepi perfettamente squadrate e alberi – quei pochi presenti – sempre ben tagliati e potati per non dare troppo disturbo e per non sporcare.

Ma questi non sono giardini. Sono trasposizioni nella “natura” di prodotti industriali tutti uguali, tutti uniformi, tutti precisi che nulla hanno di veramente naturale. Per ottenerli necessitano di un grande dispendio di lavoro, di energia, di utensili e di prodotti chimici vari le cui conseguenze principali sono inquinamento diffuso – anche rumore – e perdita di biodiversità.

È da anni che io, invece, cerco di concepire il mio giardino (1) come un piccolo angolo di diversità, sia di specie viventi che in esso vivono, sia di mescolamento e di distribuzione casuale in esso delle stesse. In sostanza, ispirandomi alla natura spontanea che vedo intorno a me, cerco di fare in modo che nel mio giardino un po’ tutte le specie vegetali possano avere spazio (cerco di contenere un minimo solamente quelle troppo invasive) e che esse non abbiano un luogo dedicato dove crescere ma che possano diffondersi il più liberamente possibile. Nella scelta delle piante poi – che naturalmente in gran parte anch’io acquisto – cerco di prediligere quelle perenni o quelle che hanno capacità autonoma di diffusione, evitando possibilmente quelle che derivano da selezione troppo spinta o da ibridazione. Per quel che posso raccolgo le piante nei giardini di altre persone o, compatibilmente con le regole ambientali, anche in natura per poi ripiantarle nel mio. Oltre alle specie vegetali, nel mio giardino tento di attrarre anche uccelli (mettendo nidi e mangiatoie nel periodo invernale), pipistrelli e insetti, soprattutto farfalle. Questo mi obbliga a tollerare anche specie nocive, come limacce e insetti parassiti, perché spesso sono il nutrimento di lucciole, di insetti utili, di pipistrelli e di ricci.

In questo modo cerco di determinare uno spazio dove venga ricostruita una sorta di armonia naturale e vi sia – compatibilmente con le interferenze dei mie vicini che nel loro giardini fanno un po’ di tutto – il raggiungimento di un certo equilibrio tra le specie.

Se ho una specie invasiva da contenere, ad esempio, non penso a quale diserbante chimico o meccanico utilizzare per debellarla ma altresì penso a quali altre piante posso piantare che con la loro crescita possano rallentare la diffusione di quelle invasive. Inoltre non penso che vi siano “malerbe” o “erbe infestanti” da combattere a tutti i costi ma, piuttosto, cerco che tutte le specie vegetali abbiano il loro spazio e si possano diffondere in maniera equilibrata.

In questo modo, applicando il principio della bioimitazione secondo cui la natura è basata su una rete di reciproche relazioni e collaborazioni, noto che, rispetto agli altri, il mio giardino è più colorato, è più ricco di fiori, ha alberi frondosi e abbondanti ed è più sostenibile dal punto di vista ambientale.

Ecco qualche foto che lo rappresenta…

Giardino bio-diversità 01

Giardino bio-diversità 02

Giardino bio-diversità 03

Giardino bio-diversità 04

Giardino bio-diversità 05

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(1) Abito in un vecchio fienile ristrutturato in una zona rurale prevalentemente dedita alla coltura della vite e dell’actinidia (kiwi) sulla morena del Lago di Garda, in provincia di Verona.

 

Capitozzatura

Grande spiegamento di uomini e mezzi. Tripudio di elmetti gialli e giubbini catarifrangenti. Transenne. Sbarramenti di strade. Cartelli stradali. Motoseghe scoppiettanti. Non mancava nemmeno l’immancabile enorme piattaforma a braccio che raggiunge (in sicurezza, per fortuna) altezze inimmaginabili. Così qualche giorno fa ho partecipato, involontariamente, alle operazioni di potatura (ma io le definirei più propriamente operazioni di “capitozzatura”) di splendidi grandi alberi ubicati in un parco pubblico di Milano, a ridosso di una strada che ho percorso a piedi per recarmi al lavoro.

Ma così non si taglia un albero. Gli si fa solamente del male (in senso filosofico e botanico, si intende) e lo si rende addirittura più pericoloso per chi transiti sulla strada o desideri godere degli spazi pubblici verdi.

Ma andiamo con ordine e, per spiegare la cosa, vediamo cosa si intende per capitozzatura e vediamo quali possono (e devono) essere le soluzioni per far sì che il doveroso lavoro di potatura periodica degli alberi sia ben fatto per la salute degli esseri viventi in oggetto e per la sicurezza di chi in qualsiasi circostanza si trovi sotto le loro chiome.

La capitozzatura è una pratica di arboricoltura che prevede il taglio indiscriminato delle branche di un albero, soprattutto allo scopo di ridurre le sue dimensioni generali e di renderlo (a torto) più sicuro. La capitozzatura, però, non è il giusto metodo di contenimento della crescita di una pianta e di diminuzione dei pericoli ad essa connessi. Anzi, nel lungo periodo, la capitozzatura rende l’albero più pericoloso. Vediamo il perché.

Capitozzatura e Potatura correttaLa capitozzatura è una pratica che rimuove improvvisamente e quasi istantaneamente la chioma di un albero, dal 50% al 100% del suo volume. La risposta della pianta – che trae l’energia della propria sopravvivenza dalle foglie e che tale pratica elimina quasi completamente dall’albero – è quella di far innescare un meccanismo di sopravvivenza attivando le gemme latenti e forzando la rapida crescita dei germogli attorno ad ogni taglio. Lo scopo della pianta è quello di ri-costruire nel più breve tempo possibile una nuova chioma (1). Un albero così danneggiato, oltre ad essere più facilmente attaccato da malattie, da funghi e da insetti parassiti che, nel lungo periodo, lo possono fortemente indebolire, è anche portato a produrre un’enorme quantità di piccoli rami che non si sviluppano nelle condizioni ottimali e che presentano un tessuto di ancoraggio al moncone molto precario che, nel tempo, tende ad indebolirli e a predisporli più facilmente alla rottura. La capitozzatura, oltre a ciò, è una pratica che imbruttisce enormemente gli alberi delle nostre città, dei nostri parchi e dei nostri giardini ed è anche molto costosa perché impone frequenti (più frequenti di altre pratiche) interventi di ulteriore potatura.

capitozzatura_1

Ecco allora che, per tutte queste ragioni, è necessario osservare e studiare la natura per imparare da essa a come meglio intervenire per ottenere una sana potatura dell’albero. È pertanto necessario affidarsi a professionisti esperti che siano in grado di studiare la pianta, di capire le esigenze del luogo in cui si trova, di comprendere che l’intervento si fa sempre su un essere vivente – molto diverso da noi ma che condivide lo stesso pianeta e che ha più o meno i nostri stessi scopi – e poi di operare i giusti tagli che garantiscano sicurezza ma, nel contempo, rispettino anche la sopravvivenza e il benessere dell’albero.

Capitozzatura_03

La bioimitazione è anche questo e il mio sogno è quello di non vedere più quei tronconi osceni senza vita che ci imbruttiscono l’anima e che non rispettano la vita.

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(1) L’accrescimento di gran parte delle piante e dei fiori oppure la distribuzione delle foglie sui rami avviene secondo la serie di Fibonacci che contribuisce a creare in natura ordine e armonia, ma anche efficienza ed efficacia con il minimo sforzo.
Fonte: www.mrgreenservices.it
Disegno: [disegno originale]

 

10 passi verso una casa più verde

Molto probabilmente nel 2060 la popolazione mondiale sarà di circa 10 miliardi di individui e, inevitabilmente, associato ad essa ci sarà un forte aumento dei consumi di energia elettrica. In particolare, al tasso attuale di consumo, si presume che per quella data i consumi elettrici mondiali saranno di 57,3 trilioni di kWh, in netto incremento dai 16,4 del 2006 e dai 7,3 del 1980.

Dal momento che le conseguenze legate alla produzione di tutta quella energia possono essere molto gravi per il Pianeta, non potendo prevedere ora se e quando in futuro potremo disporre di una fonte di energia pulita e sicura, è necessario iniziare a pensarci fin da ora facendo l’unica cosa che abbiamo a disposizione: risparmiarla! Partendo dal presupposto che l’energia consumata a livello domestico rappresenta un’elevata percentuale del totale e considerando che è necessario che ognuno faccia, nel proprio piccolo, la propria parte, allo scopo di aiutare i cittadini ad agire l’Azienda inglese CES Group ha pubblicato una chiara ed esaustiva infografica sull’argomento.

Per facilità di lettura se ne riporta la versione tradotta in italiano.

10 passi verso una casa più verde

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Nota: Traduzione non ufficiale ad opera di Bioimita.

 

L’Italia fa anche schifo

Si sente sempre dire che l’Italia è bella, che è piena di opere d’arte. Che l’Italia ha buon cibo e che l’Italia ha tanti talenti. Tutto vero e sacrosanto anche se è doveroso ricordare che, assieme alle cose positive, ve ne sono numerose di negative – molto negative – che fanno letteralmente inorridire per quanto siano assurde, soprattutto nel contesto dei bei paesaggi e della storia umana che hanno lasciato segni indelebili in questo Paese.

Se approfondirete i numerosi dati dell’interessante sito internet: www.padaniaclassics.com (1) vi potrete rendere conto, senza dubbi, che l’Italia fa anche schifo. E molto!

Dalla visione delle orribili situazioni raccontate nelle numerose foto pubblicate e dalla completezza dei dati delle diverse sezioni del sito ci si rende conto che la sostenibilità ambientale è sinonimo di ricchezza paesaggistica e culturale, il carburante economico essenziale per un Paese che vuole fondare una considerevole parte della propria ricchezza sul turismo e sulle eccellenze alimentari.

Difendere il territorio da speculazioni inutili e dalle bruttezze, spesso figlie dell’ignoranza, vuol dire difendere anche il futuro dei nostri figli affinché abbiano una vita prospera e sana.

Prendo spunto dal sito per riportare un assaggio di frasi significative che, da sole, fanno ben comprendere che cosa sia – e quanto triste e brutta sia – la MacroRegione Padana:
La MacroRegione senza cantieri non sarebbe macro”;
La MacroRegione è una giungla che schiaffeggia il viaggiatore con messaggi pubblicitari ai lati delle strade”;
Nella Macroregione vivono 19 milioni e 300 mila persone. Ognuna di esse può contare su 1,8 metri di strada asfaltata”.

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(1) Padania Classics è anche un libro fotografico: “L’Atlante dei Classici Padani” che racchiude tutto il lavoro di Padania Classics dal 2010 al 2015. Suddiviso in 18 capitoli il libro affronta in maniera ossessiva tematiche riguardanti la Regione divenuta Macro, dalla cementificazione al Dio dell’Oro, dai rifiuti ai monumenti all’assurdo, dalla politica alla religione, dalla monetina inserita nel videopoker alla mano inserita nella mutanda dopo il massaggio.
Foto: http://padaniaclassics.tumblr.com/

 

Consumo e cementificazione del territorio. I dati dell’ISPRA

Non è più tempo di chiacchiere e di tanti bei discorsi sul consumo e sulla cementificazione del suolo. Bisogna agire prendendo decisioni politiche e legislative che incidano su tale inutile spreco. E subito!!!
I dati che emergono dal “Rapporto sul consumo di suolo 2015” dell’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) sono impietosi e non lasciano spazio a dubbi o perplessità. Nonostante la crisi che in questi ultimi anni ha colpito il settore dell’edilizia e che ha diminuito di molto le richieste di nuove abitazioni, in Italia si continua comunque a consumare suolo a ritmi che sono già insostenibili e lo saranno ancora di più se li si proietta nel futuro. E i dati sono allarmanti.

Già ora – come osserva l’ISPRA – il 7% della superficie italiana (pari a circa 21 mila chilometri quadrati che sono, per intenderci, la superficie dell’Emilia Romagna) è cementificato, asfaltato, impermeabilizzato per la costruzione di edifici e di infrastrutture e non risulta più disponibile per l’agricoltura o per la crescita dell’erba e degli alberi. Si tratta di un percentuale addirittura quasi doppia rispetto alla media europea.

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Dai dati emerge che il fenomeno è più elevato nel nord-ovest del Paese dove si raggiungono tassi dell’8,4%, per arrivare al 7,2% nel nord-est, al 6,6% nel centro e al 6,2 al sud. Il consumo di suolo è più elevato nelle aree urbane, soprattutto nelle periferie dove le città cercano sbocchi per espandersi, ma raggiunge percentuali impressionanti anche sulle coste dove il tasso arriva quasi al 20%. Ovviamente, come è facile intuire, questo fenomeno interessa anche le aree con fragilità idrogeologiche e sulle rive di fiumi e laghi.

Se lo vediamo nell’ambito delle regioni il fenomeno interessa principalmente la Lombardia – seguita a ruota dal Veneto –  che hanno tassi di consumo del suolo che si aggirano intorno al 10%, mentre la Liguria è la regione che presenta il maggior consumo di territorio sulle zone costiere, che si attesta intorno al 40%. Tra le province poi il triste primato se lo aggiudica quella di Monza e Brianza (35%), seguita da Napoli (29%) e Milano (26%).

Se si fa un raffronto con il passato e si pensa che negli anni ’50 (circa 60 anni fa) la superficie cementificata dell’Italia era il 2,7%, vengono i brividi. E se si pensa che nel 1998 (solo 17 anni fa) il consumo del suolo era del 5,8% (1,2% in meno), viene da chiedersi chi abbia autorizzato tutto questo scempio. Perché l’effetto della cementificazione del territorio non si fa sentire solamente su quello effettivamente consumato, ma si estende anche sui terreni vicini per un raggio di altri circa 100 metri. Ecco che così si passa da un tasso di consumo del territorio del 7% ad uno ben più preoccupante del 55%. E questo fa ancora più paura!

Se infine analizziamo il consumo di territorio dal punto di vista delle cause possiamo osservare come il 30% sia dovuto alla costruzione di edifici, mentre il restante 70% sia dovuto alla costruzione di infrastrutture (40% per le nuove strade). La perdita di suolo avviene poi prevalentemente a discapito di aree agricole (60%) – con inevitabili conseguenze sulla produzione autonoma del cibo – e per il 19% a discapito di aree naturali.

Le conseguenze della cementificazione e della impermeabilizzazione del suolo non sono solamente quelle ovvie della perdita di terreni agricoli, della perdita di aree naturali e della biodiversità o dell’incremento di fenomeni idrogeologici estremi a seguito di intense precipitazioni piovose. Le conseguenze sono anche una minore capacità di assorbimento dell’anidride carbonica (CO2) per mancanza di vegetali oppure un aumento delle aree che fungono da “isole di calore”, cioè – come fanno il cemento o l’asfalto – che assorbono energia termica attraverso le radiazioni del sole e la rilasciano nell’atmosfera.

In buona sostanza bisogna agire fin da ora per porre un freno a questo devastante fenomeno che non sta portando benefici ai cittadini ma arricchisce prevalentemente pochi imprenditori, dà potere a qualche politico e alimenta fenomeni malavitosi. E la prima cosa da fare è quella di prevedere un sistema di tassazione che disincentivi il consumo di territorio vergine ma, invece, favorisca il recupero di edifici o di terreni già urbanizzati.

In tutto questo mare di dati chiari e precisi mi piacerebbe sapere cos’ha da dire – e non sono pochi, soprattutto tra gli amministratori locali – chi è favorevole a EXPO, TAV, espansione urbanistica, espansione per le seconde case, autostrade e strade varie. Sarei proprio curioso.

 

Scava la buca, riempi la buca

Dopo qualche decennio di esperienza personale nel mondo reale – caratterizzato anche dalla presenza di numerosi “furbetti” e da parecchi “leccaculo” – posso dire, con una buona dose di certezza, che gran parte delle grandi opere pubbliche realizzate in questi ultimi decenni siano state più un esercizio di arricchimento dei soliti finanzieri, la manifestazione di potere e di tangenti dei soliti politicanti e inutili sprechi di denaro pubblico piuttosto che interventi volti a migliorare veramente la vita dei cittadini e della collettività. I politici, a tutti i livelli, nei loro dibattiti istituzionali, nei loro discorsi pubblici e nelle loro interviste giornalistiche si sono sforzati di farcele apparire necessarie e portatrici di benessere anche se, in cuor loro, quasi sempre sapevano essere il contrario e sapevano che avrebbero alimentato solo l’arricchimento di pochi e, in caso di successo, la loro fortuna personale nell’ambito del mare magnum della politica.

Dopo la ricostruzione post bellica, la realizzazione delle grandi nervature autostradali degli anni ‘50 e’60 del secolo scorso (iniziate negli anni ’30), i miglioramenti della rete ferroviaria degli anni ’70 (dopo quelli degli anni ’30), si può osservare come gran parte delle grandi opere costruite a partire dagli anni ’90 del secolo scorso siano state inutili colate di cemento e asfalto, probabili depositi illegali di rifiuti tossici e bieche speculazioni urbanistiche.

Tanto per fare qualche esempio, tra i più recenti interventi inutili (1) si potrebbe annoverare il MOSE, la linea ferroviaria ad alta velocità (TAV), l’EXPO e le numerose strade e autostrade attualmente in corso di realizzazione o in programmazione (vedasi decreto “Sblocca Italia” e i numerosi progetti presenti sul tavolo dei ministeri, dalla Nogara-Mare alla Pedemontana Lombarda, dalla Valdastico nord al 3° Passante di Genova).

Il MOSE (Modulo Sperimentale Elettromeccanico) ci è stato venduto come l’unica soluzione ingegneristica e tecnologica praticabile al problema dell’acqua alta di Venezia ma, per ora, è stato solo cemento, ferro, lunghi cantieri ed un enorme colabrodo di soldi pubblici, anche spesi in tangenti. Si pensi, solo per fare un esempio, che oltre all’elevatissimo valore economico di costruzione (circa 6 miliardi di euro, una delle opere più costose della storia italiana), il MOSE ci dovrebbe costare (sempre di soldi nostri) circa 40 milioni di euro ogni 5 anni per interventi di manutenzione alle paratie. A causa della scarsa qualità dell’acciaio utilizzato per le dighe mobili che, immerse gran parte del tempo nell’acqua salata della laguna tendono a corrodersi in maniera molto più elevata rispetto a quella inizialmente pensata, sembra però che tali manutenzioni dovranno essere molto più frequenti (forse addirittura ogni 2 anni).

La TAV, la linea di trasporto merci e passeggeri ad alta velocità – che non riguarda solo quella “famosa” che dalla Francia e dal Piemonte va verso est ma anche quella che da Monaco, attraverso il Brennero, dovrebbe andare a Palermo – è un’opera sostanzialmente inutile perché non viene incontro ad una reale esigenza di saturazione della attuali linee ferroviarie o a necessità sociali (trasporto pendolare) ma, piuttosto, è basata su vecchie previsioni dei trasporti che non hanno, almeno ad ora, un reale riscontro per il futuro. Quello di cui si avrebbe bisogno, oltre a qualche tratta ad alta velocità che colleghi grandi centri urbani lontani tra loro, sono linee decenti di trasporto locale (soprattutto per i pendolari) e linee di media percorrenza a costi popolari. Inoltre tale opera immane è già a livello progettuale un grande buco nero di soldi pubblici, sia nella parte alpina prevista quasi tutta nelle gallerie, sia in quella di pianura caratterizzata da vomitate di cemento, di cavalcavia, terrapieni, ponti, rialzi e chi più ne ha più ne metta tanto da arrivare a costare, in alcune tratte, fino a circa 60 milioni di euro a chilometro.

Cosa dire infine dell’EXPO e delle numerose strade e autostrade progettate o in fase esecutiva. Il primo evento, l’EXPO, doveva essere l’esposizione universale del cibo come energia della vita. Prima del suo svolgimento è difficile anticipare come riuscirà a rappresentare “l’energia della vita” ma quello che ad ora è certo è il fatto che l’evento si è rivelato il solito enorme spreco di territorio agricolo, di tangenti, di mafia e di corruzione. Il vero nodo non sarà tanto l’EXPO in sé ma capire cosa ne sarà degli spazi realizzati dopo la chiusura della manifestazione anche se le premesse non sono edificanti dal momento che le gare per l’assegnazione degli immobili stanno andando deserte per mancanza di interessati.

Per quanto riguarda le strade e le autostrade che si stanno costruendo e che si vorrebbero costruire, per gran parte di esse mancherebbero i numeri economici e di traffico che ne giustificherebbero gli enormi investimenti (vedasi la Brebemi che dopo qualche mese dalla sua apertura è praticamente vuota). Si vogliono fare comunque lo stesso, se non esplicitamente per far piacere ai soliti finanzieri e ai soliti costruttori, anche perché si ritiene che gli investimenti in grandi opere pubbliche creino giro economico e sostengano quel minimo di crescita e di consumi.

Dato tutto ciò e visto e considerato che tutte queste opere costano immensamente in termini di finanze pubbliche (che sono quelle che alimentiamo noi con le nostre tasse) nonché in termini di degrado ambientale e del paesaggio (così importante per l’Italia ad elevata vocazione turistica), mi chiedo se non sia il caso, per alimentare comunque l’economia delle opere pubbliche, di cambiare strategia e di adottare la tecnica del: “Scava la buca, riempi la buca”. In sostanza sarebbe quasi meglio definire delle aree poco abitate e di scarso interesse economico-ambientale e, in esse, mettere in pratica la cantierizzazione di opere decennali di escavazione con conseguente successivo riempimento. Lo scopo è semplice: non creare nulla, sostenere l’economia e lo sviluppo tecnologico ma anche fare meno danni possibile (2).

Alla fine, nella logica delle opere inutili di cui sopra, cosa cambierebbe? Però, magari, salviamo ancora quel poco che c’è di salvabile…

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(1) Inutili perché, nel rapporto tra i costi e i benefici, prevalgono i primi.
(2) Ovviamente la tecnica del “Scava la buca, riempi la buca” è fittizia e provocatoria anche se si propone di cercare di capire veramente a chi e a che cosa servano le grandi opere. Di soldi in tasse ne tiriamo fuori tanti ma di benefici, quelli veri, noi cittadini spesso ne vediamo pochi.

 

EXPO 2015

Manca circa un anno a EXPO 2015 “Nutrire il Pianeta, energia per la vita” e quello che sino ad ora abbiamo sono solo numeri, cemento e tangenti. Poco è il nutrimento per il Pianeta e molto scarsa è l’energia per la vita.

I numeri sono quelli che dicono i politici, gli amministratori, i giornalisti e la gente comune in televisione, alla radio sui giornali, al bar, dal barbiere. Le solite cose: che EXPO è una grande opportunità; che EXPO arricchirà la città di Milano con il turismo e l’Italia con il prestigio; che EXPO fa e farà lavorare la gente (1). I cartelloni pubblicitari che in questi giorni tappezzano la metropolitana di Milano parlano di 1 milione di visitatori e di 145 paesi del mondo presenti. I racconti degli amministratori parlano di 190 mila posti di lavoro. Vedremo. Sono solo proiezioni che saranno tutte da dimostrare alla fine della manifestazione quando avremo i dati definitivi.

EXPO prog defPer quanto riguarda il cemento che è coinvolto nella realizzazione di EXPO basta vedere qualche foto del cantiere (in ritardo rispetto ai tempi previsti) per capire. Fino ad ora si tratta di un groviglio di strade, di infrastrutture e di fondamenta di palazzi in calcestruzzo. Mi sembra non resti quasi nulla dell’idea di sostenibilità che aveva contraddistinto l’opera fin dall’inizio (2) e che era stata “venduta” all’opinione pubblica ma, soprattutto, del progetto di riutilizzo dei padiglioni alla fine della manifestazione, l’autunno prossimo. Potrebbe essere che, come è successo per l’EXPO di Siviglia o per le Olimpiadi di Atene, i palazzi non trovino una nuova collocazione et voila… si riempiano di erbacce.

EXPO prog McDonoughPer quanto riguarda le tangenti basta scorrere la cronaca di quest’ultimo periodo (maggio 2014) per capire il marcio che c’è dietro alla manifestazione. Politici, imprenditori e tecnici coinvolti in giri di tangenti e di corruzione che fanno impallidire quelle del passato che, al confronto, per i soldi che erano interessati, rappresentano solo la “paghetta” di un bambino.

Sulla base di ciò ci si può ragionevolmente chiedere che cosa sia veramente EXPO. Ci si può chiedere se veramente il suo scopo sia quello di “nutrire il Pianeta” e di dare la giusta “energia per la vita” o sia, piuttosto, quello di alimentare le solite opere per fare un favore alle banche, agli speculatori e, forse, alla malavita. In merito alla creazione dei (presunti) posti di lavoro e al (presunto) prestigio dell’Italia non sarebbe stato meglio investire quei miliardi di soldi pubblici per lo sviluppo di nuove tecnologie in sintonia con la bioimitazione e in creazione di cultura collettiva, magari intervenendo, in parte, anche in piccole opere di utilità sociale?

Il problema è che EXPO, se correttamente comunicato ai cittadini e da loro approvato, fa muovere i soldi subito mentre la cultura e la ricerca no. Se, poi, i benefici tanto sbandierati non arrivano… chissenefrega!

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(1) Per meditare su chi parla in televisione e si manifesta palesemente a favore di un’opera senza capire poi realmente da che parte stia, si può fare riferimento alla cronaca di questi giorni: l’ex ministro Clini arrestato per presunto peculato e per aver sottratto fondi a diversi progetti esteri (Iraq e Cina). Quando parlava a favore di ILVA e snocciolava numeri su numeri… ci si può chiedere per chi lo facesse? Per i cittadini o per il perseguimento di un interesse personale? Mah!

(2) ad es. si veda il Master Plan del progetto proposto da William McDonough e partner

Foto 1: Rendering dell’area espositiva dell’EXPO 2015

Foto 2: Progetto proposto dallo Studio William McDonough + Partners

 

La ragnatela urbana

Avete presente quelle splendide ragnatele che talvolta, di mattina presto, in controluce e, magari, evidenziate anche dalla brina, si disegnano tra i rami degli alberi? Se siete fortunati che qualcuno e qualcosa non le abbia rovinate le potete vedere nella loro interezza cogliendo appieno la loro struttura: una forma che, da un punto centrale parte a raggiera e che ha i raggi portanti della struttura uniti tra loro da segmenti, via via sempre più lunghi e radi più ci si allontana dal centro. Una trappola invisibile, perfetta, per insetti volanti che vi dovessero finire sopra.

Ora, provate a mettere in orizzontale la ragnatela e a trasporla, in dimensioni maggiori, su un qualsiasi territorio, meglio se pianeggiante e senza ostacoli. La potete notare meglio di sera, con i lampioni accesi, ora che l’illuminazione notturna ha raggiunto (ahimè!) anche le strade più remote. Vedrete che la sua forma ricalca perfettamente la struttura delle città e delle sue vie di comunicazione: il fulcro è il centro urbano e i fili delle ragnatele sono le strade o la ferrovia. Quelle a raggiera sono le principali mentre quelle di congiunzione dei raggi sono quelle secondarie, di quartiere o, via via che ci si allontana dal centro, quelle più rade di periferia e di campagna.

Come quella del ragno anche la “ragnatela” del territorio (ragnatela urbana, la si può definire) la potremmo considerare un’enorme trappola. Che non fa prigionieri e morti come quella del ragno ma che porta l’urbanizzazione sempre più lontano dalle città divorando sempre più territorio, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno.

La ragnatela urbana è la conseguenza dei comportamenti e delle decisioni scellerate degli amministratori pubblici per portare “progresso” e “benessere” (e, spesso, anche interessi economici personali e lobbistici) perché si devono costruire nuove strade, per poi fare nuove aree industriali, per poi costruire nuove case, per poi fare nuovi ponti, per poi fare nuove valutazioni di impatto ambientale, per poi fare nuovi progetti, per poi ottenere nuovi finanziamenti, per poi fare nuove strade, per poi…

La ragnatela urbana è anche la conseguenza delle richieste avanzate dagli imprenditori per garantire competitività alle proprie imprese: più vie di comunicazione uguale più facilità nei trasporti e nella movimentazione delle merci e dei prodotti. Inoltre costruire case, aree industriali e infrastrutture è, per loro, anche un ottimo sistema per diversificare gli investimenti.

E noi, cittadini, in mezzo, informati da un sistema di comunicazione che tende ad indagare poco perché non indipendente dai “poteri”, che ci beviamo un po’ tutto convinti che vada bene così.

Al di là di quello che ci viene detto a me sembra che la ragnatela urbana sia piuttosto una trappola e lo proverò a spiegare.
Innanzitutto la ragnatela urbana consuma territorio prezioso sia per l’agricoltura e la sovranità alimentare che per il paesaggio, fonte di reddito nell’ambito turistico. Poi, la ragnatela urbana è inefficiente perché esplode le città e le distribuisce su un territorio sempre più ampio, rendendo più complessi tutti i trasporti: dalle merci, alle informazioni, all’energia. Inoltre la ragnatela urbana contribuisce ad incrementare il consumo di energia, sia per costruirla che per gestirla, oltre che ad avere un effetto indiretto di distribuzione generalizzata dei fenomeni inquinanti.

La natura – che è sempre in lotta con il reperimento dell’energia a basso sforzo e per risparmiarla – a guardarla bene, invece, produce strutture collettive compatte, le uniche in grado di minimizzare gli sforzi e, al contempo, massimizzare le relazioni.

Sulla base di questo principio è necessario che da subito i Comuni e le Regioni inizino a praticare l’obiettivo di consumo netto del territorio (1) pari a ZERO senza attendere i fantomatici regolamenti comunitari o le leggi nazionali, che non arriveranno mai perché realizzate da chi ha anche interessi personali diretti e indiretti sull’edilizia e sulla realizzazione delle infrastrutture.

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(1) Per consumo netto del territorio si intende solo il consumo del territorio vergine, al netto dei recuperi effettuati su territorio già urbanizzato.

 

Casa Batroun

Conosco personalmente Maya, la proprietaria di “Casa Batroun”. L’ho conosciuta nel 2009 a Beirut (1) durante uno dei miei soliti viaggi in giro per il mondo.

Maya si divide tra Londra – dove collabora con EcoConsulting, una società di consulenza nel campo ambientale – e Beirut (la sua città natale) dove cerca, con mille difficoltà ma anche con molta tenacia, di mettere in pratica quello che nell’Europa del nord è considerato essere cosa abbastanza normale.

Casa Batroun è una casa sostenibile e la sua particolarità non sta tanto nel fatto che si tratta di una casa ecologica per la quale sono state adottate certe soluzioni tecniche piuttosto che altre, quanto nel contesto in cui è stata realizzata. Il contesto è il Medio Oriente, una regione dove l’ecologia e la sostenibilità ambientale sono concetti praticamente agli albori (per non dire quasi inesistenti) e dove, per questa ragione, l’importanza del progetto e della realizzazione di Casa Batroun è ancora più importante. In parte perché può rappresentare un interessante esempio per le comunità locali di come si possa concretamente realizzare un edificio sostenibile; in parte perché può accrescere la cultura e la conoscenza degli artigiani locali verso tecniche nuove, meno impattanti su un ambiente, il loro, già abbastanza messo sotto pressione da abusivismo edilizio, pessima gestione dei rifiuti, trasporti e industrie inquinanti.

Casa Batroun_02Da come ora in origine a come è stata recuperata, Casa Batroun è ora completamente trasformata. Per arrivare a questo importante traguardo le soluzioni adottate per il restauro sono state:

  • riuso di vecchio legno sia per la parte strutturale che per alcuni pavimenti
  • riuso di vecchie porte, finestre, scale, piastrelle e mobili
  • utilizzo di legno proveniente da foreste sostenibili (FSC)
  • utilizzo di collanti a bassa emissione di solventi e formaldeide
  • utilizzo di isolamento a base di lana di pecora e pasta di legno
  • utilizzo di calce naturale
  • utilizzo di idropittura ecologica AURO
  • utilizzo di linoleum prodotto da resina naturale: durevole, riciclabile e privo di solventi
  • design bioclimatico: ventilazione, posizionamento delle finestre e ombreggiatura
  • riscaldamento mediante stufa a pellet
  • utilizzo di pannelli solari per la produzione di acqua calda
  • utilizzo di lampade a led
  • utilizzo di apparecchiature a basso consumo energetico
  • utilizzo di vasche per la raccolta dell’acqua da usare per l’irrigazione e le toilette
  • realizzazione di un tetto verde
  • predisposizione di un sistema di raccolta differenziata e di compostaggio dei rifiuti organici.

[Vedi il progetto di Casa Batroun]

Casa Batroun è stata costruita secondo i criteri della certificazione BREEAM Excellent (non ancora certificata) e ha ricevuto il premio Green Apple per la costruzione ecologica e per il recupero architettonico.

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(1) Durante quel viaggio sono anche stato in Siria e mi piange il cuore pensare come la sta riducendo una stupida guerra civile.

 

La città diffusa è come un cancro…

La città diffusa è come un cancro che divora inesorabilmente tutto il territorio di una determinata area geografica. Strade, case, infrastrutture, capannoni industriali, servizi, centri commerciali si diffondono sempre più numerosi e crescono come funghi velenosi nelle campagne, sulle pendici dei monti, ai bordi delle vie di comunicazione, sulle coste dei mari e dei laghi.

Molti lo chiamano “sviluppo”, soprattutto i politici e gli affaristi locali, ma agli occhi di un osservatore attento appare difficile poterlo definire come tale dal momento che in esso non si riesce ad intuire, nemmeno con la più acuta fantasia, un algoritmo che lo regoli nel profondo. È pura confusione, puro rumore di fondo senza un minimo di armonia.

Certo è che una tale (non) pianificazione territoriale non garantisce uno sviluppo durevole dal momento che per poter funzionare ha bisogno di enormi quantità di energia per gli spostamenti e frammenta, come nello scoppio di una bomba, il tessuto urbano e sociale in mille parti, spesso disunite e difficili da gestire con equilibrio.

La natura, ad osservarla bene invece, ci insegnerebbe l’esatto contrario e gli animali sociali (come l’Homo urbanus, versione moderna dell’Homo sapiens) che in essa vivono, per poter raggiungere la massima efficienza energetica e la massima collaborazione reciproca, dovrebbero vivere in ambienti “concentrati” pur migrando, anche lontano, alla ricerca di risorse. Ecosistemi che noi dovremmo iniziare a studiare approfonditamente e a copiare nell’organizzare le nostre città, le nostre vite e le nostre relazioni.

L’unica soluzione al baratro rappresentato dalla città diffusa è quella, da un lato, di partecipare alla vita sociale e di esercitare un’azione di controllo sulla sfera politica ed economica nonché, dall’altro, di esigere (attraverso il voto e il consenso) che la politica inizi a porsi seriamente delle domande su che cosa sia importante al di là della dimensione presente e inizi a mettere sul tavolo (della legge) regole certe di tutela del territorio e di efficienza urbana che consentano di sperare anche in un futuro più durevolmente prospero.

Temo che quello che ora percepiamo potrebbe essere solo benessere apparente e temporaneo che in questi ultimi anni si sta affievolendo e che presto, forse troppo presto e troppo velocemente, potrebbe anche finire!

 

Digiuno per il territorio

Oggi ho partecipato al “Digiuno per il Territorio“, una campagna di sensibilizzazione promossa da don Albino Bizzotto e dai Beati Costruttori di Pace per la difesa del ambiente. Con l’astinenza dal cibo ho messo in gioco il mio corpo per proteggere quel bene prezioso, il territorio, che è di tutti che ogni giorno viene violentato dalla cementificazione selvaggiaa e dalla speculazione più bieca.

Nelle scelte dissennate della politica l’economia reale e i veri bisogni dei cittadini non contano praticamente NULLA. Quello che conta sono solo i “schei” (soldi, in dialetto veneto) di pochi!

PARTECIPATE NUMEROSI.

O, al limite, impegnatevi in qualsiasi modo a difendere la “casa” di tutti. L’unica che abbiamo!

 

MAD Bike

L’obiettivo era quello di creare a Oslo, in Norvegia, un parcheggio per 200 biciclette in una strada molto stretta e scarsamente illuminata. Inoltre si desiderava fornire ai pedoni e ai ciclisti un interessante impatto visivo per invogliarli anche ad entrare nell’area commerciale posta al piano terra di uno dei palazzi della via.

La soluzione architettonica e urbana proposta dallo Studio MAD Arkitecter per realizzare il parcheggio è stata quella di creareParcheggio bici_02 delle installazioni stilizzate di biciclette in acciaio (le “MAD Bike”) che possano fornire contemporaneamente un parcheggio sicuro per le biciclette e un’installazione piacevole dal punto di vista estetico, data sia dalle originali strutture che dalle luci. Queste ultime, infatti, che forniscono anche l’illuminazione pubblica al parcheggio, ripropongono i fanalini (rossi dietro e bianchi davanti) delle vere biciclette, orientate in direzione del fiordo.

L’effetto finale dell’installazione è molto interessante perché, oltre a promuovere opere belle e originali da realizzare nelle città, agisce anche nell’ambito dell’urbanistica e della mobilità perché orienta i cittadini verso la percezione che il trasporto in bicicletta è efficace e alternativo a quello automobilistico (anche nella fredda Norvegia).

Se lo fanno loro perché non realizzarlo anche noi!?

Parcheggio bici_03

La morte del paesaggio

Mi fa inorridire sentir dire a priori, senza alcun spirito critico, che l’Italia è bella solo perché ha un invidiabile patrimonio artistico-culturale e un magnifico paesaggio. Balle!

L’Italia, è vero, ha un enorme patrimonio artistico-culturale che vanta il più grande numero di siti UNESCO del mondo ma, invece di essere coccolato e difeso, viene in gran parte lasciato marcire nei magazzini dei musei, viene fatto crollare o viene pian piano sommerso da strade, cavalcavia, capannoni industriali o da villette a schiera, spesso abusive. Se questa è bellezza?!

L’Italia, è altrettanto vero, vanta interessanti paesaggi naturali, spesso associati ad attività agricole o a centri abitati e borghi che fondano le loro origini nell’antichità. Sempre più spesso, però, questi capolavori di armonia estetica, frutto di secoli di lavoro e di ingegno umano, vengono orribilmente deturpati da imprenditori senza scrupoli e da amministratori privi di idee che approvano, spesso nei luoghi più impensabili, la distruzione del territorio attraverso la costruzione di nuove periferie  abitative fatte di case anonime senza estetica, di rotatorie inguardabili, di aree industriali senza identità, di strade, di capannoni isolati, di ponti, di cavalcavia, di ferrovie, di pollai, di muri di cemento armato…

La difesa, nel tempo, dell’economia e del benessere sociale deve passare anche attraverso la salvaguardia del territorio, fatto di paesaggi e di patrimonio artistico-culturale, molto spesso interconnessi.

Noi cittadini, per questo, ci dobbiamo indignare nei confronti di chi ha minacciato e continua a minacciare tale risorsa e dobbiamo iniziare a chiedere, da subito, che il Parlamento vari due semplici provvedimenti già da tempo sperimentati dagli altri paesi europei più evoluti di noi:

  • Una maggiore tassazione del patrimonio immobiliare rispetto al reddito, con esenzione o limitazione delle tasse per chi non consumi territorio attraverso restauri o recuperi di aree già urbanizzate;
  • Una limitazione annua del consumo di territorio a livello globale che impedisca l’espansione eccessiva del sistema economico dell’edilizia e delle infrastrutture consentendo allo stesso (quello più meritevole in termini di capacità imprenditoriale) di sopravvivere più a lungo nel tempo.

Da questi due nuovi capisaldi normativi si deve poi immaginare un nuovo sistema urbanistico compatto che è più efficiente in termini energetici e che conserva la bellezza dei paesaggi nonché un sistema di infrastrutture realizzato in funzione dei flussi e delle necessità reali piuttosto che fondato sul principio che gli appalti, anche se non necessari, sono comunque il volano dell’economia.

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Foto: www.verdeepaesaggio.it

 

BIQ House: la casa di alghe

Ad Amburgo, nell’ambito dell’International Building Exibition (IBA), Arup ha creato la “BIQ House”, il primo edificio al mondo alimentato totalmente dalla bioenergia prodotta dalle alghe.

In sostanza si tratta di un moderno edificio dotato, sulle facciate poste a sud-ovest e a sud-est, di bio-reattori costituiti da 129 pannelli in vetro riempiti di microalghe. Esse, esposte alla luce, innescano il processo di fotosintesi clorofilliana che permette sia di produrre l’energia termica che alimenta le necessità dell’edificio sia di produrre biomassa che consente di produrre biogas ed energia elettrica nonché di isolare lo stesso edificio dal sole. A seconda delle condizioni climatiche e della stagione cambiano le esigenze dell’edificio che, attraverso gli organismi che lo compongono, si comporta anch’esso come una sorta di organismo vivente. Quando c’è molta luce le alghe cresceranno molto e molto in fretta e produrranno una grande massa ombreggiante isolante dal calore, mentre quando la luce sarà poca le alghe cresceranno limitatamente e consentiranno ai raggi solari di riscaldare l’edificio.

BIQ House_Pannelli algheA seguito del prototipo BIQ House Arup prevede che gli edifici di un futuro non troppo lontano assomiglieranno a dei veri e propri organismi viventi dotati di sistemi biologici in grado di autoregolarsi in base al clima e realizzati per consentire un importante risparmio delle risorse naturali del pianeta. Avremo probabilmente edifici in grado di assorbire la luce solare sia per produrre calore che energia.

Forse la BIQ House non sarà proprio ancora del tutto autonoma in termini energetici e forse risulta un po’ troppo macchinosa la produzione del metano dalla biomassa di alghe. Essa però rappresenta comunque un interessante esercizio nell’ottica della bioimitazione e dello sfruttamento di tecnologie pulite che deve essere ulteriormente testato, sviluppato e migliorato affinché, in un prossimo futuro, la tecnologia della biochimica possa essere utilizzata nella produzione e nelle applicazioni di massa.

Per la costruzione della BIQ House Arup ha collaborato con la tedesca Colt International che ha prodotto i bio-reattori, con la tedesca SSC Strategic Science Consult e con lo studio di architettura Splitterwerk di Graz, in Austria.

Padania

Padania

A parte gli slogan di alcuni esponenti politici che identificano nella “Padania” uno stato autonomo dal resto d’Italia e a parte le loro sparate a fini giornalistici che vedevano milioni di abitanti del nord Italia imbracciare i loro fucili per conquistare l’indipendenza da “Roma ladrona”, a mio avviso la vera natura di quest’area di territorio europeo non è politica ma è, da un lato, geografica e, dall’altro, urbanistica.

A guardarla bene la Padania non è un vero stato: non si parla la stessa lingua (anzi gli idiomi dialettali sono numerosissimi e, talvolta, molto diversi tra loro anche tra territori vicini) e non abbiamo la stessa cultura (alcune aree sono state influenzate più dalla Francia, altre più dall’Austria, altre ancora presentano similitudini con l’est europeo).

Invece quello che è inequivocabile è il fatto che la Padania sia un territorio prevalentemente alluvionale, incastonato tra le Alpi, a nord, e gli Appennini, a sud. Un’area geografica che, un po’ per l’abbondante disponibilità di denaro per investimenti nel dopoguerra, un po’ per la fortuna di un territorio pianeggiante, un po’ per l’intraprendenza dei suoi abitanti, ha visto in questi ultimi settant’anni la nascita di una piccola e media impresa e di un benessere economico diffuso con l’ampio sviluppo di una classe borghese.

Questo fenomeno economico ha innescato il secondo fenomeno, quello urbanistico, di cui si parla meno. In definitiva la Padania è un’immensa città!

Questa sua vera natura si nasconde dietro i diversi nomi delle città, delle cittadine, dei paesi e delle frazioni ma se la si percorre nel suo groviglio intricato di strade la si può vedere come una enorme piovra dotata di lunghi tentacoli che si dispiegano attraverso le vie di comunicazione.
Da Trieste a Torino, da Varese a Piacenza e Bologna la Padania è oramai un unicum intervallato qua e là da sempre più piccoli appezzamenti di terra dedicata ad attività agricole poco remunerative che sempre più spesso sono presi di mira dagli speculatori che progettano aree industriali, aree commerciali, impianti per la produzione di energia, nuovi quartieri, strade e ferrovie.

In questa sempre più rapida trasformazione del territorio la classe politica “illuminata” (pochi, per la verità) si dimostra inerme mentre la maggior parte di essa, convinta dei benefici che la trasformazione possa comportare (e forse anche da interessi personali), la cavalca ampiamente promuovendone con forza le dinamiche.

Il fenomeno è semplice da descrivere: ogni comune promuove le proprie iniziative urbanistiche senza un vero e proprio coordinamento con quelle di altri comuni e, sommando tutti gli interventi, quello che ne deriva è un mostro che divora, anno dopo anno, territori, paesaggi, conoscenze e storia.

Al di là delle vere o presunte necessità economiche e sociali di una tale dinamica, quello che vorrei far notare è che essa, comunque sia, è contro natura. Mentre la natura basa il proprio funzionamento sull’efficienza e sulle interdipendenze, la megalopoli Padania, esplosa in tanti frammenti su un ampio territorio, consuma (sarebbe meglio dire spreca) enormi quantità di energia per gli spostamenti, per il riscaldamento e per il condizionamento. Inoltre divora (cementificandolo, asfaltandolo, spianandolo) immense quantità di territorio che dovrebbe ospitare anche boschi, pascoli, aree selvagge, fiumi non controllati, campagne non coltivate a monocoltura per creare relazioni di vantaggi reciproci tra gli esseri viventi (compreso l’uomo).

In sostanza si dovrebbe pensare anche a creare la possibilità che la natura, su un determinato territorio, possa fornire gratuitamente dei fondamentali servizi all’uomo: depurazione delle acque, purificazione dell’atmosfera, animali selvaggi indirettamente utili per l’agricoltura, animali d’allevamento e prodotti agricoli sani.

Vista con occhi nuovi la megalopoli Padania è tutta da riprogettare. Meglio abbandonare, pertanto, l’idea di forzare la costruzione di uno Stato indipendente e concentrare le energie verso un nuovo approccio, prima filosofico e poi tecnico-organizzativo, che ben identifichi le caratteristiche naturali specifiche di questo territorio (e il loro funzionamento) e veda in esse un alleato al mantenimento del benessere piuttosto che un ostacolo da piegare continuamente con la forza.