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Personaggi | Pepe Mujica è Bioimita
José Alberto Mujica Cordano (Pepe), l’ex Presidente dell’Uruguay, sintetizza con una saggezza e una preparazione incredibili quello che cerco di dire io attraverso Bioimita. Io ci provo e spero di non perdermi. Lui, invece, è semplicemente un grande: lucido, preciso, saggio!
Senza troppi commenti inutili riporto allora integralmente una parte dell’intervista che gli ha fatto qualche giorno fa il quotidiano la Repubblica.
D: Si oppone alla globalizzazione?
R: “No, non è possibile. Sarebbe come essere contrari al fatto che agli uomini cresce la barba. Ma quella che abbiamo conosciuto finora è soltanto la globalizzazione dei mercati. Che ha come conseguenza la concentrazione di ricchezze sempre maggiori in pochissime mani. E questo è molto pericoloso. Genera una crisi di rappresentatività nelle nostre democrazie perché aumenta il numero degli esclusi. Se vivessimo in maniera saggia, i sette miliardi di persone nel mondo potrebbero avere tutto ciò di cui hanno bisogno. Il problema è che continuiamo a pensare come individui, o al massimo come Stati, e non come specie umana“.
D: Lei è ateo ma condivide molte idee con Papa Francesco, soprattutto la critica della società consumistica e del capitalismo selvaggio.
R: “La mia idea di felicità è soprattutto anticonsumistica. Hanno voluto convincerci che le cose non durano e ci spingono a cambiare ogni cosa il prima possibile. Sembra che siamo nati solo per consumare e, se non possiamo più farlo, soffriamo la povertà. Ma nella vita è più importante il tempo che possiamo dedicare a ciò che ci piace, ai nostri affetti e alla nostra libertà. E non quello in cui siamo costretti a guadagnare sempre di più per consumare sempre di più. Non faccio nessuna apologia della povertà, ma soltanto della sobrietà“.
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Video: Discorso del Presidente dell’Uruguay José Alberto Mujica Cordano, alla conferenza delle Nazioni Unite sullo sviluppo sostenibile, tenutasi a Rio il 20 Giugno 2012.
Più guardo l’uomo e più penso che siamo ridicoli
Che cosa voglio dire dichiarando che l’uomo è ridicolo? (1) L’affermazione può sembrare un’ipocrisia assoluta e un enorme insulto se pensiamo alla (apparente) supremazia che abbiamo raggiunto rispetto agli altri esseri viventi che popolano la Terra. Se pensiamo alla tecnologia che abbiamo raggiunto, alla manipolazione della chimica, alla genetica, alla grande disponibilità di energia e di cibo. Se pensiamo alla longevità della nostra vita rispetto a quella dei nostri antenati, alle possibilità di cura in caso di malattia e alle regole sociali che siamo riusciti ad elaborare. Se pensiamo all’economia, al linguaggio, all’arte, alla musica, alla religione e, in generale, alla profondità del pensiero simbolico che abbiamo sviluppato in poche generazioni evolutive, durate solo qualche decina di migliaia di anni.
Quello che voglio osservare con questa affermazione è il fatto, da me percepito, che l’illusione di essere superiori alla natura e artefici attivi, non più passivi, delle sue dinamiche ci ha fatto perdere di vista l’obiettivo primario della vita, quello di vivere, di procreare e di garantire un futuro per i nostri discendenti. Il che, tradotto per i tempi moderni e per l’umanità attuale è: vivere sereni e felici, cioè avere benessere (ben-essere, che non è solo quello economico); godere delle relazioni familiari e amicali, magari accudendo anche la prole (non necessariamente quella biologica); garantire a se stessi, ma soprattutto alle generazioni future, le stesse opportunità di benessere su questo insostituibile pianeta.
Quando si osservano, invece, le dinamiche umane tutte collegate in una rete infinita di relazioni fatte di soprusi, di guerre, di disuguaglianze, di religioni, di manipolazioni del pensiero, di distruzione delle risorse ambientali, di alterazione profonda degli equilibri planetari non si può non pensare che siamo semplicemente ridicoli. Se non peggio!
Quando si pensa alla scienza in balia del narcisismo e del vantaggio economico, alla salute svenduta al profitto, alla finanza fine a se stessa che gioca alla roulette russa con i bisogni dei cittadini, alle aziende che anziché essere al servizio del progresso e dei bisogni dei cittadini sono finalizzate solo al becero profitto, come non pensare che l’uomo sia ridicolo.
Quando si pensa alla funzione delle nostre guide (politici, capi religiosi, intellettuali) e si vedono i loro comportamenti ipocriti fatti di gestione del mero potere, di arricchimento economico personale e di manipolazione delle libertà individuali per biechi fini propagandistici come non pensare che l’uomo sia ridicolo.
Quando ci si guarda indietro nella storia delle nostre “civiltà” e si vede distruzione, guerre, ipocrisia, cattiveria, opportunismo, follia collettiva ma, soprattutto, continuità senza fine dell’azione umana senza concrete svolte radicali come non pensare che l’uomo sia ridicolo.
Quando si pensa agli altri esseri viventi che con noi condividono ora il pianeta Terra ma che lo hanno abitato da più tempo di noi, anche quando non c’eravamo o eravamo solo un abbozzo evolutivo, come non pensare che siamo ridicoli. Come non pensare che siamo ridicoli noi che abbiamo bisogno di un telefono cellulare per comunicare, di un gps per orientarci, di vestiti per coprirci, di supermercati per mangiare, di ospedali per curare problemi che in gran parte noi stessi abbiamo generato. Come non pensare che siamo ridicoli noi che diciamo che una lumaca “fa schifo”, che un lupo “è cattivo”,che un topo “è sporco”, che una mucca è un “bene di consumo”, che un pipistrello “non è intelligente”.
Ebbene sì, quando si pensa a tutto questo – e a molto altro – come non pensare che siamo ridicoli. E forse anche stupidi!
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(1) Anch’io appartengo alla specie Homo sapiens e, per questo, non mi posso considerare estraneo al problema.
L’EXPO è già un lontano ricordo
Prendo la metropolitana che dal centro di Milano porta alla Fiera di Rho almeno un paio di volte la settimana da quasi 15 anni. Si tratta di una linea, quella “rossa” M1 che, passando dal centro della città, scarica un fiume di persone alle fermate “Duomo” e “S. Babila”, un po’ meno alla fermata “Cadorna FN”, qualcuna in meno a “Lotto” e, più si va verso la periferia, più i passeggeri si diradano fino quasi a scomparire. Questa è la norma tranne alcune anomalie che si verificano nei giorni dell’anno in cui si svolgono le principali iniziative fieristiche. Durante i mesi dell’EXPO, soprattutto nella fase finale dei mesi di settembre e ottobre scorsi, le normali proporzioni quotidiane dei passeggeri si sono completamente ribaltate, per poi tornare agli equilibri di affluenza normale non appena sono stati chiusi i cancelli della manifestazione.
Quello che colpisce ora, a pochi mesi dalla fine dell’EXPO, è il fatto che da nessuna parte si rileva traccia dell’enorme movimento dei mesi passati. Tranne qualche vecchio residuo di cartellone pubblicitario degli sponsor principali non ancora coperto da quelli nuovi, della kermesse fieristica internazionale a Milano non è rimasto praticamente nulla.
Al di là dei dati economici e degli equilibri finanziari (1) che, si spera, saranno analizzati con dovizia di particolari da esperti contabili e revisori dei conti, quello che mi colpisce e mi rattrista è il fatto che di tutti i messaggi di sostenibilità (“EXPO: nutrire il Pianeta, energia per la vita”) e di tutte le “Carte di Milano” non sia rimasto praticamente più niente. Nessuno ne parla e nessuno ne scrive più. Svaniti!
Senza andare troppo a scavare nei dati e nelle statistiche e senza cercare motivazioni troppo complicate, a mio modesto parere questa è la vera e semplice dimostrazione dell’inutilità e dell’inefficacia educativa di EXPO. Bisognava solo attendere qualche mese dalla chiusura dei cancelli per potersene rendere conto. Et voilà.
Proprio da questo generale disinteresse per la manifestazione che si nota già solo pochi mesi dopo la fine (non ne parla più la politica, non ne parla più la stampa e non ne parlano più gli amici o i conoscenti entusiasti che ci sono andati più volte ma che ora sui social network enfatizzano altro) si deduce quanto siano stati ipocriti i vari messaggi che hanno prima giustificato all’opinione pubblica e poi sostenuto la manifestazione durante il suo svolgersi. Era tutto un fiorire di messaggi “green” – dal tema principale, il nutrimento per il Pianeta al risparmio energetico; dall’uso di auto ecologiche alla “Carta di Milano” – che il disinteresse di questi giorni ha dimostrato essere solo marketing. Questo generalizzato distacco per EXPO dimostra quanto il vero scopo della manifestazione, che noi (giustamente) sospettavamo fin dall’inizio, fosse altro rispetto ai temi sacrosanti che avrebbe dovuto trattare. Lo scopo era, in primis, costruire i padiglioni e le infrastrutture (e indirettamente consumare territorio) e, in secondo luogo, accontentare le multinazionali a creare, con soldi pubblici, un evento da consumare in breve termine nel quale commercializzare e promuovere beni alimentari o attività legate al cibo che poco o nulla hanno a che fare con la salvaguardia dell’ambiente e il (giusto) nutrimento del Pianeta.
È vero, in generale chi ci è andato si è divertito. Ma nulla di più che trascorrere una giornata al parco divertimenti o allo zoo. Viste queste considerazioni mi permetto di fare un appello alla politica: giustificare una manifestazione molto costosa pagata dai soldi dei cittadini attraverso falsi scopi ambientali è una cosa immorale che dovreste evitare, per il futuro, di fare. La sostenibilità ambientale è una cosa troppo seria da poter essere manipolata ad libitum per obiettivi che nulla hanno a che fare con essa. Please!
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(1) Il Fatto Quotidiano osserva che, in sei mesi, all’EXPO ci sono stati 20 milioni di ingressi, di cui quelli effettivi, tolti i vari movimenti del 14mila addetti, sono stati circa 18 milioni. Per ottenere il pareggio finanziario ci sarebbero voluti 20 milioni di biglietti venduti in media ad almeno 19 euro ciascuno. Secondo fonti interne, invece, il prezzo medio è stato di 10 euro ciascuno, poco più della metà di quello ottimale.
1.800 – 189.000 = 750
È da due anni e mezzo che, stufo di pensare che ci debbano pensare sempre gli “altri”, ho deciso di dare una svolta radicale al mio modo di muovermi in città acquistando e usando con regolarità una bici pieghevole. La tengo sempre nel baule dell’auto e la uso, io che abito fuori città, ogniqualvolta mi debba recare nel centro storico di Verona dove si trova la sede del mio lavoro, in cui vado al massimo un paio di volte la settimana.
Qualche pomeriggio fa, mentre pedalavo per percorrere la strada che mi riportava all’auto parcheggiata in periferia, pensavo a quanti chilometri potevo aver percorso con quella bicicletta, a quale fosse l’ipotetico risparmio di inquinamento per il Pianeta (cioè per tutti) e a quale fosse stato il risparmio economico per le mie tasche quale conseguenza della mia scelta.
Quello che ne è uscito dal ragionamento – sarà statala fatica o l’inquinamento che respiravo, mah! – è la formula senza (apparente) senso che riporto nel titolo: 1.800 – 189.000 = 750. Circa 60 km al mese per trenta mesi di utilizzo fa 1.800 km totali percorsi. Tenuto conto di una emissione media bassa di CO2 da parte di un’auto (105 g/km), la mia scelta in questi anni ha risparmiato 189.000 grammi di CO2 (189 kg) in atmosfera, per non parlare di altri possibili inquinanti prodotti dal mio motore a benzina. Ho anche fatto qualche calcolo sul risparmio economico che la mia scelta ha comportato e, tenuto conto che spendevo circa 15 €/mese per i biglietti dell’autobus e circa 10 €/mese per il maggior consumo di carburante, il mio risparmio in questi 30 mesi è stato di circa 750 €. Tenuto conto che la bici, tra acquisto e piccole manutenzioni, mi è costata 550 €, il risparmio netto è già ora di 200 € e continuerà ad aumentare. Si tratta di soldi che posso utilizzare, ad esempio, per comperare prodotti di qualità per la mia famiglia (biologici per gli alimentari o ecologici per gli altri beni), investire in cultura oppure in viaggi.
In buona sostanza, senza fare troppi sforzi – se non quello di pedalare, ma mi fa bene alla salute – sto partecipando attivamente al mio benessere e a quello delle generazioni future, sto sostenendo un sistema economico – quello che ruota attorno al mondo della bicicletta – più sano e sostenibile di altri, sono coerente con le idee che ho della vita e della società praticandole in prima persona.
Ognuno di noi, senza aspettare che ci pensi la politica, la religione, la scuola, la medicina, il datore di lavoro o altri, può essere direttamente l’artefice del cambiamento che vuol vedere nel mondo.
Cosa aspettate allora a cogliere questa magnifica occasione?!
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Foto: Wikipedia
Food Inc.
Se desiderate vedere quali potranno essere, di fatto, le conseguenze dell’Accordo TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership o Partenariato Transatlantico per il commercio e gli investimenti-trad.) mettetevi comodi sulla sedia o sul divano per circa 90 minuti e godetevi il documentario “Food Inc.” allegato.
Al di là dei fiumi di parole che si potranno spendere sull’argomento, sia pro che contro, non c’è alcun dubbio che l’accordo in oggetto è una manovra messa in campo da parte delle (poche e sempre meno numerose) multinazionali del cibo per conquistare nuovi mercati attraverso l’industrializzazione spinta dello stesso. Chi vi dirà che il TTIP favorirà le produzioni locali e biologiche si sta prendendo solo gioco di voi.
Buona visione…
Per info: Campagna Stop TTIP (it); STOP TTIP (en)
Quello che mangi diventa te stesso
Se è vera la massima “Tu sei quello che mangi” è valido anche il suo contrario: “Quello che mangi diventa te stesso”. Per comprendere questo concetto è sufficiente osservare che se quel bel pomodoro rosso che hai nel piatto davanti a te è pieno di residui di pesticidi, di diserbanti, di fungicidi e di ormoni della crescita, quando, attraverso la digestione, entra nel tuo sistema metabolico, tu diventi un po’ lui e lui diventa un po’ te stesso. Tu diventi un po’ lui perché il tuo stato di salute generale, nel tempo, tenderà a deteriorarsi più velocemente e/o a sviluppare più facilmente particolari patologie anche a causa del mix di residui di prodotti chimici pericolosi in esso presenti e lui diventerà un po’ te perché le sue componenti – e gli eventuali residui di veleni in esso presenti – entreranno in te stesso ed andranno a formare e costituire le tue cellule e i tuoi organi.
Nutrirsi non vuol dire semplicemente mangiare del cibo e, come se fosse composto di mattoni (le vitamine, i carboidrati, i grassi, le proteine, ecc.) posizionare, per scomposizione, questi ultimi tal quali nelle diverse parti del corpo. Nutrirsi vuol dire trasformare chimicamente i cibi per farli entrare a comporre il sangue, i liquidi corporei, le cellule e i tessuti. Insomma la trasformazione chimica è un processo un po’ più profondo della semplice scomposizione ed è soggetta ad un numero infinito di variabili, scarsamente prevedibili e anche un po’ diverse da animale a animale e da soggetto a soggetto.
Detto questo, nonostante la consapevolezza sempre maggiore sul buono e sul cattivo cibo che viene diffusa dai vari sistemi di comunicazione, assisto comunque spesso a discussioni che mettono in primo piano il prezzo sulla qualità. Avendo a disposizione il medesimo ammontare di denaro si preferisce, quale criterio di scelta, la quantità al valore. Si ragiona, ad esempio, del basso costo delle ciliegie al chilo e molto poco della loro qualità. O, per lo meno, la qualità viene molto dopo il prezzo. Per questo motivo, a me che chiedo se ne valga la pena e se non sia meglio optare, ad esempio, per prodotti biologici piuttosto che sul solo costo, mi viene risposto che “tanto tutto è inquinato” oppure che”sì, sarebbe meglio, ma che costa troppo caro”.
Vorrei osservare che dagli anni ’70 ad adesso le spese medie delle famiglie per il cibo sono più che dimezzate in percentuale sul reddito, passando da circa il 38% a circa il 17/18% di ora. Ciò significa che, anziché concentrare la propria attenzione sulla qualità dei cibi ed eventualmente destinare quanto rimane alle spese futili, si preferisce risparmiare sul cibo e non farsi mancare il nuovo telefono cellulare, la sostituzione frequente dell’auto, le sigarette, le colazioni al bar e spese varie di cose abbastanza inutili.
È come se, in un contesto storico dove aumenta la vita media e quindi dove è anche necessaria maggiore prevenzione attraverso il cibo per garantire una buona salute nel tempo, si fossero perse un po’ di vista le priorità e ci si fosse inebriati di cose futili e non del tutto necessarie.
A mio avviso è necessario iniziare a pensare che la qualità del cibo è un valore che, perché no, può comportare anche un prezzo superiore che siamo disposti a spendere. Ne otterrebbe sicuramente un enorme vantaggio indiretto anche l’ambiente.
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Foto: “Frutteria sottocosto“, negozio di frutta e verdura che ho fotografato in una città italiana.
Sette principi per un’agricoltura sostenibile
Lo scorso mese di maggio Greenpeace ha pubblicato il rapporto “Agricoltura sostenibile – Sette principi per un nuovo modello che metta al centro le persone”. Si tratta di una proposta politico-economica che, basata sulle più recenti innovazioni scientifiche, si propone di mettere al centro l’idea che è necessario produrre alimenti sani lavorando in sinergia con la natura e non contro di essa. Per ottenere ciò, in sintesi, è necessario rimettere al centro le persone e i loro bisogni, non il mero profitto.
L’introduzione al rapporto recita: “Basta guardare i numeri per capire che c’è qualcosa che non va: quasi un miliardo di persone ogni notte va a dormire affamato. Allo stesso tempo nel mondo viene prodotta una quantità di cibo più che sufficiente a sfamare i sette miliardi di persone che popolano la Terra. Circa un miliardo di persone sono sovrappeso od obesi. Una percentuale sconvolgente del cibo prodotto, che arriva al 30%, viene sprecata.
Il problema oggi non è quello di produrre più cibo, ma di produrlo dove ce n’è più bisogno e in un modo rispettoso della natura. L’attuale agricoltura industriale non è in grado di farlo.
Nel frattempo il Pianeta soffre. Stiamo sfruttando in maniera eccessiva le risorse, compromettendo la fertilità del suolo, la biodiversità e la qualità delle acque. Ci stiamo circondando di sostanze tossiche, che si accumulano intorno a noi. La quantità di rifiuti prodotti continua ad aumentare. E tutto questo accade in un contesto di cambiamenti climatici e di crescente pressione sulle risorse del nostro Pianeta, che si stanno riducendo.
L’attuale sistema agricolo è dipendente dall’uso massiccio di sostanze chimiche e di combustibili fossili. È sotto il controllo di un ristretto numero di multinazionali, concentrate in poche aree del mondo, prevalentemente nei Paesi più ricchi e industrializzati. Si basa in modo eccessivo su poche colture, minando alle basi di un sistema sostenibile di produzione del cibo da cui dipende la vita.
Questo modello agricolo inquina le acque, contamina il terreno e l’aria. Contribuisce in maniera significativa ai cambiamenti climatici, minaccia la biodiversità e il benessere di agricoltori e consumatori. Fa parte di un più ampio sistema fallimentare che sta determinando:
- un crescente controllo delle multinazionali in alcune regioni del mondo, che si traduce in una sempre minore indipendenza e autodeterminazione per agricoltori e consumatori, impossibilitati a operare scelte autonome su come e cosa viene coltivato;
- un’insostenibile spreco di cibo (tra il 20 e il 30 per cento), che avviene principalmente nella fase di post-raccolto nei Paesi in via di sviluppo e nella fase di distribuzione e consumo nei i Paesi ricchi;
- l’utilizzo di vaste aree e risorse per l’allevamento (circa il 30 per cento delle terre e il 75 per cento dei terreni agricoli) e per la produzione di biocarburanti;
- un sistema agroalimentare basato sulla coltivazione di poche monocolture, da cui si origina un’alimentazione insostenibile e poco salutare, spesso povera di nutrienti, alla base sia di problemi di malnutrizione sia di obesità;
- gravi impatti sugli ecosistemi, inclusi:cambiamenti climatici (il 25 per cento delle emissioni di gas serra, comprese quelle derivanti dalla conversione dei terreni, deriva dal settore agricolo e inquinamento dell’aria;
- problemi di scarsità e contaminazione delle acque in diverse aree del Pianeta: l’agricoltura utilizza il 70 per cento delle risorse d’acqua dolce; degrado del suolo, compresi fenomeni diffusi di acidificazione dovuti all’uso eccessivo di fertilizzanti chimici o di perdita di materia organica nel suolo; perdita di biodiversità e agrobiodiversità a tutti i livelli, dalla varietà genetica delle colture alla perdita di specie a livello naturale.
Oltre ad affrontare questioni di equità sociale – come la mancanza di un accesso paritario alle risorse per gli agricoltori (in particolare per le donne), la riduzione dei sistemici sprechi di cibo e il diritto a un’alimentazione sana – dobbiamo anche abbandonare l’attuale sistema fallimentare di produzione e dirigerci verso un sistema compatibile con l’agricoltura sostenibile.
L’agricoltura sostenibile è la soluzione per il futuro. È necessario agire adesso per avviare un cambiamento di cui abbiamo estremo bisogno“.
In questo contesto i sette principi per un’agricoltura sostenibile proposti dal rapporto di Greenpeace sono:
1. Sovranità alimentare – Restituire il controllo sulla filiera alimentare a chi produce e chi consuma, strappandolo alle multinazionali dell’agrochimica;
2. Sostegno agli agricoltori e alle comuntà rurali – L’agricoltura sostenibile contribuisce allo sviluppo rurale e alla lotta contro la fame e la povertà, garantendo alle comunità rurali la disponibilità di alimenti sani, sicuri ed economicamente sostenibili;
3. Produrre e consumare meglio – E’ possibile già oggi, senza impattare sull’ambiente e la salute, garantire sicurezza alimentare e, contemporaneamente, lottare contro gli sprechi alimentari. Occorre diminuire il nostro consumo di carne e minimizzare il consumo di suolo per la produzione di agro-energia. Dobbiamo anche riuscire ad aumentare le rese dove è necessario, ma con pratiche sostenibili;
4. Biodiversità – E’ necessario incoraggiare la (bio)diversità lungo tutta la filiera, dal seme al piatto con interventi a tutto campo, dalla produzione sementiera all’educazione al consumo. Ciò vuol dire esaltare i sapori, puntare sul significato di nutrizione e cultura del cibo, migliorando allo stesso tempo l’alimentazione e la salute;
5. Suolo sano e acqua pulita – Significa proteggere e aumentare la fertilità del suolo, promuovendo le pratiche colturali idonee ed eliminando quelle che invece consumano o avvelenano il suolo stesso o l’acqua;
6. Un sistema sostenibile di controllo dei parassiti – Significa consentire agli agricoltori di tenere sotto controllo parassiti e piante infestanti, affermando e promuovendo quelle pratiche (già esistenti) che garantiscono protezione e rese senza l’impiego di costosi pesticidi chimici che possono danneggiare il suolo, l’acqua, gli ecosistemi e la salute di agricoltori e consumatori;
7. Sistemi alimentari resistenti – Un’agricoltura sostenibile crea una maggiore resistenza (resilienza). Significa rafforzare la nostra agricoltura perché il sistema di produzione del cibo si adatti ad un contesto di cambiamenti climatici e di instabilità economica.
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Scarica il rapporto completo in italiano [qui]
Il Ministro dell’Ambiente, questo sconosciuto
Qualcuno per caso ricorda il nome dell’attuale Ministro dell’Ambiente? E quello precedente? E, per caso, qualcuno sa il nome esatto del “Ministero dell’Ambiente”? Se non ne avete idea non preoccupatevi. Sono in tanti gli italiani che non ne hanno idea: una parte di loro non sa nemmeno che esiste un Ministero dell’Ambiente e, tra quelli che ne conoscono l’esistenza, una buona parte non ha idea di che cosa faccia e a che cosa serva. E, sinceramente, anch’io ho qualche dubbio!
Per dovere di cronaca l’attuale Ministro dell’Ambiente si chiama Gian Luca Galletti e il nome esatto del ministero si chiama “Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare”. Un nome altisonante che vuole dichiarare a tutti la grande estensione del campo di azione di tale Ente che non è limitato al solo concetto astratto di “ambiente” ma che si spinge fino alle tutele concrete del “territorio” e del “mare”. Ottimo!
Queste tutele, però, esistono solo a parole e nelle declinazioni grammaticali del nome del Ministero. A dimostrazione che il Ministero dell’Ambiente è poco importante e che il ruolo del ministro è marginale nell’insieme delle azioni sociali di cui si occupa il Governo italiano, vi è il fatto che Il sig. Gian Luca Galletti è laureato in Scienze Economiche e Commerciali e nella vita ha svolto la professione di dottore commercialista e revisore contabile. Fin qui nessun problema perché potrebbe essere il commercialista più esperto di tutti i commercialisti d’Italia in tematiche ambientali. Se però ci si addentra tra le competenze del sig. Galletti si nota che egli ha fatto poco e si è occupato poco di tematiche ambientali. Piuttosto, come è giusto che sia per un commercialista, nella sua lunga carriera politica si è occupato prevalentemente di questioni fiscali e finanziarie.
È pertanto triste, a mio avviso, vedere quale sia la considerazione strategica che gli amministratori politici hanno dell’”ambiente”. È triste vedere che lo considerano una pura formalità amministrativa – se non una seccattura – e i loro interventi sono prevalentemente di facciata o partecipazioni a convegni. Poche sono le leggi prodotte; poche sono le iniziative strategiche proposte. È triste vedere che questo Ministro non viene quasi mai menzionato dai telegiornali o dai media in generale (né nel bene né nel male). Non interessano i suoi discorsi. Non interessano le sue idee.
Eppure l’”ambiente” – non la parola di cui si abusa ma visto come la nostra unica “casa” – dovrebbe essere al centro sia delle strategie sociali sia delle analisi economiche. Dovrebbe essere nominato più spesso quando si parla di salute, quando si parla di trasporti, quando si parla agricoltura e di istruzione. Dovrebbe essere al centro delle discussioni che animano le politiche dell’occupazione e del lavoro; dovrebbe essere il collante delle politiche industriali e dovrebbe essere la base della ricerca scientifica e dello sviluppo tecnologico.
E purtroppo, invece, l’ambiente esiste solo per inquinamento, i rifiuti, il consumo di territorio, il petrolio, le grandi opere inutili, la corruzione e, legato ad esso, esistono solo i SOLDI. E, l’ambiente, è solo un fottuto ostacolo a poter farne TANTI.
Ma che tristezza!
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Nota: per rendersi conto del curriculum del Ministro Gian Luca Galletti e per capire quali sono le strategie o le iniziative legislative del Ministero dell’Ambiente è sufficiente accedere ogni tanto al suo sito internet e girovagare tra le varie pagine.
Gli investimenti sono necessari per la ripresa
In questo particolare periodo storico caratterizzato dalla presenza di una lunga crisi economica che sta mettendo in ginocchio il sistema produttivo e sociale di gran parte degli stati mondiali numerose sono le ricette di politica economico-finanziaria che vengono proposte dagli economisti, dai politici e dalle diverse parti sociali. Si va dalla necessità di far ripartire gli investimenti pubblici al reddito di cittadinanza per chi è indigente o perde lavoro. Si va dalle politiche di acquisto del debito pubblico degli Stati da parte della Banca Centrale Europea (BCE) a quelle di incentivo dei consumi. Si va dalla svendita del patrimonio statale per far cassa attraverso le privatizzazioni alla facile concessione di autorizzazioni per le estrazioni petrolifere e di altri minerali.
OK, tutto corretto! O quasi, perché tali politiche funzionano bene solo nel breve o nel brevissimo periodo, cioè nell’arco massimo di 5 anni. Agli stessi teorici che le propongono (e che di solito appartengono alla classe medio-alta della società) desidererei anche chiedere quale visione del mondo hanno tra 10, 20 o 30 anni. Cosa succederà ai nostri figli quando saranno dei quarantenni/cinquantenni? Che sistema sociale e che sistema economico troveranno? Vivranno in un modo di pace, di civiltà e di democrazia o saranno costretti ad una folle competizione, a difendere con i denti e con la violenza quel poco che hanno e a mendicare dai potenti di turno?
A mio avviso nulla si sta veramente facendo per portarci veramente fuori dalla crisi economica. Quello che vedo sono solo piccole manovre correttive che tendono sempre di più ad impoverire i popoli e i cittadini a vantaggio di quei pochi (tra l’altro sempre meno) che detengono la ricchezza globale del Pianeta.
Prendiamo, ad esempio, gli investimenti pubblici così tanto agognati per fornire la teorica ripresa. Al netto della corruzione, gli interventi pubblici a cui si fa spesso riferimento sono quelli “rousveltiani” della gradi opere: autostrade, ferrovie, tunnel, porti, ponti, EXPO, MOSE e chi più ne ha più ne metta. Ci siamo però mai chiesti chi le usa queste grandi opere faraoniche se le famiglie hanno meno reddito disponibile? E quali sono i costi per le loro manutenzioni? Ci siamo mai chiesti se ci possono essere delle alternative a queste cattedrali nel deserto che, oltre ad essere altamente impattanti dal punto di vista della sostenibilità ambientale, non sono più così necessarie alla crescita economica come lo erano nel periodo della ricostruzione post bellica, quando la gente agognava a possedere beni che non aveva? Ci siamo mai chiesti se, piuttosto che muovere terra, scavare buche, gettare colate infinite di cemento e lastricare il territorio di asfalto non sia più conveniente lavorare, per esempio, per cambiare completamente il sistema produttivo e di approvvigionamento energetico? Ci siamo mai chiesti se invece di creare grandi strutture centralizzate di produzione, di commercio e di distribuzione di beni e servizi non sia più interessante creare piccole reti locali in connessione tra loro che distribuiscano maggiormente la ricchezza e che facciano aumentare i saperi?
Dal lato dei consumi, poi, si continua a ricercare la crescita e la ripresa economica incentivando sistemi consumistici lineari del tipo: produci, consuma e butta (qualcuno, sui muri delle città, scrive “crepa”). Ci siamo mai chiesti se non sia più conveniente iniziare seriamente un percorso che ribalti completamente tale assurdo sistema e che operi in modo più circolare limitando l’uso delle materie e la produzione dei rifiuti?
Nel nostro attuale contesto certifichiamo continue disuguaglianze e viviamo nell’ansia costante di perdere quello che possediamo (attraverso il consumismo) e abbiamo fatto (sacrificando il nostro tempo nel lavoro). Cambiando completamente prospettiva potremo anche gettare le basi perché le comunità siano più eque e le relazioni siano più armoniche. Magari non solo quelle umane ma anche quelle nei confronti della natura!
Per l’EEA l’innovazione ecologica sarà la leva per la competitività europea
Mentre la nostra politichetta nazionale e la nostra economia da quattro soldi bucati si scervella su come aumentare le trivellazioni di petrolio, su come impiegare il carbone, su come finanziare gli inceneritori, su come fare buchi (cave) e riempire tutti i pori liberi del territorio di cemento, nel suo rapporto “Resource-efficient green economy and EU policies” l’Agenzia Europea per l’Ambiente (European Environment Agency – EEA) osserva, invece, che la green economy è, attualmente, l’unico approccio strategico che consenta ad una società più giusta di vivere in un ambiente migliore. Secondo l’EEA l’approccio della green economy consente di raggiungere tre obiettivi:
- Contribuire al miglioramento nell’uso efficiente delle risorse
- Assicurare la resilienza degli ecosistemi
- Ottenere una società più equa.
Come fa notare il Rapporto dell EEA, durante la crisi finanziaria del 2008, la green economy si dimostrò essere l’approccio che fu in grado di risolvere due importanti problemi: il generale rallentamento dell’economia e la conseguente perdita di posti di lavoro; il continuo deterioramento dell’ambiante naturale, particolarmente evidente nell’ambito dei cambiamenti climatici e nel degrado degli ecosistemi. Questo doppio risultato spinse gli Stati europei a cercare di sviluppare politiche di recupero basate sulla green economy. Tuttavia – e purtroppo, dico io – mentre l’obiettivo politico si preoccupava, contemporaneamente, anche della salvaguardia degli aspetti fiscali e alla gestione degli enormi debiti pubblici, il concetto della green economy iniziò a perdere la propria forza all’interno di politiche macroeconomiche solo di breve periodo.
Come spiega Hans Bruyninckx, il direttore esecutivo dell’EEA: “L’innovazione può essere lo strumento più importante per cambiare il modo inefficiente con il quale attualmente utilizziamo le risorse. L’innovazione ambientale è la chiave per affrontare le sfide del 21° secolo. Se vogliamo vivere bene entro i limiti ecologici del pianeta avremo bisogno di affidarci all’inventiva dell’Europa. Non solo nuove invenzioni, però, ma soprattutto incoraggiare l’adozione e la diffusione di nuove tecnologie verdi (eco-tecnologie), scelta che potrebbe rivelarsi essere ancora più importante”.
Sempre Hans Bruyninckx osserva: “Un’altra leva per migliorare l’efficienza delle risorse potrebbe essere rappresentata dalla riduzione delle tasse sul lavoro come l’imposta sul reddito e, piuttosto, tassare l’uso inefficiente delle risorse e l’inquinamento ambientale. Tali imposte ambientali potrebbero promuovere la creazione di nuovi posti di lavoro, dal momento che si osserva che i Paesi con le tasse più alte nel settore ambientale sembrano avere un’economia e una competitività migliore rispetto agli altri”.
Sulla base di queste autorevoli affermazioni mi chiedo cosa ci voglia ancora per convincere i nostri rappresentanti che l’unica strada per recuperare la competitività e creare lavoro sia quella della green economy e del capitalismo naturale.
2067. La fine del petrolio
La BP (British Petroleum) non è certo la più rivoluzionaria delle aziende e nemmeno la più ecologica presente sul mercato. Si tratta, piuttosto, di una delle più importanti aziende energetiche a livello mondiale, operante prevalentemente nel campo del petrolio e del gas naturale.
Eppure, nella 63^ edizione della Statistical Review of World Energy, proprio la BP ha recentemente affermato che, sulla base dell’attuale tasso di produzione, alla fine del 2013 erano disponibili riserve di petrolio equivalenti a 1.687,9 miliardi di barili. Il che equivale, in pratica – a meno che il tasso attuale di consumo non cali drasticamente – al fatto che l’umanità ha a disposizione petrolio per altri 53 anni (fino al 2067, mese più mese meno) (1) che saranno in grado di soddisfare, al massimo, un paio di generazioni di uomini capricciosi e sedentari.
È da osservare anche il fatto che, mentre nel 2013 i consumi mondiali sono cresciuti dell’1,4%, la produzione, invece, ha visto un incremento solo dello 0,6%, pari a poco meno della metà. La maggiore crescita nei consumi, poi, si è avuta negli USA con un incremento di 400 mila barili di petrolio al giorno superando, per la prima volta dal 1999, la Cina ferma a 390 mila barili. A livello di incremento delle riserve di petrolio i migliori risultati li ha raggiunti la Russia con 900 milioni di barili annui seguita dal Venezuela con 800 milioni. Un’ultima osservazione riguarda, poi, il prezzo del barile di petrolio (che poi influenza il prezzo di vendita dei carburanti per l’utente finale) che, negli ultimi 3 anni, è rimasto sempre al di sopra dei 100 dollari a barile, dato che è significativo per dimostrare che oramai il petrolio è un bene sempre più difficile da reperire e oggetto di speculazione finanziaria.
Che cosa significa tutto ciò? Significa che l’ubriacatura dell’energia “facile” (da produrre, da stoccare, da trasportare e relativamente poco pericolosa) sta finendo (cosa saranno mai un paio di generazioni?) e, alla fine, se non saremo in grado di anticipare seriamente già ora le soluzioni per il futuro, a terra potranno rimanere solo macerie.
Cosa potrebbe accadere se in pochi anni dovesse raddoppiare il prezzo del petrolio? Cosa potrebbe accadere a livello economico e sociale se in breve tempo dovessero fallire gran parte delle aziende produttrici di automobili, già ora in crisi? Cosa potrebbe accadere se, in questi 20/30 anni che ci separano dalla vera crisi petrolifera, la tecnologia non sarà stata in rado di dare delle risposte accettabili in termini di energia per il settore dei trasporti? Cosa potrebbe accadere a livello geopolitico se tra qualche decennio le riserve di petrolio saranno nelle mani di pochi paesi e di poche persone?
Forse sarebbe meglio cercare, già da ora, di mettere in atto azioni che ci portino “dolcemente” verso: l’abbandono del petrolio (possibilmente molto prima che si esaurisca); il tramonto del mercato automobilistico e del sistema di trasporti come lo abbiamo conosciuto sino ad ora. Ne beneficerebbe anche l’ambiente e il clima. Bisogna, ad esempio, iniziare ad educare alla sobrietà nei consumi e disincentivare fortemente, attraverso un’elevata tassazione, le auto inquinanti e l’uso di energie inquinanti. Bisogna spingere le persone ad usare più mezzi pubblici, evitando innanzitutto la frequentazione dei centri storici delle città da parte alle auto private. Bisogna far sì che le persone accettino nuove forme di condivisione dei trasporti, nuove forme di mobilità e nuove forme di approvvigionamento energetico per le auto.
In pratica il sistema dei trasporti deve essere riprogrammato sin da ora e ogni anno di ritardo che ci separa dal fatidico 2067 rappresenterà una maceria in più che troveremo sul terreno della nostra stupidità.
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(1) Nell’articolo “E se finisse il ferro” la USGS (United States Geological Survey) ipotizzava il 2050 come anno di esaurimento del petrolio
EXPO 2015
Manca circa un anno a EXPO 2015 “Nutrire il Pianeta, energia per la vita” e quello che sino ad ora abbiamo sono solo numeri, cemento e tangenti. Poco è il nutrimento per il Pianeta e molto scarsa è l’energia per la vita.
I numeri sono quelli che dicono i politici, gli amministratori, i giornalisti e la gente comune in televisione, alla radio sui giornali, al bar, dal barbiere. Le solite cose: che EXPO è una grande opportunità; che EXPO arricchirà la città di Milano con il turismo e l’Italia con il prestigio; che EXPO fa e farà lavorare la gente (1). I cartelloni pubblicitari che in questi giorni tappezzano la metropolitana di Milano parlano di 1 milione di visitatori e di 145 paesi del mondo presenti. I racconti degli amministratori parlano di 190 mila posti di lavoro. Vedremo. Sono solo proiezioni che saranno tutte da dimostrare alla fine della manifestazione quando avremo i dati definitivi.
Per quanto riguarda il cemento che è coinvolto nella realizzazione di EXPO basta vedere qualche foto del cantiere (in ritardo rispetto ai tempi previsti) per capire. Fino ad ora si tratta di un groviglio di strade, di infrastrutture e di fondamenta di palazzi in calcestruzzo. Mi sembra non resti quasi nulla dell’idea di sostenibilità che aveva contraddistinto l’opera fin dall’inizio (2) e che era stata “venduta” all’opinione pubblica ma, soprattutto, del progetto di riutilizzo dei padiglioni alla fine della manifestazione, l’autunno prossimo. Potrebbe essere che, come è successo per l’EXPO di Siviglia o per le Olimpiadi di Atene, i palazzi non trovino una nuova collocazione et voila… si riempiano di erbacce.
Per quanto riguarda le tangenti basta scorrere la cronaca di quest’ultimo periodo (maggio 2014) per capire il marcio che c’è dietro alla manifestazione. Politici, imprenditori e tecnici coinvolti in giri di tangenti e di corruzione che fanno impallidire quelle del passato che, al confronto, per i soldi che erano interessati, rappresentano solo la “paghetta” di un bambino.
Sulla base di ciò ci si può ragionevolmente chiedere che cosa sia veramente EXPO. Ci si può chiedere se veramente il suo scopo sia quello di “nutrire il Pianeta” e di dare la giusta “energia per la vita” o sia, piuttosto, quello di alimentare le solite opere per fare un favore alle banche, agli speculatori e, forse, alla malavita. In merito alla creazione dei (presunti) posti di lavoro e al (presunto) prestigio dell’Italia non sarebbe stato meglio investire quei miliardi di soldi pubblici per lo sviluppo di nuove tecnologie in sintonia con la bioimitazione e in creazione di cultura collettiva, magari intervenendo, in parte, anche in piccole opere di utilità sociale?
Il problema è che EXPO, se correttamente comunicato ai cittadini e da loro approvato, fa muovere i soldi subito mentre la cultura e la ricerca no. Se, poi, i benefici tanto sbandierati non arrivano… chissenefrega!
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(1) Per meditare su chi parla in televisione e si manifesta palesemente a favore di un’opera senza capire poi realmente da che parte stia, si può fare riferimento alla cronaca di questi giorni: l’ex ministro Clini arrestato per presunto peculato e per aver sottratto fondi a diversi progetti esteri (Iraq e Cina). Quando parlava a favore di ILVA e snocciolava numeri su numeri… ci si può chiedere per chi lo facesse? Per i cittadini o per il perseguimento di un interesse personale? Mah!
(2) ad es. si veda il Master Plan del progetto proposto da William McDonough e partner
Foto 1: Rendering dell’area espositiva dell’EXPO 2015
Foto 2: Progetto proposto dallo Studio William McDonough + Partners
Il paradosso di Jevons
Per spiegare il paradosso di Jevons desidererei fare un esempio concreto e vorrei considerare, banalmente, la strada che divide casa mia da quella dei miei genitori, nella campagna (esiste ancora la campagna, mah!) a sud di Verona. Questa strada che percorro abitualmente è caratterizzata dalla presenza di alcune aziende agricole le più grandi delle quali, in questi ultimi anni, hanno fatto investimenti per produrre biogas dalle deiezioni degli animali di allevamento, dal quale ottenere energia elettrica. Sia ben chiaro che l’operazione è assolutamente positiva nell’ambito degli allevamenti industrializzati che caratterizzano l’agricoltura moderna. La cosa che mi stupisce, però, è che da quando queste aziende hanno a disposizione più energia, praticamente gratis, dal miglioramento dell’efficienza del processo, hanno anche riempito l’azienda stessa di un tripudio di fari, accesi tutta la notte, che non fanno altro che aumentare il consumo di energia rispetto a prima. La stessa cosa interessa anche la famiglia dei miei genitori dove, con la “scusa” di pannelli fotovoltaici che hanno sul tetto e con l’idea di poter consumare l’energia prodotta gratuitamente durante le ore diurne, sono considerevolmente aumentati i consumi di energia elettrica rispetto a quando non avevano i pannelli fotovoltaici ed è anche aumentato il numero di elettrodomestici presenti in casa. Tra il dubbio di accendere una lavatrice mezza piena o dosare l’utilizzo del condizionatore in estate, dopo l’installazione dei pannelli fotovoltaici prevale sempre la scelta verso il consumo con la scusa che: “Tanto l’energia è gratis!”.
Ma chi era Jevons? William Stanley Jevons era un economista e logico britannico vissuto nell’800 il quale, osservando il consumo inglese del carbone del suo tempo, si rese conto che miglioramenti di efficienza tecnologica dovuti a sviluppi nei motori e nelle caldaie a vapore non contribuivano a diminuirne il consumo ma, anzi, paradossalmente, in termini generali contribuivano ad incrementarlo.
In sostanza, estendendo questa osservazione in qualsiasi altro campo dove vi è aumento di efficienza a causa di miglioramenti tecnologici, Jevons sviluppò una regola accettata dall’economia (il cosiddetto “paradosso di Jevons”) secondo cui i miglioramenti tecnologici che aumentano l’efficienza di una risorsa possono far aumentare, anziché diminuire, il consumo di quella risorsa. In sostanza le tecnologie efficaci migliorano l’efficienza da un punto di vista tecnologico ma sollecitano la crescita della domanda a livello globale.
L’osservazione che desidero fare parlando del paradosso di Jevons consiste nel fatto che l’efficienza è un concetto assolutamente positivo nell’ambito tecnologico e produttivo perché consente di risparmiare risorse, energia e rifiuti prodotti. Pertanto deve essere sempre perseguita, nell’ottica del miglioramento continuo. Quello che non è affatto positivo, invece, è il comportamento umano che non ne coglie veramente la portata e che, illuso dal fatto di avere a disposizione più risorse per effetto dei miglioramenti di cui è consapevole, aumenta i propri consumi e, assurdamente, vanifica i benefici prodotti dall’efficienza stessa. Ad esempio soddisfatti di avere ridotto il consumo di energia attraverso la coibentazione della casa ci offriamo un viaggio in più ai Caraibi; il treno ad alta velocità va più veloce, allora andiamo più lontano e viaggiamo più spesso; se abbiamo un pannello solare sul tetto per la produzione di acqua calda consumiamo più acqua perché, avendo a disposizione energia gratis, ci laviamo di più e più a lungo.
Se vogliamo veramente perseguire la sostenibilità ambientale dobbiamo, da un lato, come ci insegna il funzionamento della natura, operare per ottenere la massima efficienza. Contestualmente, però, dobbiamo anche fare uno sforzo culturale e renderci conto che il vero obiettivo non è quello di ottenere l’efficienza per aumentare i consumi, ma quello di perseguirla con lo scopo di operare contestualmente un percorso verso la sobrietà. Altrimenti è come un cane che rincorre la sua coda…
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Grafico: Il grafico indica che, secondo il paradosso di Jevons, la migliore efficienza dovuta al passaggio da un’auto a scoppio ad una ibrida (che costa la metà in termini di costo per 40 km percorsi) è vanificata dal fatto che si modificano le abitudini di guida ed aumenta il numero di km percorsi settimanalmente (circa 250 km in più).
Foto: William Stanley Jevons
Albert Einstein e la crisi
“Non possiamo pretendere che le cose cambino, se continuiamo a fare le stesse cose.
La crisi è la più grande benedizione per le persone e le nazioni, perché la crisi porta progressi. La creatività nasce dall’angoscia come il giorno nasce dalla notte oscura. E’ nella crisi che sorge l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie. Chi supera la crisi supera sé stesso senza essere ‘superato’.
Chi attribuisce alla crisi i suoi fallimenti e difficoltà, violenta il suo stesso talento e dà più valore ai problemi che alle soluzioni. La vera crisi, è la crisi dell’incompetenza. L’ inconveniente delle persone e delle nazioni è la pigrizia nel cercare soluzioni e vie di uscita. Senza crisi non ci sono sfide, senza sfide la vita è una routine, una lenta agonia. Senza crisi non c’è merito. E’ nella crisi che emerge il meglio di ognuno, perché senza crisi tutti i venti sono solo lievi brezze. Parlare di crisi significa incrementarla, e tacere nella crisi è esaltare il conformismo. Invece, lavoriamo duro. Finiamola una volta per tutte con l’unica crisi pericolosa, che è la tragedia di non voler lottare per superarla” (1)
Sono fermamente convinto che la crisi che stiamo vivendo in questo periodo storico di inizio XXI secolo sia soprattutto una crisi ecologica, rappresentata dagli effetti iniziali della scarsità di risorse e materie prime nonché dall’insostenibilità del ciclo produzione-consumo-rifiuti su cui si basa il nostro sistema economico e sociale. Quella finanziaria, invece, da molti invocata come la vera e unica causa dei problemi e dagli stessi vista come manifestazione passeggera, a mio avviso è solo uno dei sintomi con la quale la prima si sta manifestando.
Indipendentemente da quale sia la vera origine della crisi ritengo sia assolutamente necessario cercare di trovare una soluzione per superarla e per garantire benessere nel tempo a tutti gli abitanti del Pianeta. Generazione dopo generazione…
Come osservava Einstein negli anni immediatamente successivi alla crisi del 1929, della crisi non bisogna averne paura. Non bisogna solo parlarne o, al contrario, far finta che non esista. Come per una malattia della quale si desidera trovare una cura, anche della crisi è necessario esserne consapevoli per rimboccarsi le maniche nel trovare soluzioni efficaci, non avendo paura di essere visionari nelle proposte e rivoluzionari nelle azioni.
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(1) (tratto da “Il mondo come io lo vedo”, 1931).
Foto: Wikipedia
“Prego, sig. Putin!”
È notizia di questi giorni che Vladimir Putin – il Presidente russo multimiliardario legato a doppio filo da interessi probabilmente anche personali con il sistema economico-produttivo del suo Paese – si è recato in Italia per incontrare una serie di personalità, tra cui il papa, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il Presidente del Consiglio dei Ministri Enrico Letta, Romano Prodi e l’ex premier condannato in via definitiva Silvio Berlusconi, suo vecchio amico.
Il suo arrivo sarà preceduto da una serie di figure di spicco del mondo politico ed economico russo e i suoi movimenti in Italia saranno accompagnati da un corteo di ben 50 auto che, scortate da polizia e servizi segreti in un roboante tripudio di alta velocità, sirene, guardie del corpo e bandierine svolazzanti, bloccheranno il traffico e infastidiranno gli spostamenti e le quotidiane attività degli italiani.
Leggendo la notizia e accostandola a quella della lunga e coraggiosa protesta dei cittadini gravemente malati di SLA che – da mesi – inutilmente desiderano essere ricevuti da un qualche rappresentante per far valere le loro sacrosante ragioni (anche se sbagliate, questo si vedrà), mi viene in mente un aspetto assurdo del mondo “democratico” in cui ci fanno credere di vivere.
Quando il mondo economico chiama… oplà! Tutti sull’attenti! “Dica signor Putin”. “Cosa desidera signor Putin!” “Prego signor Putin”, e giù inchini e salamelecchi. Quando, invece, chiama il cittadino per questioni che non muovono miliardi di euro e numerosi interessi privati della solita classe dirigente ma che si riferiscono alla salute, al benessere, alla cultura, all’educazione, alle relazioni, alla comunità e, in generale, ai veri e unici aspetti per cui la vita deve essere vissuta, si trovano solamente porte chiuse, sorrisi sarcastici e false promesse.
In un “sistema” politico sostanzialmente falso, fortemente sbilanciato solo sugli aspetti economici e che ci fa credere che la ricetta sia solo la crescita (per arricchire loro e per impoverire le nostre già misere esistenze), mi chiedo quale possa essere il ruolo della sostenibilità ambientale e del vero progresso della società.
Lascio a tutti voi l’amara risposta augurandomi che siate in grado, come a fatica cerco di fare anch’io, di essere fortemente critici e di essere disposti ad intraprendere una rivoluzione che sia il motore del vero sviluppo e del vero benessere, nonché di essere in grado di vedere al di là di quello che quotidianamente ci e vi viene fatto ingurgitare come medicina assolutamente necessaria.
Le tasse e la sostenibilità ambientale
Nel mare agitato della vita sociale delle cosiddette “democrazie” il timone della barca in navigazione non è in mano alle buone idee, ai cittadini o all’economia reale ma è in mano al “mercato” (1) che ha un unico e solo obiettivo: massimizzare i profitti attraverso la speculazione finanziaria. Tutto il resto, per il mercato, non esiste. O, meglio, quello che esiste è solo un fastidioso ostacolo che deve essere costantemente aggirato o saltato attraverso l’opera di uno stuolo di burattini che discutono, giustificano, allarmano e, mediante il rimbalzo dei media, diffondono il “verbo”.
Così – dicendo che è l’Europa o il mercato che ce lo chiede – ci hanno fatto digerire il rospo amaro dell’innalzamento dell’età pensionabile, della perdita di numerosi diritti (in particolare la salute, l’istruzione e la sicurezza sul lavoro), della disoccupazione e precarietà lavorativa, della contrazione generale dell’economia concreta a discapito di quella effimera rappresentata dalla finanza ma, soprattutto, ci hanno fatto digerire il rospo dell’innalzamento spropositato delle tasse sul reddito, sul consumo e sulla produzione.
È vero, nel passato sono stati fatti numerosi errori, spesso anche gravi, che per ragioni legate alla creazione del consenso politico hanno portato a spendere molto di più delle entrate e alla creazione di un enorme debito pubblico ma, ora, siamo arrivati al punto in cui chi ha goduto ha goduto. Gli altri, si arrangino!
E pensare che la tassazione – una cosa così negativa nella percezione dell’opinione pubblica – se ben applicata e pensata in chiave strategica potrebbe realizzare importanti obiettivi per il miglioramento della società e per l’ottenimento di rivoluzionarie performance ambientali. La tassazione potrebbe essere addirittura il volano – assieme all’innalzamento generale della cultura e della conoscenza – per iniziare e portare a compimento pratiche di largo respiro per migliorare i trasporti, per difendere il paesaggio, per risparmiare energia e per limitare la produzione dei rifiuti.
Nel dettaglio – anche se potrà sembrare paradossale – tratterò quali e come potranno essere gli ambiti nei quali tale tassazione potrebbe esprimere i suoi potenziali positivi relativamente alla sostenibilità ambientale (per facilità di lettura lo farò in diversi articoli):
- tassare le case per migliorare il mercato immobiliare e per limitare il consumo di territorio;
- tassare i rifiuti per limitare la produzione di scarti ed evitare discariche e inceneritori;
- tassare i consumi per limitare l’utilizzo delle materie;
- tassare l’energia per garantire razionalizzazione ed efficienza nel consumo della stessa.
Mi rattrista molto vedere come, sul terreno della tassazione, tutti imbraccino la bandiera demagogica della loro diminuzione (peraltro sacrosanta) mentre nessuno, o quasi, ponga l’accento su come migliorare le tasse (quella quota che comunque dobbiamo pagare) per orientarle verso la creazione di una nuova società, più civile, acculturata e creativa.
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(1) Purtroppo il “mercato” è in gran parte costituito dagli stessi cittadini che esso stesso contribuisce a mettere in difficoltà.
Foto: www.lintraprendente.it
La storia delle cose
Desiderate capire un po’ di più Bioimita e la bioimitazione?
Bene. Prendetevi una ventina di minuti, rilassatevi sulla sedia, distendete le gambe e guardate questo bel video…
… che vi chiarirà parecchie cose sugli oggetti che ci circondano e sull’effetto diretto e indiretto che hanno sulle nostre misere esistenze.
Come dice la presentatrice: “Quando le persone inizieranno a vedere e capire tutti i collegamenti tra i vari aspetti del nostro sistema lineare, esse saranno in grado di percepire qualcosa di nuovo rispetto al passato e saranno così capaci di immaginare un sistema che non butta via risorse e persone. Ciò che dobbiamo buttare via, invece, è solo la nostra mentalità usa e getta”.
Per approfondire: www.storyofstuff.org
UAAAAAAAHHHHHHHHH
Come meglio esprimere – se non con un urlo – il disagio e l’impotenza nel vedere il mondo economico-politico-sociale-religioso che perde tempo, energie e risorse preziose per accumulare denaro o per tentare di risolvere questioni marginali, inutili o puramente ideologiche e non si concentra, invece, sui meccanismi di fondo riguardanti il funzionamento del Pianeta che viviamo, oramai messo sotto pressione e alterato (quasi) irrimediabilmente da 7 miliardi di esseri umani?
Più sento i loro discorsi vuoti più capisco che ci stanno prendendo in giro tanto da non poter fare a meno di… UAAAAAAAHHHHHHHHH: urlare!!!
Riprendiamoci al più presto in mano il nostro futuro perché non c’è più tempo per scherzare.
Open Source Ecology
L’Open Source Ecology (OSE) è un movimento fondato negli USA da Marcin Jakubowski che si propone di creare, attraverso il coinvolgimento di diversi attori del mondo produttivo (imprenditori, ingegneri, designer, agricoltori e attivisti), una rete di competenze che diano origine ad un’”Open Source Economy”. In sostanza l’obiettivo è quello di far condividere, a livello mondiale, sia conoscenze tecniche che metodologie produttive oppure addirittura progetti di macchine e prodotti con lo scopo di consentirne il libero utilizzo a tutti senza copyright. Chiunque può poi apportare modifiche migliorative e, a sua volta, condividerle in un processo senza fine. In tal modo si riesce ad intraprendere un importante percorso verso la sostenibilità ambientale ed economica perché si libera il sistema produttivo dai monopoli e dai vincoli di riservatezza che frenano, tra le altre cose, anche l’evoluzione ecologica delle produzioni e dei prodotti.
Chi scopre un nuovo processo, un nuovo prodotto o una nuova macchina e desidera aderire all’Open Source Ecology, anziché operare per proteggere con marchi e brevetti la propria invenzione esclusiva, ne libera i contenuti in rete consentendone ad altri sia il pieno utilizzo che possibili interventi migliorativi i quali, a loro volta, dovranno essere condivisi in una catena infinita.
I benefici di tale pratica non consistono nella vendita dei diritti all’utilizzo o nell’esclusività produttiva che, di fatto, bloccano per lungo tempo il progetto, ma consistono in una condivisione del sapere e nel fatto che chi crea può disporre di una rete enorme, distribuita a livello mondiale, di “collaboratori”.
Gran parte dei benefici di tale pratica possono essere sia di tipo economico che ecologico. I primi si hanno perché i miglioramenti progressivi cercano sempre di diminuire i costi di produzione nonché potenziare l’efficienza e la razionalità nell’uso delle risorse. Quelli di tipo ecologico, direttamente collegati ai primi, si muovono anche nella dimensione etica per far sì che le macchine e i prodotti abbiano, in generale, il sempre minor impatto sull’ambiente.
L’Open Source Ecology non è una novità assoluta ma è figlia di altre famose pratiche di open source, già da tempo ben avviate e operative. Nel campo dell’informatica, ad esempio, famoso è il sistema operativo Linux oppure WordPress, operante nell’ambito della progettazione dei siti internet. Nel campo della cultura, invece, famosa è l’enciclopedia libera Wikipedia. Tutti strumenti che, in qualche modo, hanno potuto dare un importantissimo contributo sia all’economia che allo sviluppo e al progresso della società. Visto che funziona in ambito informatico e culturale, perché non dovrebbe funzionare, allora, anche in ambito tecnico?
Bioimita aderisce e sostiene pienamente l’Open Source Ecology perché ritiene che la condivisione delle idee e delle tecnologie possa essere il vero braccio operativo per l’applicazione dei suoi principi.
Per approfondimenti:
Le assurdità del PIL
«Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow Jones né i successi del Paese sulla base del Prodotto Interno Lordo (PIL). Il PIL comprende l’inquinamento dell’aria, la pubblicità delle sigarette, le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine del fine settimana… Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari. Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione e della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia e la solidità dei valori familiari. Non tiene conto della giustizia dei nostri tribunali, né dell’equità dei rapporti fra noi. Non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio né la nostra saggezza né la nostra conoscenza né la nostra compassione. Misura tutto, eccetto ciò che rende la vita degna di essere vissuta». Discorso tenuto il 18 marzo 1968 da Robert Kennedy alla Kansas University.
Uno degli elementi più assurdi che caratterizzano il nostro sistema economico è il PIL (Prodotto Interno Lordo). Si tratta, in sostanza, di un indicatore macroeconomico che si propone di rappresentare il benessere di una collettività nazionale attraverso la misura del valore totale dei beni e servizi prodotti nel corso di un anno in un dato Paese da parte di operatori economici residenti e non residenti e destinati al consumo da parte dell’acquirente finale, agli investimenti privati e pubblici e alle esportazioni. Il PIL non considera la produzione destinata ai consumi intermedi di beni e servizi, necessari per produrre semilavorati.
Il PIL è detto “lordo” perché è al lordo degli ammortamenti, cioè di quei costi di beni a utilità pluriennale che vengono distribuiti su più esercizi. Il PIL è anche la base per il calcolo del reddito pro-capite, dato dal rapporto tra PIL e numero dei cittadini.
Come aveva giustamente fatto notare anche Robert Kennedy nel suo famoso discorso (e che, forse, gli è anche costato la vita) il PIL ha degli enormi limiti.
Innanzitutto tiene conto solo delle transazioni in denaro e trascura tutte quelle a titolo gratuito: in tal modo esclude le prestazioni in ambito familiare e quelle del volontariato che sono la diretta espressione del senso di comunità e, in qualche modo, di positività sociali anche se operano in ambiti problematici.
Il PIL inoltre tratta tutte le transazioni monetarie che avvengono in un Paese come positive e, pertanto, tra esser rientrano anche quelle che avvengono in ambito bellico, sanitario, della malavita o delle bonifiche da inquinamento. Paradossalmente più malati in cura ci sono e più elevato è il PIL; più bambini disadattati in cura ci sono e più elevato è il PIL; più morti ci sono è più elevato è il PIL; più sono le armi acquistate e più elevato è il PIL; più inquinamento bonificato c’è e più elevato è il PIL.
Dobbiamo da subito chiedere ai nostri economisti, ai nostri banchieri, ai nostri imprenditori e ai nostri governanti che si continuano a riempire la bocca di “PIL” che esso non è in grado affatto di misurare il nostro benessere, ma solo l’ampiezza del sistema economico, positivo o negativo che sia. Dobbiamo cominciare a chiedere loro che, più che ricchi materialmente, noi desideriamo essere felici o, visto che la felicità non è un luogo ma una direzione, per lo meno avere la sensazione di esserci incamminati nel giusto percorso verso il raggiungimento della stessa.
È necessario, allora, che si inizi seriamente a pensare che il PIL è un indicatore assurdo e che è al più presto bisogna cambiarlo.
Qualche proposta alternativa è già da tempo in discussione e, tra tutti, l’indicatore che mi piace di più è la Felicità Interna Lorda (FIL). State sintonizzati che al più presto ne parlerò in dettaglio…
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Grafico: Il grafico mostra che la felicità delle persone non è legata solo al reddito e che non aumenta inefinitamente all’aumentare dello stesso, attestandosi intorno ad un certo valore (intorno a 8.000 $/anno).