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Il più grande nemico del bio è il qualunquismo

Mentre ero in vacanza durante il periodo natalizio, spinto dalla curiosità di mia figlia ho avuto modo di visitare un frantoio di olive che si trova sulla riviera ligure. Bello e interessante il processo lavorativo che va dallo scarico dei frutti nel macchinario, al loro lavaggio, alle operazioni di spremitura “a freddo” con centrifugazione dei residui, fino alla spillatura del profumato liquido verde nei contenitori dei vari committenti.

La visione nel dettaglio di tutte le varie fasi della molitura delle olive è stata possibile per merito del proprietario del frantoio che ha dotato l’attrezzatura di numerosi vetri e di numerosi accessi sicuri per soddisfare la curiosità dei suoi clienti e dei suoi visitatori.

Non eravamo gli unici a compiere quella visita didattica e, per caso, mentre mi guardavo intorno, ho avuto modo di seguire un discorso tra il proprietario del frantoio – Giorgio – e un visitatore presente. Quello che mi ha colpito, nel dialogo, sono state le risposte di Giorgio alle seguenti domande: “Qual è la differenza tra la molitura a caldo e quella a freddo” e “Ci sono molte coltivazioni biologiche in zona e come riuscite a far sì che il marchio sia garantito voi che lavorate sia il bio che il tradizionale”?

Le domande erano assolutamente legittime e dimostravano che l’interlocutore aveva la idee chiare in merito alla qualità del prodotto e che cercava di avere delle conferme tecniche e organizzative da parte di un operatore esperto per poter effettuare i propri acquisti.

Le risposte di Giorgio sono state, purtroppo, le solite – tristi – parole che senti spesso pronunciare in Italia da un sessantenne che dimostrano come il più grande nemico del progresso e della sostenibilità ambientale – in questo caso l’agricoltura biologica – sia quel qualunquismo disfattista del “tanto non cambia nulla”; del “tanto è tutto uguale”.

Alla domanda sulla spremitura “a freddo” Giorgio replica osservando che non è che cambi nulla con quella “a caldo”. Lo si fa solamente per soddisfare le richieste dei consumatori. Dal momento che tra le due c’è una differenza di costo ma anche di qualità perché la molitura “a freddo” altera molto poco le qualità organolettiche dell’olio, quello che leggo nelle parole di Giorgio è il fatto che l’importante non è pensare di far star bene le persone fornendo loro il meglio a prezzi ragionevoli ma è fare tanti soldi, nella filiera, magari anche a discapito della loro salute. Inoltre Giorgio, indirettamente, dichiara che subisce pochi controlli e che potrebbe anche vendere, lui o altri colleghi, un certo processo al posto dell’altro perché le autorità pubbliche difficilmente fanno prevenzione delle sofisticazioni attraverso controlli preventivi o imposizioni metodologiche.

Alla domanda poi sul biologico, con un sorriso misto tra l’ironico e il furbetto, Giorgio risponde che tanto non cambia nulla, che i controlli e relativa certificazione non servono a nulla e che ci sono molti che dicono di fare il biologico ma poi fanno un po’ quello che vogliono. Le sue osservazioni in effetti sono realistiche e possono rappresentare una triste realtà – che deve essere perseguita dalla giustizia – ma, anziché chiedersi cosa si posa fare per migliorare la situazione, per garantire che in futuro le certificazioni e i controlli siano più incisivi, preferisce buttarla “in vacca” e dire che tanto il bio non serve a nulla. Giorgio, invece di chiedersi come si possa operare per fare un ulteriore salto di qualità – anche per la sua attività imprenditoriale – che superi il metodo biologico per ricercare qualcosa di più, attraverso il suo qualunquismo pone le basi perché si torni indietro senza progresso e senza sufficienti garanzie di salubrità per i cittadini. In tal modo, indirettamente, fa anche il gioco dei grandi produttori e delle multinazionali che chiedono “progresso” (quello che interessa loro), pochi controlli e tanto profitto.

Finché in Italia non ci libereremo della malattia molto contagiosa del qualunquis-disfattismo e non cercheremo la cura nei controlli, nella buona tecnica e nella cultura individuale, come potremo sperare di operare quel passaggio ancora più difficile che porta dal sistema attuale a quello rivoluzionario della bioimitazione?

 

Food Inc.

Se desiderate vedere quali potranno essere, di fatto, le conseguenze dell’Accordo TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership o Partenariato Transatlantico per il commercio e gli investimenti-trad.) mettetevi comodi sulla sedia o sul divano per circa 90 minuti e godetevi il documentario “Food Inc.” allegato.

Al di là dei fiumi di parole che si potranno spendere sull’argomento, sia pro che contro, non c’è alcun dubbio che l’accordo in oggetto è una manovra messa in campo da parte delle (poche e sempre meno numerose) multinazionali del cibo per conquistare nuovi mercati attraverso l’industrializzazione spinta dello stesso. Chi vi dirà che il TTIP favorirà le produzioni locali e biologiche si sta prendendo solo gioco di voi.
Buona visione…

Per info: Campagna Stop TTIP (it); STOP TTIP (en)

TTIP-no-fucking

TAFTA

TTIP_Podemos

 

L’insostenibilità delle stampanti 3D

Si sente parlare, sempre più spesso, delle stampanti 3D e della “quarta rivoluzione industriale” che esse potranno avviare. Ne parla ovviamente in tono entusiastico l’industria tecnologica attraverso i suoi numerosi canali informativi. Ne parla il giornalismo economico che spera in un nuovo effetto di spinta all’economia, tipo quello che è successo con i computer, con i telefoni cellulari e con gli smartphone. Ne parla anche la politica, soprattutto quando si tratta di affrontare temi legati alla creazione di posti di lavoro e di comunicare, ad un certo elettorato, anche i possibili effetti positivi nei confronti dell’ambiente.

Siamo sicuri, però, che le stampanti 3D siano la panacea di tutti i mali che affliggono la società dei consumi e siano la vera soluzione a tutti i problemi di insostenibilità industriale? Siamo sicuri che saranno veramente in grado di rendere disponibili a tutti le tecnologie, soprattutto quelle costose che interessano il campo medico e ingegneristico? Siamo sicuri che saranno in grado di creare occupazione ma, soprattutto, di limitare la produzione di rifiuti e di costruire quella tanto agognata economia dal basso a cui fa riferimento anche il movimento ambientalista? Io, personalmente, e in particolare relativamente agli obiettivi di sostenibilità ambientale, manifesto numerosi dubbi (1).

Innanzitutto le stampanti 3D – per lo meno la tecnologia attualmente disponibile – riescono ad ottenere i vari prodotti attraverso l’uso di materiali di natura petrolifera (come le plastiche) e di resine sintetiche varie che nulla hanno a che fare con la sostenibilità ambientale. Questi materiali, a fine vita dei prodotti, produrranno rifiuti difficilmente riutilizzabili e riciclabili che dovranno essere correttamente gestiti e smaltiti. E, anche quando le stampanti 3D producono beni in metallo, utilizzano una risorsa non rinnovabile ed esauribile, con tutte le conseguenze ecologiche che questo comporta.

A mio avviso il vero problema dell’economia dei consumi – che utopisticamente si spera di risolvere attraverso un demiurgo tecnico, una nuova soluzione creatrice qual è la stampante 3D – è rappresentato, invece, più banalmente, dalla responsabilità personale e dai comportamenti individuali. La vera soluzione non sta nel far produrre in modo diverso prodotti che incorporano dei vecchi problemi ma produrre, anche con le vecchie tecnologie, prodotti che incarnino un approccio completamente nuovo alla progettazione e all’uso dei materiali. La vera soluzione è ripensare anche alla vera utilità individuale e sociale dei beni ed educare i cittadini sia ad un’idea di sobrietà nei loro consumi – molto spesso inutili – sia a fare uso di prodotti che siano già stati usati e, magari, anche già più volte riparati. In questo modo si potrebbe creare una nuova economia, sì certo, apparentemente più semplice, ma che, nello stesso tempo, è più condivisa e che armonizza la società diffondendone i saperi.

Non si tratta affatto di pensare che il passato fosse tutto positivo e che la modernità sia per forza un male. Non si tratta nemmeno di anelare ad una condizione umana fatta di precarietà e di sole limitazioni. Si tratta solo di riprogettare il futuro traendo spunto anche dal passato e da quello che di buono è stato prodotto. Dai miei numerosi viaggi ho visto che l’economia dei popoli “poveri” (2) – al netto dei problemi che devono essere senza dubbio risolti – può rappresentare anche un interessante spunto da prendere in mano e da rivisitare in una nuova e interessante chiave applicativa.

Sulla base di ciò delle stampanti 3D che producono oggetti inutili (fino ad arrivare a produrre anche sé stesse) e che, date le attuali premesse, ripeteranno i problemi del passato, possiamo sinceramente volentieri farne a meno!

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(1) I dubbi li manifesto non perché sono contro le stampanti 3D a prescindere ma pechè desidererei che venissero impiegate veramente nella direzione che molti hanno sperato: quella della sostenibilità ambientale e dell’armonia sociale.

(2) La “povertà” a cui faccio riferimento non è un valore assoluto ma è un concetto esclusivamente monetario. Purtroppo mi serve per descrivere, ai nostri occhi “occidentali”, un determinato contesto economico e sociale anche se sono convinto che quelli che genericamente indichiamo come popoli “poveri” non lo siano veramente ma, anzi, che, forse forse, i veri “poveri” (di empatia, di solidarietà, di senso di comunità, di sentimenti, di semplicità) siamo noi.

 

Per l’EEA l’innovazione ecologica sarà la leva per la competitività europea

Mentre la nostra politichetta nazionale e la nostra economia da quattro soldi bucati si scervella su come aumentare le trivellazioni di petrolio, su come impiegare il carbone, su come finanziare gli inceneritori, su come fare buchi (cave) e riempire tutti i pori liberi del territorio di cemento, nel suo rapporto “Resource-efficient green economy and EU policies” l’Agenzia Europea per l’Ambiente (European Environment Agency – EEA) osserva, invece, che la green economy è, attualmente, l’unico approccio strategico che consenta ad una società più giusta di vivere in un ambiente migliore. Secondo l’EEA l’approccio della green economy consente di raggiungere tre obiettivi:

  • Contribuire al miglioramento nell’uso efficiente delle risorse
  • Assicurare la resilienza degli ecosistemi
  • Ottenere una società più equa.

Come fa notare il Rapporto dell EEA, durante la crisi finanziaria del 2008, la green economy si dimostrò essere l’approccio che fu in grado di risolvere due importanti problemi: il generale rallentamento dell’economia e la conseguente perdita di posti di lavoro; il continuo deterioramento dell’ambiante naturale, particolarmente evidente nell’ambito dei cambiamenti climatici e nel degrado degli ecosistemi. Questo doppio risultato spinse gli Stati europei a cercare di sviluppare politiche di recupero basate sulla green economy. Tuttavia – e purtroppo, dico io – mentre l’obiettivo politico si preoccupava, contemporaneamente, anche della salvaguardia degli aspetti fiscali e alla gestione degli enormi debiti pubblici, il concetto della green economy iniziò a perdere la propria forza all’interno di politiche macroeconomiche solo di breve periodo.

Come spiega Hans Bruyninckx, il direttore esecutivo dell’EEA: “L’innovazione può essere lo strumento più importante per cambiare il modo inefficiente con il quale attualmente utilizziamo le risorse. L’innovazione ambientale è la chiave per affrontare le sfide del 21° secolo. Se vogliamo vivere bene entro i limiti ecologici del pianeta avremo bisogno di affidarci all’inventiva dell’Europa. Non solo nuove invenzioni, però, ma soprattutto incoraggiare l’adozione e la diffusione di nuove tecnologie verdi (eco-tecnologie), scelta che potrebbe rivelarsi essere ancora più importante”.

Sempre Hans Bruyninckx osserva: “Un’altra leva per migliorare l’efficienza delle risorse potrebbe essere rappresentata dalla riduzione delle tasse sul lavoro come l’imposta sul reddito e, piuttosto, tassare l’uso inefficiente delle risorse e l’inquinamento ambientale. Tali imposte ambientali potrebbero promuovere la creazione di nuovi posti di lavoro, dal momento che si osserva che i Paesi con le tasse più alte nel settore ambientale sembrano avere un’economia e una competitività migliore rispetto agli altri”.

Sulla base di queste autorevoli affermazioni mi chiedo cosa ci voglia ancora per convincere i nostri rappresentanti che l’unica strada per recuperare la competitività e creare lavoro sia quella della green economy e del capitalismo naturale.

 

“Pollution” by Bryan Clark

Siamo abituati a pensare all’inquinamento come ad un fenomeno – certamente negativo – che interessa solo l’ambiente che ci circonda, pensando invece poco alle conseguenze che esso può avere sulla nostra salute e sul nostro benessere.

Inquinata è l’aria; inquinata è l’acqua; inquinato è il terreno; inquinate sono le città ma poco si pensa a quali siano le conseguenze su coloro che abitano tali ambienti.

Quello che invece cerca di farci comprendere Bryan Clark nel suo breve video d’animazione “Pollution” [guarda il video] è il fatto che inquinato può essere anche il nostro organismo e, in particolare, il cuore. Nel video Bryan Clark ci fa vedere quali siano le conseguenze del nostro sistema economico-produttivo su ciò che ci circonda: dapprima l’ambiente appare incontaminato, le acque sono pulite e  boschi rigogliosi ricoprono le colline. Lentamente, però, l’inquinamento delle industrie che si sviluppano e crescono sempre più numerose tanto da sostituirsi ai boschi, inizia a contaminare l’erba e i corsi d’acqua fino a penetrare inesorabilmente nel corpo umano… e raggiungere il cuore.

above all else, guard your heart, for everything you do flows from it ” (con ogni cura vigila sul cuore, perché da esso sgorga la vita) – Bibbia, Proverbi 4:23

 

Che fine sta facendo lo zinco?

La miniera irlandese Lisheen (che produce 170 mila ton/anno di zinco) fermerà l’attività estrattiva nel 2014. La miniera Century, in Australia, (che estrae 500 mila ton/anno), chiuderà nel 2016. Alcune miniere in Canada (Brunswick e Perseverance) sono state già chiuse e altre, in Sudafrica (Skorpion) e in Polonia (Pomorzany-Olkusz), chiuderanno entro i prossimi tre anni. Al posto di queste mega-miniere che si sono esaurite e che producevano 1,7 milioni di ton. di zinco annue che costituivano l’11% dei consumi mondiali, stanno per entrare in produzione giacimenti più piccoli, con il risultato di un forte calo dell’offerta di tale metallo.

Tale disequilibrio tra la domanda e l’offerta del minerale provocherà un suo inevitabile aumento di prezzo che, secondo alcuni analisti, arriverà addirittura a raddoppiare entro qualche anno. Infatti attualmente una tonnellata di zinco costa 1.865 dollari, ma si stima che il suo valore sarà di circa 3.500 $/ton. nel biennio 2016-2018 (1). Per tale ragione tra le multinazionali minerarie, le fonderie e, in particolare, la Cina (2) che deve sostenere la propria industria e la costruzione delle proprie infrastrutture, si sta consumando una corsa e una lotta senza quartiere per accaparrarsi le ultime riserve di questo metallo strategico, il cui esaurimento, da parte dell’USGS (United States Geological Survey), è previsto intorno all’anno 2024.

La corsa alle ultime tonnellate facilmente estraibili di zinco sta già spingendo colossi nel campo minerario come l’anglo-svizzera Glencore Xstrata, la belga Nyrstar e la cinese Ming ad investire nell’apertura di nuove miniere. Inoltre, da un lato gli australiani stanno facendo nuove prospezioni geologiche in Groenlandia, mente, dall’altro lato, giacimenti chiusi da anni stanno per essere riportati in funzione come diretta conseguenza dell’aumento dei prezzi, che consente di rientrare economicamente dagli elevati costi di estrazione.

La causa dell’importanza dello zinco per il sistema economico che giustifica l’enorme sforzo da parte delle compagnie minerarie e delle nazioni per ottenere concessioni allo sfruttamento del sottosuolo e all’apertura di nuove miniere, risiede nel fatto che esso, tramite un processo di zincatura che lo fa aderire alla superficie dei manufatti di acciaio, serve a rendere quest’ultimo meno attaccabile dalla ruggine, cioè dall’ossidazione.

Quanto descritto più sopra, allora, mi fa sorgere una semplice domanda: cosa faremo quando lo zinco non sarà più facilmente disponibile? Come proteggeremo a basso costo i nostri manufatti in acciaio e le nostre infrastrutture dal degrado dovuto all’ossidazione? Purtroppo anche la risposta è abbastanza semplice e dimostra la follia insita nel nostro sistema usa e getta che vuole tutto subito e che manca di un briciolo di lungimiranza per garantire le stesse nostre attuali condizioni di vita per le generazioni del futuro.

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(1) Gli analisti stimano il raddoppio del prezzo dello zinco nonostante il fatto che, quest’anno, il prezzo dello stesso al London Metal Excange (la più importante piazza finanziaria al mondo per i metalli non ferrosi) sia calato del 15% a causa di un surplus di produzione valutato in 110-120 mila tonnellate e il fatto che l’ILZSG (Gruppo internazionale di studio su piombo e zinco) non mostri alcun segnale di preoccupazione.

(2) La Cina, che è il principale costruttore di auto al mondo, utilizza una processo di zincatura dell’acciaio che ha un contenuto di metallo di tre quarti inferiore rispetto agli standard occidentali. La bassa qualità dello zinco impiegato – più facilmente intaccabile dalla ruggine – è anche una delle cause che impedisce alle auto cinesi di essere vendute all’estero. Il problema dello scarso contenuto di metallo nella fase di zincatura dell’acciaio cinese è così sentito da Pechino che la televisione di Stato Cctv ha di recente dedicato un servizio alla ruggine che attacca le auto prodotte in Cina e, inoltre, corrode i ponti.

 

La IARC certifica che l’aria inquinata è cancerogena

A voi che avete terrore dell’amianto ma fate passeggiare o giocare liberamente i vostri bambini per le strade, soprattutto urbane, vi devo dare una brutta notizia: la IARC ha appena certificato ufficialmente che lo smog è cancerogeno. In sostanza ha stabilito che la pericolosità dell’amianto e quella dello smog è la stessa!

Per comprendere un po’ meglio la notizia andiamo con ordine.

Innanzitutto, anche se vi erano numerosi sospetti e se è da anni che se ne parla, ora si può dire ufficialmente che lo smog (o particolato, cioè quell’insieme di residui della combustione derivanti dalle più diverse attività umane: trasporti, incenerimento dei rifiuti, produzione di energia, riscaldamento domestico, emissioni industriali e agricole) provoca il cancro. La certificazione di tale pericolosità deriva dall’autorevole Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC – International Agency for Research on Cancer), un’agenzia dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che qualche giorno fa – il 17 ottobre –  ha pubblicato tale notizia. In pratica, dopo un lunghissimo iter di ricerche scientifiche la IARC ha affermato che “L’inquinamento dell’aria è una delle principali cause di morte per cancro”, inserendo il particolato nel Gruppo 1, cioè tra le sostanze che la ricerca scientifica ha dimostrato essere cancerogene per l’uomo.

A tale riguardo i dati più recenti indicano che, nel 2010, nel mondo, ci sono stati ben 223.000 casi di cancro ai polmoni dovuti proprio all’inquinamento dell’aria.

aria inquinata in ItaliaCome afferma il dott. Kurt Straif della IARC: “Ora sappiamo che l’inquinamento dell’aria non rappresenta solo un maggior rischio per la salute in generale, ma è anche la causa principale di morti per cancro”.

La soluzione a questo sacrificio inutile di vite umane non è né quella di fornire delle indicazioni di prudenza (1) né quella garantire migliori cure o una maggiore aspettativa di vita agli ammalati. La sola e unica soluzione è quella di abbandonare la pratica della combustione per la produzione di energia e calore.

Per liberarci dal pesante fardello del passato bisogna anche iniziare a pensare che, chi più e chi meno, attraverso le nostre scelte, siamo un po’ tutti in qualche modo responsabili per la sofferenza di qualcun altro. Che, talvolta, può essere anche una persona a noi vicina o, paradossalmente, possiamo essere anche noi stessi.

Agli amministratori, allora, un appello perché legiferino da subito nella direzione di rendere la vita difficile alla combustione; agli imprenditori e ai progettisti un appello perché cerchino immediatamente soluzioni produttive ed energetiche alternative; ai cittadini consumatori un appello perché quando aprono il portafoglio pensino che possono anche contribuire a difendere la loro salute e quella dei loro cari.

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(1) Per limitare l’esposizione allo smog si consiglia comunque di:

  • evitare di fare sport in città
  • evitare le strade trafficate utilizzando percorsi alternativi
  • in caso di passeggiate con i bambini preferire gli zaini in spalla ai passeggini
  • preferire di uscire con il brutto tempo e/o con il vento
  • uscire evitando le ore di punta
  • evitare di sedere all’aperto quando siete al bar o al ristorante

Tabella: Ansa

 

Open Source Ecology

L’Open Source Ecology (OSE) è un movimento fondato negli USA da Marcin Jakubowski che si propone di creare, attraverso il coinvolgimento di diversi attori del mondo produttivo (imprenditori, ingegneri, designer, agricoltori e attivisti), una rete di competenze che diano origine ad un’”Open Source Economy”. In sostanza l’obiettivo è quello di far condividere, a livello mondiale, sia conoscenze tecniche che metodologie produttive oppure addirittura progetti di macchine e prodotti con lo scopo di consentirne il libero utilizzo a tutti senza copyright. Chiunque può poi apportare modifiche migliorative e, a sua volta, condividerle in un processo senza fine. In tal modo si riesce ad intraprendere un importante percorso verso la sostenibilità ambientale ed economica perché si libera il sistema produttivo dai monopoli e dai vincoli di riservatezza che frenano, tra le altre cose, anche l’evoluzione ecologica delle produzioni e dei prodotti.

Chi scopre un nuovo processo, un nuovo prodotto o una nuova macchina e desidera aderire all’Open Source Ecology, anziché operare per proteggere con marchi e brevetti la propria invenzione esclusiva, ne libera i contenuti in rete consentendone ad altri sia il pieno utilizzo che possibili interventi migliorativi i quali, a loro volta, dovranno essere condivisi in una catena infinita.

I benefici di tale pratica non consistono nella vendita dei diritti all’utilizzo o nell’esclusività produttiva che, di fatto, bloccano per lungo tempo il progetto, ma consistono in una condivisione del sapere e nel fatto che chi crea può disporre di una rete enorme, distribuita a livello mondiale, di “collaboratori”.

Gran parte dei benefici di tale pratica possono essere sia di tipo economico che ecologico. I primi si hanno perché i miglioramenti progressivi cercano sempre di diminuire i costi di produzione nonché potenziare l’efficienza e la razionalità nell’uso delle risorse. Quelli di tipo ecologico, direttamente collegati ai primi, si muovono anche nella dimensione etica per far sì che le macchine e i prodotti abbiano, in generale, il sempre minor impatto sull’ambiente.

L’Open Source Ecology non è una novità assoluta ma è figlia di altre famose pratiche di open source, già da tempo ben avviate e operative. Nel campo dell’informatica, ad esempio, famoso è il sistema operativo Linux oppure WordPress, operante nell’ambito della progettazione dei siti internet. Nel campo della cultura, invece, famosa è l’enciclopedia libera Wikipedia. Tutti strumenti che, in qualche modo, hanno potuto dare un importantissimo contributo sia all’economia che allo sviluppo e al progresso della società. Visto che funziona in ambito informatico e culturale, perché non dovrebbe funzionare, allora, anche in ambito tecnico?

Bioimita aderisce e sostiene pienamente l’Open Source Ecology perché ritiene che la condivisione delle idee e delle tecnologie possa essere il vero braccio operativo per l’applicazione dei suoi principi.

Per approfondimenti:

 

Il passaporto dei prodotti

Sussulto quando le mie orecchie sentono figure politiche del calibro di Janez Potočnik (Commissario europeo all’Ambiente) affermare che in Europa, per mantenere competitiva l’industria, è necessario cambiare il modo in cui si produce e si consuma. Il motivo del sussulto è che, dopo anni – forse già decenni – che “noi” ambientalisti lo diciamo, se ne sono finalmente accorti anche “loro”. Loro che, invece, fino ad ora, ci hanno sempre detto che tutto andava bene e che dovevamo essere solo più ottimisti.

La realtà dei fatti è che nel mondo – vuoi per l’emergere di nuove economie che ci fanno competizione, vuoi per la scarsità delle risorse che si profila, all’orizzonte, sempre più profonda – vi è sempre meno disponibilità di materie e, se si desiderano acquistare, i loro prezzi sono elevati.

L’idea che ha lanciato il Commissario Potočnik, spinto da alcuni paesi europei (tra cui l’Italia) e da alcune ONG, è quella di istituire una sorta di “Passaporto dei prodotti”, allo scopo di massimizzare l’uso delle risorse europee, il riciclo e il riuso dei materiali.

In sostanza l’idea del Commissario è quella di creare un’economia circolare delle risorse interne all’Ue, possibile solamente se, a monte, si conosce come è composto un prodotto e quali sono le modalità per disassemblarlo e riutilizzarne correttamente i materiali. Inoltre i prodotti devono anche essere (ri)progettati e fabbricati con l’idea di riutilizzarne poi i materiali che li compongono.

Secondo le stime della Ue da questa manovra si potrebbe ridurre realisticamente la richiesta di materiali fra il 17% e il 24%, aumentando il Pil e creando fra 1,4 e 2,8 milioni di posti di lavoro.

All’interno del progetto proposto potrebbero essere previste anche norme riguardanti l’uso di agenti chimici e prodotti pericolosi in agricoltura nonché azioni verso l’eliminazione progressiva dei sussidi nocivi per l’ambiente e la salute pubblica come quelli ai carburanti fossili, nel settore energetico nonché sull’uso dell’acqua in agricoltura e nell’industria.

Se dalle parole si passerà ai fatti si vedranno realizzare concretamente i principi della bioimitazione.

Chapeau!

 

“Grazie a Lei la Terra vivrà più a lungo”

Grazie a Lei la Terra vivrà più a lungo.

Insieme possiamo contribuire a preservare la salute dell’ambiente, anche con un piccolo gesto come quello di rinunciare al cambio degli asciugamani. Meno cloro e detergenti nei fiumi e nei mari, più acqua per la terra.

A dimostrazione dell’impegno di XXX, questo messaggio e tutti gli altri che troverà nella stanza, sono realizzati utilizzando solo carta riciclata.

PER RICHIEDERE IL CAMBIO DEGLI ASCIUGAMANI LI LASCI ALL’INTERNO DELLA VASCA O DELLA DOCCIA.

Come non essere d’accordo con questo messaggio riportato nella stanza di una importante catena alberghiera che frequento da tempo per soggiorni lavorativi?

Il problema è che gran parte delle cose scritte a mio avviso non rappresentano, per l’organizzazione in oggetto, un percorso convinto verso la sostenibilità ambientale ma, piuttosto, un’asettica comunicazione commerciale volta ad enfatizzare le virtù aziendali su un argomento “di moda”, senza troppa convinzione pratica.

Con molta umiltà e senza riferimenti specifici perché non è mia intenzione agire direttamente verso tale azienda, proverei ad utilizzare questa interessante comunicazione per analizzare le motivazioni di tale mia considerazione e per proporre vere soluzioni per raggiungere, a piccoli passi, con piccoli miglioramenti continui – sia culturali che tecnici – l’obiettivo della concreta sostenibilità ambientale.

  1. Innanzitutto, nel titolo della comunicazione, è totalmente sbagliata la considerazione che, attraverso comportamenti virtuosi da parte del cliente, la Terra vivrà più a lungo. La Terra, almeno per qualche miliardo di anni – salvo collisioni con asteroidi di grandi dimensioni che si trovassero a transitare sulla sua traiettoria – non avrà alcun problema di sopravvivenza. Quello che, invece, è messo in discussione è la sopravvivenza sul pianeta Terra della razza umana o, tuttalpiù, la sopravvivenza della civiltà e del benessere raggiunto.
  2. Nel messaggio è enfatizzato il fatto che tutte le comunicazioni informative che si trovano nella stanza sono realizzate su carta riciclata. Obiettivamente mi sembra un po’ pochino che solo le comunicazioni ambientali siano effettuate in carta riciclata. E la carta igienica? I tovaglioli, i fogli per appunti? E cosa dire dei saponi, della pulizia della stanza o quella delle lenzuola? E il cibo offerto? Oppure la gestione delle aree verdi e dei trasporti?
  3. Nonostante i miei numerosi tentativi provati e riprovati durante tutti i soggiorni che ho fatto, gli asciugamani mi sono sempre stati cambiati quotidianamente, in aperto disaccordo con la politica ambientale proposta che prevede il cambio solo se lasciati all’interno della vasca o della doccia.

In effetti io sarò particolarmente esigente e, magari, un po’ più preparato della media per valutare l’effettiva sostenibilità ambientale di un’attività produttiva ma, quasi certamente, non premierei un’attività imprenditoriale che professa un percorso di responsabilità ambientale che poi non rispetta e non migliora nel tempo. Ovviamente darei più credito a quelle aziende che si dimostrino concretamente virtuose sull’argomento ma, onestamente, premierei più volentieri anche quelle piccole e a conduzione familiare che non fanno ancora nulla ma che si dimostrino sensibili al tema.

Sono fermamente convinto che la sostenibilità ambientale non sia un bollino da apporre sul sito internet o sulla carta intestata e nemmeno sia un elemento del marketing, come può essere il bel sorriso di una modella o la notorietà di una persona dello spettacolo.
Essa è un percorso concreto, anche silenzioso e invisibile, che ci deve porre seriamente in una nuova dimensione rispetto al mondo che ci circonda.

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Astorflex | Calzature

Il calzaturificio Astorflex appartiene da generazioni alla famiglia Travenzoli che, già alla fine dell’800, aveva iniziato a Casteldario in provincia di Mantova, a produrre zoccoli (dette “sgalmare” in espressione dialettale). Con l’industrializzazione del dopoguerra il piccolo laboratorio “Fratelli Travenzuoli” ha iniziato a produrre calzature di diverse tipologie. Tale produzione perdura sino ad ora e in questi ultimi anni si è fortemente orientata nell’ambito della sostenibilità ambientale, in un processo di ricerca continua.

scarpe

I pellami per la produzione delle calzature sono conciati con tannini vegetali che consentono di avere pelli più sane e traspiranti, che non creano allergie da contatto al cromo e hanno un limitato impatto ambientale, dato il limitato consumo di acqua e di energia elettrica. Buona parte delle suole utilizzate per le calzature Astorflex sono in gomma naturale, ottenuta dalla coagulazione e dal successivo essiccamento del lattice prodotto dagli alberi di Hevea brasiliensis, senza aggiunta di prodotti chimici o coloranti. Tale gomma è traspirante, biodegradabile al 100%, non prevede scarti di produzione, è molto elastica ma ha il difetto di sentire molto gli sbalzi termici (si irrigidisce al freddo e si ammorbidisce al caldo) e di resistere un po’ meno all’abrasione rispetto a quella sintetica.

armadillo-350x248Le calzature Astorflex sono realizzate totalmente in Italia mediante collanti ad acqua e mediante la scelta di utilizzare sub-fornitori vicini al luogo di produzione, che si sono resi disponibili a certificare, in piena trasparenza, la composizione dei loro prodotti.
Nel 2008 il calzaturificio Astorflex ha dato origine al progetto “Ragioniamo con i Piedi”, la cui filosofia è sintetizzabile in:

  • la calzatura non c’è marchio perché non c’è nulla da ostentare: è invece un oggetto che serve per camminare in modo confortevole
  • il prodotto deve essere comperato solo se serve veramente
  • il prodotto deve dimostrare che è possibile offrire un bene di valore in una filiera responsabile che gratifichi il produttore e soddisfi il consumatore
  • il prodotto deve sviluppare una filiera produttiva locale basata sul senso di responsabilità e fiducia reciproca.

I petali dei fiori non inquinano

Finalmente, dopo un inverno grigio e piovoso, arriva la primavera! E anche se ci troviamo nella Pianura Padana dove la qualità dell’aria non è tra le migliori d’Europa (anzi, è una delle peggiori!), il cielo comincia ad essere azzurro ed il sole a scaldare le ossa umide e l’umore nero (tranne oggi che piove e tira vento).

Con la primavera cambia anche il colore del paesaggio, dove il verde assume tonalità più vivaci e dove comincia l’esplosione dei fiori: gialli, rosa, rossi, azzurri, viola, lilla e arancio e tutte le rispettive sfumature. Uno spettacolo!

fiore_02I fiori, si sa, durano sulla pianta qualche giorno, al massimo qualche settimana e poi lasciano spazio allo sviluppo dei frutti per la prosecuzione della vita… Il tutto in una sequenza infinita di successioni corrispondenti, spesso, al trascorrere degli anni.

Al di là della visione romantica o puramente utilitaristica del contadino che dai fiori e dai frutti ottiene la ricompensa del proprio lavoro, una cosa che in pochi osservano è il fatto che i petali (come, per altro, le foglie in autunno), quando cadono a terra perché hanno concluso la loro funzione, non determinano alcuna forma di inquinamento. Anzi, la loro materia si trasforma, arricchisce il suolo e favorisce il ripetersi del ciclo e di altra vita nel corso della stagione presente e di quella successiva.

fiore_03In natura non esiste il concetto di rifiuto: tutto si ripara, si riusa o si trasforma!

Nella progettazione e nella produzione industriale dei prodotti questo deve essere il solo e l’unico riferimento: materia compatibile con la natura che non abbia in sé incorporata l’idea del rifiuto.

Tillandsia usneoides

Il nome sembra una sequenza casuale di vocali e consonanti. Quasi impronunciabili.

In realtà si tratta del nome scientifico di una pianta che appartiene alla famiglia delle Bromeliacee, comprendente circa 500 specie di piante terrestri ed epifite che vivono nel Centroamerica, Sudamerica e nelle Indie occidentali. La Tillandsia usneoides cresce spontanea in Argentina, in Cile e anche nel Sud-Est degli Stati Uniti.

Essa ha steli flessuosi e sottilissimi, di 1 millimetro di spessore, ricoperti da foglie squamiformi di color argento che funzionano come spugne ed assorbono l’acqua e le sostanze nutritive necessarie dall’atmosfera. Questa pianta, infatti, non ha un apparato radicale ma vive sui rami e sui tronchi degli alberi dove forma fitti e lussureggianti festoni. La moltiplicazione di Tillandsia usneoides avviene grazie al vento che spezza i suoi fusti filiformi in tante parti, trasportandole sui tronchi o sui rami, ai quali si fissano.

Alla fine degli anni Quaranta, quando non si faceva ancora uso di materiali sintetici prevalentemente di natura petrolifera, i sedili delle automobili Ford, negli Stati Uniti, erano imbottiti con i fusti essiccati di Tillandsia usneoides. Gli ingegneri e i tecnici della famosa casa automobilistica americana sapevano, infatti, che gli steli e le foglie di questa pianta, una volta secchi, hanno la caratteristica di essere immarcescibili e di godere di ottime proprietà fisiche.

Ancora oggi, Oltreoceano, la Tillandsia usneoides continua ad essere impiegata, anche se in misura sempre più ridotta, come crine vegetale nella fabbricazione di materassi, poltrone e divani.

L’esempio della Tillandsia usneoides ci dice che una produzione industriale più pulita è possibile e che la natura – studiandola approfonditamente magari facendo riferimento anche alle esperienze dei nostri antenati – ci può fornire pressoché tutte le materie di cui abbiamo bisogno senza per forza dover ricorrere alle nanotecnologie, alla chimica di sintesi o agli organismi geneticamente modificati.

Il vero progresso, anziché nei laboratori asettici degli istituti di ricerca, si può nascondere sui rami degli alberi o in un campo di fiori. Bisogna solo saper cercare!!!

Foto: www.karnivores.com

Risorse Future | Calzature

Risorse Future è un progetto del calzaturificio DEFA’S di Monte Urano (FM), città facente parte del  distretto calzaturiero del Fermano. L’obiettivo del progetto, realizzato con “EcoMarcheBio”, è quello di produrre calzature ecologiche, sostenibili sia relativamente ai materiali utilizzati che ai processi di lavorazione e distribuzione. Il risultato finale è stata la realizzazione di calzature che, pur garantendo elevato comfort e lunga durata, sono costituite interamente da materiali vegetali (canapa e sughero) oppure con pellami conciati al vegetale.

risorsefutureL’obiettivo di realizzare delle calzature ecologiche si è scontrato con la difficoltà di reperire i giusti materiali ma, soprattutto, con scelte relative al processo produttivo. Infatti la calzatura è il risultato finale di molte fasi di lavorazione che devono essere attentamente valutate e che sono oggetto di un processo di ricerca e di evoluzione che si modifica e si aggiorna nel tempo.
Con riferimento ai materiali, quelli impiegati per le calzature Risorse Future sono:

  • CANAPA – La canapa, in fase di coltivazione, non necessita né di erbicidi né di pesticidi. Inoltre il tessuto, fresco in estate e caldo in inverno, è idrorepellente e risulta molto resistente sia agli strappi che all’usura.
  • SUBERIS – Si tratta di un foglio di sughero dello spessore di qualche frazione di millimetro incollato ad una base di cotone. Il sughero è un prodotto rinnovabile frutto della natura che risulta impermeabile, antibatterico e antiallergico. Per info: www.suberis.it
  • PELLE CONCIATA AL VEGETALE – La concia vegetale viene realizzata utilizzando tannini provenienti dalle cortecce di alcune specie di alberi. La pelle così trattata non contiene sostanze tossiche (coloranti azoici, nichel, pentaclorofenolo, cromo esavalente), nocive per l’uomo o per l’ambiente. Per info: www.pellealvegetale.it
  • BIOPLASTICA API – Di derivazione dalla canna da zucchero la Bioplastica Api è una plastica che, solo quando viene inserita nel ciclo dei rifiuti, si degrada velocemente e completamente.
  • TEXON COTTON – Questo materiale è realizzato in pura cellulosa di cotone e viene usato come soletta sottopiede. La cellulosa di cotone, che si ottiene dagli scarti della lavorazione della pianta del cotone, è traspirante, ha un’elevata resistenza all’abrasione, è lavabile, flessibile, assorbe il sudore e previene la formazione di cattivi odori. Per info: texon cotton
  • COLLANTI A BASE D’ACQUA – Tali collanti, inizialmente ritenuti incompatibili con il processo industriale della produzione calzaturiera ma ora proficuamente impiegati, permettono di ottenere risultati migliori della colla termoplastica.
  • JUTA – La juta, che è una fibra vegetale ottenuta da una pianta molto resistente alla salinità, allo stress idrico, alle temperature e agli insetti nocivi, viene impiegata per le stringhe.

Attualmente per la colorazione delle calzature Risorse Future vengono utilizzati coloranti sintetici ecologici privi di metalli pesanti ma si stanno anche testando delle tinture di origine vegetale.

VeganOKUna parte delle calzature Risorse Future sono “animal-free”, cioè prive di componenti di origine animale. Per tale ragione è stato loro conferito il marchio “Vegan OK ”.

Le calzature Risorse Future sono disponibili per uomo, donna e, da poco, anche per bambino.

Per info: video

Linfen

Le miniere di carbone cinesi entrano nelle cronache mondiali solamente in occasione di tragici incidenti sul lavoro che provocano la morte di lavoratori nelle viscere della terra a causa di scoppi, crolli o altre tragedie disumane. Le notizie, dal comfort dei nostri uffici o delle nostre case, spesso ci scivolano addosso e la loro forza si diluisce nelle innumerevoli tragedie di umana natura. Pochi considerano, invece, il fatto che il carbone uccida anche al di fuori del sottosuolo, attraverso l’inquinamento.

Tra le venti città più inquinate al mondo sedici sono cinesi e l’altra faccia dell’enorme crescita economica della Cina non sono solo gli incidenti o la mancanza di diritti dei lavoratori ma il dramma dell’avvelenamento lento, inesorabile e spesso invisibile di una grande percentuale di popolazione che respira, si nutre e beve quanto viene riversato senza regole nell’ambiente.

A detta dei più autorevoli istituti di ricerca mondiali è Linfen, nella provincia dello Shanxi, la città più inquinata al mondo. Quella che fino agli anni Settanta dello scorso secolo veniva definita la “città della frutta e dei fiori” ora – a causa del carbone che è impregnato nel suo sottosuolo e che ha determinato in breve tempo l’apertura di migliaia di miniere – è la capitale del carbone cinese e per questo è un concentrato di veleni distribuiti tra aria (polveri di combustione, monossido di carbonio e azoto), acqua e suolo (arsenico, piombo, ceneri varie), portatori di gravi patologie per i cittadini.

Per quella parte di inquinamento che è visibile ad occhio nudo la città è costantemente ricoperta da una densa nebbia grigia e, anche nelle giornate “teoricamente” serene, la spessa coltre di smog conferisce al “paesaggio” un’atmosfera autunnale o temporalesca. La parte, invece, invisibile (quella più subdola che colpisce alle spalle senza essere percepita) si trova nella verdura, nella carne, nell’acqua, nella polvere di casa, sulla pelle e nel sangue dei cittadini. Inquinamento che in Cina, anche con la complicità del mondo occidentale che produce merci (spesso semilavorati) a bassissimo costo, fa milioni di morti ogni anno per patologie collegate direttamente o indirettamente all’inquinamento.

Dal punto di vista ambientale e igienico-sanitario la Cina sta vivendo quanto si è verificato in Europa e negli Stati Uniti durante la prima fase industriale e quello che presumibilmente vivrà l’Africa nella fase successiva del processo economico-industriale globale.

Gli ingredienti della pozione venefica sono oramai ben chiari e definiti e, per tali ragioni, il processo industriale deve radicalmente cambiare per approdare verso processi puliti che abbiano come punto di riferimento materie e sistemi produttivi che siano sostenibili perché derivanti da un’imitazione del funzionamento della natura piuttosto che da una sua continua forzatura.