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Chi conosce il pangolino?
Anch’io, che sono un appassionato di animali e quando ero bambino letteralmente “divoravo” libri che ne parlavano e ne riconoscevo una grande quantità fin dalla tenera età, faccio fatica a mettere a fuoco il pangolino. So, bene o male, che forse potrebbe assomigliare vagamente ad una specie di faina ma non ne ricordo bene né il colore e nemmeno ricordo l’habitat in cui vive e di cosa si nutre. Non so neanche bene di che taglia sia. In effetti è un animale di cui si parla poco e che non rientra nemmeno nell’immaginario dei bambini, libri o peluche che siano. Con i nostri figli non ne imitiamo il verso e nemmeno facciamo riferimento ai suoi difetti o alle sue virtù. E questo ci aiuterebbe a riconoscerlo anche a noi adulti.
In effetti si tratta, ora che ho approfondito, di un mammifero un po’ particolare visto che è l’unico che al posto del pelo è dotato di scaglie protettive che lo ricoprono quasi interamente e che gli consentono di appallottolarsi per difendersi in caso di minaccia e di attacco. Esso è una specie di formichiere che vive un po’ ovunque nelle zone tropicali, dall’Africa all’Asia e ne sono stati rinvenuti fossili in Europa e in America settentrionale, a conferma della sua passata ampia diffusione.
Il pangolino, come tanti animali ora che l’uomo è diventato predominante e che ha colonizzato tutti gli ecosistemi, è un animale classificato prossimo all’estinzione da parte dell’IUCN (International Union for the Conservation of Nature and Natural Resources) (1). Le ragioni di tale stato compromesso di conservazione risiedono, purtroppo, sempre nelle due tipiche cause che lo determinano e che lo hanno determinato anche per altri animali: il commercio illegale per ragioni ludiche e la caccia sia per la prelibatezza della carne che per il presunto uso medicinale (nella medicina tradizionale cinese) delle scaglie. Si pensi, ad esempio, che in Vietnam 1 kg di pangolino può arrivare a costare addirittura 200 dollari.
Come osserva il giornale britannico The Guardian, il problema del pangolino è che, soprattutto in alcune aree del mondo come Vietnam e Cina meridionale, oltre ad essere utilizzato nella medicina tradizionale, la sua carne viene considerata una prelibatezza e mangiarlo è considerato una sorta di status symbol che dimostra ricchezza e conferisce una certa posizione sociale. Per tale assurda ragione si calcola che negli ultimi 10 anni siano stati cacciati e uccisi illegalmente più di un milione di pangolini. Questa situazione alimenta, inoltre, sempre di più il bracconaggio e lo estende anche in aree geografiche dove il pangolino non è generalmente cacciato per la sua carne: l’Africa.
Dopo essere venuti a conoscenza di ciò, chi può ancora osare di definire l’uomo “l’essere superiore”? Chi può ancora sopportare di sentire definire l’uomo “l’essere intelligente”? Io personalmente provo disgusto per l’assurdità di questa umana ignoranza – fatta di credenze, superstizioni ma anche di mancata conoscenza del ruolo che hanno gli animali nel mantenimento della salute e dell’equilibrio del Pianeta – e ribadisco la necessità che la biodiversità venga difesa strenuamente non solo da parte degli zoologi, degli scienziati e degli ambientalisti, ma anche che coinvolga, più in generale, il sistema culturale e produttivo attraverso pratiche che la insegnino alle persone e che non contribuiscono, anche solo indirettamente, alla sua distruzione.
È anche troppo semplicistico dire: “E io cosa posso fare?“. Anche se, immagino, non facciamo uso di carne di pangolino, cerchiamo di far sentire la nostra voce, facciamo o aderiamo a campagne di sensibilizzazione e mostriamo profonda indignazione verso tali pratiche, magari anche solo insegnando ai nostri figli il dovere di rispettare gli animali, tutti gli animali, al di là dei soliti animali domestici.
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Cooperativa Osiris | Prodotti agricoli
La cooperativa Osiris – che prende il proprio nome dalla dea della fertilità – è una tra le più significative realtà europee che operano nell’ambito dell’agricoltura biodinamica. Essa è stata fondata nel 1988 da un gruppo di agricoltori che, avendo iniziato ad interrogarsi sull’efficacia e sulla pericolosità dell’agricoltura “moderna” fatta di forza e di chimica, avevano prima fondato un gruppo di studio e, da pionieri, avevano iniziato, già dall’inizio degli anni ’80, a praticare l’agricoltura biodinamica. Siamo in Alto Adige, in provincia di Bolzano, nella vallata compresa tra Termeno, Egna e Ora il cui paesaggio è costellato da una distesa quasi infinita di frutteti, soprattutto mele, ma anche vigneti. Lo scopo della cooperativa era chiaro già dall’inizio: la creazione di una struttura di produzione e di marketing completamente indipendente dal sistema industriale della produzione e della distribuzione agricola, allo scopo di garantire ai consumatori sia l’origine che la qualità dei prodotti offerti.
Nella campagna dei soci della cooperativa Osiris la natura, guidata e non limitata dalla mano dell’uomo, trova lo spazio di potersi esprimere e tutto dà l’impressione di essere una specie di “disordine ordinato”. Nelle campagne si sente un forte profumo, dato dalle mille erbe spontanee che circondano le piante e che vengono lasciate crescere nelle bordure e nei cespugli e si sentono cinguettare numerosi uccelli di specie diverse che trovano un ambiente ospitale e nutrimento dato dagli insetti che, senza tregua, si posano sui fiori o volano nell’aria.
Il gruppo di studio sulla biodinamica è ancora il motore e il centro di ricerca della cooperativa Osiris che oramai ha acquisito esperienza e ha sviluppato importanti tecniche produttive nell’ambito dell’agricoltura biodinamica e che oggi esporta i suoi prodotti in tutta Europa. Tra questi prodotti, a fianco delle originarie mele e pere, sono stati introdotti anche piccoli frutti di bosco (mirtilli, lamponi, ribes, ecc.), il succo di mela e detersivi per la casa e per la persona, a base di aceto di mele. Il prodotti della cooperativa Osiris sono certificato Demeter, Codex e GlobalG.A.P.
Attualmente la cooperativa Osiris ha la propria sede a Postal (BZ).
Bello o brutto?
Qualche mattina fa, a Verona, mi trovavo a percorrere una piacevole strada panoramica urbana sul fiume Adige. Mentre aspettavo il mio turno fermo al semaforo il mio sguardo fu attratto da dei bellissimi fiori gialli che svettavano alti e imponenti tra gli steli d’erba e tra le margherite nei pressi del ciglio stradale, ad un paio di metri da me. Il ciglio stradale e l’argine ne erano pieni e lo spettacolo era veramente notevole. Purtroppo, però, bisogna rassegnarsi al fatto che le cose belle hanno breve durata e, come per magia, poco avanti c’erano anche due operai vestiti di tutto punto, con i loro bei giubbini catarifrangenti arancio, con i loro bei caschetti, le cuffie, il paraocchi e i guanti, armati di decespugliatori a filo che… broom… broom tagliavano tutti i vegetali e tutti i fiori che trovavano sul loro cammino, facendone tabula rasa.
Quei poveri operai erano stati mandati là da qualcuno che, a mio avviso, senza fare troppe ricerche scientifiche sulla biodiversità urbana e senza preoccuparsi troppo della bellezza del paesaggio spontaneo, aveva deciso che le erbacce erano brutte e che doveva essere fatto un po’ di “ordine”.
Mi sono subito chiesto che cosa sia il concetto del “bello” e quello del “brutto”. Mi sono subito chiesto se sia più bello (nella Pianura Padana) un prato all’inglese verde smeraldo di steli d’erba ben allineati e rasati in maniera uniforme oppure un prato, un po’ più “selvatico”, pieno di margheritine bianche e tarassachi gialli. Se sia più bella un’aiuola con tutti i fiori uniformi e ben separati oppure realizzata da una mescolanza di piante e di colori; se sia più bello un giardino con le piante ben allineate e tutte ben potate oppure caratterizzato da un groviglio di alberi semi-selvatici.
Per me la risposta è ovvia, perché tento di ragionare e di legare il mio piacere anche a ciò che è bene per la natura, che poi in definitiva è anche il mio e della mia salute. Però mi rendo conto che per molte persone la scelta più comoda sia quella dell’ordine, del rigore, della uniformità. Non importa poi il fatto che per raggiungere il risultato voluto si debba abbondare con i diserbanti e con i pesticidi, si debba esagerare con le attrezzature a motore, si debbano sprecare centinaia di metri cubi d’acqua potabile, si debba violentare la biodiversità vegetale e animale.
A pensarci bene, però, mi rendo conto che la questione affonda le sue radici prevalentemente nella dimensione culturale. È solo legata al fatto che qualcuno ci ha inculcato l’idea che debba essere fatto così. Punto. Senza troppi ragionamenti e senza troppe analisi critiche.
Cari lettori, aprite lo sguardo e cercate di vedere le cose anche con un occhio diverso. Cercate di non farvi influenzare dalle mode e dal conformismo. Vedrete che si apriranno interessanti orizzonti che vanno al di là dei meri concetti di “bello” e di “brutto” e sarete più predisposti anche a cambiamenti più radicali e più giusti, a nuove soluzioni tecniche, economiche e sociali che porteranno ad un nuovo progresso per il futuro.
Sono sempre più convinto che la differenza la facciamo veramente solo noi, attraverso le nostre scelte!
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Foto 1 e 2: L’argine del fiume Adige
Foto 3: Esempio di prato “all’inglese”
Foto 4: Esempio di prato “selvatico”
Io freno anche per i ricci
È oramai primavera inoltrata e i ricci (1), dopo essere usciti dal letargo ai primi caldi soli, sono nel pieno della loro attività. I ricci sono animali notturni caratterizzati dalla presenza di aculei (ben 6-7 mila) nella parte superiore del loro corpo, evoluzione dei peli per scopi di difesa dai predatori.
Questi aculei rappresentano la loro fortuna evolutiva ma anche la loro condanna moderna. Infatti sono talmente efficaci contro i predatori che l’animale, in caso di pericolo, ha sviluppato l’istinto di appallottolarsi e di mettere la testa sotto il ventre per rimanere lì. Fermo. Ad aspettare che il pericolo se ne vada.
Purtroppo i pericoli moderni per i pochi ricci superstiti in un ambiente fortemente antropizzato e sottoposto ad agricoltura intensiva com’è quello delle nostre campagne, non sono più in larga parte i rapaci o i piccoli carnivori. Tali pericoli sono invece rappresentati dagli autoveicoli che sfrecciano sempre più numerosi e sempre più veloci nel nostro reticolo stradale urbano.
Per questo e per evitare inutili stragi, a chi per strada mi sta dietro dico di fare attenzione perché… io freno anche per i ricci!
P.S. Scaricate il cartello, stampatelo e attaccatelo sul vetro della vostra auto per segnalare che anche voi frenate per i ricci.
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(1) Il riccio è un mammifero notturno appartenente alla specie degli Erinaceidi caratterizzato dalla presenza di aculei sulla parte superiore del corpo che fungono da sistema di difesa dai predatori. l riccio è un animale onnivoro la cui dieta include insetti, lumache, rane, uova di uccelli e vari vegetali. Ama la frutta, i vermi e tutti gli animaletti che popolano il sottobosco. Può arrivare a mangiare uccelli di piccola taglia, topi e serpenti. Il riccio può anche affezionarsi alle persone e, per questo, può vivere anche in ambienti domestici.
Foto: il corpo di un riccio investito per strada – foto di Matteo Di Nicola
Le “Giornate della Terra”
Ieri, 22 aprile, si è svolta la “Giornata della Terra”, un’iniziativa molto interessante nata negli anni ’70 per sensibilizzare l’opinione pubblica sulle tematiche ambientali e sulla necessità di conservazione delle risorse naturali. Ora, giunti alla 44^ edizione, ci sono però ancora numerosissime e importantissime cose da fare.
Se è troppo facile celebrare la “Giornata della Terra”, un po’ meno è mettere in pratica azioni concrete per fare in modo di essere, individualmente o collettivamente, il cambiamento necessario. Per evitare che tale manifestazione rimanga solo una valida iniziativa teorica da oggi, e poi per 364 giorni fino al prossimo 22 aprile, ognuno di noi dovrà impegnarsi seriamente ad agire in prima persona – talvolta rinunciando a qualcosa per guadagnare qualcos’altro – per dimostrare concretamente il proprio impegno a favore della Madre Terra.
In particolare dovremo, per citarne alcune:
limitare l’uso e il consumo del territorio non sprecare energia impegnarsi ad usare energia proveniente solo da fonti rinnovabili limitare il consumo sia dei prodotti finiti che delle materie limitare e possibilmente evitare il consumo di carne limitare il consumo dei pesticidi eliminare il consumo di erbicidi consumare prodotti e favorire le economie locali limitare la deforestazione essere informati sui prodotti che acquistiamo esercitare il controllo sull’azione politica e amministrativa scegliere solo finanza etica e, se possibile, limitare comunque la finanza speculativa limitare l’utilizzo delle auto private e usare maggiormente i trasporti collettivi preferire la bicicletta per la mobilità urbana limitare i voli aerei salvaguardare gli animali selvatici salvaguardare gli ambienti selvaggi salvaguardare il paesaggio difendere le popolazioni indigene limitare la produzione di rifiuti separare e riciclare sempre meglio i rifiuti prodotti non inquinare il suolo, l’aria e i mari effettuare scelte di consumo orientate verso i prodotti ecologici riutilizzare e recuperare i vecchi prodotti…
… e se avete altre idee che non ho indicato, sono le benvenute!
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Per approfondire: Earth Day Italia; Earth Day Network
Man
Steve Cutts (1) pubblica il video “Man” il 21 dicembre 2012 e, in poco tempo, riceve più di 5 milioni di visualizzazioni sulla piattaforma YouTube e circa 1 milione su Vimeo.
Il tema principale di questo magnifico cortometraggio animato è il rapporto tra l’uomo (“man”, appunto, che compare nel titolo) e l’ambiente. Un rapporto che dura da circa 500.000 anni e che è inizialmente idilliaco in un luogo ricco di animali e piante, ma che si trasforma, a poco a poco, in un vero e proprio incubo.
Una delle prime cose che l’uomo impara e inizia a praticare è la violenza, anche gratuita, nei confronti degli altri esseri viventi che popolano il Pianeta. Dall’atto gratuito si passa poi all’utilitarismo: l’uomo uccide i serpenti per farsi degli stivali e le foche per farsi delle pellicce che lo possano riparare dal freddo. Con il passare del tempo e con l’avvento delle armi da fuoco inizia a anche ad uccidere gli animali per gli scopi più futili: per divertimento e per avere inutile e superflui oggetti di lusso. La violenza dell’uomo nei confronti della natura si manifesta anche attraverso il taglio di alberi e foreste che diventano altissime torri di carta, nella cementificazione e urbanizzazione di tutto ciò che lo circonda, nel consumismo sfrenato nonché nella produzione di montagne di rifiuti.
Il tutto si consuma in una paradossale danza di inconsapevolezza autodistruttiva che porta progressivamente l’uomo nelle sua marcia folle verso il baratro.
Con il video “Man” Steve Cutts, in poco più di tre minuti, ci racconta la strafottenza la brama di potere e l’idiozia dell’uomo e ci mette di fronte all’assurdità dei nostri comportamenti facendoci comprendere che il male più grande dell’agire umano non sembra essere tanto l’errore – inevitabile e comunque risolvibile – quanto piuttosto la perseveranza nel continuare a sbagliare.
Il video “Man” sembra un accorato appello dell’autore che ci pone davanti agli occhi, senza censure, la brutalità delle nostre azioni e ci dice… ADESSO BASTA!
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(1) Steve Cutts è un blogger e artista freelance londinese che spazia dalla pittura alla scultura, dall’illustrazione all’animazione interessandosi di numerose tematiche sociali, tra cui anche l’ecologia.
Musica: “In the Hall of the Mountain King” di Edvard Grieg
Le piante imparano dall’esperienza e memorizzano nel tempo
Stefano Mancuso (1) – scienziato, professore associato di Arboricoltura generale e coltivazioni arboree nonché responsabile del LINV (Laboratorio Internazionale di Neurobiologia Vegetale) dell’Università di Firenze – assieme ai ricercatori dell’University of Western Australia Monica Gagliano, Michael Renton e Martial Depczynski, ha sottoposto a stimoli di varia natura alcune piante di Mimosa pudica (2), un arbusto che, se stimolato, è in grado di chiudere le proprie foglie. La reazione di tale pianta, immediata è visibile senza l’ausilio di sofisticati microscopi, ha consentito agli studiosi di analizzare le risposte a diverse tipologie di sollecitazioni, sia innocue che pericolose, come il contatto con un insetto.
“Abbiamo addestrato le piante ad ignorare uno stimolo non pericoloso, come la caduta da un’altezza di 15 cm del vaso dove sono coltivate – spiega Mancuso – ripetendo più volte l’esperienza. Dopo alcune volte la pianta ha iniziato a “capire” e a non chiudere più le foglie, risparmiando energia”. “Inoltre – spiega sempre il ricercatore – abbiamo allevato le piante in due gruppi separati con disponibilità di luce differente e abbiamo osservato che quelle coltivate a livelli luminosi inferiori, con meno energia a disposizione, tendono ad apprendere più in fretta di quelle che ne hanno di più, comportandosi come se non volessero sprecare risorse”. “Le piante – precisa Mancuso – hanno anche mantenuto memoria delle esperienze fatte per oltre 40 giorni”.
Le conclusioni di questo studio, pubblicate sulla rivista scientifica Oecologia, dimostrano sia che le piante sono in grado di apprendere delle informazioni sia che sono in grado di memorizzare nel tempo le informazioni apprese.
La ricerca e le conclusioni a cui è giunta dimostra due concetti fondamentali per la sostenibilità ambientale, che sono la base concettuale di Bioimita e della bioimitazione:
- per sopravvivere in natura non è consentito sprecare energia: massima efficienza significa maggiori probabilità di vita duratura;
- in natura gli esseri viventi – comprese le piante – sono “progettati” e si sono evoluti per fare esperienza e per avere memoria di tale esperienza: questo garantisce maggiori probabilità di sopravvivenza perché, nei diversi comportamenti, si può tenere conto degli errori già commessi per non ripeterli.
La similitudine dei comportamenti umani con quelli dalla ricerca relativi all’apprendimento (anche) delle piante è molto evidente. Illusi dall’ubriacatura tecnologica pensiamo di essere invincibili e di essere in grado di poter risolvere con la tecnica (le macchine, l’elettronica o la biotecnologia) tutti i vari problemi che inevitabilmente ci si presentano. Invece, a mio avviso, ci dobbiamo comportare come la Mimosa pudica (e altre piante che non abbiamo ancora compreso): dobbiamo iniziare ad essere efficienti nel consumo dell’energia, in quanto scarsa; dobbiamo iniziare a fare veramente esperienza dagli errori del passato e utilizzare tale esperienza per operare rapidi cambiamenti dei nostri comportamenti.
Solo così – e attraverso l’applicazione delle altre pratiche di imitazione della natura – avremo più probabilità di superare le inevitabili avversità della vita e di garantirci un futuro di benessere e prosperità in armonia con ciò che ci circonda.
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(1) Stefano Mancuso, oltre ad essere un ottimo comunicatore e divulgatore scientifico, è anche uno dei fondatori della neurobiologia vegetale, una nuova disciplina che studia i segnali e la comunicazione delle piante a tutti i livelli di organizzazione biologica, dalle singole molecole alle comunità ecologiche. È autore di numerosi libri sulla comunicazione e sul comportamento dei vegetali.
(2) La Mimosa pudica è una piccola pianta di origine tropicale appartenente alla famiglia delle Mimosacee che deve il proprio nome alla sua capacità di rispondere a stimoli tattili o a vibrazioni richiudendo le foglie su se stesse. Per queste sue caratteristiche è stata a lungo oggetto di studi.
I leoni non sono animali violenti (2)
Il video dove Kevin Richardson (1) abbraccia i suoi leoni è commovente e dimostra che, con il rispetto, con la comprensione e con la giusta empatia basata sulla fiducia nei loro confronti, anche animali carnivori selvaggi come i leoni e le iene (biologicamente progettati ed evoluti per attaccare ed uccidere altri esseri viventi) possono dimostrare affetto verso gli esseri umani, senza aggressività e violenza gratuita.
Naturalmente quello che fa Kevin Richardson risulta essere una cosa molto pericolosa non comune che non deve essere ASSOLUTAMENTE messa in pratica da chi non abbia profonda conoscenza degli animali selvatici. Dal video, però, si capisce che con la giusta dose di rispetto reciproco, evitando forzature per scopi di divertimento attraverso addestramenti innaturali, si possono stabilire con gli animali selvatici legami di “amicizia” molto profondi.
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(1) Kevin Richardson, dopo essersi laureato in anatomia e fisiologia, ha iniziato a lavorare in un parco sudafricano che accoglieva leoni. Da allora la sua vita è totalmente cambiata perché, attraverso un metodo particolare di approccio ma anche attraverso un indubbio talento personale, ha iniziato ad instaurare con gli animali selvatici dei rapporti unici. Questo gli ha permesso anche di divulgare lo stato di grave pericolo in cui versano i leoni in Africa, dove se ne contano dai 15 ai 30 mila esemplari, numeri in forte calo rispetto ai decenni passati. Kevin Richardson è fondatore dell’associazione “The Lion Whisper” che si occupa di proteggere i leoni ed altri animali selvatici ed attualmente gestisce in Sudafrica una riserva privata: il “Wildlife Sanctuary”.
Una cintura… ecologica
In merito al recente ritrovamento di alcuni lupi uccisi a fucilate o massacrati a bastonate in Maremma, il giornale toscano “La Nazione” titola: “Lupi uccisi: è una guerra, non una caccia. Sospetti sugli allevatori di ovini”. Il problema – sempre secondo il giornale in questione – sono le migliaia di pecore trovate morte sgozzate o agonizzanti che hanno decimato produzione e portafogli di chi aveva nell’allevamento degli ovini l’unica fonte di sussistenza e che hanno spinto gli allevatori a passare ai fatti non rispettando più la legge o non tenendo conto dei progetti provinciali di protezione delle greggi dagli attacchi del lupo. “L’abbattimento dei lupi – ha osservato Luca Sani, Presidente della Commissione Agricoltura alla Camera – è motivo di seria preoccupazione. Tuttavia sarebbe da irresponsabili tenere la testa sotto la sabbia e non riconoscere che questa prassi rappresenta un segnale preoccupante dell’esasperazione degli allevatori”.
La notizia che ho descritto dimostra oramai una cosa che penso da tempo: la convivenza tra uomo e animali selvatici è oramai divenuta IMPOSSIBILE ed è un’utopia pensare, anche attraverso i più avanzati progetti ecologici e naturalistici, di poterla in qualche modo realizzare. Tutte le iniziative, anche se sembrano funzionare nel breve periodo, poi, con il passare del tempo, dimostrano lacune e scontri irrisolvibili tra uomo e animali. Lo dimostrano gli attacchi degli agricoltori nei confronti dei lupi in Toscana. Ma anche quelli nei confronti degli orsi in Trentino o in Germania. Per non parlare di quelli nei confronti degli elefanti e dei rinoceronti in Africa oppure quelli nei confronti di altri animali selvatici in giro per il mondo che non rientrano nella nostra dimensione comunicativa e che, pertanto, non percepiamo.
I motivi di tutto ciò sono molto semplici da comprendere: l’uomo, con i suoi 7 e passa miliardi di individui e con tutte le attività economiche ad essi correlate, si sono oramai spinti negli angoli più remoti del Pianeta, tanto da entrare in conflitto anche con ecosistemi periferici, come possono essere quelli delle montagne, della savana, della foresta più profonda e addirittura dell’Artide e dell’Antartide. Il rapporto “pacifico” che ancora vagamente perdura tra uomo e animale selvaggio è quello all’interno dei parchi naturali, ma è mediato sempre dagli interessi economici rappresentati dai turisti. Appena questi ultimi spariscono, vengono a mancare anche gli interessi per gli animali, che in pochi anni vengono a soccombere sotto l’aggressività (e la capacità omicida dovuta alle armi da fuoco) dell’uomo.
Dal momento che la biodiversità è assolutamente da difendere per preservare la sopravvivenza dell’uomo sulla Terra e dal momento che per difendere la biodiversità si devono preservare gli ambienti e gli animali selvatici, penso che l’unica strada che si possa percorrere a tale riguardo sia quella di creare delle cinture ecologiche (1) terrestri e marine sparse su tutto il Pianeta, interconnesse tra loro come una sorta di rete globale. Da tali cinture ecologiche deve essere tassativamente escluso l’uomo e tutte le sue attività economiche, senza deroga alcuna. In esse nemmeno gli scienziati vi dovranno accedere!
Solo così, in qualche centinaia di anni, si potrà sperare di ricreare degli ecosistemi selvatici, insostituibili serbatoi di biodiversità per le generazioni future e per la salute della Terra.
Ogni Paese, ogni comunità, ogni abitante del Mondo dovrà essere disposto a rinunciare a una parte del proprio territorio e ad una piccola parte di pretese economiche per costituire questa enorme cintura ecologica, azione inevitabile per garantire continuità di vita sulla Terra.
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(1) Delle caratteristiche tecniche delle cinture ecologiche ne parlerò nei dettagli in un prossimo articolo.
“Pollution” by Bryan Clark
Siamo abituati a pensare all’inquinamento come ad un fenomeno – certamente negativo – che interessa solo l’ambiente che ci circonda, pensando invece poco alle conseguenze che esso può avere sulla nostra salute e sul nostro benessere.
Inquinata è l’aria; inquinata è l’acqua; inquinato è il terreno; inquinate sono le città ma poco si pensa a quali siano le conseguenze su coloro che abitano tali ambienti.
Quello che invece cerca di farci comprendere Bryan Clark nel suo breve video d’animazione “Pollution” [guarda il video] è il fatto che inquinato può essere anche il nostro organismo e, in particolare, il cuore. Nel video Bryan Clark ci fa vedere quali siano le conseguenze del nostro sistema economico-produttivo su ciò che ci circonda: dapprima l’ambiente appare incontaminato, le acque sono pulite e boschi rigogliosi ricoprono le colline. Lentamente, però, l’inquinamento delle industrie che si sviluppano e crescono sempre più numerose tanto da sostituirsi ai boschi, inizia a contaminare l’erba e i corsi d’acqua fino a penetrare inesorabilmente nel corpo umano… e raggiungere il cuore.
“above all else, guard your heart, for everything you do flows from it ” (con ogni cura vigila sul cuore, perché da esso sgorga la vita) – Bibbia, Proverbi 4:23
L’Amazzonia muore
Non servono parole per descrivere la follia…
“Ettaro dopo ettaro la foresta amazzonica sta lentamente morendo. Mangiata dalla deforestazione selvaggia, dagli incendi per destinare nuove terre all’agricoltura e agli allevamenti intensivi, all’estrazione mineraria, a nuove strade. Così la foresta pluviale più grande al mondo, secondo i dati dell’agenzia spaziale brasiliana, è diminuita di oltre un terzo nel corso dell’anno passato. Mentre secondo uno studio pubblicato sul londinese “Regional Environmental Change”, negli ultimi 3 anni nella parte brasiliana della foresta (il 60% della superficie totale) sono state costruite oltre 50 mila nuove strade”.
Un reportage, firmato dal fotografo Nacho Doce per l’agenzia Reuters, testimonia questa devasazione. Il titolo: “Amazzonia, da paradiso a inferno” (Reuters)
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Fonte: Corriere della Sera
Stefano Mancuso e l’intelligenza delle piante
“Diecimila anni fa l’uomo, imparando a coltivare le piante, ha dato vita alla civiltà, cioè la civiltà umana nasce proprio con l’agricoltura. Oggi, se noi riusciamo a comprendere meglio le piante, probabilmente daremo una mano a farla continuare, la civiltà”
Questo è quanto osserva il prof. Stefano Mancuso a conclusione della propria intervista del 29 settembre 2013 a “Che Tempo Che Fa“, su Rai3.
Mi fa piacere non essere il solo a pensare che lo studio approfondito della natura e la sua imitazione sarà il vero progresso e potrà contribuire a salvaguardare la civiltà per il futuro.
Per approfondire:
Laboratorio Internazionale di Neurobiologia Vegetale
The Plant Intelligence Project
Le tartarughe di Mondello
Mi riferisco proprio a quella Mondello, la “spiaggia” di Palermo, dove si riversano migliaia e migliaia di turisti e migliaia e migliaia di locali, concentrati soprattutto nei fine settimana.
Quest’estate, a Mondello, ci siamo andati anche noi per rilassarci e rinfrescarci da una calda giornata trascorsa a visitare la città. Nella spiaggia che abbiamo scelto e nella quale abbiamo mollemente adagiato le nostre stanche membra siamo rimasti colpiti da una strana e inusuale (per il luogo) rete metallica segnalata da alcune bandiere del WWF. Alla nostra richiesta di informazioni in merito ci è stato risposto che si trattava di un luogo dove, qualche settimana prima, una tartaruga marina aveva deposto alcune uova.
Proprio li, in mezzo a tutti e a tutto!
Dai giornali apprendo che finalmente le uova si sono schiuse. Ai piccoli auguro buon viaggio e lunga vita…
Foto: il nostro pomeriggio a Mondello (PA)
Vita da cavernicoli
Per fugare qualsiasi dubbio e possibili critiche desidererei precisare un concetto molto importante: Bioimita, attraverso la bioimitazione, NON È e NON VUOLE ESSERE un ritorno al passato che anela ad una vita da cavernicoli. Anzi, Bioimita si propone l’esatto contrario e desidera operare una rivoluzione culturale verso la modernità e il progresso.
La strada che ha pensato di percorrere per raggiungere tale risultato è quella dell’imitazione della natura in tutte le sue sfaccettature di funzionamento, da applicare a tutte le attività umane. Da quelle produttive a quelle sociali.
Partendo dall’inizio, se è vero che l’evoluzione opera minuscoli cambiamenti nell’arco di centinaia di migliaia di anni (se non di milioni) è allora molto probabile che l’uomo (ma anche altri animali abitanti di questo pianeta) non abbia avuto il tempo di adattarsi al mondo industriale odierno. Il nostro corpo, ad esempio, non è fatto per stare tutto il giorno davanti ad uno schermo luminoso e, difatti, stare troppo seduti fa male alla salute. Per tali ragioni si potrebbe pensare che un ritorno al passato, non necessariamente all’era pre-industriale ma, magari, ancora prima a quella pre-agricola, possa essere meglio per noi e per l’ambiente perché ci espone a minori malattie “moderne” (tipo diabete, cancro o a quelle cardiocircolatorie legate alla sedentarietà) e consuma meno risorse.
È però altrettanto vero che non tutti gli organismi si riescono ad adattare perfettamente all’ambiente che abitano. Anzi, essi sono in costante evoluzione e non vi potrà mai essere un momento in cui saranno perfettamente evoluti ad un dato sistema. L’evoluzione ad un dato ambiente è, per fare un esempio, come il cane che gioca con la sua coda e la vuole prendere ma, ad ogni tentativo di rotazione e di slancio, la coda gli scappa dalla bocca in una sequenza infinita (e divertente).
Nella nostra storia su questo Pianeta oramai siamo arrivati ad un dato punto – quello attuale – e il percorso del passato, anche se spesso sbagliato, non si può cancellare con un banale colpo di spugna. Ecco che, allora, per cercare di avere opportunità di sopravvivenza e di benessere per il futuro è necessario prendere in mano una nuova filosofia di vita che la bioimitazione si propone di enunciare.
In sostanza bisogna iniziare ad abbandonare l’idea di forzare a tutti i costi la natura – magari anche attraverso pratiche assurde come quelle delle modificazioni genetiche, delle modificazioni atomiche (nanotecnologie), della geoingegneria o delle fonti radioattive per la produzione di energia – ed è invece necessario concentrare gli sforzi su come si può proficuamente copiarne il funzionamento traendo il massimo beneficio per noi, per gli altri abitanti del Pianeta e per il Pianeta stesso.
A me sembra che solo così possa funzionare e che solo la bioimitazione potrà essere l’unico vero progresso per il futuro.
Sophora toromiro
Il nome è simpatico e sembra più quello di un manga giapponese piuttosto che quello di un raro essere vivente ad un passo dall’estinzione.
Al di là delle battute, la Sophora toromiro è una pianta endemica dell’Isola di Pasqua, appartenente alla famiglia delle Leguminose dall’aspetto e dalle caratteristiche piuttosto anonime. Essa, prima a causa della pesante deforestazione che ha interessato l’Isola nella prima metà del XVII secolo e poi a causa dei pascoli intensivi, è diventata sempre più rara fino ad estinguersi allo stato selvatico intorno alla metà del XX secolo. Un contributo diretto alla quasi estinzione sembra averlo fornito anche l’uomo che impiegava indiscriminatamente il piccolo tronco di tale pianta per intagliare statuette e oggetti cerimoniali.
Fortunatamente la Sophora toromiro sopravvive ancora e solo per miracolo non viene annoverata tra le specie definitivamente scomparse dalla Terra dal momento che dall’ultimo esemplare ancora allo stato selvatico sono stati staccati alcuni ramoscelli, poi oggetto di tentativi di trapianto e riproduzione nelle serre di diverse università. Da questi tentativi solo il Giardino Botanico Val Rahmeh di Mentone è riuscito a far riprodurre la Sophora toromiro all’aria aperta e a non privarci della sua unicità.
La triste storia di questa pianta racconta ancora una volta l’assurdo agire dell’essere umano, ingiustamente (auto)definito “intelligente”. Quello che mi colpisce è vedere quello che sono riusciti a fare poche migliaia di uomini sull’Isola di Pasqua (1) con poche risorse e poca energia e quello che, potenzialmente, potrebbero fare sull’intero pianeta Terra miliardi di esseri umani dotati di tanta energia, tante materie, tecnologia sofisticata, fanatismo economico, religioso e ideologico.
Le modalità della quasi estinzione della Sophora toromiro devono essere un monito perché ci si renda conto che tutti gli esseri viventi della Terra hanno ruolo importante (anche se apparentemente invisibile) e che nelle diverse attività ci deve essere un senso del limite e una consapevolezza di precarietà.
Se non lo capiamo velocemente il rischio è che anche l’enorme pianeta Terra si possa trasformare, ben presto e per tutti i suoi abitanti, in un’inospitale isola di Pasqua.
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(1) Allo sbarco dei primi colonizzatori polinesiani, che i più recenti studi fanno risalire attorno al 800-900 d.C., l’Isola di Pasqua si doveva presentare come una immensa foresta di palme. Fino al 1200 d.C. la popolazione rimase numericamente modesta e sostanzialmente in equilibrio con le risorse naturali presenti. In seguito, però, nacque da parte degli abitanti la necessità di costruire i moai, il cui sistema di trasporto richiedeva notevoli quantità di legname. Cominciò pertanto un importante lavoro di disboscamento dell’isola che fu ulteriormente intensificato dopo il sensibile aumento della popolazione dovuto a nuovi sbarchi. Verso il 1400 d.C. la popolazione raggiunse i 15.000-20.000 abitanti e l’attività di abbattimento degli alberi conobbe il proprio massimo di intensità. La riduzione della risorsa forestale provocò un inasprimento dei rapporti sociali interni che sfociarono talora in violente guerre civili tra tribu. Tra il 1600 e il 1700 d.C., in alternativa al legno divenuto sempre più scarso, gli abitanti iniziano a utilizzare come combustibile anche erbe e cespugli. Le condizioni di vita sull’isola divennero pertanto proibitive per la poca popolazione rimasta, in gran parte decimata dagli scontri interni e dai flussi emigratori. Secondo i resoconti del primo occidentale a sbarcare sull’isola, Jakob Roggeveen, l’isola al tempo del suo arrivo si presentava brulla e priva di alberi ad alto fusto. A spiegazione della precoce perdita di alberi dell’isola, nonché della sparizione pressoché totale della fauna endemica, oggi si sono portate avanti anche ipotesi riguardanti la possibile responsabilità dei ratti del tipo polinesiano (Rattus exulans) che raggiunsero l’isola al seguito dei primi colonizzatori e che iniziarono a nutrirsi anche dei semi di palma, contribuendo sensibilmente all’estinzione degli alberi dell’isola (Fonte: Wikipedia).
Ah, la caccia
Come ogni autunno è tempo di apertura della caccia e per chi si occupa di sostenibilità ambientale parlare male della stessa è come sparare sulla Croce Rossa. Troppo semplice!
Nella realtà dei fatti, se vogliamo ragionare in termini di bioimitazione, si deve osservare che in natura esiste il fenomeno “caccia”. Anzi, la natura è permeata proprio dalla caccia – e dalle tecniche di elusione del cacciatore – visto che un buon numero di specie animali sono carnivore e si nutrono di altri animali tendendo loro agguati, rincorrendoli, ghermendoli dall’alto, avvelenandoli e aggredendo i loro piccoli. La caccia, in natura, non è poi effettuata solo per nutrimento, ma è anche allenamento e istruzione dei piccoli senza alcuna connessione con il concetto, tutto umano, di morale.
Se la analizziamo solo da questo punto di vista la caccia dell’uomo, praticata per ragioni ludico-sportive all’interno di un alveo di regole normative e pseudo etiche, è un giochino di solito poco cruento che prevede la morte, normalmente immediata, dell’animale cacciato.
Ma allora, se così stanno le cose, perché parlare della caccia in senso negativo? Le ragioni fondamentalmente sono quattro:
- la caccia sportiva viene effettuata con metodi (armi da fuoco, spesso a ripetizione) che danno scarse possibilità di difesa agli animali;
- la caccia sportiva provoca disequilibri agli ecosistemi attraverso l’introduzione di specie alloctone che minacciano la biodiversità;
- la caccia sportiva non è in grado di selezionare gli animali più deboli;
- la caccia sportiva è pericolosa per chi desideri frequentare gli ambienti naturali per altri scopi.
In natura esiste il concetto di caccia ed esiste la capacità di difesa dall’animale cacciato. Le due cose corrono parallele e, alla modifica dell’una, si verifica subito il cambiamento dell’altra fino al raggiungimento di un nuovo equilibrio. Questa è l’evoluzione. L’utilizzo, nella caccia sportiva attuale, di armi da fuoco che spesso sono anche a ripetizione, non dà possibilità di difesa agli animali e non ne consente una sana evoluzione ma solo una generalizzata “paura”, uno stress continuo nei confronti di un fenomeno dal quale non riescono a trovare adeguate contromisure strategiche. Si pensi ad un fucile che spara da lunga distanza e che non consente all’animale di annusare, di percepire o di vedere il pericolo.
Data l’enorme antropizzazione del territorio italiano, la caccia viene svolta in ambiti circoscritti e, per questo, depaupera senza criterio una certa specie all’interno di un ecosistema quasi chiuso. La conseguenza è la necessità di reintrodurre animali da allevamento che spesso provengono da altri luoghi e hanno caratteristiche genetiche o comportamentali non adatte all’ambiente specifico. Gli esempi, a tale proposito, possono essere numerosi e riguardano sia la perdita totale di una specie (es. la lepre appenninica quasi estinta dall’introduzione della lepre europea) o la proliferazione, attraverso gli incroci, del patrimonio genetico di una specie – come il cinghiale europeo – che ha caratteristiche diverse di grandezza e di prolificità rispetto a quello locale italiano.
La caccia sportiva, poi, vista la tecnologia che la caratterizza soprattutto in termini di armi e di aggressività dei suoi praticanti, ha fatto normalmente perdere al cacciatore la capacità di studiare e di vedere in profondità la natura che lo circonda. Egli, pertanto, non è in grado di riconoscere l’animale ferito o malato e riesce a fare solo in misura limitata ciò che in natura si verifica normalmente: la selezione dell’animale debole nonché di quello geneticamente non predisposto all’attenzione o ad una determinata strategia di caccia. Infine la caccia sportiva, per la presenza di armi da fuoco molto potenti e per la scarsa “educazione” dei cacciatori, non consente di vivere senza pericoli gli ambienti naturali per scopi diversi dalla stessa. Questo impedisce che i cittadini possano godere liberamente della natura e ne possano apprezzare anche elementi culturali ed educativi che esulano dal mero utilizzo della stessa per l’ottenimento del cibo o delle risorse naturali.
Al di là dell’etica, quindi, anche la natura e i meccanismi che ne regolano il corretto funzionamento penalizzano la caccia sportiva e l’insostenibilità ambientale (e civile) che essa provoca.
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Video: Caccia in deroga
Foto: www.chiaracremonesi.it
La faccia della luna
Il loro nome e il modo di presentarsi sul palco con maschere raffiguranti teschi sono carte d’identità piuttosto particolari per il gruppo musicale friulano dei Tre Allegri Ragazzi Morti, che si muove in bilico tra il mercato discografico “ufficiale” e quello underground.
Se il nome e i modi potrebbero sembrare un po’ cupi, quello che non è affatto oscuro, ma manifestato con assoluta limpidezza, è la loro idea di rispetto della natura e di relazioni profonde tra tutti gli esseri viventi.
Nella canzone “La faccia della luna” scrivono:
“[…] Avevo un giorno un campo in mezzo ad altri cento ci coltivavo more e fiori e un po’ di sentimento. I fiori sono morti e le more avvelenate senza pensarci troppo hanno usato il trattamento. Ho provato a dirlo agli altri guardate che sbagliate se il grillo torna al campo anche voi ci guadagnate Ascoltate tutti quanti guardate che sbagliate se il grillo torna al campo anche voi ci guadagnate. Hanno ammazzato i grilli sterminato le formiche esiliato talpe e topi ed impiccato me. La faccia della luna oggi è bruna non è che non ci sia ma è come fosse andata via…”
E se fossimo noi le locuste?
Che schifo tutti quegli insetti che ti si posano sui capelli, che ti colpiscono il viso, che ti si attaccano ai vestiti e che divorano tutti i vegetali che trovano sul loro devastante cammino. Un vera e propria piaga. Di dimensioni… bibliche!
Periodicamente accade che qualche area del mondo sia funestata da enormi masse di locuste che devastano tutto quello che trovano sulla loro strada e che, spesso, determinano terribili carestie, malnutrizione e morte. Gli enormi sciami volanti che quasi oscurano il cielo sono la parte più evidente del fenomeno ma l’aspetto peggiore è quando gli animali si posano a terra e iniziano a muovere instancabilmente le loro mandibole: cra, cra, cra…
Nel mio immaginario ho sempre pensato che tale fenomeno fosse da combattere con qualsiasi mezzo, chimico e non. Con il passare del tempo, però, approfondendo la mia conoscenza sulle relazioni (spesso malate e corrotte) che l’umanità contemporanea ha con il Pianeta (1), ho iniziato a capire che la nostra visione parte dal solo punto di vista antropocentrico: noi siamo le vittime del fenomeno e loro (le cavallette) rappresentano i cattivi.
Proviamo a ribaltare la questione e a chiederci provocatoriamente: “E se fossimo noi le locuste?”.
In fin dei conti, come loro, ci muoviamo individualmente ad esplorare territori e, trovata abbondanza di risorse, arriviamo in massa. Quando siamo in tanti iniziamo ad incidere pesantemente sugli ecosistemi consumando acqua, risorse alimentari, materie prime, tagliando e bruciando legna, uccidendo animali ed emettendo rifiuti e scarti di vario tipo nell’ambiente circostante. Raggiunto l’apice del nostro sviluppo in un certo territorio e, magari, avendo esaurito le risorse, quando ce ne andiamo lasciamo distruzione e morte. Di ciò la storia ne è testimone in numerosissimi episodi, anche piuttosto recenti.
Questa, molti, la chiamano “civiltà” ma si potrebbe iniziare a considerarla “piaga”, come quella delle locuste.
La bioimitazione si propone un approccio nuovo nei confronti della natura. Un approccio che, culturalmente, superi l’atteggiamento di devastazione e che miri a realizzare con il Pianeta una relazione biunivoca di do ut des. Una relazione che si muova su un’ampia conoscenza dei meccanismi di funzionamento della Terra e che sia in grado di coniugare economia, benessere e mantenimento nel lungo periodo delle risorse ambientali.
Solo così potremo pensare di aver sconfitto veramente la piaga delle locuste!
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(1) Dalle origini della civiltà umana, con il passare del tempo, questa relazione si è fatta via via sempre più malata e corrotta.
Foto: “La Stampa”; Luca Benatelli
L’Isola di Lord Howe
Il nome dell’Isola di Lord Howe non evoca, ai più, praticamente nulla.
Potrebbe essere indifferentemente lo scoglio di un freddo lago della Scozia, un’isola-faro della remota Alaska oppure – come in effetti è – una minuscola isola abitata da 350 individui posta in mezzo all’Oceano Pacifico, a 600 Km dalla costa est dell’Australia. L’Isola di Lord Howe è quel che rimane di un enorme vulcano emerso dalle acque del mare circa 7 milioni di anni fa. Essa, nelle ere geologiche, non è mai venuta in contatto con la terra circostante e, per tale ragione, è caratterizzata da un’abbondante biodiversità perché tutto ciò che la abita vi è arrivato spinto dal mare o dal vento e, così isolato, ha avuto un’evoluzione propria in totale solitudine. Ciò significa niente mammiferi (a parte alcuni pipistrelli), niente anfibi (perché molto sensibili all’acqua salata) ma, per il resto delle specie, vi è abbondanza e, soprattutto, endemicità. Poco meno della metà della sua flora è endemica come 15 specie di animali terrestri, in particolare uccelli e insetti, che hanno perso nei secoli la capacità di volare a causa dell’assenza di predatori di grossa taglia presenti sull’isola.
L’Isola di Lord Howe è stata scoperta per caso solamente nel 1788 da una nave che aveva perso la rotta di ritorno dall’isola Norfolk e, stranamente, è stata risparmiata anche dai polinesiani nei loro numerosi viaggi in lungo e in largo nell’Oceano Pacifico. Questo ha fatto sì che si sia quasi del tutto preservata la biodiversità, anche se i coloni che in questi ultimi due secoli l’hanno abitata hanno introdotto topi, gatti, civette, maiali e capre, involontari predatori o competitori con la fauna autoctona, tanto da determinare comunque alcune importanti estinzioni.
Purtroppo tra le specie dell’Isola di Lord Howe estinte figura(va) anche il Dryococelus australis, un grande insetto di colore bruno scuro brillante, senza ali, lungo circa 12 cm e dal peso di circa 25 grammi (addirittura uno dei più grandi insetti al mondo). Dal quel poco che ne sappiamo è un animale notturno che di giorno ha comportamenti gregari e vive nelle cavità degli alberi mentre di notte si sposta sui rami per nutrirsi delle loro foglie. L’insetto presenta un evidente dimorfismo sessuale: il maschio è più piccolo della femmina, ha le antenne più lunghe, l’addome più sottile e corto e presenta delle enormi coxae (cosce) sull’ultimo paio di zampe.
Prima dell’arrivo dei ratti sull’isola i Dryococelus australis erano così numerosi che si potevano trovare un po’ dappertutto. In seguito la popolazione cominciò a declinare tanto che, a partire dagli anni ’30 del secolo scorso, non se ne rinvenivano più e la specie venne dichiarata ufficialmente estinta.
Solo nel 1964 il rocciatore David Roots, mentre si arrampicava sulla Piramide di Ball (poco più di uno scoglio disabitato quasi privo di vegetazione arborea situato a 25 Km a S-E dell’Isola di Lord Howe), vi trovò quasi in cima i resti di una femmina di Dryococelus australis, morta da poco. Spedizioni successive riuscirono a trovare altre tracce del raro insetto ma fu solo nel 2001 che una spedizione australiana fu in grado di trovare qualche decina di esemplari di Dryococelus australis, di cui ne presero due coppie per tentare un programma di riproduzione.
Di questi quattro esemplari, superate le iniziali difficoltà di riproduzione in cattività, ora ce ne sono circa 9.000, una parte dei quali sono pronti per ritornare sull’Isola di Lord Howe e di riprendere quel posto che avevano di diritto e che la superficialità, la scarsa cultura e l’incuria umana hanno contribuito a estinguere.
La reintroduzione del Dryococelus australis sull’Isola di Lord Howe sarà sicuramente un successo: l’isola è piccola e gli animali alloctoni introdotti dai coloni sono stati e saranno facilmente eradicati. La quasi estinzione di questo insetto, però, chiarisce un aspetto molto importante sulla biodiversità e sulla specializzazione locale. La biodiversità rappresenta un importante punto di equilibrio in un dato “Sistema”, che si raggiunge in migliaia di anni. Tale equilibrio, che è dinamico in quanto varia lentamente nel tempo a seguito di diverse sollecitazioni, è molto vulnerabile a forti pressioni esterne (es. arrivo in massa di animali, tra cui anche l’uomo). Se tale equilibrio viene fortemente perturbato il “Sistema” va in sofferenza e non è più in grado di funzionare armonicamente perché tutte le specie animali e vegetali sono profondamente interconnesse e il corretto funzionamento dell’una incide su quello delle altre, in una miriade di relazioni reciproche.
Prendendo spunto dall’Isola di Lord Howe si può osservare il fatto che la difesa della biodiversità locale e delle profonde relazioni tra le specie viventi deve essere un caposaldo anche nel sistema delle società umane evolute e dell’economia capitalistica perché da essa dipendono aspetti, in parte chiari in parte ancora sconosciuti, che possono incidere profondamente sia sul buon funzionamento del “nostro” sistema umano, sul corretto utilizzo di energia e di uso delle materie, sulla depurazione della terra e dell’acqua dagli scarti nonché, in definitiva, sulla salute globale del Pianeta. Di cui tutti noi, poveri o ricchi, religiosi o atei, imprenditori od operai, intellettuali o stolti facciamo parte.
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Foto: Wikipedia; Insettostecco.it
Fermiamo l’uso della torba
La torba si forma dalla parziale decomposizione del materiale organico in zone ricche d’acqua e in assenza di ossigeno. Questo processo fisico-chimico trattiene il carbonio, che, assieme al metano, si libera sotto forma di anidride carbonica (CO2) non appena la torbiera viene essiccata per le operazioni di estrazione. Il carbonio continua poi ad essere rilasciato, sempre sotto forma di anidride carbonica, anche quando la torba viene utilizzata in giardino, spesso quale ingrediente principale dei sacchi di terriccio in vendita nei negozi di giardinaggio e nei supermercati.
L’estrazione della torba, inoltre, distrugge habitat unici popolati da uccelli, farfalle, libellule, piante e altri esseri viventi che, esclusivamente, in essi vivono.
Per tutte queste ragioni, da più parti, si è cercato da tempo di scoraggiarne l’uso coinvolgendo sia le aziende produttrici sia i consumatori. Malgrado tutti gli sforzi, però, l’uso della torba da parte degli amanti del giardinaggio è molto difficile da eradicare.
Dal lato dei consumatori perché spesso non conoscono la composizione dei sacchi di terra che acquistano ed ignorano le implicazioni che la torba in essi contenuta può avere sugli ecosistemi e sul clima.
Dal lato dei produttori perché, soprattutto in alcuni Paesi del nord Europa, la torba è molto economica e con pochi investimenti è possibile trasformare terreni agricoli in facili profitti. Basta solo asciugare il terreno, estrarre la torba, metterla nei sacchetti (magari miscelata ad altri elementi) e venderla nel sistema della grande distribuzione. Naturalmente prima servono le autorizzazioni, ma esse non sono difficili da ottenere.
Se, però, nel prezzo della torba si considerassero anche i costi ambientali invisibili che essa incorpora (stimati in decine di milioni di euro l’anno) dovuti alle alterazioni climatiche, alla perdita di habitat, alla funzione di filtrazione, alla funzione di accumulo di carbonio e metano che le torbiere hanno, il suo prezzo raddoppierebbe e nessuno la utilizzerebbe più.
I materiali alternativi alle torbiere esistono e fanno parte del sistema di trattamento della frazione organica dei rifiuti o della gestione delle deiezioni animali. Tali materiali, che risponderebbero più ai principi della bioimitazione, garantirebbero una maggiore circolarità delle risorse e una maggiore consapevolezza tra i consumatori sull’importanza della raccolta differenziata dei rifiuti organici.
Fate in modo che un hobby salutare quale il giardinaggio sia volano della sostenibilità ambientale e fermate l’uso della torba!!!
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