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La zuppa di plastica. Una ricetta tutta mediterranea

Con questa ricetta purtroppo non stiamo parlando della famosa dieta mediterranea ricca di vegetali, olio d’oliva e varia conosciuta da tutti per garantire longevità ai suoi consumatori. No, questa volta parliamo di una ricetta ben diversa, la cosiddetta “zuppa di plastica del Mediterraneo”, un brodo più o meno denso di frammenti di plastica, piccoli e addirittura invisibili, che inquina tutti i mari del Pianeta e, senza eccezione alcuna ma anzi con peculiarità, anche il Mediterraneo.

Recentemente l’Istituto di Scienze Marine del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Lerici (ISMAR-CNR), in collaborazione con le Università di Ancona, del Salento e Algalita Foundation (California) ha pubblicato su Nature/Scientific Reports una ricerca relativa alla stima della presenza, nel 2013, di microplastica (1) galleggiante nel Mediterraneo occidentale. Il ricercatore dell’ISMAR-CNR Stefano Aliani osserva che: “Per la prima volta sono stati individuati i polimeri che costituiscono la microplastica galleggiante in mare e la loro distribuzione. Si tratta principalmente di polietilene (2) e polipropilene (3), ma anche di frammenti più pesanti come poliammidi e vernici, oltre a policaprolactone, un polimero considerato (teoricamente, ndr) biodegradabile”. “Questo tipo di informazioni – osserva ancora Aliani – sono importanti per avere una stima precisa della dimensione del problema generato dai rifiuti di microplastica in mare e per attivare opportuni programmi di riduzione della presenza di questi inquinanti”. “I polimeri sono distribuiti in modo disomogeneo nel Mediterraneo e le ragioni dipendono dalle diversi sorgenti di rifiuti, che possono essere le aree densamente abitate lungo la costa, i fiumi e i processi di trasporto marino tipici di un bacino”. “Si pensi – prosegue il ricercatore – che nel mondo vengono prodotte circa 300 milioni di tonnellate di plastica e si stima che fino a 12 milioni di tonnellate (cioè il 4 % del totale) finiscano in mare”.

Mappa della concentrazione delle microplastiche del Mar Meditterraneo

La ricerca pubblicata e le parole terrificanti del ricercatore dimostrano con inequivocabile dubbio che il tempo per le plastiche e per i materiali non biodegradabili è giunto al termine. Non ci possiamo più permettere il lusso che materiali derivanti da fonti non rinnovabili (il petrolio) e persistenti in natura (ad esempio le plastiche) siano prodotti e vengano utilizzati per la produzione di beni su larga scala, soprattutto usa e getta.

Purtroppo si pensa ancora che la soluzione sia da ricercare nella corretta gestione dei rifiuti e nelle opere di bonifica e depurazione dell’ambiente. Sbagliato! La soluzione va invece ricercata nell’ambito della produzione imponendo soluzioni alternative e tassando quei materiali che non siano più sostenibili dal punto di vista ambientale. In buona sostanza si devono favorire le produzioni e i metodi cosiddetti ecologici e si devono prevedere delle elevate tassazioni per i prodotti e i materiali inquinanti e/o non rinnovabili, anche se molto economici, in modo da considerare i costi indiretti a carico dell’ecosistema che vadano a compensare il loro smaltimento, il loro degrado e i danni che essi producono.

Setaccio manuale microplastiche del Mar MediterraneoDal mio punto di vista credo che l’unica soluzione alla zuppa di plastica mediterranea sia solo una: la bioimitazione in quanto unica metodologia tecnico-produttiva compatibile con il Sistema in cui viviamo e operiamo e dal quale non possiamo (più) prescindere.

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(1) La microplastica è costituita da quei frammenti di plastica più piccoli di 2 millimetri che, per quanto non visibili o difficilmente visibili ad occhio nudo, sono stati trovati un po’ ovunque nei mari mondiali, anche se le concentrazioni maggiori sono proprio quelle del Mediterraneo. Si pensi che nel vortice subtropicale dell’Oceano Pacifico sono stati stimati 335.000 frammenti di plastica ogni km2, mentre nel Mar Mediterraneo si parla di una media di circa 1,25 milioni per km2.
(2) Il polietilene (sigla: PE) viene prevalentemente utilizzato per i flaconi, per tappi di plastica, per prodotti usati in edilizia e per gli imballaggi in generale.
(3) Il polipropilene (sigla: PP) viene utilizzato per numerosi prodotti in edilizia e per la produzione di mobili. Inoltre viene usato per numerosi imballaggi e per la produzione di numerosi parti delle auto.
Immagine: Mappa della concentrazione delle microplastiche nel Mar Mediterraneo occidentale.
Foto: Setaccio manuale delle microplastiche presenti nel campione d’acqua.

 

Wake Up Call

Ho già scritto qualche tempo fa di Steve Cutts, genio inglese della computer animation che, con il video “Man”, aveva fatto luce in maniera molto dura ed efficace sulla potenza distruttiva dell’uomo.

Con il video”Wake Up Call”, che di Man in qualche modo è l’ideale prosecuzione, Steve Cutts desidera lanciare un monito sulle conseguenze negative che il consumismo sfrenato – soprattutto quello legato alla tecnologia a rapida obsolescenza – può avere sull’ambiente. Nei pochi minuti del video (dalle solite caratteristiche stilistiche molto essenziali) l’autore riesce, in una sintesi molto precisa, a parlare di sfruttamento eccessivo delle risorse minerarie, di sfruttamento dei lavoratori impegnati nel settore tecnologico, di rifiuti, di obsolescenza programmata, di consumismo e di salvaguardia dell’ambiente. E, in qualche modo, di stupidità dell’uomo.

Semplicemente geniale.

 

Vietato fumare. Il fumo fa male

Un paio di anni fa è venuto a mancare mio padre per un carcinoma polmonare, un tumore molto aggressivo che ha resistito impavido e subdolo alle numerose cure a cui si è sottoposto. Carlo, che aveva 69 anni, aveva fumato 20 sigarette al giorno per più di 50 anni e, anche se vi possono essere state altre piccole concause e non sia scientificamente dimostrabile la sola relazione con il fumo per la sua malattia, quelle maledette 365.000 sigarette (1) – una più, una meno – che negli anni si è fumato hanno sicuramente e profondamente inciso sul suo stato generale di salute.

È infatti risaputo che nel tabacco di sigaretta e nella carta che lo contiene, a seguito della combustione si producono circa 4 mila sostanze chimiche, tra cui alcune di esse risultano essere cancerogene e/o estremamente pericolose per la salute come la nicotina, il benzene, l’ammoniaca, il polonio 210, i metalli pesanti e gli idrocarburi policiclici aromatici. Tutto questo è abbastanza conosciuto ed è da anni che tali informazioni ci vengono continuamente portate a conoscenza. Non solo si cerca di dissuadere i singoli individui dal fumare ma da una decina di anni a questa parte si è anche iniziato a pensare di tutelare i non fumatori – in primis bambini e donne in stato di gravidanza – stabilendo per legge il divieto di fumo nel locali pubblici chiusi, in particolare bar, ristoranti, uffici pubblici e luoghi di lavoro (2).

Quello che però poco si dice è il fatto che gli agenti chimici che si producono dalla combustione della sigaretta non fanno male solamente alla salute ma altresì all’ambiente e, indirettamente, sempre al nostro benessere fisico.

Finalmente qualche tempo fa l’ENEA (Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile) e la SITAB (Società Italiana di Tabaccologia) hanno cercato di evidenziare il problema dell’inquinamento ambientale proveniente dai rifiuti prodotti dai fumatori ed abbandonati un po’ ovunque facendo riferimento alle varie pubblicazioni scientifiche sull’argomento. Lo scopo è quello di promuovere una certa consapevolezza sul tema e porre l’attenzione sulla corretta raccolta di rifiuti molto pericolosi – le “cicche” – che singolarmente non vengono percepiti come tali ma che, se si considerano i 72 miliardi di sigarette consumate ogni anno in Italia, rappresentano di certo un enorme problema.

Cicche sigarettaDal punto di vista tecnico il filtro di sigaretta è composto di un materiale, l’acetato di cellulosa, che è dotato di un elevato potere filtrante ma che, come è abbastanza intuibile, si impregna facilmente di tutti i veleni prodotti dalla combustione del tabacco e della carta. Si pensi che nel mondo, si stima, vengono annualmente gettati più di 5 trilioni (5 mila miliardi) di mozziconi. In Italia, invece, si stima che dei 72 miliardi di sigarette consumate all’anno vengano gettati a terra circa 50 miliardi di mozziconi. Con le sole cicche gettate a Roma (circa 1,7 miliardi), mettendole in fila una dietro all’altra, si coprirebbe una distanza di circa 51 mila km (3), molto di più della circonferenza dell’equatore (40.075 km). Questi mozziconi poi, impregnati di agenti chimici pericolosi, in circa 5 anni si disgregano ma continuano a persistere nell’ambiente inquinando senza sosta acque superficiali, mari e terreni.

È seriamente giunta l’ora – dice l’ENEA e la SITAB – che si inizi a considerare tali cicche come dei rifiuti speciali da non abbandonare nell’ambiente. È giunta anche l’ora che si inizi ad obbligare i fumatori a buttare i mozziconi in contenitori specifici disseminati nelle città e, in loro assenza, in contenitori tascabili che ognuno di loro deve avere in dotazione con sé. È giunta l’ora che si inizi a sanzionare seriamente chi abbandona le cicche nell’ambiente (4).

È giunta l’ora – direi io con uno sguardo più ampio e nell’ottica della bioimitazione (5) – che, se si vuole consentire la liberta di scelta agli individui di fumare o meno, si inizi allora a considerare tutta la produzione di sigarette, dalla coltivazione del tabacco alla produzione delle stesse fino allo smaltimento dei rifiuti, anche dal punto di vista della sostenibilità ambientale di tale pratica.

In quest’ottica nulla depone a favore del fumo, tranne le schifose accise sulla vendita delle sigarette e gli enormi immorali profitti per i pochi produttori mondiali. Bisognerebbe avere magari anche il coraggio di dire una volta per tutte che il fumo fa male ed è vietato fumare!

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(1) 20 x 365 x 50 = 365.000. Pensando che una sigaretta sia lunga in media circa 8 cm, se si mettessero una vicino all’altra tutte quelle sigarette coprirebbero una distanza di 29.200 metri, equivalenti a circa 29/30 km. Caspita!
(2) L’art. 51 della legge 16 gennaio 2003, n. 3 “Disposizioni ordinamentali in materia di pubblica amministrazione” s’intitola: “Tutela della salute dei non fumatori” e definisce le misure che servono ad eliminare l’esposizione al fumo passivo in tutti i luoghi chiusi, pubblici e privati.
(3) 1.700.000.000 x 3 cm (misura indicativa del mozzicone) = 51.000 km
(4) Nella nuova legge sul fumo pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 18 gennaio 2016 (D.Lgs. 6/2016 di recepimento della Direttiva comunitaria 2014/40/UE) dal prossimo 2 febbraio 2016, oltre a varie regole di prevenzione sul fumo, è stata stabilita anche una norma punitiva su chi butta i mozziconi per strada e che può essere multato fino a 300 euro in base al collegato “Green economy“ della nuova legge di Stabilità (art. 40 della legge 28 dicembre 2015 n. 221). In particolare tale articolo “Rifiuti di prodotti da fumo e rifiuti di piccolissime dimensioni“ afferma che “E’ vietato l’abbandono di mozziconi dei prodotti da fumo sul suolo, nelle acque e negli scarichi”.
(5) Nella logica della bioimitazione tutto ciò che non è in linea con il funzionamento della natura non andrebbe fatto, senza compromessi, perché prima o poi si trasferirà alla collettività come costo indiretto (economico e sociale).
N.B. Dedico questo articolo a mio padre Carlo e al suo inutile “sacrificio”. Ciao papà.

 

Cosa non va nel riciclo della carta

Qualche tempo fa, mentre mi trovavo a Roma per lavoro, passo davanti ad un ufficio e rimango colpito da una persona che sta mettendo minuziosamente dei pezzi di carta in un sacchetto di plastica. Cosa inusuale per il suo lavoro di impiegato commerciale. Alla mia comprensibile curiosità mi viene risposto che sta “semplicemente” preparando la carta da portare a casa e da avviare al riciclo perché non è convinto che in azienda la separazione dei rifiuti venga ben fatta o, addirittura, non venga fatta per nulla nonostante si tratti di una multinazionale dotata di protocolli e rigide procedure interne nonché di certificazioni internazionali di ogni tipologia e grado.

Io, che sono particolarmente sensibile alla materia, cerco di approfondire la questione (magari ne viene fuori anche un bel articolo per Bioimita…) e scopro che per lui comportarsi in questo modo è una cosa assolutamente normale ma non viene ben visto dai colleghi che, quasi quasi, lo deridono per la piccola perdita di tempo e per la sensibilità un po’ troppo eccessiva (se non stupida) rispetto ad un problema secondario del lavoro o della vita come la gestione dei rifiuti prodotti sul lavoro. In effetti ci sono gli addetti alle pulizie che hanno il compito di liberare i cestini dai rifiuti a fine lavoro. Se, poi, non li avviano al previsto riciclo e li mescolano che vuoi che sia. Non cascherà mica il mondo!

Ragionando in seguito e con calma sull’episodio (mentre mi sto addormentando in albergo, tanto che devo prendere un foglio di carta e una penna dal comodino per appuntarmi le idee) penso che, in ambito lavorativo, per ogni persona che abbia questa spiccata sensibilità per il problema del riciclo dei rifiuti e della sostenibilità ambientale, ce ne siano purtroppo almeno 50 (o, forse, anche 100) che non si pongono affatto il problema o che, se se lo pongono, se lo pongono in maniera troppo superficiale e non fanno quasi nulla di concreto per risolverlo.

L’episodio è anche la dimostrazione evidente che un sistema basato sul continuo consumo delle materie e sulla conseguente produzione di rifiuti (anche se da avviare al riciclo) non può essere risolto solo dal punto di vista organizzativo e tecnico e non può prescindere dal comportamento e dalla cultura degli esseri umani-cittadini.

Il riciclo dei rifiuti, per funzionare veramente e per garantire una duratura sostenibilità ambientale come ci viene da più parti sbandierato, deve essere molto vicino al 100%. Cioè, all’interno della filiera, dovrebbero essere correttamente smaltiti tutti i rifiuti prodotti senza errori. Nessuno può permettersi di sbagliare contenitore e nessuno può permettersi di sbagliare le procedure. Mentre invece, come si sa, c’è sempre chi è “distratto” e sbaglia bidone; c’è chi è menefreghista e qualche volta si “dimentica”; c’è chi, come gli operatori della raccolta, non è attento sul lavoro. E chi più ne ha più ne metta…

Dal momento che il riciclo dei rifiuti non è adeguato quale strumento per garantire sostenibilità ambientale duratura perché è troppo influenzato da variabili comportamentali che è estremamente difficile poter orientare verso la direzione voluta, è allora necessario che in quest’ambito, cioè quello del fine vita dei prodotti, si operi a livelli diversi in modo tale da escludere il più possibile scelte troppo razionali e consapevoli da parte degli utenti.

In particolare è necessario che il sistema tecnocratico (la politica) e la forza critica dei consumatori spingano il sistema produttivo a farsi carico di riconsiderare la produzione riprogettando i beni nell’ottica finale della NON produzione dei rifiuti attraverso una maggiore riparabilità, il riuso tal quale delle parti e delle materie e, solo alla fine, il trattamento degli stessi attraverso il riciclo. In quest’ottica il sistema produttivo deve iniziare a ragionare che il rifiuto, così come lo abbiamo conosciuto fino ad ora da avviare all’incenerimento, alla discarica o, se va bene, al riciclo, non deve più esistere.

Ce lo mostra la natura che funziona in questo modo e ce lo chiede il futuro dei nostri figli.

 

Il cambiamento degli “stili di vita” funziona?

Prendo spunto dall’interessante articolo “Stili di vita. La ricetta neo-liberista” pubblicato qualche tempo fa dal sito saluteinternazionale.info per avventurarmi in un’analisi sociologica di quali siano i possibili limiti per far sì che una maggiore consapevolezza ecologica si traduca poi in azioni concrete da parte dei singoli individui verso una sempre più profonda sostenibilità ambientale. Peraltro necessaria.

È vero, l’articolo in questione parla di salute pubblica e non di ecologia ma gli argomenti in discussione – salute e sostenibilità ambientale – sono così strettamente interconnessi nei loro obiettivi, nelle loro dinamiche sociali e nei loro risultati che si possono perfettamente sovrapporre.

In particolare nell’articolo si osserva quanto siano inefficaci le campagne di educazione di massa sulla salute (quelle che si propongono di modificare gli “stili di vita”) basate sul presupposto che la causa ultima delle malattie – e l’obiettivo su cui agire – risieda quasi esclusivamente nei singoli individui e nelle libere scelte che essi compiono. Focalizzare l’attenzione sulla responsabilità individuale fornisce un alibi ai decisori di aver fatto tutto il possibile per risolvere i problemi, anche se poi i risultati o sono scarsi o, se positivi, risultano troppo lenti nel realizzarsi. Inoltre la scelta di agire sul cambiamento dei nostri comportamenti – sapendo che sono lunghi nel concretizzarsi – può destare anche il sospetto che le loro decisioni siano fortemente influenzate dalle lobby che vogliono guadagnare soldi sulle nostre disgrazie.

Attualmente la visione dominante relativa alla promozione della salute tra gli operatori del settore igienico-sanitario e tra i decisori politici è solo quella che coinvolge il cambiamento dello “stile di vita” che ogni singolo individuo è sollecitato a compiere. La letteratura scientifica sull’argomento, però, dimostra la scarsa efficacia di tale approccio educativo-individualistico ponendo l’attenzione, invece, su un approccio strutturale e globale esercitato da parte della politica – cioè da parte dello Stato – che si pone un obiettivo a lungo termine ed agisce da più fronti per perseguirlo. Anche, se necessario, imponendolo.

Lavorare sugli individui e sui loro comportamenti essenzialmente vuol dire non voler risolvere i problemi ma mantenerli sempre vivi – pur facendo finta di risolverli – per assecondare il desiderio di medicalizzazione spinta della società che viene sostenuta da chi ne trae vantaggi. Solo lo Stato, invece, è in grado di incidere su cambiamenti rapidi e duraturi, attraverso scelte fiscali, scelte tecniche e scelte organizzative anche forti ed estreme.

Spostando ora l’attenzione sulle questioni ambientali si può osservare esattamente la stessa dinamica. I decisori politici fanno (apparentemente?) di tutto per “educarci” ad essere più ecologici e più sensibili alle tematiche ambientali anche se poi continuano ad accettare incenerimento dei rifiuti, traffico veicolare urbano, ampio uso di chimica in agricoltura e chi più ne ha più ne metta. Questo atteggiamento però – maliziosamente o inconsapevolmente – tende a rallentare molto un processo che, invece, dovrebbe concretizzarsi in breve tempo perché la situazione è grave e dovrebbe essere risolta presto. Meglio sarebbe, invece, l’individuazione delle priorità d’azione inderogabili e la messa in campo di interventi forti da parte dello Stato nel perseguimento degli obiettivi.

Per capire meglio il concetto si prenda tra i tanti, ad esempio, due temi importanti dal punto di vista ambientale: la produzione di energia utilizzando fonti rinnovabili e la corretta gestione dei rifiuti, ponendo l’attenzione soprattutto sul riuso e sul riciclo dei materiali.

In merito alla produzione di energia è evidente comprendere come sia cosa molto lenta – e forse non del tutto efficace – coinvolgere individualmente i cittadini (un po’ tutti, anche quelli che hanno scarso interesse o scarsa cultura in materia) che prima devono analizzare nel dettaglio il problema, capirne l’importanza e, poi, agire concretamente o per richiedere sul mercato energia prodotta da fonti rinnovabili o per prodursela da soli. Se invece lo Stato imponesse delle tasse a chi produce energia inquinando e fornisse, come in parte ha fatto ma si è fermato sul più bello, forti incentivi (ripagati dalle tasse di cui prima) a chi produca o utilizzi energia da fonti rinnovabili, si capirebbe anche intuitivamente quali sarebbero i risultati.

Venendo ai rifiuti, alla limitazione della loro produzione, alla loro corretta gestione e al loro corretto trattamento, si fa veramente fatica ad educare, in breve tempo e verso una direzione univoca, una massa di individui che hanno diverse personalità e diverse culture. Inoltre, in quest’ambito, il cattivo comportamento di pochi potrebbe determinare danni ambientali anche molto gravi che coinvolgono tutti (ad es. gli incendi o l’abbandono dei rifiuti che si verificano soprattutto in alcune regioni d’Italia). Migliori risultati si otterrebbero invece attraverso un intervento molto forte dello Stato che tassa già alla fonte i materiali poco riciclabili, che crea politiche che incentivano il riuso dei materiali, che penalizza chi produce troppi imballaggi e così via.

Sulla base di queste considerazioni – replicabili in una infinità di ambiti – si comprende facilmente come la modifica dei comportamenti individuali sia inefficace. Solo un forte intervento pubblico, invece, dispiegato in numerosi settori (tassazione, educazione, organizzazione, punizione, ecc.) può perseguire il raggiungimento di obiettivi concreti.

Il dubbio, però, è se qualcuno li voglia veramente perseguire!!!

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Immagine: www.controlacrisi.org

 

Gli inceneritori dello “Sblocca Italia”

In agosto, finché eravamo quasi tutti in ferie o in vacanza, nel torpore per il gran caldo e nella generale distrazione dovuta alla voglia di rilassarsi e divertirsi, il Governo – maliziosamente come fa di solito quando si tratta di far passare norme che i cittadini normalmente non vogliono – ha proposto, in un decreto attuativo dell’art. 35 della legge cosiddetta “Sblocca Italia(1), di far aprire 10/12/18 (il numero ancora incerto non è importante) inceneritori nelle varie regioni italiane. Non si tratterebbe solo di un’apertura verso questa forma di trattamento dei rifiuti che le regioni, nel loro processo decisionale autonomo devono poi vagliare ma, piuttosto, di un vero e proprio obbligo nei loro confronti. Prendere o lasciare!

Per comprendere l’assurdità della proposta ministeriale nel contesto di un mondo serio che va in tutt’altra direzione, qualche settimana fa il giornale Il Fatto Quotidiano ha pubblicato l’intervista a Enzo Favoino, ricercatore presso la Scuola Agraria del Parco di Monza ed esperto che lavora con le istituzioni europee e con diversi governi nazionali nella definizione delle migliori strategie nel settore della gestione e del trattamento dei rifiuti. Favoino, che non è aprioristicamente del tutto contrario all’incenerimento dei rifiuti, osserva che tale pratica richiede molte risorse finanziarie, ben quattro volte superiori rispetto a quelle necessarie per il funzionamento degli impianti “a freddo”. Il motivo è dovuto al fatto che gli impianti, essendo molto costosi, necessitano di continui apporti di rifiuti per poter funzionare tantoché le amministrazioni pubbliche, per non dilapidare denaro, sono costrette a rallentare i programmi di espansione della raccolta differenziata. Molto meglio dell’incenerimento dei rifiuti – osserva sempre Favoino – sarebbe il trattamento a freddo degli stessi con recupero di materia attraverso sistemi di selezione e stabilizzazione biologica. Da essi si otterrebbe:

  • dalla frazione organica compost pulito da riutilizzare in agricoltura;
  • dal residuo materie prime (carta, plastica, metalli, vetro) da reimpiegare nelle attività produttive ed eventualmente, per la piccola parte che rimane, materiale da avviare all’incenerimento o alla discarica.

Dato il loro costo minore gli impianti di trattamento a freddo consentono anche di modulare politiche di espansione della raccolta differenziata a monte, cioè effettuata già da parte dei cittadini.

Una delle critiche (ingiuste) al trattamento a freddo dei rifiuti è che esso non consente di evitare le discariche. Spiega sempre Favoino che anche l’incenerimento dei rifiuti ha bisogno di discariche perché le ceneri (circa il 30% del totale) e le scorie intercettate dai camini – tra l’altro molto nocive – da qualche parte devono pur essere messe. Per evitare la discarica, invece, sarebbe necessario e possibile potenziare la raccolta differenziata a monte, sviluppare programmi di riduzione nella produzione dei rifiuti, introdurre sistemi di tariffazione puntuale (si paga in base a quello che effettivamente si produce in termini di peso). Tutte cose che l’incenerimento dei rifiuti non si propone affatto di fare nella logica della sua avidità bulimica di enormi quantità di materiali da bruciare.

La giusta soluzione per la gestione dei rifiuti, ben spiegata dagli esperti, è piuttosto semplice e in parte (es. la raccolta differenziata) è già stata da tempo avviata. Mi chiedo solo una cosa: o le figure politiche che continuano a propinarci vecchie e inutili soluzioni sono incapaci e devono essere subito sostituite oppure dietro di loro hanno qualcuno che fa prendere loro le decisioni sbagliate. Ed è ancora peggio!

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(1) Il D.L. del 12 settembre 2014, n. 133 lo hanno chiamato “Sblocca Italia” a significare che si tratta di una politica “del fare” contraria al vecchio immobilismo del passato e ai sistemi troppo democratici. Se poi se si tratta, in alcuni aspetti, anche di “fare male” o di “fare per gli amici” (vedi semplificazioni infrastrutturali, edilizie, estrazioni petrolifere, produzione energetica dai rifiuti e altro) questo non è un grosso problema e chi paga sono sempre i poveri cittadini inermi che subiscono scelte che non vanno a loro vantaggio!
Per approfondire:
Pizzarotti scrive a Renzi: “Se si segue il modello Parma si chiudono gli inceneritori
Patrizia Gentilini: “Sbocca Italia e inceneritori, dove sta la coerenza con le politiche europee?

 

La plastica non è amica della natura

È vero e sacrosanto che la plastica ha semplificato molto la vita dell’uomo e ha consentito la produzione di oggetti a bassissimo costo per gli usi più comuni fino ad arrivare a quelli più complessi e specialistici. La plastica viene usata sia per la produzione di sacchetti usa e getta che per la produzione di strumentazione sanitaria. La plastica viene usata sia per imballare i prodotti più disparati che per la realizzazione di componentistica per gli aerei o per le navicelle spaziali.

La plastica, però, presenta un paio di inconvenienti che non la rendono troppo amica della natura. I suoi componenti e gli additivi utilizzati per produrla nelle sue infinite tipologie e colorazioni molto spesso non sono salutari se vengono ingeriti, soprattutto se vi è stata una qualche alterazione termica della stessa. La plastica poi fa molta fatica a degradarsi (si ragiona nell’ordine di migliaia di anni) se esposta agli agenti atmosferici e ai microrganismi. Per questo abbandonarla in natura e non gestirne correttamente lo smaltimento provoca quello che si vede dalle foto che, da sole e senza troppe parole, descrivono molto bene il problema.

È quindi giunta l’ora che si abbandoni definitivamente la produzione di questi materiali che oramai fanno parte della storia e si inizi a realizzare plastiche (o surrogati delle plastiche) più salutari, facilmente degradabili e biocompatibili. Non ci sono più scuse.

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Foto 1: La tartaruga è cresciuta deforme a causa di un anello di plastica che le ha compresso il carapace.
Foto 2: La tartaruga d’acqua dolce è cresciuta deforme a causa di un imballaggio per il trasporto delle lattine che le ha compresso la parte anteriore del carapace.
Foto 3: I resti di un albatros trovato su isole remote disabitate. Si può notare come il suo stomaco sia pieno di pezzi di plastica che ha probabilmente ingoiato confondendoli con il cibo.
Foto 4: Il leone marino soffre per le continue ferite riportate da un filo di plastica che è avvolto intorno al suo collo e che l’animale non riesce a togliersi.

 

La maledizione dei rifiuti

Per capire che la gestione dei rifiuti non funziona (anche quella differenziata porta a porta o l’incenerimento) (1) basta vedere le foto che ho scattato quest’inverno sulle spiagge di Vallecrosia e di Ventimiglia, in provincia di Imperia. Le foto le faccio nelle stesse spiagge tutti gli anni almeno da 15 e, nonostante le diverse tecniche di raccolta differenziata messe in atto dai governi e nonostante le differenti capacità dei vari amministratori locali,  noto che nel tempo i rifiuti non accennano né a diminuire in quantità né a mutare nella loro qualità. Si tratta prevalentemente di pneumatici, contenitori di plastica, salvagenti, bottiglie e lattine, piccoli pezzi di plastica dai colori e dei formati più vari, scarpe e ciabatte spaiate, galleggianti delle reti da pesca, giocattoli… mescolati a residui vegetali lignei. Da questo, in modo abbastanza empirico ma con solidi fondamenti nella realtà, deduco che in generale l’attuale gestione di rifiuti è totalmente fallimentare.

Questa “rumenta” – come la chiamano da quelle parti – d’estate non si vede perché le amministrazioni comunali, prima dell’inizio della stagione turistica, spendono i soldi dei contribuenti per eliminarle o, peggio, non riescono ad impedire che vengano bruciati direttamente sul posto. Nonostante le operazioni di maquillage pre-estivo, i rifiuti vengono comunque tutti gli anni portati a riva dalle mareggiate invernali e, vista la loro quantità e variabilità, non si può assolutamente parlare di qualche episodio sporadico ma di una evidente profonda e cronica lacuna del sistema che deve essere assolutamente rivisto e riformato.

Tanto per capire da dove i rifiuti presenti in spiaggia provengono, analizzandoli a vista si può innanzitutto osservare che, in parte, essi sono presenti in mare perché gettati dalle navi e dalle barche al largo; in parte vengono gettati negli alvei dei torrenti quando sono in secca e solo le piogge autunnali se li portano a mare; in minima parte sono già presenti nelle spiagge a causa dell’incuria di chi le frequenta che si “dimentica” pacchetti di sigarette, sacchetti delle patatine, buste di plastica, lattine di birra o bottigliette di acqua.

La falla nel sistema è evidente e non risiede tanto nelle tecniche sbagliate che vengono impiegate nella raccolta e nel trattamento dei rifiuti, quanto, piuttosto, nel fatto che dovrebbe essere applicato il principio della bioimitazione e i rifiuti non dovrebbero essere proprio prodotti. Piuttosto che impegnare un mare di risorse economiche e di sforzi organizzativi per cercare di raccogliere al meglio i residui dei nostri consumi (2) (che però i nostri comportamenti sbagliati e la nostra scarsa cultura ed etica contribuiscono a far in parte fallire), sarebbe meglio ribaltare il problema ed iniziare ad obbligare i produttori (con leggi vincolanti ed incentivi a chi è più virtuoso) a rivedere le loro tecniche produttive e l’uso degli imballaggi. Bisognerebbe incentivare maggiormente quei prodotti costruiti con materiali ecocompatibili e rinnovabili che riescono ad essere smontati e riparati facilmente. Nel caso di imballaggi bisognerebbe penalizzare chi utilizza materiali non rinnovabili e non facilmente riciclabili. Bisognerebbe disinnescare poi la pratica dell’obsolescenza programmata e bisognerebbe operare a livello culturale per convincere i consumatori che è meglio acquistare prodotti di qualità piuttosto che prodotti a bassissimo costo.

La maledizione dei rifiuti_01

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(1) Il mancato funzionamento della gestione dei rifiuti a cui si fa riferimento non si riferisce agli aspetti tecnici ma a quelli filosofici  che continuano ad accettare un sistema che produce rifiuti anzichè pensare a sistemi che non li considerino affatto.
(2)
Raccogliere e trattare i residui dei nostri consumi (cioè i rifiuti) è, in termini economici, un affare di appalti che può dare origine anche a numerose irregolarità e pratiche corruttive.

 

Terme ecologiche

Qualche giorno fa ho terminato un ciclo di terapie inalatorie presso le Terme di Sirmione per tentare di combattere (o almeno di alleviare) con meno medicinali possibile i sintomi di una presunta fastidiosa allergia. Non l’ho ancora accertato con precisione ma, dal momento che non è stagionale, molto probabilmente si tratta di allergia agli acari della polvere o al pelo di gatto (il mio si rotola e ronfa un po’ ovunque in casa e si è “preso” spazi che qualche anno fa non si sognava neppure).

Da buon osservatore sulle problematiche ecologiche (non smetto di farlo neanche quando l’acqua calda mi viene sparata nel naso o quando devo respirare a pieni polmoni un aerosol bollente di acqua sulfurea) posso dire che il centro che ho frequentato si dà da fare sul tema. Tra gli aspetti positivi dal punto di vista ambientale che ho potuto notare di persona (altri ce ne saranno che non ho visto) posso elencare:

  • la presenza di pannelli fotovoltaici con indicazione puntuale dell’energia prodotta e della CO2 non emessa in atmosfera (Foto 1);
  • la presenza di bidoni per la raccolta differenziata sparsi un po’ ovunque con l’indicazione chiara e precisa della tipologia di rifiuto da conferire;
  • la fornitura dei dispositivi per le cure (nel mio caso mascherina per l’aerosol e strumento per i lavaggi nasali) non usa e getta ma da riutilizzare fino alla fine della cura (Foto 2);
  • l’utilizzo dei fazzoletti e dei rotoli di carta usa e getta prodotti da carta proveniente dalla raccolta differenziata.

Al di là degli elementi virtuosi l’aspetto su cui desidero prestare l’attenzione e prendere come spunto per fare un ragionamento più ampio in materia di sostenibilità ambientale è un elemento che può sembrare apparentemente banale nell’insieme dell’attività termale, ma che si offre come sponda per far luce sulla vera causa dei problemi ecologici che stiamo continuamente affrontando senza mai giungere ad una vera conclusione della questione. In buona sostanza la stragrande maggioranza dei numerosi clienti/pazienti che ho avuto modo di vedere nelle sale delle cure dopo ogni seduta si toglieva la grande bavaglia di carta e plastica che veniva loro fornita per proteggere il collo e i vestiti da eventuali schizzi di acqua calda, la appallottolava con noncuranza e la gettava in un bidone a caso tra quelli ben segnalati per la raccolta differenziata dei rifiuti. Io, invece, la tenevo per tutta la sessione quotidiana di cura che comprendeva tre diversi trattamenti. Quello che mi colpiva nel loro atteggiamento e nei loro gesti era la totale noncuranza di capire che la bavaglia poteva anche non essere inutilmente gettata di volta in volta ma poteva assolvere egregiamente al proprio compito per più trattamenti.

Quello che desidero osservare con queste considerazioni è il fatto che il raggiungimento della sostenibilità ambientale passa inevitabilmente attraverso due macroaree di azioni che operano congiuntamente e che non possono essere efficaci da sole. Da un lato vi sono gli interventi di natura tecnica, gli investimenti, le soluzioni e, dall’altro, vi sono i comportamenti umani.

Se i primi possono essere imposti dalle leggi o possono essere promossi dalla ricerca del risparmio e dell’efficienza, mi chiedo chi si occupa dei secondi? Chi si deve sobbarcare l’onere – e, spesso, le delusioni – di educare le persone? Se non si provvederà a farlo al più presto si rischierà seriamente di non raggiungere mai gli obiettivi prefissati e di continuare a girare infinitamente in tondo. Come un cane che cerca di mordere la sua coda!

 

Terme ecologiche_Foto 1_s

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La tazza di ceramica

Avete presente i distributori d’acqua in boccioni? Quelli che qualche anno fa si vedevano solo nei film polizieschi americani nei corridoi di centrali di polizia fumose dove detective agitati e sudati cercavano di risolvere brutali omicidi? Da una decina d’anni sono entrati anche all’interno di numerose aziende ed uffici italiani per fornire gratuitamente ristoro ai lavoratori e ai loro ospiti. A fianco del boccione c’è poi sempre un contenitore per la distribuzione di bicchieri di plastica e un cestino per la raccolta dei rifiuti che, a fine giornata, tende ad essere pieno di bicchieri che sono ancora praticamente puliti perché in gran parte utilizzati una volta sola e, per di più, solo per l’acqua.

Quello che fa più specie in tutto ciò non è solo il fatto che la plastica dei bicchieri usa e getta potrebbe essere sostituita – e, anzi, dovrebbe essere sostituita da subito – con materiali più ecologici (tipo materie plastiche compostabili di origine vegetale o carta), ma il fatto che la maggior parte delle persone che si servono dei distributori dell’acqua utilizzino un bicchiere pulito ogni volta che devono bere. Quello che più spesso vedo è che le persone si alzano dalla loro postazione di lavoro alla scrivania, prendono un bicchiere vuoto, lo riempiono di acqua, si dissetano e… pling. Buttano il bicchiere vuoto nel cestino. Pochi di loro si portano il bicchiere di plastica vuoto dalla loro scrivania utilizzandolo per tutta la giornata o, meglio, fanno uso di un bicchiere in vetro o di una tazza in ceramica lavabile e riutilizzabile, che sarebbe la soluzione migliore e più sostenibile dal punto di vista ambientale.

Io, che lo faccio da anni sia nel mio ufficio sia presso alcuni clienti (1), modestamente mi chiedo che cosa ci voglia a cambiare questo comportamento. È una cosa relativamente semplice che non comporta particolari spese per colui che la adotta e non influisce né negli aspetti igienici né in quelli di praticità. Anzi. In più è un comportamento che spesso incuriosisce molto coloro che lo vedono (tra i colleghi di lavoro, tra sconosciuti in treno e in qualsiasi altro ambiente di vita collettiva) e che per emulazione potrebbero iniziare anche loro a praticarlo.

La tazza di ceramica

Per questo, per Natale, ho deciso che ai parenti e agli amici regalerò delle tazze (mug) personalizzate o prese al mercatino dell’usato (ci devo ancora pensare…) (2). Chissà che qualcosa non inizi a cambiare. Anche, perché no, il valore etico e sociale dei doni che si fanno in questo periodo dell’anno.

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(1) Personalmente utilizzo anche una tazza in ceramica per il caffè (in ufficio) e contenitori riutilizzabili (Vapur, Lifefactory, Laken, SIGG, ecc.) per l’acqua e/o altre bevande.
(2) L’anno scorso, a Natale, ho regalato delle bottiglie Vapur in plastica riutilizzabile.
Foto: La mia scrivania durante una giornata tipo presso un cliente che frequento abitualmente.

 

I limiti del compostaggio

Per lavoro frequento aziende che operano nell’ambito del compostaggio dei rifiuti e che, dalla raccolta differenziata del cosiddetto “umido” producono compost ed energia. Il compost è originato da un processo di degradazione aerobica (1) della frazione organica dei rifiuti mentre l’energia è prodotta attraverso la combustione del biogas – costituito da gas metano e altri gas – che viene creato volutamente mediante degradazione anaerobica (2) del materiale organico. In sostanza, all’interno degli impianti, tutto funziona in un flusso circolare dove lo scarto di una fase è la materia prima di un altra fase e ciò rappresenta la piena applicazione della bioimitazione.

In sé si tratta di un’attività estremamente utile a livello sociale perché consente una corretta gestione dei rifiuti prodotti dalle famiglie e dalle attività economiche nonché avanzata dal punto di vista tecnologico perché, almeno in teoria, è in grado di ottenere dagli stessi rifiuti ammendante da utilizzare in agricoltura ed energia da un gas che si produce inevitabilmente nel processo e che altrimenti andrebbe disperso in atmosfera con gravi conseguenze per il riscaldamento globale e i cambiamenti climatici (3).

La questione, purtroppo, è solo valida a livello teorico perché, prima di arrivare agli impianti di compostaggio e al loro funzionamento, si deve passare, a monte, dalla corretta gestione dei rifiuti da parte di cittadini e aziende fino alla raccolta e al trasporto degli stessi verso gli impianti di trattamento. In questa filiera se qualcosa non funziona correttamente – e spesso non funziona – ne va a discapito il buon funzionamento degli impianti e la validità del processo tecnologico. Per non parlare, poi, della qualità del prodotto finito, sia esso compost da utilizzare in agricoltura o negli orti e biogas da impiegare per la produzione di energia.

Sta di fatto che spesso, per scarsa informazione e formazione dei cittadini sulle corrette modalità di raccolta differenziata e sulle motivazioni per cui la stessa non deve essere fatta con superficialità, piuttosto che per l’incuria della classe dirigente, politica e imprenditoriale più interessate ai grossi affari che ruotano attorno alla gestione dei rifiuti piuttosto che alla qualità del servizio offerto alla società, le cose non vanno come dovrebbero andare e i risultati sono quelli inquietanti mostrati dalle foto scattate in un impianto…

I limiti del compostaggio_01

I limiti del compostaggio_03

I limiti del compostaggio_02

Da notare come la plastica sia l’elemento principale (in peso addirittura quasi superiore a quello organico) nel materiale di compostaggio arrivato all’ultima fase di lavorazione. Per essere eliminata – solo la parte più grande della stessa perché quella più piccola rimane nell’ammendante e viene inevitabilmente sparsa nei terreni con effetti incerti sulla salute – il rifiuto deve essere sottoposto a numerosi cicli di vagliatura e di selezione manuale e meccanica con grande dispendio di energie e spreco di denaro.

L’effetto finale è, per fortuna, quello della foto…

I limiti del compostaggio_04

… ma a quale prezzo?

Grandi e decisamente più salutari risultati si potrebbero ottenere con i seguenti minimi sforzi a monte:

  • Educare maggiormente i cittadini a fare correttamente la raccolta differenziata a casa e a comprendere che piccoli gesti che comportano un minimo sforzo (come non raccogliere il materiale organico nei sacchetti di plastica, per fare un esempio tra i casi più frequenti) possono determinare enormi risultati a livello industriale nel processo di trattamento dei rifiuti;
  • Obbligare le amministrazioni comunali a gestire correttamente la raccolta differenziata dei rifiuti, magari sanzionandole economicamente o bloccando il trasporto o lo smaltimento dei rifiuti stessi in caso di gravi inadempienze. Ora, invece, i rifiuti vengono sempre gestiti e trattati, indipendentemente dalla loro qualità. Quello che cambia è il prezzo di smaltimento, ma la scarsa qualità del rifiuto vuol dire anche scarsa qualità del prodotto finito.
  • Togliere la politica – spesso non all’altezza o collusa con chi vuole che il sistema non funzioni – dalla gestione e dall’amministrazione delle municipalizzate o dei consorzi che si occupano di rifiuti e dare questi incarichi a professionisti del settore mediante concorsi.

Per rendere credibile il sistema della raccolta differenziata agli occhi dei cittadini che vedono non sempre ripagati i loro sforzi domestici bisogna far si che lo stesso sistema funzioni bene e che, nel tempo, funzioni sempre meglio.

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(1) Per digestione (o degradazione) aerobica si intende la degradazione in presenza di ossigeno delle sostanze organiche da parte di diversi microrganismi. Tale processo comporta la mineralizzazione del materiale organico, cioè la trasformazione del materiale organico in prodotti più semplici e stabili (non putrescibili).
(2) Per digestione (o degradazione) anaerobica si intende la degradazione in assenza di ossigeno delle sostanze organiche da parte di numerosi microrganismi. Tale processo produce biogas come gas di scarto.
(3) Il metano è un gas che è circa 30 volte più climalterante (ad effetto serra) dell’anidride carbonica (CO2).
Fonte: Wikipedia

 

La merda nel sacchetto

Per chi sia possessore di un cane ed abbia un minimo di senso civico, afferrare quel suo caldo “prodotto” quotidiano con il sacchetto di plastica, avvolgerlo abilmente senza lasciare traccia alcuna su dita e mani e metterlo in un cestino dell’immondizia non è poi una cosa così strana. Lo è di più per chi non abbia amici a quattro zampe, ma sarà capitato un po’ a tutti di vedere qualcuno che, in un parco pubblico o sul marciapiede, abbia sfoderato abilmente il suo bel sacchetto di plastica dal guinzaglio… et voila, in pochi secondi abbia fatto sparire il fetido “prodotto”.

Sia ben chiaro che raccogliere in tal modo la cacca del cane è un segno di grande, enorme civiltà che non si deve assolutamente perdere ma, nello stesso tempo, è anche la dimostrazione che c’è qualcosa che non va nel nostro sistema di considerare il nostro posto sulla Terra, di pensare il ruolo della natura e le nostre relazioni con essa.

deiezioniMettere la cacca del cane dentro un sacchetto di plastica significa fare esattamente il contrario di quello che richiederebbe il corretto funzionamento della natura dove le deiezioni devono essere sparse (gli erbivori dove capita, i carnivori ben nascoste) per degradarsi e per fornire cibo ad insetti e batteri e, per quel che resta, i nutrimenti chimici necessari al benessere e alla crescita rigogliosa dei vegetali. Invece noi, uomini moderni ed evoluti, le inseriamo in un involucro di petrolio che verrà bruciato in un inceneritore o seppellito in una discarica, mescolato a miliardi di altri assurdi – spesso inutili – materiali.

In questo caso il problema non è dei cani: i poveri già si sono adattati a vivere in una città, non si può anche chiedere loro di fare la cacca nel water. Il problema non è neanche dei padroni dei cani: per evitare problematiche di igiene pubblica e di decoro devono per forza sporcarsi le mani (per fortuna no, i sacchetti lo impediscono) con le deiezioni dei loro amati. La questione è più profonda e risiede, invece, nel fatto – di cui poco, troppo poco si discute – che gli esseri umani e il loro amici animali sono troppi su questa terra per vivere in maniera sostenibile. Tra l’altro si stanno concentrando sempre di più (siamo arrivati a circa la metà della popolazione mondiale) a vivere in spazi – le città e le metropoli – che, almeno attualmente, nulla hanno a che fare con ecosistemi dove possano essere facilmente applicati i principi dell’ecologia.

Bisogna seriamente iniziare ad interrogarsi su come fare per diminuire, senza troppi traumi sociali, la popolazione umana presente sulla Terra perché il pianeta che abitiamo non è in grado di sopportare il nostro carico. Bisogna iniziare anche a cercare di capire come sia possibile cambiare le città nelle loro infrastrutture di base per renderle più ecologiche e per far sì che in esse possano essere applicati i principi della bioimitazione e, in particolare, quello relativo al flusso circolare delle materie; alla produzione e alla gestione dell’energia; all’aumento della biodiversità.

 

Plastic bags kill

I sacchetti di plastica uccidono” (Plastic bags kill, ndt).

Uccidono in particolare se finiscono in mare e vengono scambiati dagli animali acquatici per cibo, soprattutto per delle meduse.

Al netto di qualsiasi parola e descrizione le immagini che seguono, da sole, spiegano ampiamente il triste e assurdo fenomeno.

Non vi chiedo di rinunciare ai sacchetti di plastica quando andate ad acquistare in negozio. Lo do già per scontato. Vi chiedo qualcosa di più: chiedete ai vostri rappresentanti politici di operare per mettere al bando definitivamente la plastica per gli imballaggi (1), attualmente ancora largamente presente in Italia e nell’Unione europea. Solo così potremo incidere, di riflesso, nei confronti dei Paesi in via di sviluppo che sono anche quelli che contribuiscono maggiormente all’inquinamento dei mari!

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Quello che finisce nell'oceano finisce anche dentro di te

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scegli di fermare l'inquinamento

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(1) Bandire la plastica dagli imballaggi non significa accontentare la lobby del settore e consentire quel “pasticcio” della plastica con additivi che, al contatto con i raggi ultravioletti del sole, permettono alla stessa di rompersi in miroframmenti. Questi ultimi, non essendo biodegradabili, si mescolano all’acqua ed entrano facilmente nella catena alimentare. Bandire la plastica dalla produzione degli imballaggi significa solamente vietarne la produzione e consentire, in alternativa, solo quella con materiali biodegradabili di origine vegetale.

L’assurdo spreco di cibo negli USA

Negli Stati Uniti si spreca circa il 40% del cibo prodotto, pari ad un valore di circa 165 miliardi di dollari. Si tratta di cibo buono, non avariato, spesso non cucinato, che viene gettato nella spazzatura ancora confezionato direttamente da parte degli acquirenti. La causa più frequente è legata al raggiungimento e al superamento della data di scadenza (anche se non è detto che il cibo sia immangiabile!) dovuti alla sovrabbondanza di cibo presente nelle dispense di una famiglia media che, semplicemente, ne acquista troppo e si dimentica di averlo.

E pensare che questo cibo potrebbe anche aiutare quei 50 milioni di americani (circa il 16% della popolazione totale degli USA) che sono poveri e fanno fatica a procurarsi da mangiare.

Per spiegare questo fenomeno è interessante osservare l’esperienza di Nick Papadopulos, un agricoltore biologico californiano. Stanco di buttare intere cassette di frutta o verdura rimaste invendute, Papadopulos ha iniziato a confrontarsi con altri produttori locali interessati dallo stesso fenomeno. La sua soluzione è stata quella di creare CropMobster, un servizio per trovare persone interessate a comperare, a prezzi più vantaggiosi, prodotti invenduti.

food is a weaponL’ampliamento del mercato, però, non è l’unica strada da percorrere per risolvere il problema. Servirebbe anche più informazione dei cittadini sia sull’alimentazione che sulle questioni tecniche legate alla coltivazione, alla trasformazione e alla conservazione del cibo. Innanzitutto bisognerebbe insegnare loro a non acquistare il cibo solo per il suo bell’aspetto estetico ma, soprattutto, a tener conto della sua qualità. Inoltre bisognerebbe spiegare loro che le date di scadenza riportate sulle confezioni non sono valide in senso assoluto ma forniscono solamente un’indicazione di massima. Prima di consumarlo, il cibo, deve essere sempre assaggiato. Anche se ciò avviene entro la data di scadenza!

Lo spreco di cibo è una follia. Lo è sia dal punto di vista umano ed etico che dal punto di vista di sostenibilità ambientale. Produrre cibo “consuma” lavoro, energia, materie e produce inquinamento, diretto o indiretto. Purtroppo l’agricoltura è stata interessata da un progressivo fenomeno di industrializzazione che l’ha spinta, come per le produzioni meccaniche, chimiche o altro, verso l’obiettivo della massimizzazione della produttività e l’abbassamento dei prezzi, preoccupandosi relativamente della qualità. Ma il cibo, si sa, è molto diverso da un manufatto. Lo ingeriamo e, attraverso il metabolismo, diventa noi e noi diventiamo un po’ lui.

Paradossalmente, per risolvere il problema dello spreco di cibo ancora buono, si dovrebbe fare una cosa semplice e apparentemente assurda. Si dovrebbe puntare all’aumento dei prezzi di vendita. In un sistema industriale che tende a massimizzare la produzione e a fornire cibo a prezzi bassi ma a discapito della qualità, si dovrebbe aumentarne il valore per far comprendere ai cittadini la sua vera importanza.

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Fonte: Internazionale

 

Il funerale di Windows XP

Oggi, 8 aprile 2014, sarà l’ultimo giorno di vita del sistema operativo Windows XP e, a partire dalla mezzanotte, non ci saranno più aggiornamenti di sicurezza e il software sarà, entro breve, destinato inesorabilmente a morire. Troppo elevato è infatti il rischio che il computer possa essere esposto a rischi di crash o, peggio, ad attacchi di virus che ne possano compromettere definitivamente la funzionalità.

Attualmente si stima che il sistema operativo XP sia ancora utilizzato da quesi il 30% degli utenti che si collegano a internet, ovvero poco meno di 600 milioni di persone nel mondo.

Secondo le indicazioni di Windows questi “quattro gatti” hanno due sole possibilità:

  1. buttare il loro PC (magari ancora perfettamente funzionante) e comperarne uno nuovo che abbia già preinstallato Windows 8.1;
  2. Comperare la licenza di Windows 8.1, da installare sul vecchio PC ad esso compatibile.

In sostanza si tratta della cosiddetta “obsolescenza programmata“, una pratica assurda sulla quale, in Italia, ci sono state delle interessanti proposte di legge ma che non è ancora stata disciplinata con chiarezza da un punto di vista normativo. Nell’ambito del settore informatico essa consente ad un qualsiasi imprenditore di prendere una decisione… et voilà, in poco tempo, circa 600 milioni di macchine, inquinanti e che hanno richiesto notevole energia e materie per essere prodotte (spesso addirittura ancora perfettamente funzionanti), devono essere mandate al macero per far posto ad altre 600 milioni di macchine che in pochi anni saranno obsolete e dovranno essere buttate per far posto ad altre macchine che…

L’alternativa a questa abberrante politica industriale che minaccia seriamente la sostenibilità dell’industria e che dimostra la stupidità dei comportamenti umani è quella di usare software libero, slegato dai brevetti e dalle licenze d’uso a pagamento, sia come sistema operativo (ad es. Linux-Ubuntu) sia come gestore di altre applicazioni (es. Libre Office per il pacchetto “ufficio”). Ciò consente di far durare a lungo il PC pur avendo gli stessi servizi forniti dai software a pagamento che, invece, nella logica del consumismo, li rendono prematuramente obsoleti.

IBM X40Io, ad esempio, che sono passato al software libero qualche anno fa quando Windows 2000 mi è andato definitivamente in crash, sto utilizzando ancora un vecchio IBM X40 del 2003 sia per i miei svaghi che per ragioni professionali. Il PC funziona bene ed è sufficientemente veloce, ma lo avrei buttato già da qualche anno se non avessi seguito la strada del software libero.

P.S. Per info sul software libero e sull’uso di vecchi PC perfettamente funzionanti eventualmente contattare l’Associazione OS3 di Verona.

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Foto: la tastiera oramai consunta del mio PC IBM X40

 

Aiuto! C’è un insetto negli spinaci

Addirittura un insetto negli spinaci! Aiutooooooooo!

Così strillano (o quasi) in questi giorni le locandine davanti alle edicole e titola L’Arena, il giornale di Verona.

Ma andiamo con ordine e vediamo cosa è successo. È successo che una scuola media cittadina ha segnalato la presenza di uno scarafaggio negli spinaci somministrati ai ragazzini nella mensa e, sulla questione, sono intervenute addirittura le autorità dell’Azienda che gestisce le mense comunali con comunicati e con provvedimenti che hanno portato ad eliminare l’intera partita di verdure incriminate. Inoltre il venefico insetto negli spinaci ha infiammato anche il dibattito politico vedendo, tra i contendenti, gli amministratori, l’azienda appaltatrice e l’opposizione.

“Un clima avvelenato – recita l’Arena – tanto che dopo il ritrovamento dello scarafaggio, comincia a serpeggiare (addirittura!) l’inquietante ipotesi del boicottaggio. Sempre ieri, tra l’altro, da un controllo fatto dall’ufficio refezione scolastica del Comune alle mense delle elementari N. e R., è emerso un giudizio positivo sul cibo servito. Gli stessi spinaci in tegame sono stati definiti «ottimi» in una scuola e «buoni» nell’altra. Tanto che «molti bambini», recita un comunicato di Palazzo Barbieri (la sede del Municipio, ndr), «hanno (udite, udite!) pure effettuato il bis»”. E non sono morti, dico io!

Sia ben chiaro che è assolutamente doveroso che il cibo fornito ai nostri figli nelle mense scolastiche debba essere di qualità, pulito, sicuro dal punto di vista igienico e privo di corpi estranei. Siano essi insetti o altro. Quello che mi fa sorridere (e, in parte, preoccupare) è il fatto che ci si stia accapigliando (1) per la presenza di un insetto in un piatto (che non ha mai ucciso nessuno e che, in un futuro, rappresenterà molto probabilmente una componente della nostra alimentazione abituale), mentre non si muove foglia, non si fanno locandine e non si fanno articoli per le vere cause che potrebbero rappresentare un pericolo per la salute dei nostri figli nelle mense scolastiche. Provo ad elencarle:

  1. cibi economici di scarsa qualità, con poca attenzione ai prodotti biologici;
  2. verdure con residui di pesticidi e carni con residui di antibiotici;
  3. diete non equilibrate che spesso eccedono in uso di carne, proteine animali, grassi e zuccheri;
  4. sistemi di cottura che potrebbero esporre i cibi ad inquinanti (es. teflon, metalli, ecc.)
  5. sistemi di cottura che non garantiscono il mantenimento delle proprietà dei cibi (es. vitamine);
  6. utilizzo di prodotti chimici pericolosi per le pulizie delle cucine o per il lavaggio di pentole e stoviglie;
  7. cibi serviti con piatti in materiale plastico usa e getta, non salutare in caso di cibi caldi e che produce un’enorme quantità di rifiuti non riciclabili.

Iniziare a preoccuparsi seriamente di questi VERI problemi e relegare ai margini della discussione (e dell’ansia pubblica) la presenza di un insetto nel piatto o di un moscerino in cucina contribuirebbe anche a porre importanti basi per una maggiore sostenibilità ambientale all’interno dell’enorme filiera dell’alimentazione non domestica.

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(1) Basta scorrere le cronache locali per vedere che il caso di Verona dell’insetto nel piatto non è un caso isolato di mamme preoccupate, di raccolte firme, di richieste di commissioni di vigilanza, ecc. ecc. (Pisa, Marino)

 

Sacchi a mare !!!

Come poter risolvere l’enorme problema dei rifiuti e dell’inquinamento del mare se fosse vero quanto riportato dal video mandato in onda lo scorso 20 dicembre della televisione brasiliana Sbt,  terza emittente televisiva del Paese per numero di telespettatori?

In pratica, secondo quanto affermato e documentato con video da parte di Sergio da Silva Oliveira, sembra che dalla nave da crociera MSC “Magnifica” siano stati gettati in mare alcuni sacchi neri in prossimità della costa brasiliana, addirittura nei pressi di un santuario naturalistico. “Non si trattava di rifiuti organici – racconta Sergio da Silva Oliveira parlando ai microfoni di Sbt – si sentiva il rumore delle bottiglie e delle lattine: una delle buste si è strappata e ne sono uscite scatole di tetrapack che sono rimaste a galleggiare in mare”.

Il presunto smaltimento irregolare dei rifiuti da parte della compagnia italo-svizzera MSC Crociere dimostra che la filiera dei rifiuti – dalla produzione dei prodotti e degli imballaggi, alla gestione del loro smaltimento una volta esaurita la loro utilità – è troppo, troppo fragile. Basta poco (e in questo caso potrebbe essere anche stato un dipendente dell’azienda poco istruito sulla gestione dei rifiuti o poco controllato dai superiori) per creare un problema ben più grave, sia per l’ambiente che per l’immagine di MSC Crociere.

Nonostante MSC Crociere affermi di essere a posto con la legislazione relativa al trattamento dei rifiuti del settore della navigazione, di essere impegnata in ambito ambientale e di aver ottenuto certificazioni riguardo a tale impegno, in ogni caso il problema dell’inquinamento, anche involontario del mare, permane.

L’unica via per combatterlo passa inevitabilmente attraverso i seguenti punti:

  • una politica di “rifiuti zero”, espressa sia in termini legislativi che culturali;
  • una legislazione orientata a favorire chi produce e chi consuma prodotti biodegradabili e a penalizzare chi non lo fa;
  • una legislazione che spinga i produttori a realizzare beni tenendo conto del ciclo di vita dei materiali, del riuso e della riparabilità degli stessi;
  • un sistema chiaro di sanzioni che penalizzi chi venga trovato ad inquinare o a smaltire illegalmente i rifiuti nell’ambiente;
  • un atteggiamento critico da parte dei consumatori che pongano, tra gli elementi di scelta di un fornitore o di un bene, non solo il prezzo o i servizi offerti ma anche le performance ambientali e di responsabilità sociale.

Solo così si verrà veramente fuori dal problema dei rifiuti e si provvederà a salvaguardare quell’enorme “pattumiera blu” che è il mare.

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Fonte: Il Fatto Quotidiano

 

La generosità del mare

Il mare è generoso, molto generoso e, prima o poi, restituisce tutto quello che gli gettiamo dentro. O come rifiuto; o come inquinamento e conseguente perdita di salute.

La gran parte dei rifiuti che il mare restituisce sono di materiale plastico: bottiglie, bidoni, bicchieri, boe, reti e chi più ne ha più ne metta (1). Un’altra parte dei rifiuti del mare sono in metallo e di materiale organico (principalmente alghe e tronchi).

Per quanto riguarda, invece, l’inquinamento, il mare non restituisce altro inquinamento. È più subdolo e restituisce sofferenza e morte per gli animali acquatici che lo popolano (e che dovrebbero fornire a noi una parte del nutrimento) e perdita di salute per gli esseri umani che abitano nelle sue vicinanze, che in esso si divertono o che si nutrono degli animali che in esso vivono.

Al di là di queste considerazioni – mi chiedo – forse un po’ troppo elaborate, mi è capitato recentemente di essere stato in vacanza in una località marittima da poco interessata da una forte mareggiata. Quello che mi ha stupito non è stato solo vedere la spiaggia piena di rifiuti e di detriti. Tanto, magari non riciclandoli, prima o poi verranno rimossi. Quello che invece mi ha stupito e profondamente turbato è stato constatare la totale indifferenza e apatìa delle persone (sia presenti in spiaggia sia di mia conoscenza) di fronte ai rifiuti presenti. Una sorta di assuefazione pericolosa che non è assolutamente positiva nell’ottica della ricerca urgente di soluzioni per la sostenibilità ambientale che, a mio avviso, oltre che attraverso soluzioni tecnologiche e produttive, dovranno passare per forza anche attraverso comportamenti individuali virtuosi e, molto probabilmente, una maggiore sobrietà di comportamenti.

Vi lascio, per ricordo, qualche foto che ho scattato nelle spiagge di Bordighera e Vallecrosia.

Rifiuti_bidone

Rifiuti_bottiglie plastica

Rifiuti_rifiuti vari

Rifiuti_rifiuti vari bianco

Rifiuti_copertone

Rifiuti_rifiuti vari blu

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(1) Gran parte dei rifiuti di plastica che il mare restituisce sono imballaggi e prodotti usa e getta. Per salvaguardarlo e per garantire VERA sostenibilità ambientale è assolutamente necessario che si provveda con urgenza a favorire – in qualsiasi modo – la produzione e il consumo di materiali plastici di origine vegetale completamente biodegradabili e si pongano limiti, di qualsiasi natura, alla produzione di materiale plastici di origine petrolifera e sintetica.

 

La mia colazione in treno

Qualche mattina fa ho sfruttato una promozione di Trenitalia e ho fatto un piacevole viaggio in 1^ classe tra Verona e Milano. Sedili larghi, ampio spazio per le gambe, bagni puliti, giornali e colazione compresi nel prezzo. L’ora e mezza che separa le stazioni delle due città è trascorsa bene, nonostante fosse quasi l’alba e la settimana prima del Natale.

Al passaggio dell’addetta con il carrellino delle vivande mi sono fatto dare un caffè, un pacchetto di wafer al cioccolato, comprensivi automaticamente di salvietta lavamani e tovaglioli di carta [si veda la foto]. Devo dire che, rispetto al tripudio di plastica usa e getta, spesso anche superflua in relazione allo scopo, che normalmente interessa sagre, ristoranti take-away e festicciole tra amici, il servizio offerto da Trenitalia non era male. Il bicchiere per il caffè era di carta, il cucchiaino per lo zucchero era un bastoncino di legno e gli imballaggi di plastica non erano eccessivi.

Colazione in trenoNell’ottica della bioimitazione e del processo culturale che deve assolutamente portarci al risparmio delle materie e al riutilizzo/riciclo dei rifiuti, desidererei comunque proporre alcune azioni di miglioramento:

  • sostituire gli imballaggi di plastica con materiali migliori dal punto di vista della sostenibilità ambientale e/o del riciclo (es. materiali plastici di origine vegetale).
  • migliorare il design complessivo del servizio progettandolo per limitare l’uso di imballaggi usa e getta (es. usare l’interno dell’imballaggio di carta del cucchiaino e dello zucchero come tovagliolo).
  • evitare elementi inutili (es. che la salvietta per lavare le mani venga fornita solo a richiesta).
  • migliorare la qualità dei prodotti offerti (es. da agricoltura biologica) e dei materiali utilizzati (es. la carta usata proveniente da foreste gestite in maniera sostenibile).
  • adoperarsi perché vi sia un’effettiva raccolta dei rifiuti che preveda il riciclo degli stessi (purtroppo i rifiuti del catering ferroviario vengono gettati nel cestino dell’indifferenziata direttamente da parte dei clienti o vengono raccolti dal personale di bordo senza differenziare i diversi materiali: organico, plastica, carta).

La sostenibilità ambientale non è un luogo definito ma una direzione che deve essere continuamente percorsa nell’ottica del miglioramento continuo. Per questa ragione e allo scopo di preservare il benessere delle generazioni future (che, in maniera meno astratta, sono i nostri figli), è necessario che – noi clienti – ci impegniamo a svolgere un’azione critica nei confronti del mondo che ci circonda per farlo migliorare e per essere concretamente gli artefici di un cambiamento, a mio avviso assolutamente necessario.

 

La storia delle cose

Desiderate capire un po’ di più Bioimita e la bioimitazione?

Bene. Prendetevi una ventina di minuti, rilassatevi sulla sedia, distendete le gambe e guardate questo bel video…

… che vi chiarirà parecchie cose sugli oggetti che ci circondano e sull’effetto diretto e indiretto che hanno sulle nostre misere esistenze.

Come dice la presentatrice: “Quando le persone inizieranno a vedere e capire tutti i collegamenti tra i vari aspetti del nostro sistema lineare, esse saranno in grado di percepire qualcosa di nuovo rispetto al passato e saranno così capaci di immaginare un sistema che non butta via risorse e persone. Ciò che dobbiamo buttare via, invece, è solo la nostra mentalità usa e getta”.

Per approfondire: www.storyofstuff.org