Tag Archives: agricoltura
Prodotti biologici: garanzia di assenza di pesticidi o trovata commerciale?!
L’Azienda Sanitaria di Firenze ha pubblicato sul proprio sito internet un’interessante tesi di laurea del corso di “Tecniche della prevenzione nell’ambiente e nei luoghi di lavoro” di Arianna Ugolini dal titolo: “Prodotti biologici: garanzia di assenza di pesticidi o trovata commerciale?!”
Il lavoro, dopo aver ampiamente e chiaramente spiegato le caratteristiche dei prodotti fitosanitari in agricoltura e la loro classificazione, ne ha esaminato – focalizzandosi particolarmente sui composti organofosfati (1) – i possibili effetti sulla salute e ha spiegato le regole per un corretto impiego degli stessi nella Regione Toscana, concentrandosi anche nel valutare quali siano i limiti massimi accettabili negli alimenti.
L’obiettivo, visto il corso di laurea, era principalmente quello di capire se sia possibile fare un’azione di prevenzione nei riguardi dei composti organofosfati da parte dei consumatori attraverso il consumo di prodotti biologici oppure se tale prevenzione, in relazione alle caratteristiche e alle contaminazioni degli alimenti, sia del tutto ininfluente nei confronti del loro stato di salute in generale.
L’idea di realizzare questo studio, come osserva l’autrice nella Premessa della sua tesi, nasce dalla lettura di due articoli, antitetici nel loro contenuto. Il primo, tratto dal sito internet Il fatto alimentare, datato 25 febbraio 2015 e intitolato “Consumare biologico fa bene alla salute. Meno pesticidi nell’organismo. Pubblicato il primo studio che evidenzia l’accumulo” afferma che chi consuma abitualmente frutta e verdura biologiche espone il suo organismo a minori quantità di pesticidi ed erbicidi rispetto a chi mangia vegetali coltivati con i metodi convenzionali. E questo risulta particolarmente importante per i composti organofosfati. L’altro testo, tratto dalla rivista Altroconsumo e intitolato “Biologico, c’è chi dice no. La nostra inchiesta” dell’11 settembre 2015, assieme alla risposta alle discussioni suscitate, “Inchiesta bio: alimenti biologici e convenzionali, il confronto”, pubblicata sempre da Altroconsumo il 4 ottobre 2015, in maniera molto dubbiosa vuole invece porre in discussione l’idea che il biologico sia migliore del convenzionale, elencando i punti a favore e quelli contrari, allo scopo di informare correttamente il consumatore e consentirgli di fare corrette scelte alimentari.
Per arrivare alle proprie conclusioni la ricercatrice ha effettuato dei campionamenti sugli alimenti e sull’acqua piovana mirati a verificare, in essi, i residui di fitofarmaci. I rilievi sono stati effettuati su 4 principali canali di produzione/distribuzione:
- coltivatori non biologici
- coltivatori biologici non certificati
- negozi specializzati
- negozi della grande distribuzione (GDO).
Per fare ciò la ricercatrice ha utilizzato il kit BioPARD, Pesticide Analytical Remote Detector, che si basa su un sistema di sensori associato ad un rivelatore elettrochimico per la determinazione rapida di pesticidi organofosforici e carbammici in campioni di cibo, acqua e suolo. Il kit permette solo una valutazione fondamentalmente qualitativa (presenza/assenza di pesticidi) e non quantitativa (se non per una discriminazione di massima tra valori quantitativi definiti “High” e valori più bassi definiti “Medium”, mentre con valori “Low” s’intende l’assenza o la presenza in minime tracce di residui) di pesticidi organofosforici e carbammati. Sulla base di questa discriminazione di massima (High; Medium; Low) Arianna Ugolini ha poi elaborato dei grafici riassuntivi che hanno fornito, in linea di massima, i seguenti risultati: i prodotti biologici sono risultati “High” per circa il 63%, “Medium” per circa il 13% e “Low” per circa il 23%. i prodotti convenzionali sono invece risultati “High” per circa il 90%, “Medium” per circa il 10%; i due campioni di acqua piovana provenienti da Scandicci centro e Ginestra Fiorentina sono risultati rispettivamente “Medium” e “Low”.
Le conclusioni di questo interessante lavoro (Tabella A) arrivano ad affermare che, dal lato della produzione, la certificazione biologica fornisce, in generale, migliori prodotti di quella convenzionale anche se non in assoluto. I prodotti migliori sono infatti quelli che provengono dalle coltivazioni biologiche non certificate. Dal lato della commercializzazione e distribuzione dei prodotti attraverso il canale della grande distribuzione non ci sono invece differenze sostanziali tra prodotti biologici e prodotti non biologici.
Quanto di inaspettato emerge dalla tesi di laurea è un fatto molto interessante, da non sottovalutare nelle scelte alimentari e negli studi della sostenibilità ambientale e alimentare del futuro. La certificazione biologica non è in assoluto uno strumento per misurare la qualità dei prodotti (dal punto di vista dei residui chimici) e la qualità dei prodotti consumati è tanto più elevata quanto più il produttore è consapevole dal punto di vista etico della propria scelta colturale “ecologica”. Questo indipendentemente dall’ottenimento o meno della certificazione biologica. In buona sostanza lo studio osserva che coltivare bene i prodotti agricoli è una scelta chiara e netta operata da parte del produttore e chi produce prodotti biologici solamente per fare più soldi o perché il mercato va in quella direzione, non necessariamente è in grado di immettere sul mercato prodotti di qualità. Come, per altro, chi certifica non è in grado di garantirlo sempre.
Estendendo queste conclusioni nel terreno della bioimitazione ne deduco anche che la sostenibilità ambientale non è – come ci vogliono far credere – solo un processo tecnico-economico che consente di far profitti in modo diverso. Così non funziona e non funzionerà mai! La sostenibilità ambientale è solamente un processo filosofico, del pensiero prima di tutto, che fa concepire la Natura come un tutt’uno, un insieme di processi complessi, nei confronti della quale non è sufficiente che mutiamo l’approccio tecnico-operativo, ma verso la quale dobbiamo mutare radicalmente il nostro modo di pensare consapevoli che nella partita della sostenibilità ambientale dobbiamo essere anche disposti a perdere molto. Altrimenti non funziona!!!
_____
La tesi di laurea di Arianna Ugolini è liberamente scaricabile qui.
(1) Ai composti organofosfati sono associati a diversi effetti negativi sulla salute umana, sia di tipo acuto (tremori, cefalea, difficoltà respiratorie) che cronico (disturbi neurologici, ansia), nonché, per quanto riguarda l’esposizione in gravidanza dei feti ritardo mentale, basso quoziente intellettivo e altro. Da uno studio condotto tra il 2010 e 2012 da parte dei ricercatori della School of Allied Health Sciences dell’università di Boise in Idaho, è risultato che esiste una relazione dose-dipendente tra consumo di alimenti non biologici e presenza di composti organofosfati nelle urine. (http://www.ilfattoalimentare.it/pesticidi-frutta-verdura-biologica.html).
Viva la burocrazia
La retorica comune, dall’amministratore delegato alla casalinga, dal parlamentare al giornalista, dal politico locale all’imprenditore, è fermamente convinta che la burocrazia sia il vero male della nostra società e il vero nemico del benessere economico perché rallenta il progresso ed è contraria al “fare”. In parte non possiamo negare che tale considerazione sia vera – ovviamente – soprattutto quando essa ostacola di proposito il corretto svolgimento della vita e delle attività delle persone per un qualche tornaconto personale o per scarso impegno lavorativo da parte dei funzionari pubblici che ne sono il motore, ma alla burocrazia dobbiamo anche riconoscere dei meriti e delle virtù perché, se non esistesse, sono convinto ci sarebbe meno giustizia sociale, meno giustizia economica e meno democrazia (1).
La burocrazia, che nella sua definizione è quella sorta di organizzazione di persone e risorse destinate alla realizzazione di un fine collettivo secondo criteri di razionalità, imparzialità e impersonalità, rappresenta quel collante sociale, quel sistema di controllo e di garanzia di rispetto delle regole che, mancando, farebbe venir meno quel patto sociale simbolico che esiste tra persone che, nonostante le loro numerose differenze, costituiscono e rappresentano la società nel suo insieme in quanto ne condividono diritti e doveri.
Per comprendere appieno questa mia considerazione qualche tempo fa mi ha colpito una lettera aperta a vari sindaci scritta da parte del WWF veronese che lamentava la richiesta da parte di un privato – il proprietario – di trasformare 4 ettari di terreno, facenti parte di un Sito di Importanza Comunitaria (SIC) per la salvaguardia della natura, in un “vigneto di tipo moderno e intensivo”. E molto remunerativo, direi io. Dalla lettura approfondita della lettera – tra l’altro contestata da parte di altre associazioni ambientaliste locali in quanto troppo morbida e troppo accondiscendente – si comprende che i terreni oggetto di tale progetto agro-industriale sono stati prima sottoposti allo screening X per poi avere la relazione Y, contestata dalla valutazione Z. Insomma su quei miseri 4 ettari di terreno, che non sono nulla dal punto di vista economico ma che rappresentano una boccata di ossigeno per la natura in un territorio fortemente antropizzato quale è l’hinterland veronese, si sono espressi un po’ tutti – la burocrazia – e, per fortuna, ancora nulla è successo in termini di trasformazione agricola. Almeno spero, visto che nonho più seguito la vicenda.
Proviamo ora ad immaginare se non fosse esistita la burocrazia cosa ne sarebbe di quei 4 ettari di terreno. Giusto! Proviamo ora a pensare cosa ne sarebbe di una splendida isola, di una splendida scogliera, di una magnifica montagna o di una magnifica collina. Esatto! Proviamo solo ad immaginare che fine avrebbe fatto il paesaggio o la tutela del patrimonio artistico, quelli considerati dall’art. 9 della Costituzione (2). Risposta corretta! Proviamo solamente ad immaginare – nel Paese degli abusi edilizi e dei numerosi condoni – quali scempi urbanistici, più di quelli attuali, ci sarebbero stati senza burocrazia. Giusto!
E allora, cosa ci lamentiamo a fare. Dobbiamo solo dire: “Viva la burocrazia”! (3)
_____
(1) I paesi civili del nord Europa e del nord America funzionano meglio del nostro non perché non esiste la burocrazia – anzi ce n’è molta – ma perché esiste la giustizia sociale. Quella della troppo burocrazia è solo una scusa.
(2) L’art. 9 della Costituzione recita: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica. / Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.
(3) La burocrazia siamo noi. Solo la cultura, il senso etico e il senso civico sono i motori della giustizia sociale e dell’economia.
L’Indonesia brucia
In Indonesia siamo finalmente arrivati alla fine del cosiddetto “Musim kabut“ come la chiamano loro, la “stagione fumosa”. Ma per mesi – circa da giugno ad ottobre – oramai da un po’ di anni, l’Indonesia ha bruciato intensamente e il fumo acre e venefico misto a cenere degli incendi con la sua coltre giallastra ha avvolto foreste, campagne, villaggi e grandi città raggiungendo, in estensione, buona parte del sud-est asiatico.
Dico a voi industriali del settore alimentare, lobbysti e scienziati da quattro soldi, sostenitori dell’olio di palma e mentitori di professione riguardo la sostenibilità della coltivazione della relativa pianta (1). Cosa se ne fanno gli indonesiani degli incendi delle foreste? Per caso, all’equatore, si scaldano per il freddo?
_____
(1) Come osservato e documentato da parte di numerose fonti, da qualche anno a questa parte l’Indonesia è funestata per mesi da numerosi incendi che servono per distruggere velocemente la foresta primordiale e le torbiere umide per far spazio a coltivazioni di palma da olio, in primis, e a coltivazioni di piante da cellulosa. I fumi di questi incendi si espandono in tutto il sud-est asiatico e, oltre a rilasciare in atmosfera enormi quantità di CO2, si stima uccidano ogni anno circa 100 mila persone a causa delle conseguenze di ciò che respirano. Questo terribile fenomeno – oramai ampiamente documentato anche con l’ausilio dei droni – sta minacciando alcuni parchi naturali, habitat di numerose specie animali, tra cui gli oranghi.
Ciò che preoccupa è anche il fatto che gli incendi delle torbiere umide, la cui biomassa si accumula sotto il pelo del’acqua ed è sottoposta ad un lungo processo di maturazione che la trasforma in torba, sono degli immensi serbatoi di carbonio che, prima attraverso la loro bonifica ed essicazione e, poi, con gli incendi, rilasciano in atmosfera enormi quantità di CO2, uno dei principali gas che sta determinando il preoccupante cambiamento climatico in atto sulla Terra.
Se anche l’olio di palma non fosse così pericoloso per l’alimentazione umana (o, per lo meno, potrebbe essere paragonabile al burro) lo è invece in maniera estrema per gli equilibri biochimici della Terra.
Meditate quando mordete un bel pasticcino invitante…
Food Inc.
Se desiderate vedere quali potranno essere, di fatto, le conseguenze dell’Accordo TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership o Partenariato Transatlantico per il commercio e gli investimenti-trad.) mettetevi comodi sulla sedia o sul divano per circa 90 minuti e godetevi il documentario “Food Inc.” allegato.
Al di là dei fiumi di parole che si potranno spendere sull’argomento, sia pro che contro, non c’è alcun dubbio che l’accordo in oggetto è una manovra messa in campo da parte delle (poche e sempre meno numerose) multinazionali del cibo per conquistare nuovi mercati attraverso l’industrializzazione spinta dello stesso. Chi vi dirà che il TTIP favorirà le produzioni locali e biologiche si sta prendendo solo gioco di voi.
Buona visione…
Per info: Campagna Stop TTIP (it); STOP TTIP (en)
Quattro seri problemi per la Terra
I media sono tutti infarciti di piccole beghe e trabocchetti politici, di scontri religiosi, di cronaca nera, gossip, sport, tecnologia e auto. Qualche breve articolo ai margini o nelle pagine più lontane da quelle più lette ospita argomenti vagamente “ecologici” come la solita casa green, il solito animale in difficoltà, la solita energia rinnovabile, il solito orto o alveare sui tetti. Per carità tutte cose nobili che sono assolutamente da copiare e, anzi, da divulgare affinché anche altri le possano fare proprie.
Quello che però manca nel sistema di comunicazione di massa sono i grandi temi, quelli che riguardano la possibilità della sopravvivenza di un’umanità in crescita su un pianeta – la Terra – che è sempre più piccolo e fragile. Sembra quasi che non se ne parli per scaramanzia, per paura di affrontare un problema di cui noi uomini comuni identifichiamo solo piccoli frammenti che notiamo nella loro portata globalie solo negli anni. Oppure, per fare un po’ di dietrologia, sembra che non se ne parli per non “disturbare” chi – anche proprietario dei mezzi di comunicazione di massa – si sta enormemente arricchendo su pratiche insostenibili dal punto di vista ambientale (petrolio, carbone, miniere, cemento, carne e chi più ne ha più ne metta) ipotecando il nostro benessere e il nostro futuro sulla Terra a garanzia della loro ricchezza. Questi sono forse poi quelli che, pieni di soldi e perfettamente consapevoli della loro follia distruttiva, propongono e finanziano esplorazioni spaziali fino ad arrivare addirittura ad ipotizzare la colonizzazione di Marte…
Visto che il sistema di comunicazione di massa lo fa poco e male, cercherò di fare io la mia piccola parte evidenziando una notizia che dovrebbe riempire le prime pagine dei giornali e le copertine dei telegiornali. Qualche mese fa sulla rivista scientifica Science un gruppo di ricercatori (1) ha pubblicato uno studio nel quale, su nove temi, vengono identificati i quattro aspetti riguardanti l’equilibrio planetario che sono stati già irrimediabilmente alterati dall’uomo e dalle sue attività o sono in procinto di esserlo.
1. Cambiamenti climatici
Da questo punto di vista gli autori sostengono che per evitare una catastrofe la concentrazione di CO2 non debba superare i valori compresi tra 350 e 400 ppm (parti per milione). Gli ultimi dati disponibili hanno certificato che attualmente ci si trova ad una media di 400 ppm e, pertanto, su questo fronte, non si hanno troppi margini di manovra e non si deve perdere troppo tempo in inutili mediazioni politico-economiche.
2. Erosione della biodiversità
La perdita di biodiversità è un fenomeno naturale all’interno di sistemi (come quello della Terra) che si trovano in un continuo equilibrio dinamico tra le specie viventi e gli elementi chimico-fisici. Perché sia sostenibile si ritiene che il massimo tasso di perdita di specie sia di 10 su un milione l’anno. Gli ultimi dati disponibili certificano che tale tasso di erosione della biodiversità è superato fino a 100 volte con conseguenze a catena sugli equilibri più generali che sono estremamente difficili da prevedere. Anche qui c’è poco da mediare: bisogna agire.
3. Cambiamento d’uso dei suoli
Secondo gli esperti i suoli forestali dovrebbero essere difesi da speculazioni agricole e minerarie e si dovrebbe conservare almeno il 75% di quelli originari. Gli ultimi dati disponibili certificano che in alcune aree del Pianeta si è scesi anche al di sotto del 60%. Tra i paesi meno virtuosi vi è il Brasile mentre l’Africa equatoriale e l’Asia meridionale, nonostante i forti disboscamenti del recente passato e attuali, riescono ancora a mantenersi a livelli lievemente superiori a tale indice.
4. Flusso del fosforo e dell’azoto
L’agricoltura intensiva e industriale (che è anche una delle principali cause della deforestazione) provoca enormi disequilibri nel ciclo dell’azoto e del fosforo, necessari alla fertilità dei terreni e alla loro produttività. Gli ultimi dati disponibili attestano che l’uso eccessivo di fertilizzanti chimici e il pessimo trattamento delle deiezioni animali (appartenenti principalmente all’allevamento intensivo) stanno irrimediabilmente alterando terreni, i corsi d’acqua dolce e i mari.
Cari politici, cari leader religiosi, cari economisti, cari imprenditori e cari cittadini oramai i dati che attestano la presenza di problemi per il nostro futuro sereno su questo Pianeta sono sempre più numerosi e sempre più precisi. Non possiamo più fare finta di nulla pensando che i problemi si risolveranno da soli o che la tecnologia troverà sempre una soluzione. Purtroppo è triste dirlo ma, sostenendo il nostro attuale sistema, ci stiamo ammanettando tutti assieme, con le nostre mani, alla stessa… BOOOOOMBA! (cit.)
Le soluzioni da provare per tentare di cambiare le cose ci sono e forse è giunta l’ora che si cominci a cercare di praticarle.
_____
(1) Gli studiosi sono gli stessi che nel 2009 pubblicarono su Nature una ricerca simile nella quale si interrogarono sui limiti del Pianeta per comprendere quale potesse essere il contributo dell’uomo all’alterazione irreversibile dei suoi equilibri.
Grafico: Il grafico riporta l’analisi dei nove principali problemi che riguardano la Terra e dei loro livelli di alterazione.
Perché non andrò all’EXPO
Qualche giorno fa mentre salutavo alcuni amici sulla soglia di casa e si facevano gli ultimi discorsi parlando del più e del meno mi veniva da loro proposto di passare assieme una domenica all’EXPO. In fin dei conti la città di Milano non è poi così lontana da dove abito e il logo della manifestazione si trova un po’ ovunque, dalla bolletta della Telecom al biglietto del treno; dall’imballaggio degli alimenti alle pagine dei giornali che è difficile non esserne in qualche modo attratti.
Ho ripensato qualche giorno più tardi a quella proposta e mi sono chiesto se, al di là della mia refrattarietà alla manifestazione già ampiamente documentata su questo blog, esistano comunque dei validi motivi per andare a fare una capatina all’EXPO per curiosare tra i padiglioni e ammirare il cibo del mondo. In fin dei conti, dopo tante critiche, ora che la fiera è operativa e si può toccare con mano, non sarebbe male poterlo fare di persona. E, perché no, magari cambiare anche idea.
Alla luce dell’invito ho iniziato ad approfondire ulteriormente l’argomento e, da quello che ne è emerso, sono sempre più convinto che ad EXPO non ci voglio proprio andare e che questa mia convinzione non sia frutto di una presa di posizione aprioristica basata su dei preconcetti ma che si fondi su una mia profonda coerenza comportamentale e su delle motivazioni molto concrete che provo ad elencare e a motivare.
1) Secondo quanto afferma Vandana Shiva nel suo blog sull’Huffington Post, EXPO più che essere una manifestazione che cerca di approfondire sul cibo, sulla produzione dello stesso, sulla salute alimentare e sulla sostenibilità sociale ed ambientale che ad esso sono collegate (1), è piuttosto una manifestazione che funge da vetrina per le multinazionali dell’alimentazione e della chimica che, invece di “nutrire il pianeta”, pensano piuttosto a nutrire se stesse e i loro affari. Ne è una dimostrazione il fatto che tra i principali sponsor vi siano McDonald’s e Coca Cola (ma anche Monsanto, Syngenta, Nestlé, Eni, Dupont, Pioneer) e che ad EXPO – per esempio – non siano previste particolari iniziative sull’agricoltura familiare che coinvolge centinaia di milioni di persone nel mondo oppure sull’agricoltura alternativa e di nicchia, alternativa addirittura al biologico che anch’esso oramai è un affare.
Ovviamente il tutto, agli occhi dei cittadini, deve in qualche modo essere mascherato: ad esempio ci si concentra sul non spreco del cibo – cosa sacrosanta e giusta – senza pensare troppo a quale sia la qualità o la salubrità del cibo che si spreca. Ad esempio si parla di cibo regionale ma non ci si chiede troppo quanta chimica, quanta acqua, quante manipolazioni genetiche (OGM) o quanta energia sia necessaria per produrlo. Ad esempio si mette nel calderone tutto il cibo senza pensare troppo a quale possa essere il suo impatto sulla salute, sull’ambiente e sulla biodiversità.
Lo scopo è vendere. E la fiera EXPO deve far incrementare i fatturati delle industrie (2). Se poi ci sono degli effetti collaterali… si affronteranno in altre sedi.
2) EXPO è stata una enorme operazione di inutile cementificazione del territorio. Come affermano illustri esperti in materia sia di architettura che di cibo, si sarebbe potuto realizzare la manifestazione – in modo diverso rispetto alle precedenti, e qui stava la grande novità tecnologica e il grande progresso – senza utilizzare neanche un chilo di cemento. Inoltre si sarebbe potuto cercare di alimentare completamente la fiera con energia da fonti rinnovabili. E, invece, si sono riempiti milioni di metri quadrati di erba con milioni di metri cubi di edifici. Se poi ci sono le auto della polizia elettriche oppure quelle della manifestazione ecologiche alimentate a metano, oppure se c’è la raccolta differenziata dei rifiuti queste non sono atro che operazioni di greenwashing atte a creare confusione e a dare l’impressione di sostenibilità ambientale ad una cosa che con la vera sostenibilità ambientale, quella profonda, non quella di facciata, non ha nulla a che fare.
3) Gli edifici e le strutture che ora ospitano EXPO e che sono state realizzate anche con i soldi delle mie tasse non hanno, ad ora, una collocazione futura. In buona sostanza non si sa che cosa sarà di esse dopo il 31 ottobre prossimo. Città delle musica e del cinema? Mah! Università? Mah! Area manifatturiera o espositiva? Mah! I presupposti sono per ora quelli che tutto andrà presumibilmente in malora come molte delle strutture costruite per altri EXPO in giro per il mondo oppure per le olimpiadi varie che ogni 4 anni fingono di promuovere lo sport.
Al di là del fatto che si sarebbe dovuto utilizzare solo materiali rinnovabili per la realizzazione delle varie strutture, è da dire che si sarebbe anche dovuto progettare il tutto già nell’ottica della dismissione o della destinazione urbanistica finale. Si sarebbe dovuto fare come Londra che, dopo l’ubriacatura economica delle olimpiadi di qualche anno fa, sta ricavando denaro e sta producendo posti di lavoro anche dalla dismissione e dalla collocazione alternativa delle strutture sportive.
In conclusione anche se so che le critiche le dovrei fare dopo aver visto di persona, ritengo che questi tre motivi siano già più che sufficienti per esprimere il mio dissenso verso EXPO, non tanto e non solo per manifestazione in sé, quanto, e soprattutto, per le importanti occasioni perse.
_____
(1) Carlo Petrini, fondatore di Slow Food, dopo una prima polemica con gli organizzatori di EXPO per non aver invitato i pescatori, gli allevatori e gli agricoltori, ora propone di invitare a Milano, dal 3 al 6 ottobre 2015, 5.000 giovani contadini, allevatori e artigiani da 170 paesi per parlare finalmente di cibo e di produzione dello stesso.
(2) Come scrive La Repubblica la Regione Lombardia, attraverso le parole dell’assessore regionale Valentina Aprea che scrive una letera ai dirigenti scolastici, invita gli alunni delle scuole ad andare all’EXPO e di godere degli eccezionali sconti di prezzo da McDonald’s.
Sette principi per un’agricoltura sostenibile
Lo scorso mese di maggio Greenpeace ha pubblicato il rapporto “Agricoltura sostenibile – Sette principi per un nuovo modello che metta al centro le persone”. Si tratta di una proposta politico-economica che, basata sulle più recenti innovazioni scientifiche, si propone di mettere al centro l’idea che è necessario produrre alimenti sani lavorando in sinergia con la natura e non contro di essa. Per ottenere ciò, in sintesi, è necessario rimettere al centro le persone e i loro bisogni, non il mero profitto.
L’introduzione al rapporto recita: “Basta guardare i numeri per capire che c’è qualcosa che non va: quasi un miliardo di persone ogni notte va a dormire affamato. Allo stesso tempo nel mondo viene prodotta una quantità di cibo più che sufficiente a sfamare i sette miliardi di persone che popolano la Terra. Circa un miliardo di persone sono sovrappeso od obesi. Una percentuale sconvolgente del cibo prodotto, che arriva al 30%, viene sprecata.
Il problema oggi non è quello di produrre più cibo, ma di produrlo dove ce n’è più bisogno e in un modo rispettoso della natura. L’attuale agricoltura industriale non è in grado di farlo.
Nel frattempo il Pianeta soffre. Stiamo sfruttando in maniera eccessiva le risorse, compromettendo la fertilità del suolo, la biodiversità e la qualità delle acque. Ci stiamo circondando di sostanze tossiche, che si accumulano intorno a noi. La quantità di rifiuti prodotti continua ad aumentare. E tutto questo accade in un contesto di cambiamenti climatici e di crescente pressione sulle risorse del nostro Pianeta, che si stanno riducendo.
L’attuale sistema agricolo è dipendente dall’uso massiccio di sostanze chimiche e di combustibili fossili. È sotto il controllo di un ristretto numero di multinazionali, concentrate in poche aree del mondo, prevalentemente nei Paesi più ricchi e industrializzati. Si basa in modo eccessivo su poche colture, minando alle basi di un sistema sostenibile di produzione del cibo da cui dipende la vita.
Questo modello agricolo inquina le acque, contamina il terreno e l’aria. Contribuisce in maniera significativa ai cambiamenti climatici, minaccia la biodiversità e il benessere di agricoltori e consumatori. Fa parte di un più ampio sistema fallimentare che sta determinando:
- un crescente controllo delle multinazionali in alcune regioni del mondo, che si traduce in una sempre minore indipendenza e autodeterminazione per agricoltori e consumatori, impossibilitati a operare scelte autonome su come e cosa viene coltivato;
- un’insostenibile spreco di cibo (tra il 20 e il 30 per cento), che avviene principalmente nella fase di post-raccolto nei Paesi in via di sviluppo e nella fase di distribuzione e consumo nei i Paesi ricchi;
- l’utilizzo di vaste aree e risorse per l’allevamento (circa il 30 per cento delle terre e il 75 per cento dei terreni agricoli) e per la produzione di biocarburanti;
- un sistema agroalimentare basato sulla coltivazione di poche monocolture, da cui si origina un’alimentazione insostenibile e poco salutare, spesso povera di nutrienti, alla base sia di problemi di malnutrizione sia di obesità;
- gravi impatti sugli ecosistemi, inclusi:cambiamenti climatici (il 25 per cento delle emissioni di gas serra, comprese quelle derivanti dalla conversione dei terreni, deriva dal settore agricolo e inquinamento dell’aria;
- problemi di scarsità e contaminazione delle acque in diverse aree del Pianeta: l’agricoltura utilizza il 70 per cento delle risorse d’acqua dolce; degrado del suolo, compresi fenomeni diffusi di acidificazione dovuti all’uso eccessivo di fertilizzanti chimici o di perdita di materia organica nel suolo; perdita di biodiversità e agrobiodiversità a tutti i livelli, dalla varietà genetica delle colture alla perdita di specie a livello naturale.
Oltre ad affrontare questioni di equità sociale – come la mancanza di un accesso paritario alle risorse per gli agricoltori (in particolare per le donne), la riduzione dei sistemici sprechi di cibo e il diritto a un’alimentazione sana – dobbiamo anche abbandonare l’attuale sistema fallimentare di produzione e dirigerci verso un sistema compatibile con l’agricoltura sostenibile.
L’agricoltura sostenibile è la soluzione per il futuro. È necessario agire adesso per avviare un cambiamento di cui abbiamo estremo bisogno“.
In questo contesto i sette principi per un’agricoltura sostenibile proposti dal rapporto di Greenpeace sono:
1. Sovranità alimentare – Restituire il controllo sulla filiera alimentare a chi produce e chi consuma, strappandolo alle multinazionali dell’agrochimica;
2. Sostegno agli agricoltori e alle comuntà rurali – L’agricoltura sostenibile contribuisce allo sviluppo rurale e alla lotta contro la fame e la povertà, garantendo alle comunità rurali la disponibilità di alimenti sani, sicuri ed economicamente sostenibili;
3. Produrre e consumare meglio – E’ possibile già oggi, senza impattare sull’ambiente e la salute, garantire sicurezza alimentare e, contemporaneamente, lottare contro gli sprechi alimentari. Occorre diminuire il nostro consumo di carne e minimizzare il consumo di suolo per la produzione di agro-energia. Dobbiamo anche riuscire ad aumentare le rese dove è necessario, ma con pratiche sostenibili;
4. Biodiversità – E’ necessario incoraggiare la (bio)diversità lungo tutta la filiera, dal seme al piatto con interventi a tutto campo, dalla produzione sementiera all’educazione al consumo. Ciò vuol dire esaltare i sapori, puntare sul significato di nutrizione e cultura del cibo, migliorando allo stesso tempo l’alimentazione e la salute;
5. Suolo sano e acqua pulita – Significa proteggere e aumentare la fertilità del suolo, promuovendo le pratiche colturali idonee ed eliminando quelle che invece consumano o avvelenano il suolo stesso o l’acqua;
6. Un sistema sostenibile di controllo dei parassiti – Significa consentire agli agricoltori di tenere sotto controllo parassiti e piante infestanti, affermando e promuovendo quelle pratiche (già esistenti) che garantiscono protezione e rese senza l’impiego di costosi pesticidi chimici che possono danneggiare il suolo, l’acqua, gli ecosistemi e la salute di agricoltori e consumatori;
7. Sistemi alimentari resistenti – Un’agricoltura sostenibile crea una maggiore resistenza (resilienza). Significa rafforzare la nostra agricoltura perché il sistema di produzione del cibo si adatti ad un contesto di cambiamenti climatici e di instabilità economica.
_____
Scarica il rapporto completo in italiano [qui]
Bio Soil Expert
Bio Soil Expert è un’azienda che ha sede a Rovereto (TN) e che opera nel campo delle biotecnologie ambientali e per il territorio. La sua forza sta nella capacità di aver sostituito le metodologie tradizionali – il cemento, le reti metalliche, la chimica o le materie plastiche – con sistemi biologici viventi costituiti da piante e microrganismi per risolvere problematiche legate al territorio e all’ambiente mantenendo i medesimi standard qualitativi.
I sistemi proposti hanno un elevato grado di sostenibilità ambientale in quanto sono costituiti da essenze vegetali erbacee abbinate a specifici consorzi microbici. La sinergia di questi esseri viventi consente a tali essenze di avere un elevato sviluppo degli apparati radicali, sia in termini di profondità che di quantità. Non a caso il motto dell’azienda è “Soluzioni “radicali” per l’ambiente”.
Bio Soil Expert fornisce sia una consulenza progettuale per comprendere quale sia la problematica da risolvere e quale sia la soluzione migliore che tenga anche conto degli aspetti paesaggistici e naturalistici. Bio Soil Expert poi realizza gli interventi ed effettua attività di ricerca e sviluppo per capire nuove e migliori soluzioni tecniche.
Gli ambiti dove l’Azienda principalmente opera attraverso soluzioni “verdi” sono:
- dissesto idrogeologico per consolidamenti del suolo
- bonifica biologica di aree inquinate e contaminate
- fasce tampone di filtraggio delle acque superficiali e dei fiumi
- restauri ecologici che ripristino la naturalità del territorio
- fitodepurazione mediante specie vegetali.
Tossico come un pesticida
È stato da poco pubblicato il rapporto “Tossico come un pesticida” di Greenpeace, uno studio molto approfondito (1) che analizza gli effetti sulla salute umana delle sostanze chimiche utilizzate in agricoltura.
Riporto integralmente la prefazione allo studio che, da sola, è in grado di spiegare bene il fenomeno e di far capire quali siano i numerosi e gravi rischi di salute pubblica che stiamo correndo. Si tratta solo di esserne consapevoli per accettarli nella logica del sistema economico-finanziario che ce li impone (anche se ci dovessero colpire direttamente o dovessero colpire un componente della nostra famiglia) oppure per contrastarli adoperandosi perché ciò che mangiamo non sia solo poco costoso ma anche – e soprattutto – il meno nocivo possibile per gli addetti del settore, per i consumatori e per i cittadini in generale attraverso le varie contaminazioni ambientali.
“Dal 1950 la popolazione mondiale è più che raddoppiata, mentre l’area destinata alle coltivazioni è cresciuta solo del 10 per cento. C’è un’enorme pressione a produrre sempre più cibo, a basso costo, su terreni che diventano inesorabilmente più poveri, sempre più privati delle sostanze nutritive. L’attuale sistema agricolo – intensivo e su scala industriale – si regge sull’impiego abbondante di input esterni come fertilizzanti e pesticidi, sostanze conosciute anche come fitofarmaci, agrofarmaci, antiparassitari.
I pesticidi sintetici sono stati usati in maniera massiccia in agricoltura industriale a partire dagli anni Cinquanta. Col passare del tempo, a causa del loro uso diffuso e, in alcuni casi, della loro persistenza, molti pesticidi hanno finito per accumularsi nell’ambiente. Alcuni, come il DDT e i suoi derivati, si degradano in tempi molto lunghi e pur essendo vietati da decenni continuano a circolare e a essere rilevati nell’ambiente.
La persistenza di queste sostanze e i potenziali rischi ambientali hanno favorito una crescita esponenziale delle ricerche sui loro effetti (Köhler e Triebskorn, 2013) che, come è ormai chiaro, sono vari e diffusi. Nello stesso periodo è aumentata anche la conoscenza scientifica sugli effetti dei pesticidi per la salute umana. Gli studi rivelano associazioni statistiche tra esposizione e aumento del rischio di sviluppare disabilità, disturbi neurologici e al sistema immunitario, alcuni tipi di cancro.
Dimostrare che l’esposizione a un determinato pesticida è la causa di una malattia presenta varie difficoltà. Anzitutto perché non esistono fasce di popolazione totalmente non esposte ai pesticidi, e in secondo luogo perché la maggior parte delle malattie non è causata da un singolo fattore, ma da una molteplicità di fattori che rendono molto complessa l’analisi (Meyer-Baron et al. 2015). Inoltre, la maggioranza delle persone è esposta quotidianamente a veri e propri mix di composti chimici (non solo pesticidi) tramite diverse vie di esposizione. E i pesticidi contribuiscono ad aumentare questo carico di tossicità (2).
In generale siamo tutti esposti a un cocktail di pesticidi attraverso il cibo che consumiamo ogni giorno. Nelle aree agricole, dove queste sostanze chimiche circolano nell’aria quando sono irrorate sui coltivi (il cosiddetto “effetto deriva”), i pesticidi inquinano il terreno e le acque, e in alcuni casi vengono assorbiti anche dalle piante a cui non sono destinate (organismi non-target). In città le persone più esposte sono quelle che vivono nei dintorni delle aree verdi, ma l’uso domestico dei pesticidi può contaminare anche abitazioni e giardini.
Le fasce di popolazione maggiormente esposte e più vulnerabili includono:
- agricoltori e operatori addetti ai trattamenti con i pesticidi, compresi quelli che lavorano nelle serre, esposti ad alti livelli di sostanze chimiche durante lo svolgimento delle loro mansioni. Questa vulnerabilità è stata ampiamente dimostrata dai livelli trovati nel sangue e nei capelli di queste persone;
- bambini e feti in fase di sviluppo: le donne in gravidanza esposte ai pesticidi possono trasmettere alcune di queste sostanze direttamente al feto, particolarmente vulnerabile alla tossicità delle sostanze chimiche.
In generale i bambini sono più a rischio degli adulti poiché il loro tasso di esposizione è maggiore, per esempio a causa dell’abitudine di toccare le superfici e di portarsi le mani alla bocca. Anche dimensioni e peso corporeo ridotti contano, senza considerare che l’organismo dei bambini ha una capacità inferiore di metabolizzare le sostanze tossiche. Gli effetti sulla salute registrati nei bambini esposti ad alti livelli di pesticidi durante la gestazione includono ritardi dello sviluppo cognitivo, problemi comportamentali e difetti alla nascita. Esiste inoltre una forte correlazione tra l’esposizione ai pesticidi e l’incidenza dei casi di leucemia infantile.
Alcuni studi mettono anche in relazione una forte esposizione ai pesticidi con un aumento dell’incidenza di vari tipi di tumori (prostata, polmoni e altri) e di malattie neurodegenerative come il Parkinson e l’Alzheimer. Altre evidenze suggeriscono inoltre che alcuni pesticidi interferiscono con le normali funzioni del sistema endocrino e del sistema immunitario.
Mentre i processi che portano a queste disfunzioni rimangono in parte oscuri, è invece chiaro che in alcuni casi vengono compromesse le funzioni enzimatiche e altri importanti meccanismi di comunicazione cellulare. Le ricerche indicano inoltre che alcune di queste sostanze chimiche interferiscono con l’espressione genica, e che queste interferenze possono trasmettersi anche alle generazioni che non sono state direttamente esposte ai pesticidi (la cosiddetta “eredità epigenetica”). Ciò significa che gli effetti dannosi derivanti dall’uso dei pesticidi possono perdurare per moltissimo tempo anche dopo che queste sostanze sono state messe fuori legge.
Questo rapporto prende in esame una serie di studi e ricerche – in continuo aumento – che mettono in luce gli effetti conosciuti o sospetti dei pesticidi sulla salute umana. Pur non negando l’esistenza di incertezze e punti oscuri, né la presenza di ricerche contrastanti, le prove scientifiche raccolte nel rapporto “Pesticides and our health – a growing concern” mostrano che l’attuale modello di agricoltura industriale basato sull’uso massiccio di pesticidi sintetici minaccia la salute degli agricoltori, delle loro famiglie e di una più vasta fascia di popolazione.
Tra i principi attivi potenzialmente dannosi in circolazione troviamo per esempio il clorpirifos, un organofosfato spesso rilevato negli alimenti e nel latte materno che diversi studi mettono in relazione con tumori, disfunzioni nello sviluppo dei bambini, disfunzioni neurologiche, Parkinson e fenomeni di ipersensibilità.
L’unico modo sicuro per ridurre la nostra esposizione ai pesticidi tossici è abbandonare l’attuale modello di produzione industriale del cibo, fortemente dipendente dalla chimica, e investire in un’agricoltura sostenibile. Serve un approccio moderno e basato sull’efficienza in grado di produrre cibo sano e sicuro per tutti che non dipenda da prodotti chimici tossici. È questo l’unico modo per nutrire una popolazione mondiale in crescita e allo stesso tempo tutelare la salute umana e gli ecosistemi che ci sostengono. Sono quindi necessari accordi giuridicamente vincolanti a livello nazionale e internazionale per iniziare immediatamente a eliminare tutti i pesticidi dannosi per gli organismi non target“.
_____
(1) Rapporto integrale in inglese e bibliografia completa qui
(2) La IARC (International Agency for Research on Cancer) lo scorso 20 marzo ha pubblicato un aggiornamento relativo alla classificazione di 5 pesticidi. Si tratta di un erbicida (glifosate) e di due insetticidi (malathion e diazinon) che sono stati dichiarati probabili cancerogeni per l’uomo (Gruppo 2A). Altri due insetticidi (parathion e tetrachlorvinphos) sono stati invece riconosciuti come possibili cancerogeni umani (Gruppo 2B).
Where is my forest?
“Where is my forest?” è il titolo di una foto molto bella del sudafricano Ian Johnson, finalista per la categoria “World in our hands” (Il mondo nelle nostre mani, ndt), che ho visto recentemente alla mostra fotografica “Wildlife Photographer of the Year” (1) presso il Forte di Bard, in provincia di Aosta.
Quello che mi ha colpito della foto in questione e che viene ben descritto dall’immagine colta dall’autore, è il fatto che il gorilla grigio immortalato abita, assieme a circa altri 480 animali, nella foresta del Volcanoes National Park, in Ruanda, un parco che oramai è completamente circondato da coltivazioni ed aziende agricole. I gorilla superstiti vivono quasi in prigione entro i confini del parco e, se per caso ne dovessero superare il perimetro non recintato, sono oggetto di uccisioni o di aggressioni da parte dei contadini che si vedono distruggere le colture che, tra l’altro, vorrebbero sempre più far avanzare. Si tratta del vecchio problema della possibile convivenza tra animali selvatici e uomo. I primi hanno bisogno di spazio per gestire il territorio, per cercare il nutrimento e per accudire i cuccioli; i secondi cercano di conquistare sempre più aree per la gestione delle loro attività economiche, per produrre cibo e per incrementare il loro benessere. Il tutto in un conflitto continuo.
La solitudine del gorilla immortalato nella foto mi fa pensare al fatto che il problema della necessaria convivenza tra uomo e animali può essere risolto principalmente attraverso due strade, che rappresentano un ulteriore passo in avanti alle azioni messe in piedi nei decenni passati per preservare specie animali in pericolo e vicine all’estinzione attraverso la creazione di aree protette.
Nel presupposto che la salvaguardia degli animali selvatici non sia un mero piacere estetico o un capriccio da ricchi e intellettuali ma sia la base della biodiversità e della sopravvivenza futura dell’uomo, la prima strada da percorrere è quella del decremento demografico della popolazione umana mondiale. Sembrerà una cosa che non c’entra molto ma bisognerà iniziare seriamente a pensarci perché non si può pensare di salvare animali, soprattutto se di grossa taglia come i gorilla, gli elefanti, i rinoceronti, i leoni, le tigri e molti altri che hanno bisogno di enormi territori, se non si pone un freno all’aumento della popolazione umana mondiale che, giustamente, nell’ottica della ricerca del benessere per tutti, deve e vuole avere a disposizione un’elevata quantità di territori e risorse.
La seconda strada è rappresentata dalla necessità che vengano individuate delle aree protette, sempre più ampie come estensione territoriale, che siano totalmente inaccessibili all’uomo e nelle quali la natura possa fare liberamente il proprio corso. A differenza di quelle attuali che risultano distribuite a macchia di leopardo su territori normalmente inospitali o poco accessibili e che si finanziano attraverso il turismo e, talvolta, la caccia grossa, si deve invece trattare di aree che vengono messe in rete l’una con le altre e che siano separate dalle attività umane da zone cuscinetto accessibili solo per attività turistiche. Solo così si potrà sperare di ottenere risultati duraturi nella difesa delle specie animali in pericolo e della salvaguardia della biodiversità perché i parchi naturali ad ora esistenti si stanno dimostrando inefficaci a contenere quell’innato desiderio dell’uomo di colonizzare e di espandere le proprie attività.
Mi rendo conto che entrambi gli obiettivi sono molto impegnativi ed estremamente complessi da realizzare ma li vedo l’unica strada che dobbiamo iniziare a percorrere. Per farlo dobbiamo cominciare a pensare che almeno una parte del Pianeta (sia la terra che il mare) non ci appartiene e non è – e non dovrà esserlo mai – a nostra disposizione.
_____
(1) Si tratta dell’evento fotografico più prestigioso e importante del suo genere ospitato nel Forte di Bard per la prima tappa italiana del tour mondiale. Il “Wildlife Photographer of the Year” è un premio creato per la prima volta nel 1965 da parte del Natural History Museum di Londra in collaborazione con il Bbc Wildlife Magazine che ha raccolto, in questa cinquantesima edizione, ben 42.000 concorrenti provenienti da 96 paesi. Cento sono le immagini premiate suddivise in 18 categorie. Attraverso la lente della fotografia naturalistica la mostra coglie l’intrigo e la bellezza del nostro pianeta, dandoci un punto di vista molto profondo del mondo naturale.
Foto: Ian Johnson
Quando il cibo può salvare il Pianeta
È stata inaugurata qualche giorno fa l’esposizione universale “EXPO – Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita” dedicata all’alimentazione e al cibo. Al netto di tutti gli scandali e i problemi che hanno interessato la manifestazione negli anni e nei mesi precedenti dove si doveva decidere cosa fare e dove si doveva costruirne le infrastrutture, l’EXPO, ora che si fa, potrebbe essere un utile strumento di discussione sul cibo e anche sul ruolo che ha nel determinare seri problemi ambientali o essere sostenibile.
Parliamo di cibo, allora. Il cibo è fondamentale per l’uomo non solo perché è il “carburante” della vita in quanto fornisce energia e riserve per le attività quotidiane, ma anche perché, in base alle sue caratteristiche, può dare salute, benessere e può contribuire o meno alla sostenibilità ambientale. Produrre e consumare cibi troppo grassi può, nel lungo periodo, nuocere alla salute ma anche contribuire alla deforestazione del pianeta. Produrre e consumare troppo pesce o troppa carne può non essere del tutto salutare e può contemporaneamente contribuire a far depauperare gli stock ittici selvatici o a deforestare per creare pascoli o colture per l’alimentazione animale. Produrre e consumare cibi fuori stagione e molto distanti dal luogo di produzione può creare seri problemi ambientali e può anche contribuire a fornire scarsi nutritivi e poche vitamine a chi se ne nutre. Distribuire non equamente il cibo significa poi ipernutrire una parte della popolazione mondiale (che va incontro poi a gravi problemi di obesità nonché a patologie croniche e gravi) e lasciare a secco un’altra parte della popolazione mondiale (che va incontro ad altrettanto gravi problemi di salute pubblica a causa della scarsa e cattiva nutrizione).
Per ovviare a tali problematiche e a tali ingiustizie il WWF ha pubblicato 10 consigli facili da applicare per educarci ad un’alimentazione sostenibile e salutare.
1) Acquista prodotti locali
2) Mangia prodotti di stagione
3) Diminuisci i consumi di carne
4) Scegli i pesci giusti
5) Riduci gli sprechi di cibo
6) Privilegia i prodotti biologici
7) Cerca di non acquistare prodotti con troppi imballaggi
8) Cerca di evitare cibi eccessivamente elaborati
9) Bevi l’acqua del rubinetto
10) Evita sprechi anche ai fornelli
A ciò io aggiungerei:
11) Rispetta e non nutrirti dei cuccioli
12) Ogni tanto digiuna
13) Il cibo è cultura: apprezza anche quello di altri popoli.
Vediamo se EXPO non sarà solo business ma anche il volano per iniziare a cambiare un po’ rotta…
Pesticidi nel piatto
Oramai è assodato da ricerche scientifiche e da controlli effettuati da parte degli Enti di gestione delle acque pubbliche (1) che, assieme ai cibi, assieme all’acqua e attraverso altre esposizioni ingurgitiamo e veniamo in contatto anche con un mix di componenti chimici rientranti genericamente sotto il nome di “pesticidi”. In pratica si tratta di sostanze che appartengono a 2 macrogruppi di additivi che vengono sparsi sui terreni o sulle piante: gli antiparassitari (per debellare funghi, batteri, virus o insetti); gli erbicidi (o diserbanti).
La complessità delle molecole utilizzate, la loro enorme variabilità commerciale, la loro interazione reciproca e le cattive tecniche di gestione da parte degli utilizzatori rendono molto difficile identificare quali siano i veri rischi per la salute degli utilizzatori diretti (in particolare gli agricoltori) ma anche di chi ne viene in contatto indirettamente, cioè attraverso i cibi e la popolazione in generale che vive e che frequenta il proprio territorio.
Si hanno numerose evidenze scientifiche che l’esposizione a pesticidi possa comportare, tra le più gravi, principalmente problematiche neurologiche e tumorali. Pertanto è assolutamente necessario che si inizi a fare qualcosa di concreto sia per avvertire i cittadini del rischio sia per trovare delle alternative tecniche e organizzative che evitino la diffusione, spesso non necessaria, di tali agenti chimici nell’ambiente.
Solo così si farà vera prevenzione e si opererà con intelligenza per evitare inutili sofferenze e cure per patologie evitabili o, per lo meno, la cui incidenza sia fortemente limitabile.
Sul tema sabato 17 gennaio 2015 a Sommacampagna (VR) si terrà la conferenza [vedi locandina] “Pesticidi nel piatto – Pericolosità dei pesticidi per la salute umana e per tutti gli esseri viventi: il cambiamento è possibile!”. Interverranno il prof. Gianni Tamino, biologo; il dott. Roberto Magarotto, oncologo; la dott.ssa Renata Alleva, nutrizionista e il dott. Daniele degli Innocenti, ricercatore universitario. Partecipate numerosi…
_____
(1) L’ISPRA (Istituto Superiore per la Ricerca e la Protezione dell’Ambiente) nei suoi rapporti annuali descrive, anno dopo anno, situazioni di contaminazione da pesticidi – sia in termini di quantità che di qualità – delle acque superficiali e sotterranee. Basti pensare che nell’ambito dei prodotti fitosanitari dell’agricoltura si usano annualmente (dati ufficiali che non tengono conto delle situazioni illecite) circa 350 sostanze diverse per quantitativi totali superiori a 140.000 ton. L’Istituto rivela inoltre che la contaminazione è molto più diffusa nella Pianura Padano-Veneta a causa delle sue caratteristiche idrogeologiche, dell’intensa vocazione agricola della sua economia e del fatto che le indagini (fornite dalle Regioni e dalle Agenzie regionali di protezione dell’ambiente in base ai loro monitoraggi) risultano più complete e rappresentative nelle regioni del nord.
Foto e immagini: Legambiente
Al supermercato con la bisnonna
“Quando andate al supermercato andateci sempre accompagnati dalla vostra bisnonna (immaginatevela con voi se non ce l’avete più) e tutto quello che la vostra bisnonna non riconosce come cibo… non compratelo. Leggendo l’etichetta, se ci sono sostanze che lei non capisce cosa siano… non compratelo. Se ci sono più di 5 ingredienti… non compratelo. Se c’è scritto che fa bene alla salute… non compratelo!!!”
Questo è quanto osserva – mutuando le raccomandazioni di Michael Pollan – con la sua proverbiale ironia e sagacia il prof. Franco Berrino, epidemiologo dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano dove dirige il dipartimento di medicina preventiva e predittiva..
In sostanza per vivere sani e in salute – e, magari, per scongiurare il più possibile il rischio di essere vittima di un tumore o di una grave patologia metabolica – è necessario consumare cibo sano ma, soprattutto, semplice, non raffinato e, di base, proveniente dal mondo vegetale. Questa pratica, che è anche molto sostenibile dal punto di vista ambientale, si rifà pienamente ai principi della bioimitazione.
Cosa dire allora: il vero progresso e la salute generale di un popolo passa per forza attraverso la natura (cibo sano), il suo rispetto (cibo vegetale) e l’imitazione del suo funzionamento (cibo semplice e non raffinato). Cosa aspettiamo a cambiare atteggiamento e a percorrere con maggiore convinzione questo cammino semplice e così rivoluzionario?
Il paradosso del pomodoro
Qualche anno fa, in Francia, due camion fecero uno scontro frontale terribile. La cosa non è strana, ne capitano tutti i giorni. Quello che è particolare, nell’incidente, è il fatto che entrambi i mezzi lasciarono sull’asfalto il medesimo prodotto: pomodori. Il paradosso è poi il fatto che un camion viaggiava da nord a sud e trasportava pomodori dall’Olanda a Barcellona e l’altro viaggiava da sud a nord e trasportava, sempre pomodori, da Almeria, in Spagna, all’Olanda.
Questa storia, che viene attribuita al contadino e filosofo francese Pierre Rabhi, è in grado di descrivere meglio di mille ricerche scientifiche e meglio di mille marce ambientaliste la follia che sta dietro al sistema della grande distribuzione organizzata (GDO) delle merci e dei trasporti delle stesse. Ci spiega, senza troppi giri di parole, che è un’assurdità il fatto che, alla ricerca del prezzo più basso di produzione con l’idea della sola massimizzazione dei profitti in un’agricoltura industriale, si possano produrre beni alimentari dove più conviene, per poi trasportarli in giro per il mondo, magari anche a discapito della qualità.
Se si vuole perseguire la vera sostenibilità ambientale I cibi devono essere prodotti e consumati localmente, magari creando rapporti di fiducia diretti con i produttori. A cosa serve coltivare (e consumare) le mele biologiche se poi il mercato di vendita è a 10.000 km di distanza? A cosa serve pagare un chilo di pomodori pochi centesimi di euro se poi non hanno gusto e la loro buccia è così dura (per ragioni di conservazione) che non si riesce a provare il piacere di addentarli? A cosa serve mangiare in primavera le vitamine di una pera che viene dal Cile se poi ci inquina indirettamente con i residui dei trasporti?
L’incidente dei camion di pomodori e l’assurdità che lo caratterizza dimostra bene questo paradosso ed è buona cosa che noi consumatori, attraverso le nostre scelte, vi poniamo fine. A tale proposito Pierre Rabhi è solito raccontare un’altra storia, quella del colibrì. “Un giorno – secondo tale storia – vi è un immenso incendio nella foresta. Tutti gli animali rimangono atterriti e impotenti di fronte a tale disastro e, tra loro, solo il piccolo colibrì è infaticabile nel trasportare con il suo piccolo becco l’acqua per spegnere il fuoco. Ad un certo punto l’armadillo, in tono sarcastico, gli chiede il perché di tale agitazione, visto e considerato che non saranno quelle piccole gocce sufficienti a spegnere l’incendio. Con molta naturalezza il colibrì gli risponde che sì, lui lo sa, ma vuole comunque fare la sua parte”.
2014: anno dell’agricoltura familiare
In Italia e, suppongo, nei paesi “occidentali” che hanno il baricentro sociale spostato sull’industria e sui servizi, l’agricoltura viene oramai relegata ad un ruolo gregario all’interno del sistema economico: tutti concordano sul fatto che serva e che sia fondamentale ma poi la snobbano o la superfinanziano senza criterio preferendo ad essa l’industria o l’edilizia, perché sono in grado di essere molto redditizie e di portar soldi agli investitori in tempi molto brevi, quelli che l’agricoltura non si può permettere. Nonostante i piccoli segnali di ripresa di questi ultimi anni dovuti alla crisi che porta sempre più giovani intraprendere la strada (e l’avventura) nel settore primario, l’agricoltura, da noi, viene vista comunque nell’ottica industriale fatta di mezzi meccanici sempre più sofisticati, di additivi chimici e biotecnologici, di assenza di manodopera nonché di grandi guadagni speculativi che spesso esulano dalla produzione del cibo e virano verso la produzione di energia o verso la gestione dei rifiuti.
È importante sapere, però, che questa idea di agricoltura interessa una minoranza di persone al mondo dove, invece, in massima parte, la stessa è basata sulla piccola agricoltura familiare (1) che coinvolge circa 400 milioni di famiglie di coltivatori diretti con meno di due ettari di terra, circa 100 milioni di pastori e circa 100 milioni di pescatori. In sostanza il 40% della forza lavoro del Pianeta è coinvolto nell’agricoltura familiare che produce circa il 70% del cibo disponibile.
L’agricoltura familiare è caratterizzata principalmente da tre elementi positivi:
- contribuisce sostanzialmente alla sicurezza alimentare mondiale;
- difende i prodotti alimentari tradizionali e contribuisce a garantire una dieta bilanciata per le persone povere salvaguardando, contestualmente, l’agro-biodiversità e l’uso sostenibile delle risorse naturali;
- rappresenta un’opportunità per migliorare ed accrescere le economie locali.
In quest’ottica la FAO ha dichiarato il 2014 “l’anno dell’agricoltura familiare” con lo scopo di porre l’attenzione pubblica sul suo importante ruolo nell’eradicazione della denutrizione e della povertà, nel garantire la sicurezza alimentare e il miglioramento delle condizioni di vita, nella corretta gestione delle risorse naturali, nella protezione dell’ambiente e nel raggiungimento di uno sviluppo sostenibile e durevole, soprattutto delle aree rurali. L’obiettivo è quello di posizionare l’agricoltura familiare al centro delle politiche sociali, ambientali ed economiche degli stati, quale volano per uno sviluppo dell’uomo più equo e bilanciato rispetto a quello che può essere garantito dall’agricoltura industriale.
Bioimita sostiene l’agricoltura familiare perché rappresenta un punto focale dei suoi principi. Essa, in effetti, è caratterizzata dal fatto di avere caratteristiche specifiche per ciascuna area geografica; essa, essendo di piccola scala è necessariamente basata su una rete di relazioni tra diversi soggetti che si devono scambiare le sementi, le conoscenze, i prodotti; essa favorisce la biodiversità in quanto, non essendo industriale, valorizza i prodotti locali.
E se fossimo noi le locuste?
Che schifo tutti quegli insetti che ti si posano sui capelli, che ti colpiscono il viso, che ti si attaccano ai vestiti e che divorano tutti i vegetali che trovano sul loro devastante cammino. Un vera e propria piaga. Di dimensioni… bibliche!
Periodicamente accade che qualche area del mondo sia funestata da enormi masse di locuste che devastano tutto quello che trovano sulla loro strada e che, spesso, determinano terribili carestie, malnutrizione e morte. Gli enormi sciami volanti che quasi oscurano il cielo sono la parte più evidente del fenomeno ma l’aspetto peggiore è quando gli animali si posano a terra e iniziano a muovere instancabilmente le loro mandibole: cra, cra, cra…
Nel mio immaginario ho sempre pensato che tale fenomeno fosse da combattere con qualsiasi mezzo, chimico e non. Con il passare del tempo, però, approfondendo la mia conoscenza sulle relazioni (spesso malate e corrotte) che l’umanità contemporanea ha con il Pianeta (1), ho iniziato a capire che la nostra visione parte dal solo punto di vista antropocentrico: noi siamo le vittime del fenomeno e loro (le cavallette) rappresentano i cattivi.
Proviamo a ribaltare la questione e a chiederci provocatoriamente: “E se fossimo noi le locuste?”.
In fin dei conti, come loro, ci muoviamo individualmente ad esplorare territori e, trovata abbondanza di risorse, arriviamo in massa. Quando siamo in tanti iniziamo ad incidere pesantemente sugli ecosistemi consumando acqua, risorse alimentari, materie prime, tagliando e bruciando legna, uccidendo animali ed emettendo rifiuti e scarti di vario tipo nell’ambiente circostante. Raggiunto l’apice del nostro sviluppo in un certo territorio e, magari, avendo esaurito le risorse, quando ce ne andiamo lasciamo distruzione e morte. Di ciò la storia ne è testimone in numerosissimi episodi, anche piuttosto recenti.
Questa, molti, la chiamano “civiltà” ma si potrebbe iniziare a considerarla “piaga”, come quella delle locuste.
La bioimitazione si propone un approccio nuovo nei confronti della natura. Un approccio che, culturalmente, superi l’atteggiamento di devastazione e che miri a realizzare con il Pianeta una relazione biunivoca di do ut des. Una relazione che si muova su un’ampia conoscenza dei meccanismi di funzionamento della Terra e che sia in grado di coniugare economia, benessere e mantenimento nel lungo periodo delle risorse ambientali.
Solo così potremo pensare di aver sconfitto veramente la piaga delle locuste!
_____
(1) Dalle origini della civiltà umana, con il passare del tempo, questa relazione si è fatta via via sempre più malata e corrotta.
Foto: “La Stampa”; Luca Benatelli
Foto ricordo da Fukushima
Se qualcuno avesse ancora dubbi sulla potenziale pericolosità dell’energia nucleare…
… ecco qualche foto ricordo di fiori, frutti, piante o animali nati nella regione dell’incidente nucleare di Fukushima dell’11 marzo 2011.
Esse sono la dimostrazione lampante del motivo per cui la natura non fonda la produzione di energia sulle fonti radioattive. Troppo pericolose!!!
_____
Foto: Corriere.it
Quando è in pericolo la produzione del cibo
Il ricercatore argentino Lucas Garibaldi dell’Università Nazionale di Rio Negro in San Carlos de Bariloche, capo progetto di uno studio coordinato pubblicato recentemente su Science, partendo dalla constatazione che gli insetti stanno diminuendo nel mondo, ha dimostrato con i suoi colleghi che, oltre alle api, contribuiscono all’impollinazione delle piante anche mosche, farfalle e coleotteri e che la profonda alterazione degli ecosistemi agricoli in corso sta mettendo in pericolo la produzione del cibo.
Nel corso dell’indagine sono stati analizzati più di 40 sistemi di coltivazione di frutta e verdura in 20 Paesi. La ricerca sul campo è stata poi incrociata con i dati storici relativi alle produzioni agricole della fine dell’Ottocento, della fine degli anni Settanta e fra il 2009 e il 2010. Si è capito in maniera chiara ed inequivocabile che, sia la qualità e la quantità dell’impollinazione che la produzione di fiori da frutto sono diminuiti proporzionalmente alla diminuzione degli insetti selvatici.
I fattori descritti dai ricercatori quali cause che determinano tale declino sono molteplici anche se i più importanti risultano i seguenti. In primo piano vi è la distruzione degli habitat (boschi, siepi, prati) dove vivono e si riproducono gli insetti utili per far spazio a monocolture o per realizzare città e infrastrutture. In secondo luogo la causa è da ricercarsi nei cambiamenti climatici che producono veloci mutamenti nel periodo della fioritura o nella vegetazione delle piante determinando alterazioni nell’attività degli impollinatori, che devono ancora trovare un equilibrio evolutivo ai cambiamenti.
Nessun intervento umano operato da parte degli agronomi o da parte dei biologi consistente, ad esempio, nell’immissione nell’ambiente di impollinatori da allevamento, sta dando i risultati sperati perché gli insetti selvatici sono molto più efficienti e la loro funzione sembra insostituibile.
La soluzione che i ricercatori propongono è abbastanza ovvia e consiste, da un lato, nella salvaguardia degli habitat naturali e, dall’altro, nella riduzione dei pesticidi usati perché non sono selettivi e inevitabilmente colpiscono anche gli insetti utili.
Mi permetto di osservare che l’interessante ricerca aggiunge un importante tassello alla conoscenza scientifica (importanza degli animali selvatici nell’impollinazione e della biodiversità nella produzione del cibo) ma, a mio avviso, la problematica avrebbe già dovuto essere patrimonio di conoscenza da parte di un attento osservatore della natura. Quest’ultima, infatti, per poter prosperare ha bisogno del contributo di una molteplicità di esseri viventi. Ognuno cerca di soddisfare i propri bisogni ma, indirettamente e involontariamente, agisce anche per la realizzazione dei bisogni degli altri. Il tutto opera seguendo un andamento ciclico, come una vite senza fine.
Se non siamo stati in grado di intervenire fino ad ora per arrestare il degrado degli habitat e per impedire (non diminuire!) l’uso dei pesticidi di sintesi dubito che questo possa avvenire a seguito di tale ricerca.
Mi auguro, però, che, anche attraverso queste ricerche, si faccia sempre più forte la consapevolezza di quali siano e di quali relazioni vi siano tra i comportamenti umani sbagliati dal punto di vista della sostenibilità ambientale in modo tale da orientare soprattutto l’economia e la società verso lo sviluppo e l’accettazione di pratiche produttive che abbiano il minor impatto possibile sull’ambiente che, in fin dei conti, è base della vita e della prosperità. Anche la nostra!
Fonte: The Guardian
I love OGM
Con la recente introduzione, da parte dell’Unione europea, delle colture di prodotti agricoli geneticamente modificati all’interno della comunità, si è riacceso l’inevitabile dibattito tra i favorevoli e i contrari. Qualche ministro ha aperto subito le porte e ha dato inizio alle semine; qualche altro, compreso quello italiano, ha chiuso i cancelli.
Al di là dei dibattiti molto noiosi con elencazione di dati e di conclusioni scientifiche che si smentiscono gli uni con gli altri in una spirale di confusione vorrei osservare, semplicemente, quanto segue.
Ipotizziamo, senza alcun pregiudizio e presunzione di colpevolezza, che gli organismi geneticamente modificati non impoveriscano o sterilizzino il terreno più dei prodotti “naturali”.
Ipotizziamo che essi siano effettivamente in grado di aumentare rese e produttività nel lungo periodo oppure che siano in grado di sconfiggere fitopatologie o parassiti altrimenti affrontabili con dosi massicce di prodotti chimici, spesso anche molto pericolosi per la salute di agricoltori, comunità agricole e consumatori.
Ipotizziamo che anziché diminuire la biodiversità la favoriscano.
Ipotizziamo infine, in questo caso anche contro l’opinione di numerosi scienziati, studiosi e casalinghe, che gli OGM facciano bene alla salute: cioè che siano in grado di favorire, più dei loro fratelli non-OGM, l’assunzione di maggiori quantità di vitamine o altri nutrienti importanti per il mantenimento del corpo in buono stato di funzionamento metabolico.
Nonostante tutto questo, però, con gli OGM non mi sento ancora del tutto tranquillo! Il motivo potrà sembrare banale ma, per me, è di vitale importanza: gli OGM azzerano oltre 3 miliardi di anni di evoluzione!
Questa tecnica di manipolazione del dna delle specie vegetali (e, in futuro, anche delle specie animali, compreso l’uomo?) applicata da un uomo arrogante spazza via, con una sola folata di vento, i numerosi tentativi, i numerosi fallimenti, gli infiniti micro-adattamenti, i rapporti simbiotici delle specie viventi ad ambienti in costante mutamento. In sostanza elimina quel bio-ingegnere invisibile rappresentato dal tempo.
Vista la nostra enorme ignoranza sul funzionamento di ciò che ci circonda, sulle relazioni occulte esistenti tra miliardi di specie viventi, sulle possibili influenze cosmiche, elettromagnetiche, chimiche con la vita, voler a tutti i costi modificare, spesso forzandola con legami estremi, la struttura genetica delle specie viventi mi sembra una cosa stupida che, anche se non ora, potrebbe in un futuro portare verso direzioni inaspettate e, in quel caso sì, potenzialmente pericolose per l’uomo e per l’ambiente dal momento che non si è ora in grado di prevederne i possibili risultati.
Si tratta, volendo usare una metafora, di pretendere di scrivere a tutti i costi un romanzo in una lingua straniera di cui non si conosce la grammatica utilizzando solamente il vocabolario oppure quei terribili traduttori presenti su internet. Qualcosa ne viene fuori ma il senso vero, quello che si vuole veramente esprimere, si perde e, anzi, talvolta ne può venire addirittura stravolto il significato.
Foto: www.kokopelli.it
Bioplanet | Lotta biologica
Dopo aver fatto la triste conta dei malati e, purtroppo, anche dei morti, l’agricoltura, anche quella convenzionale, comincia ad osservare che è più proficuo spargere nei campi insetti predatori di quelli dannosi piuttosto che antiparassitari tossici.
Per soddisfare questa esigenza è nata Bioplanet, azienda che alleva e fornisce sia insetti utili per la difesa biologica delle colture sia insetti impollinatori necessari per aumentare la produzione di frutta e verdura ed evitare inutili ormoni o altri agenti chimici che poi, in qualche modo, anche se in piccole quantità, ritornano all’uomo attraverso la catena alimentare o l’ambiente.
Bioplanet, nella sua proposta alternativa alla chimica in agricoltura e più vicina ai meccanismi regolatori della natura, oltre agli insetti predatori e a quelli parassitoidi di quelli dannosi offre anche trappole fisiche, ferormoni di confusione sessuale e batteri per la lotta alle malattie fungine.
Un unico rischio legato ad un tale tipo di attività, sul quale è necessario prestare attenzione, è quello di introdurre in un dato ambiente animali estranei che possano mettere in difficoltà la sopravvivenza di quelli autoctoni.