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Wake Up Call
Ho già scritto qualche tempo fa di Steve Cutts, genio inglese della computer animation che, con il video “Man”, aveva fatto luce in maniera molto dura ed efficace sulla potenza distruttiva dell’uomo.
Con il video”Wake Up Call”, che di Man in qualche modo è l’ideale prosecuzione, Steve Cutts desidera lanciare un monito sulle conseguenze negative che il consumismo sfrenato – soprattutto quello legato alla tecnologia a rapida obsolescenza – può avere sull’ambiente. Nei pochi minuti del video (dalle solite caratteristiche stilistiche molto essenziali) l’autore riesce, in una sintesi molto precisa, a parlare di sfruttamento eccessivo delle risorse minerarie, di sfruttamento dei lavoratori impegnati nel settore tecnologico, di rifiuti, di obsolescenza programmata, di consumismo e di salvaguardia dell’ambiente. E, in qualche modo, di stupidità dell’uomo.
Semplicemente geniale.
Gli inceneritori dello “Sblocca Italia”
In agosto, finché eravamo quasi tutti in ferie o in vacanza, nel torpore per il gran caldo e nella generale distrazione dovuta alla voglia di rilassarsi e divertirsi, il Governo – maliziosamente come fa di solito quando si tratta di far passare norme che i cittadini normalmente non vogliono – ha proposto, in un decreto attuativo dell’art. 35 della legge cosiddetta “Sblocca Italia” (1), di far aprire 10/12/18 (il numero ancora incerto non è importante) inceneritori nelle varie regioni italiane. Non si tratterebbe solo di un’apertura verso questa forma di trattamento dei rifiuti che le regioni, nel loro processo decisionale autonomo devono poi vagliare ma, piuttosto, di un vero e proprio obbligo nei loro confronti. Prendere o lasciare!
Per comprendere l’assurdità della proposta ministeriale nel contesto di un mondo serio che va in tutt’altra direzione, qualche settimana fa il giornale Il Fatto Quotidiano ha pubblicato l’intervista a Enzo Favoino, ricercatore presso la Scuola Agraria del Parco di Monza ed esperto che lavora con le istituzioni europee e con diversi governi nazionali nella definizione delle migliori strategie nel settore della gestione e del trattamento dei rifiuti. Favoino, che non è aprioristicamente del tutto contrario all’incenerimento dei rifiuti, osserva che tale pratica richiede molte risorse finanziarie, ben quattro volte superiori rispetto a quelle necessarie per il funzionamento degli impianti “a freddo”. Il motivo è dovuto al fatto che gli impianti, essendo molto costosi, necessitano di continui apporti di rifiuti per poter funzionare tantoché le amministrazioni pubbliche, per non dilapidare denaro, sono costrette a rallentare i programmi di espansione della raccolta differenziata. Molto meglio dell’incenerimento dei rifiuti – osserva sempre Favoino – sarebbe il trattamento a freddo degli stessi con recupero di materia attraverso sistemi di selezione e stabilizzazione biologica. Da essi si otterrebbe:
- dalla frazione organica compost pulito da riutilizzare in agricoltura;
- dal residuo materie prime (carta, plastica, metalli, vetro) da reimpiegare nelle attività produttive ed eventualmente, per la piccola parte che rimane, materiale da avviare all’incenerimento o alla discarica.
Dato il loro costo minore gli impianti di trattamento a freddo consentono anche di modulare politiche di espansione della raccolta differenziata a monte, cioè effettuata già da parte dei cittadini.
Una delle critiche (ingiuste) al trattamento a freddo dei rifiuti è che esso non consente di evitare le discariche. Spiega sempre Favoino che anche l’incenerimento dei rifiuti ha bisogno di discariche perché le ceneri (circa il 30% del totale) e le scorie intercettate dai camini – tra l’altro molto nocive – da qualche parte devono pur essere messe. Per evitare la discarica, invece, sarebbe necessario e possibile potenziare la raccolta differenziata a monte, sviluppare programmi di riduzione nella produzione dei rifiuti, introdurre sistemi di tariffazione puntuale (si paga in base a quello che effettivamente si produce in termini di peso). Tutte cose che l’incenerimento dei rifiuti non si propone affatto di fare nella logica della sua avidità bulimica di enormi quantità di materiali da bruciare.
La giusta soluzione per la gestione dei rifiuti, ben spiegata dagli esperti, è piuttosto semplice e in parte (es. la raccolta differenziata) è già stata da tempo avviata. Mi chiedo solo una cosa: o le figure politiche che continuano a propinarci vecchie e inutili soluzioni sono incapaci e devono essere subito sostituite oppure dietro di loro hanno qualcuno che fa prendere loro le decisioni sbagliate. Ed è ancora peggio!
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(1) Il D.L. del 12 settembre 2014, n. 133 lo hanno chiamato “Sblocca Italia” a significare che si tratta di una politica “del fare” contraria al vecchio immobilismo del passato e ai sistemi troppo democratici. Se poi se si tratta, in alcuni aspetti, anche di “fare male” o di “fare per gli amici” (vedi semplificazioni infrastrutturali, edilizie, estrazioni petrolifere, produzione energetica dai rifiuti e altro) questo non è un grosso problema e chi paga sono sempre i poveri cittadini inermi che subiscono scelte che non vanno a loro vantaggio!
Per approfondire:
Pizzarotti scrive a Renzi: “Se si segue il modello Parma si chiudono gli inceneritori”
Patrizia Gentilini: “Sbocca Italia e inceneritori, dove sta la coerenza con le politiche europee?”
L’insostenibilità delle stampanti 3D
Si sente parlare, sempre più spesso, delle stampanti 3D e della “quarta rivoluzione industriale” che esse potranno avviare. Ne parla ovviamente in tono entusiastico l’industria tecnologica attraverso i suoi numerosi canali informativi. Ne parla il giornalismo economico che spera in un nuovo effetto di spinta all’economia, tipo quello che è successo con i computer, con i telefoni cellulari e con gli smartphone. Ne parla anche la politica, soprattutto quando si tratta di affrontare temi legati alla creazione di posti di lavoro e di comunicare, ad un certo elettorato, anche i possibili effetti positivi nei confronti dell’ambiente.
Siamo sicuri, però, che le stampanti 3D siano la panacea di tutti i mali che affliggono la società dei consumi e siano la vera soluzione a tutti i problemi di insostenibilità industriale? Siamo sicuri che saranno veramente in grado di rendere disponibili a tutti le tecnologie, soprattutto quelle costose che interessano il campo medico e ingegneristico? Siamo sicuri che saranno in grado di creare occupazione ma, soprattutto, di limitare la produzione di rifiuti e di costruire quella tanto agognata economia dal basso a cui fa riferimento anche il movimento ambientalista? Io, personalmente, e in particolare relativamente agli obiettivi di sostenibilità ambientale, manifesto numerosi dubbi (1).
Innanzitutto le stampanti 3D – per lo meno la tecnologia attualmente disponibile – riescono ad ottenere i vari prodotti attraverso l’uso di materiali di natura petrolifera (come le plastiche) e di resine sintetiche varie che nulla hanno a che fare con la sostenibilità ambientale. Questi materiali, a fine vita dei prodotti, produrranno rifiuti difficilmente riutilizzabili e riciclabili che dovranno essere correttamente gestiti e smaltiti. E, anche quando le stampanti 3D producono beni in metallo, utilizzano una risorsa non rinnovabile ed esauribile, con tutte le conseguenze ecologiche che questo comporta.
A mio avviso il vero problema dell’economia dei consumi – che utopisticamente si spera di risolvere attraverso un demiurgo tecnico, una nuova soluzione creatrice qual è la stampante 3D – è rappresentato, invece, più banalmente, dalla responsabilità personale e dai comportamenti individuali. La vera soluzione non sta nel far produrre in modo diverso prodotti che incorporano dei vecchi problemi ma produrre, anche con le vecchie tecnologie, prodotti che incarnino un approccio completamente nuovo alla progettazione e all’uso dei materiali. La vera soluzione è ripensare anche alla vera utilità individuale e sociale dei beni ed educare i cittadini sia ad un’idea di sobrietà nei loro consumi – molto spesso inutili – sia a fare uso di prodotti che siano già stati usati e, magari, anche già più volte riparati. In questo modo si potrebbe creare una nuova economia, sì certo, apparentemente più semplice, ma che, nello stesso tempo, è più condivisa e che armonizza la società diffondendone i saperi.
Non si tratta affatto di pensare che il passato fosse tutto positivo e che la modernità sia per forza un male. Non si tratta nemmeno di anelare ad una condizione umana fatta di precarietà e di sole limitazioni. Si tratta solo di riprogettare il futuro traendo spunto anche dal passato e da quello che di buono è stato prodotto. Dai miei numerosi viaggi ho visto che l’economia dei popoli “poveri” (2) – al netto dei problemi che devono essere senza dubbio risolti – può rappresentare anche un interessante spunto da prendere in mano e da rivisitare in una nuova e interessante chiave applicativa.
Sulla base di ciò delle stampanti 3D che producono oggetti inutili (fino ad arrivare a produrre anche sé stesse) e che, date le attuali premesse, ripeteranno i problemi del passato, possiamo sinceramente volentieri farne a meno!
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(1) I dubbi li manifesto non perché sono contro le stampanti 3D a prescindere ma pechè desidererei che venissero impiegate veramente nella direzione che molti hanno sperato: quella della sostenibilità ambientale e dell’armonia sociale.
(2) La “povertà” a cui faccio riferimento non è un valore assoluto ma è un concetto esclusivamente monetario. Purtroppo mi serve per descrivere, ai nostri occhi “occidentali”, un determinato contesto economico e sociale anche se sono convinto che quelli che genericamente indichiamo come popoli “poveri” non lo siano veramente ma, anzi, che, forse forse, i veri “poveri” (di empatia, di solidarietà, di senso di comunità, di sentimenti, di semplicità) siamo noi.
Per l’EEA l’innovazione ecologica sarà la leva per la competitività europea
Mentre la nostra politichetta nazionale e la nostra economia da quattro soldi bucati si scervella su come aumentare le trivellazioni di petrolio, su come impiegare il carbone, su come finanziare gli inceneritori, su come fare buchi (cave) e riempire tutti i pori liberi del territorio di cemento, nel suo rapporto “Resource-efficient green economy and EU policies” l’Agenzia Europea per l’Ambiente (European Environment Agency – EEA) osserva, invece, che la green economy è, attualmente, l’unico approccio strategico che consenta ad una società più giusta di vivere in un ambiente migliore. Secondo l’EEA l’approccio della green economy consente di raggiungere tre obiettivi:
- Contribuire al miglioramento nell’uso efficiente delle risorse
- Assicurare la resilienza degli ecosistemi
- Ottenere una società più equa.
Come fa notare il Rapporto dell EEA, durante la crisi finanziaria del 2008, la green economy si dimostrò essere l’approccio che fu in grado di risolvere due importanti problemi: il generale rallentamento dell’economia e la conseguente perdita di posti di lavoro; il continuo deterioramento dell’ambiante naturale, particolarmente evidente nell’ambito dei cambiamenti climatici e nel degrado degli ecosistemi. Questo doppio risultato spinse gli Stati europei a cercare di sviluppare politiche di recupero basate sulla green economy. Tuttavia – e purtroppo, dico io – mentre l’obiettivo politico si preoccupava, contemporaneamente, anche della salvaguardia degli aspetti fiscali e alla gestione degli enormi debiti pubblici, il concetto della green economy iniziò a perdere la propria forza all’interno di politiche macroeconomiche solo di breve periodo.
Come spiega Hans Bruyninckx, il direttore esecutivo dell’EEA: “L’innovazione può essere lo strumento più importante per cambiare il modo inefficiente con il quale attualmente utilizziamo le risorse. L’innovazione ambientale è la chiave per affrontare le sfide del 21° secolo. Se vogliamo vivere bene entro i limiti ecologici del pianeta avremo bisogno di affidarci all’inventiva dell’Europa. Non solo nuove invenzioni, però, ma soprattutto incoraggiare l’adozione e la diffusione di nuove tecnologie verdi (eco-tecnologie), scelta che potrebbe rivelarsi essere ancora più importante”.
Sempre Hans Bruyninckx osserva: “Un’altra leva per migliorare l’efficienza delle risorse potrebbe essere rappresentata dalla riduzione delle tasse sul lavoro come l’imposta sul reddito e, piuttosto, tassare l’uso inefficiente delle risorse e l’inquinamento ambientale. Tali imposte ambientali potrebbero promuovere la creazione di nuovi posti di lavoro, dal momento che si osserva che i Paesi con le tasse più alte nel settore ambientale sembrano avere un’economia e una competitività migliore rispetto agli altri”.
Sulla base di queste autorevoli affermazioni mi chiedo cosa ci voglia ancora per convincere i nostri rappresentanti che l’unica strada per recuperare la competitività e creare lavoro sia quella della green economy e del capitalismo naturale.
Il funerale di Windows XP
Oggi, 8 aprile 2014, sarà l’ultimo giorno di vita del sistema operativo Windows XP e, a partire dalla mezzanotte, non ci saranno più aggiornamenti di sicurezza e il software sarà, entro breve, destinato inesorabilmente a morire. Troppo elevato è infatti il rischio che il computer possa essere esposto a rischi di crash o, peggio, ad attacchi di virus che ne possano compromettere definitivamente la funzionalità.
Attualmente si stima che il sistema operativo XP sia ancora utilizzato da quesi il 30% degli utenti che si collegano a internet, ovvero poco meno di 600 milioni di persone nel mondo.
Secondo le indicazioni di Windows questi “quattro gatti” hanno due sole possibilità:
- buttare il loro PC (magari ancora perfettamente funzionante) e comperarne uno nuovo che abbia già preinstallato Windows 8.1;
- Comperare la licenza di Windows 8.1, da installare sul vecchio PC ad esso compatibile.
In sostanza si tratta della cosiddetta “obsolescenza programmata“, una pratica assurda sulla quale, in Italia, ci sono state delle interessanti proposte di legge ma che non è ancora stata disciplinata con chiarezza da un punto di vista normativo. Nell’ambito del settore informatico essa consente ad un qualsiasi imprenditore di prendere una decisione… et voilà, in poco tempo, circa 600 milioni di macchine, inquinanti e che hanno richiesto notevole energia e materie per essere prodotte (spesso addirittura ancora perfettamente funzionanti), devono essere mandate al macero per far posto ad altre 600 milioni di macchine che in pochi anni saranno obsolete e dovranno essere buttate per far posto ad altre macchine che…
L’alternativa a questa abberrante politica industriale che minaccia seriamente la sostenibilità dell’industria e che dimostra la stupidità dei comportamenti umani è quella di usare software libero, slegato dai brevetti e dalle licenze d’uso a pagamento, sia come sistema operativo (ad es. Linux-Ubuntu) sia come gestore di altre applicazioni (es. Libre Office per il pacchetto “ufficio”). Ciò consente di far durare a lungo il PC pur avendo gli stessi servizi forniti dai software a pagamento che, invece, nella logica del consumismo, li rendono prematuramente obsoleti.
Io, ad esempio, che sono passato al software libero qualche anno fa quando Windows 2000 mi è andato definitivamente in crash, sto utilizzando ancora un vecchio IBM X40 del 2003 sia per i miei svaghi che per ragioni professionali. Il PC funziona bene ed è sufficientemente veloce, ma lo avrei buttato già da qualche anno se non avessi seguito la strada del software libero.
P.S. Per info sul software libero e sull’uso di vecchi PC perfettamente funzionanti eventualmente contattare l’Associazione OS3 di Verona.
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Foto: la tastiera oramai consunta del mio PC IBM X40
Il GSE certifica l’aumento dell’energia da fonti rinnovabili
Il dato, limpido e trasparente, è certificato dal GSE (Gestore Servizi Energetici): in 5 anni (dal 2008 al 2012) il consumo interno lordo (1) di energia da fonti rinnovabili è passato dal 16,5% al 27,1%. Un incremento del 10,6% che dimostra – a dispetto dei “soliti” detrattori che in più occasioni hanno detto maliziosamente un mucchio di falsità e fornito dati sbagliati – come l’investimento da parte dello Stato nell’ambito dell’energia pulita, anche attraverso gli incentivi, sia stato estremamente positivo ed abbia dato buoni frutti.
Tali positività sono rappresentate, in primis, dal minor impatto sull’ambiente (meno CO2, meno inquinamento da combustione). Inoltre sono anche da valorizzare:
- i minori sprechi (i piccoli impianti sono più efficienti e dissipano meno calore);
- la maggiore distribuzione della produzione con conseguenti benefici sulla manodopera e sul lavoro;
- la migliore gestione della rete di distribuzione.
Il totale di energia prodotta da fonti rinnovabili nel 2012 è stato di 92.222 GWh con una potenza installata di 47.345 MW. La prima fonte è l’idroelettrico; seguono solare, eolico, bioenergie e geotermico.
L’idroelettrico – si legge dai dati diffusi dal GSE – ha raggiunto nel 2012 una produzione di 41.875 GWh. Il solare è arrivato a sfiorare i 19.000 GWh, (18.862 GWh). L’energia eolica ha toccato i 13.407 GWh, quella delle bioenergie i 12.487 GWh e la geotermica a 5.592 GWh. Per quanto riguarda la potenza installata, l’idroeletrico nel 2012 è arrivato a 18.232 MW, il solare a 16.420 MW, l’eolico a 8.119 MW, le bioenergie a 3.802 MW, la geotermica a 772 MW.
In tutti questi numeri il dato più interessante è rappresentato dal solare che in 5 anni è passata da una produzione di 193 GWh a 18.862 GWh. Non male per una tecnologia nuova che, anche se fortemente e a volte male incentivata, sta dando filo da torcere a una produzione pluricollaudata come quella idroelettrica.
Mi sa proprio che Bioimita ha ragione quando afferma che il “Progresso è imitazione della natura”.
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(1) Produzione lorda di energia + Saldo estero – Produzione da pompaggi
Open Source Ecology
L’Open Source Ecology (OSE) è un movimento fondato negli USA da Marcin Jakubowski che si propone di creare, attraverso il coinvolgimento di diversi attori del mondo produttivo (imprenditori, ingegneri, designer, agricoltori e attivisti), una rete di competenze che diano origine ad un’”Open Source Economy”. In sostanza l’obiettivo è quello di far condividere, a livello mondiale, sia conoscenze tecniche che metodologie produttive oppure addirittura progetti di macchine e prodotti con lo scopo di consentirne il libero utilizzo a tutti senza copyright. Chiunque può poi apportare modifiche migliorative e, a sua volta, condividerle in un processo senza fine. In tal modo si riesce ad intraprendere un importante percorso verso la sostenibilità ambientale ed economica perché si libera il sistema produttivo dai monopoli e dai vincoli di riservatezza che frenano, tra le altre cose, anche l’evoluzione ecologica delle produzioni e dei prodotti.
Chi scopre un nuovo processo, un nuovo prodotto o una nuova macchina e desidera aderire all’Open Source Ecology, anziché operare per proteggere con marchi e brevetti la propria invenzione esclusiva, ne libera i contenuti in rete consentendone ad altri sia il pieno utilizzo che possibili interventi migliorativi i quali, a loro volta, dovranno essere condivisi in una catena infinita.
I benefici di tale pratica non consistono nella vendita dei diritti all’utilizzo o nell’esclusività produttiva che, di fatto, bloccano per lungo tempo il progetto, ma consistono in una condivisione del sapere e nel fatto che chi crea può disporre di una rete enorme, distribuita a livello mondiale, di “collaboratori”.
Gran parte dei benefici di tale pratica possono essere sia di tipo economico che ecologico. I primi si hanno perché i miglioramenti progressivi cercano sempre di diminuire i costi di produzione nonché potenziare l’efficienza e la razionalità nell’uso delle risorse. Quelli di tipo ecologico, direttamente collegati ai primi, si muovono anche nella dimensione etica per far sì che le macchine e i prodotti abbiano, in generale, il sempre minor impatto sull’ambiente.
L’Open Source Ecology non è una novità assoluta ma è figlia di altre famose pratiche di open source, già da tempo ben avviate e operative. Nel campo dell’informatica, ad esempio, famoso è il sistema operativo Linux oppure WordPress, operante nell’ambito della progettazione dei siti internet. Nel campo della cultura, invece, famosa è l’enciclopedia libera Wikipedia. Tutti strumenti che, in qualche modo, hanno potuto dare un importantissimo contributo sia all’economia che allo sviluppo e al progresso della società. Visto che funziona in ambito informatico e culturale, perché non dovrebbe funzionare, allora, anche in ambito tecnico?
Bioimita aderisce e sostiene pienamente l’Open Source Ecology perché ritiene che la condivisione delle idee e delle tecnologie possa essere il vero braccio operativo per l’applicazione dei suoi principi.
Per approfondimenti:
Le lampade a LED ci rubano il sonno
L’illuminazione artificiale – sia quella pubblica disseminata sul territorio sia quella privata presente nelle case – rappresenta un’importante causa di privazione del sonno che può avere conseguenze importanti sulla salute in generale. Si va dal maggior rischio di obesità e diabete a causa del fatto che la veglia prolungata induce a mangiare di più, ben oltre le necessità energetiche dell’organismo; si arriva al maggior rischio di avere problemi di natura neurologica e comportamentale, come la scarsa attenzione, concentrazione e apprendimento fino ad arrivare all’incremento dello stato di ansia e di depressione. Si giunge infine anche al rischio di avere malattie cardiocircolatorie come infarti e ictus. Insomma dormire è molto importante per una vita sana tanto che si possono avere effetti importanti anche sul sistema immunitario.
In generale la scienza ha osservato che stare svegli più a lungo altera l’espressione di centinaia di geni che incidono fortemente sul benessere e sulla salute delle persone. E le lampade a LED, che vengono considerate un’importante soluzione in termini di efficienza energetica, potrebbero anche peggiorare la situazione.
La luce a LED bianca è, infatti, ricca delle componenti blu-verde dello spettro luminoso che sono proprio quelle a cui sono più sensibili le cellule gangliari della retina che trasmettono al cervello le informazioni relative al ritmo sonno-veglia (ritmo circadiano). Il risultato sarà allora il seguente: l’illuminazione artificiale (in particolare quella a LED, compresi i televisori e i computer che si basano sempre di più su questa tecnologia) segnalerà sempre di più al nostro cervello che non è ancora giunta l’ora di dormire con la conseguenza di farci perdere ogni giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, preziose ore di sonno.
La soluzione, già all’attenzione dei progettisti e dei produttori, potrebbe essere quella di correggere la componente blu-verde delle luci a LED con un’emissione più orientata verso la tonalità giallo-arancio.
Si deve però osservare il fatto che un’importante contributo al mantenimento della salute non si può delegare solo alla tecnica ma deve far parte anche di un atteggiamento di maturità critica e culturale delle persone che, da un lato, le porta ad avere rispetto per il riposo anche attraverso l’elaborazione di un senso del limite per la veglia e per l’eccessiva illuminazione delle case e, dall’altro, le spinge a richiedere una minore quantità di illuminazione pubblica.
Le problematiche in discussione evidenziano il fatto che i fenomeni che riguardano gli equilibri ecologici e quelli del benessere psico-fisico delle persone sono estremamente complessi e che lavorare solo in un unico ambito (nel caso delle lampade a LED sul solo versante della mera efficienza energetica) può far perdere di vista l’obiettivo di ottenere miglioramenti che riguardino entrambi gli aspetti.
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Fonte: “Le Scienze”
TOSA | Autobus elettrico
TOSA (Trolleybus Optimisation Systeme Alimentation) è il primo autobus a grande capacità di trasporto 100% elettrico che non necessita della linea aerea di contatto. Sviluppato in Svizzera da OPI (l’Ufficio per la promozione di Industrie e Tecnologie) – che funge da coordinatore – da ABB (che fornisce la tecnologia), da SIG Ginevra (distributore di energia) e TGP (società di trasporto pubblico di Ginevra), l’autobus è dotato di un sistema di ricarica rapida che non prevede arresto del mezzo ma che avviene direttamente alle fermate in pochi secondi, circa 15. In pratica, fintantoché le persone salgono e scendono alle fermate, un braccio mobile a controllo laser si connette al mezzo e gli fornisce energia sufficiente per raggiungere la fermata successiva dotata di dispositivo di ricarica. Il tempo di carica è così rapido che non interferisce con l’orario degli autobus. Inoltre migliora l’ambiente e il paesaggio urbano per l’assenza di linee aeree e garantisce, al gestore dei trasporti pubblici, maggiore flessibilità nella scelta dei percorsi rispetto ad un tram o autobus elettrico tradizionale. Una parte dell’energia viene inoltre recuperata, come nella tecnologia “ibrida”, in fase di frenata del veicolo.
L’energia è poi stoccata in batterie di accumulo posizionate sul tetto che forniscono ad un autobus di 133 posti totali l’autonomia necessaria per circolare in città senza produrre inquinamento e rumore.
Ovviamente l’autobus è a zero emissioni di carbonio (CO2) se l’energia elettrica che lo alimenta viene prodotta da fonti rinnovabili.
Per ora si tratta di un prototipo messo in strada per effettuare dei test sul campo ma può rappresentare un ottimo punto di partenza per rivoluzionare i trasporti pubblici e i mezzi che li caratterizzano, oramai entrambi obsoleti.
Mi auguro che anche il sindaco della mia città – Verona – riesca a cogliere questa opportunità e si muova per realizzare un sistema di trasporto pubblico urbano all’avanguardia.
Lampione. Ma quanto ci costi?
Quanto ci costa, in termini economici e in termini di inefficienza energetica, illuminare le nostre città di notte?
Per tenere accesi lampioni e semafori le amministrazioni italiane spendono oltre 1 miliardo di euro l’anno, pari a circa 20 euro per ogni abitante del Bel Paese. Secondo l’ENEA (Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile) le luci stradali notturne consumano circa il 12% di tutta l’energia impiegata per l’illuminazione in generale. Gran parte viene utilizzata per i lampioni (90%) mentre una minima parte va a finire nei semafori (10%).
Al di là dell’aspetto economico (ad es. un Comune di 10.000 abitanti spende indicativamente 200 mila euro l’anno), ciò che questi dati dimostrano è l’inefficienza energetica e gli sprechi che tale pratica incarna, spesso dovuta a vecchie tecnologie, a mancati investimenti, a incapacità della classe politica di fare delle scelte adeguate, all’idea della sicurezza cavalcata da alcuni movimenti ideologici, alla pratica elettorale di accontentare tutti i cittadini (anche quelli che vivono in luoghi isolati) per ottenere voti e consenso.
I risultati, dopo decenni di mediocrità generalizzata, sono i seguenti: in Italia vi è un consumo annuo di energia pro capite per illuminazione pubblica pari a 105 kWh, più del doppio rispetto a quello della Germania che si attesta intorno a 42 kWh. Punto!
Per invertire la rotta e consentire risparmi generalizzati, tanto salutari sia per i bilanci comunali (e indirettamente per diminuire la pressione fiscale) che per la sostenibilità ambientale ottenuta attraverso l’efficienza energetica, sarebbe necessario iniziare da subito ad applicare le seguenti iniziative:
- razionalizzare la quantità di lampioni a quelli strettamente necessari (*);
- migliorare i corpi illuminanti dei lampioni installando tecnologie meno energivore;
- applicare tecnologie di controllo dei lampioni che consentono di regolare l’intensità dell’illuminazione sia sulla base dell’ora della notte (in piena notte è meno necessario illuminare) che al traffico di auto e dei pedoni presenti;
- impiegare maggiormente tecnologie a pannelli fotovoltaici con sistemi di accumulo dell’energia per consentirne utilizzi notturni.
«Si stima che con l’attuazione di interventi idonei a rendere il sistema più efficiente – spiega Giovanni Lelli, commissario ENEA – si possano ridurre i consumi del 30%, con una diminuzione consistente del fabbisogno di energia che comporterebbe un risparmio economico di circa 400 milioni di euro ogni dodici mesi».
È vero che dobbiamo riformare i costi della politica e della “casta”, ma i veri danni che i cattivi amministratori fanno sono più quelli che paralizzano l’innovazione e l’efficienza attraverso scelte senza senso o, peggio, fatte solo nell’ottica di aiutare gli amici degli amici degli amici.
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(*) l’illuminazione notturna necessaria è quella urbana e quella agli incroci che consente sicurezza a pedoni biciclette, mentre è del tutto superflua quella sulle strade secondarie.
ll parco eolico autostradale
Qualche anno fa, percorrendo frequentemente l’autostrada A4 per motivi di lavoro, ne vedevo un prototipo installato non lontano da un cavalcavia. Dopo una prima fase di dubbio nella quale mi chiedevo cosa fosse, ho capito che la strana turbina verticale che ruotava al passaggio del traffico non poteva essere che un’originale strumento per la produzione di energia elettrica.
In effetti, come riporta “la Repubblica”, l’idea è venuta nel 2010 a tre amici durante una cena a Verona (la mia città) dove hanno immaginato di produrre energia in un modo particolare, cioè sfruttando quel fastidioso (e pericoloso) spostamento d’aria prodotto dal traffico autostradale, in particolare quello dei camion.
Dopo 3 anni di sperimentazioni i risultati sono stati abbastanza incoraggianti ed ENEL ha deciso di investire 250 mila euro nella ATEA, la start-up di Giovanni Favalli, Stefano Sciurpa e Gianluca Gennai, con l’impegno di investirne altri 400 mila qualora i risultati si rivelino positivi. In particolare il prototipo iniziale, costituito da una turbina dalla potenza nominale di 2,2 kW e un diametro di vela di 1,2 m, ha prodotto giornalmente 9 kWh di energia che, dopo alcune modifiche intervenute, è arrivata a 12 kWh. Il che equivale a dire che, in circa 250 giorni utili di produzione, sia stato soddisfatto il fabbisogno annuale di una famiglia media.
Il passo successivo sarà quello di sperimentare una turbina più potente da 9,2 kW e, se i risultati saranno buoni, quello di installare un piccolo parco eolico autostradale costituito da 10 pale eoliche a 50 m l’una dalle altre.
L’obiettivo è naturalmente quello di sfruttare l’energia cinetica prodotta dallo spostamento d’aria degli automezzi che sfrecciano in autostrada (1) (un’energia che altrimenti andrebbe sprecata) per azionare il moto rotatorio di una turbina ad asse verticale e, in tal modo, produrre energia elettrica “eolica”. L’idea, anche se non risolverà la fame di energia del mondo moderno, è molto buona per le seguenti ragioni:
- sfrutta un’energia, quella cinetica, che in sé può essere definita “pulita”
- sfrutta un’energia che altrimenti andrebbe perduta
- alimenta la rete con un’energia prodotta da una fonte alternativa rispetto a quelle già impiegate (maggiori sono le fonti maggiore sarà la sicurezza di approvvigionamento)
- sviluppa un sistema tecnico-economico locale, fatto soprattutto di conoscenza.
Anche se l’idea non è del tutto nuova speriamo che il progetto possa proseguire nel suo cammino evolutivo e non trovi troppe resistenze (soprattutto da parte di qualche lobby) perché, anche se limitato, rappresenta pur sempre una goccia che, assieme a molte altre, contribuisce a costruire l’oceano (della sostenibilità).
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(1) Dati statistici del 2010 ponevano l’Italia al secondo posto in Europa per volume di traffico circolante sulla rete stradale e autostradale.
BIQ House: la casa di alghe
Ad Amburgo, nell’ambito dell’International Building Exibition (IBA), Arup ha creato la “BIQ House”, il primo edificio al mondo alimentato totalmente dalla bioenergia prodotta dalle alghe.
In sostanza si tratta di un moderno edificio dotato, sulle facciate poste a sud-ovest e a sud-est, di bio-reattori costituiti da 129 pannelli in vetro riempiti di microalghe. Esse, esposte alla luce, innescano il processo di fotosintesi clorofilliana che permette sia di produrre l’energia termica che alimenta le necessità dell’edificio sia di produrre biomassa che consente di produrre biogas ed energia elettrica nonché di isolare lo stesso edificio dal sole. A seconda delle condizioni climatiche e della stagione cambiano le esigenze dell’edificio che, attraverso gli organismi che lo compongono, si comporta anch’esso come una sorta di organismo vivente. Quando c’è molta luce le alghe cresceranno molto e molto in fretta e produrranno una grande massa ombreggiante isolante dal calore, mentre quando la luce sarà poca le alghe cresceranno limitatamente e consentiranno ai raggi solari di riscaldare l’edificio.
A seguito del prototipo BIQ House Arup prevede che gli edifici di un futuro non troppo lontano assomiglieranno a dei veri e propri organismi viventi dotati di sistemi biologici in grado di autoregolarsi in base al clima e realizzati per consentire un importante risparmio delle risorse naturali del pianeta. Avremo probabilmente edifici in grado di assorbire la luce solare sia per produrre calore che energia.
Forse la BIQ House non sarà proprio ancora del tutto autonoma in termini energetici e forse risulta un po’ troppo macchinosa la produzione del metano dalla biomassa di alghe. Essa però rappresenta comunque un interessante esercizio nell’ottica della bioimitazione e dello sfruttamento di tecnologie pulite che deve essere ulteriormente testato, sviluppato e migliorato affinché, in un prossimo futuro, la tecnologia della biochimica possa essere utilizzata nella produzione e nelle applicazioni di massa.
Per la costruzione della BIQ House Arup ha collaborato con la tedesca Colt International che ha prodotto i bio-reattori, con la tedesca SSC Strategic Science Consult e con lo studio di architettura Splitterwerk di Graz, in Austria.
Due cose certe
Due cose sono certe: che l’Homo sapiens si estinguerà e che la natura, magari con caratteristiche mutate rispetto alle attuali, gli sopravviverà ancora a lungo.
Sul fatto che l’uomo si estinguerà, analizzando i dati paleontologici, non ci sono dubbi: i mammiferi sono una specie che, dopo la scomparsa dei grandi rettili avvenuta circa 65 milioni di anni fa, ha trovato enormi nicchie ecologiche a disposizione ma ha caratteristiche fisiche troppo vulnerabili, ad esempio rispetto agli insetti, con limitate capacità di adattamento a situazioni estreme, soprattutto se in repentino cambiamento. Lo scopo è pertanto quello di evitare che tale estinzione si verifichi entro breve ma, soprattutto, che si verifichi troppo velocemente tanto da non poterci permettere di adottare iniziative di adattamento. Ecco perché ci si preoccupa dei cambiamenti climatici, della scarsità delle risorse non rinnovabili, della scarsità dell’acqua dolce e chi più ne ha più ne metta…
Sul fatto poi che la natura sopravviverà all’uomo – almeno per qualche milione di anni ancora – ciò è dimostrato dalle 5 grandi estinzioni di massa della storia della vita del Pianeta. Qualche specie – le più resistenti – sopravvive a un grande evento perturbatore che determina estinzioni di massa e da lì, attraverso mutazioni delle caratteristiche fisiche, riparte la vita che inizia a colonizzare le aree lasciate libere dalle specie estinte.
Se vi è certezza – almeno alle conoscenze attuali – sui due punti precedenti, incerti sono invece gli strumenti che l’uomo dovrà (o potrà) mettere in campo per evitare che venga a mancare troppo presto uno degli scopi principali della biologia (e della vita): la sopravvivenza della specie! O, per lo meno, vista in termini più sociali, la difesa e la maggiore diffusione dei livelli di benessere e civiltà che una parte degli esseri umani ha raggiunto.
Una parte dell’opinione scientifica e intellettuale ritiene che tale difesa possa avvenire solo ed esclusivamente attraverso una sempre più forte ingegnerizzazione della natura. Ecco allora proposte come gli OGM, le nanotecnologie, la geoingegneria e l’uso di tecnologia sempre più spinta: una sorta di ubriacatura tecnologica senza fine che alimenta sé stessa e che può essere realizzata solo attraverso l’immissione nel “sistema” di enormi quantitativi di energia.
Un’altra parte del pensiero, invece, è fermamente convinta che l’obiettivo della sopravvivenza possa passare solo ed esclusivamente attraverso l’imitazione della natura e delle regole del gioco che essa ha determinato per la vita sul pianeta Terra. Ecco che quindi risulta necessario studiarne a fondo i meccanismi e applicarli a tutte le attività umane allo scopo di renderle il meno impattanti possibile sui precari equilibri della Terra.
Personalmente non ho dubbi e credo che solo la bioimitazione potrà darci la speranza di una prospera e duratura sopravvivenza. Al contrario la tecnologia, come affermò il filosofo Paolo Rossi, talvolta per difetto di conoscenza e altre volte per presunzione di assoluta veridicità, “Quando risolve un problema ne apre altri dieci, ancora più complessi”.
Foto: Wikipedia
Bioimita: nascita di una consapevolezza culturale
Dal mio punto di vista è impressionante vedere come le discipline scientifiche che si occupano di ecologia, i movimenti ambientalisti, il giornalismo scientifico, alcuni intellettuali e imprenditori “illuminati” si prodighino da anni (almeno 30 e forse più) a scrivere dei problemi ecologici, sempre più chiari, che affliggono il Pianeta e le comunità umane che in esso vivono.
Vista questa enorme mole di informazioni teoriche si potrebbe ipotizzare che le cose stiano progressivamente migliorando. Invece, nonostante tutti questi sforzi, al di là di qualche lieve miglioramento in ambiti circoscritti, i principali dati che attestano la salute della Terra – anche perché sempre più precisi e accurati – sono sempre più negativi e non ci fanno ben sperare per il futuro. Il cambiamento climatico accelera; la disponibilità di cibo e di risorse (sia rinnovabili che non rinnovabili) scarseggia, i rifiuti aumentano, la biodiversità diminuisce, la popolazione mondiale cresce, gli ecosistemi sono fortemente sotto pressione, la ricchezza è sempre meno equamente distribuita…
Le soluzioni a tutto ciò possono avere due origini: una politico-giuridica che impone leggi, regolamenti, sanzioni e responsabilità; l’altra, economica, che si muove nell’ambito della produzione e dei consumi.
Se la prima è coercitiva, cioè obbliga a determinati comportamenti indipendentemente dalla volontà, la seconda nasce da scelte critiche individuali, maturate nel contesto di una consapevolezza culturale.
Bioimita si vuole preoccupare di questa seconda sfera e, allo scopo, propone, all’interno di un alveo di principi ben definiti, un percorso culturale di approfondimento attraverso il proprio blog e un percorso pratico dove consiglia prodotti e servizi già presenti sul mercato che consentono di intraprendere concretamente, attraverso scelte di consumo, una via verso la sostenibilità ambientale. Il punto di partenza è che le soluzioni non debbano essere il frutto di chissà quale tecnologia o di chissà quale manipolazione ingegneristica della biologia o della materia ma debbano essere ricercate nel luogo più ovvio: la natura stessa.
Nella consapevolezza che il percorso non è lineare e che le cose da studiare e da scoprire sono ancora molte Bioimita si propone di aprire la via ad un nuovo modo di pensare che possa contribuire a rendere meno pesante la nostra impronta sulla Terra e sia in grado di garantire più facilmente un futuro ancora prospero alle generazioni che verranno.
Bioimita – Progresso è imitazione della natura
Oggi inizia l’avventura Bioimita e il nome, già da solo, vuole descrivere ciò che si desidera analizzare e approfondire: la natura quale fonte di ispirazione, prima, e di imitazione, poi, per la gestione delle attività umane, sia produttive che sociali. Il sottotitolo desidera spiegare in sintesi questo concetto: il vero progresso duraturo si ottiene attraverso l’imitazione del funzionamento della natura e non, invece, attraverso una forzatura della stessa ottenuta per mezzo della tecnica e della disponibilità di grandi quantità di energia che, fino ad ora, sono state a basso costo.
Bioimita si basa sostanzialmente su pochi e chiari pilastri, fondamento teorico della (bio)imitazione e punto di riferimento di tutte le attività umane:
1. La natura funziona ad energia solare e ad energia cinetica, senza combustione
2. La natura usa solo l’energia di cui ha bisogno
3. La natura ripara, riusa e trasforma
4. La natura determina la forma sulla base dello scopo
5. La natura ha caratteristiche specifiche per ciascun luogo
6. La natura si fonda su una rete di reciproche collaborazioni
7. La natura non può fare a meno delle diversità
Naturalmente non si hanno ricette preconfezionate e nemmeno si ha la palla di cristallo per risolvere tutti i numerosi e complessi problemi attualmente presenti, in gran parte generati dall’uomo e dalla sua recente follia scientifica e tecnologica di cambiare le regole del gioco e forzare la natura e il suo funzionamento. Ci si propone solo di fornire un punto di vista diverso delle cose perché, come diceva Einstein, la soluzione ad un dato problema deve essere ricercata in ambiti diversi dalle cause che l’hanno generato.
Sia ben chiaro che Bioimita e la bioimitazione non devono essere assolutamente visti come una sorta di moderno luddismo che incarna un profondo desiderio di ritorno al passato perché la tecnologia e la scienza sono un male assoluto. Anzi, Bioimita e la bioimitazione criticano l’attuale sistema tecnico-scientifico perché troppo conservatore e basato su pilastri che, se validi in un contesto storico diverso come quello del passato, ora non sono più sostenibili e, pertanto, devono essere cambiati.
La strada che Bioimita e la bioimitazione si propongono per garantire risultati di prosperità e benessere per l’umanità e il pianeta che viviamo sono quelli di (ri)trovare nella natura e nel suo funzionamento quelle soluzioni necessarie per continuare il processo di evoluzione e di progresso dell’uomo basando tali convinzioni sul fatto che noi viviamo in un dato contesto – quello del pianeta Terra – che funziona in un certo modo e, all’interno del quale, la vita si è evoluta per qualche miliardo di anni attraverso prove, tentativi, successi e insuccessi.
La tecnica (attraverso la chimica, la modificazione genetica degli esseri viventi, le nanotecnologie e l’ingegneria) che l’uomo mette attualmente in campo per risolvere i vari problemi, trova sì qualche importante soluzione ma determina anche nuovi e più complesse questioni in una spirale senza fine. Per tali ragioni l’umanità si trova ad un bivio importante della sua storia che Bioimita e la bioimitazione hanno intenzione di comprendere e di risolvere.