Author Archives: Alessandro Adami
66 milioni
Con i suoi 66 milioni di tonnellate prodotti nel 2012 il pesce allevato ha superato la quantità del manzo allevato (63 milioni di tonnellate annue). Ad incidere fortemente su questo superamento e sul trend in crescita del consumo di pesce è l’allevamento ittico cinese che, da solo, copre il 62% della produzione mondiale.
I dati sono riportati dalla rivista inglese “New Scientist” che, anziché sottolineare solamente gli aspetti positivi riferiti a tale dato (minore deforestazione, minore emissioni di metano, uso poco efficiente delle risorse agricole legate alla produzione della carne e minore sfruttamento degli stock ittici oceanici), evidenzia, citando un rapporto dell’Earth Policy Institute di Washington, che la pescicoltura può rappresentare anche una grave minaccia per gli ecosistemi. I motivi di preoccupazione per tale minaccia sono rappresentati dal fatto che spesso, per ragioni puramente commerciali o di moda alimentare, vengono allevate le specie “sbagliate”, quelle cioè che hanno il maggior impatto sull’ambiente.
Le specie “sbagliate” sono quelle carnivore (come il salmone, il branzino o il tonno) che, per essere nutrite, necessitano di animali o mangimi prodotti con pesci più piccoli, pescati in mare aperto. Ecco che così si ripropone il problema che si desiderava (o sperava) risolvere: quello della pesca insostenibile e del depauperamento degli stock ittici oceanici.
Le specie “giuste”, invece, sono quelle tipiche dell’allevamento cinese che, una volta tanto, rappresenta un elevato standard di sostenibilità ambientale. Esso è principalmente basato sull’allevamento della carpa argentata o di specie simili che, vivendo nelle risaie ed essendo essenzialmente vegetariane, possono nutrirsi di erbe, plankton e detriti organici e possono avere un limitato impatto ambientale. Anzi, possono addirittura limitare l’inquinamento delle acque dove sono presenti e migliorare le produzioni agricole.
I dubbi e le preoccupazioni che caratterizzano l’allevamento del pesce fanno emergere un concetto molto importante che la bioimitazione si propone di analizzare, di comprendere e di risolvere: in natura tutto è collegato da una serie infinita di relazioni che interessano le specie viventi, l’equilibrio del Pianeta, la salute e il benessere degli esseri umani. Se tale rapporto viene fortemente e malamente perturbato può dare origine a effetti o reazioni a catena che possono manifestarsi anche in ambiti e con modalità non del tutto prevedibili.
Pertanto perdere (o mettere fortemente a repentaglio) gli stock ittici dei mari potrebbe non solo mettere in difficoltà l’approvvigionamento di proteine animali per una elevata percentuale di popolazione mondiale ma potrebbe avere anche effetti sugli equilibri biochimici degli oceani che ora facciamo fatica a comprendere appieno.
Il cibo, come le lingue, le culture e il sapere è stato ed è in continua evoluzione. Facciamo in modo che possa essere, anziché una fonte di problemi da risolvere, un importante mezzo per la salvaguardia del Pianeta.
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Foto: Il Fatto Alimentare
Se vincessi al SuperEnalotto
Mi ha molto colpito la notizia di quella coppia di coniugi di Galliera, in provincia di Bologna, che, con una buona dose di (c)fortuna, qualche settimana fa ha azzeccato il 6 al SuperEnalotto vincendo 14 milioni di euro e che ha dichiarato di voler contribuire con una donazione privata alla ricostruzione della scuola del paese, inagibile a seguito del terremoto che ha colpito l’area geografica il 20 maggio dello scorso anno.
L’iniziativa è assolutamente lodevole e degna di rispetto vista sia la scarsa raccolta di fondi privati per la ricostruzione (il Comune indica solo 21 mila e 500 euro di donazioni) sia il ritardo e l’esiguità degli aiuti governativi.
Il punto è che, personalmente, se vincessi al SuperEnalotto una cifra importante (per vincere dovrei giocare, ma questa è un’altra storia), eviterei accuratamente di donare alla collettività beni materiali, siano anch’essi scuole, ospedali, parchi o qualsiasi altro bene di pubblica utilità.
Il motivo di tale decisione risiede nel fatto che, per la mia esperienza e per le informazioni che traggo da quello che mi circonda, da un lato non ci sarebbe sufficiente gratitudine da parte dei potenziali beneficiari ma, anzi, spesso la nascita di biechi sospetti e critiche nonché, dall’altro lato, la donazione alimenterebbe una schiera di politici (1) di professione senza scrupoli che si nascondono in ogni angolo del territorio e che, come per magia, si “impossessano” di una parte dei meriti tagliando nastri, facendo campagne elettorali, parlando ai convegni mettendo in secondo piano e affievolendo nel tempo la lodevole iniziativa dei donatori. A questi ultimi, ma soprattutto ai loro eredi, spesso non resta altro che una lapide commemorativa, scolorita e invasa dai licheni.
Se vincessi al SuperEnalotto una cifra importante, una parte dei soldi anch’io li donerei alla collettività ma mi concentrerei su un bene immateriale e più duraturo: la c u l t u r a e il senso civico. Insegnerei la filosofia della vita e le tecniche di prevenzione, la buona politica e la storia, l’ecologia e l’economia.
È vero, anche investendo nella cultura si può sbagliare orientamento o approccio e fare dei buchi nell’acqua ma, a differenza dei beni materiali, la cultura è difficilmente manipolabile da terzi. Sviluppa una conoscenza, una consapevolezza e un senso critico individuale che permangono nel tempo e che creano importanti antidoti affinché le persone possano votare il migliore per ottenere il loro benessere duraturo e per evitare che vengano fatte scelte sbagliate.
A tale proposito il caso del terremoto è emblematico: se è vero che in sé l’evento non è prevedibile, è però vero che in una zona sismica come quella emiliana si potevano mettere in campo, soprattutto per gli edifici pubblici, migliori interventi prevenzionistici rispetto a quelli esistenti.
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(1) Il riferimento è in generale e non al Comune di Galliera, che non ho mai visitato e di cui non conosco nulla della sfera politico-amministrativa.
Un bel frullato quotidiano
Quando parlo con le persone di sostenibilità ambientale o del mio progetto legato alla bioimitazione quale possibile soluzione o miglioramento ai problemi che caratterizzano (e che sempre caratterizzeranno) l’umano vivere, osservo, in generale, le seguenti reazioni: “Eh, voi ambientalisti…” oppure “Sì, belle cose ma la gente non mangia”, oppure ancora “Eh, ma tanto non serve a niente…”
Anche se essere animato da un profondo senso critico contro le falle del “sistema” o da un forte spirito di indignazione che desidererebbe qualcosa di meglio può sembrare un atteggiamento pessimista e depressivo perché fa emergere i lati oscuri, nella realtà dei fatti non lo è. Anzi, è l’esatto contrario perché tale atteggiamento è costantemente nutrito dalla speranza che ci sia una soluzione praticabile, anche dal fondo. L’atteggiamento pessimista e depressivo caratterizza, invece, chi risponde con i “Mah”, con gli “Eh” e con i “Boh”!
Bisogna avere il coraggio di rompere lo schema del negativo, dello stato d’animo depresso molto diffuso e di smettere di avere paura del cambiamento e del futuro. Chi vive in un mondo complesso (come è il nostro) non può assumere lo stile dell’attesa o del fatalismo (“tanto non si può fare nulla…!”) ma quello dell’iniziativa per “vedere prima” i problemi ed intervenire per mettere in atto le possibili soluzioni. Perché spesso nelle situazioni di crisi (e quella ambientale è una di queste), ciò che possiamo perdere (oltre alle foreste, al diritto alla salute, alla biodiversità… tutti aspetti sacrosanti, ma la cui importanza sulla vita di ognuno di noi è difficile da capire) è invece la democrazia, la libertà, l’istruzione, la salute e le cure gratuite. Tutti quegli elementi positivi del benessere raggiunti che rischiano di esserci lentamente tolti…
E’ con un sano spirito di indignazione, di analisi e di azione che occorre muoversi. Bisogna in qualche modo agire (anche se ci può apparentemente sembrare inutile), ognuno con i propri mezzi e nei limiti delle proprie possibilità, per rompere le rappresentazioni stereotipate che spesso ci vengono propinate dai media, dalle classi dirigenti, dalle corporazioni allo scopo di cloroformizzarci per farci ingurgitare un bel frullato quotidiano di m***a con l’intento di farci credere che sia una mousse al cioccolato.
Caseificio Tommasoni
Il Caseificio Tommasoni di Gottolengo (BS) è un’azienda a conduzione familiare che continua una lunga tradizione, iniziata nel lontano 1815, nella produzione di grana padano, ricotta e robiole.
Il Caseificio Tommasoni è certificato biologico da novembre del 2000 e, la scelta che sembrava una scommessa azzardata per i tempi, si è rivelata invece estremamente positiva perché ha portato l’azienda a fare un interessante percorso culturale e a promuovere i principi che abbracciano tutto il benessere dell’uomo e dell’ambiente che lo circonda. Nell’ambito di questo percorso l’obiettivo non rimane solo quello commerciale ma anche quello etico (e strategico) perché si vuole dimostrare concretamente la possibilità di uno sviluppo eco-sostenibile, attento al rispetto e alla conservazione delle risorse nel tempo.
Il Caseificio Tommasoni trasforma solo latte da agricoltura biologica proveniente da stalle della pianura lombarda. Le vacche, che da marzo a novembre sono lasciate al pascolo, sono alimentate senza l’aggiunta di insilato di mais che, specie nei mesi molto caldi, determina anomale fermentazioni del latte che potrebbero ripercuotersi anche sul sapore dei formaggi e provocare rigonfiamenti alle forme.
Sia il latte che i prodotti caseari ottenuti sono certificati ICEA (Istituto per la Certificazione Etica ed Ambientale).
Il Caseificio Tommasoni, oltre allo spaccio aziendale di Gottolengo, distribuisce i propri prodotti o mediante consegne dirette o tramite corriere ed è molto attivo nella fornitura ai Gruppi di Acquisto Solidali (GAS).
Che fine ha fatto il dodo?
Il dodo (Raphus cucullatus) era un uccello dall’aspetto particolare: goffo, incapace di volare, con un enorme e ingombrante becco dalla punta ricurva. Uno strano mix tra un gabbiano, un’anatra e un tacchino.
Originario dell’isola Mauritius (un’isola appartenente all’arcipelago delle Mascarene, ubicate a est del Madagascar nell’Oceano Indiano), il dodo si era evoluto in un ambiente che non aveva avuto contatti con altre terre per decine di milioni di anni. Priva di mammiferi predatori l’isola divenne l’habitat adatto per molti uccelli, alcuni dei quali, nel tempo, persero addirittura la capacità di volare.
Con l’arrivo, nel 1598, dei coloni olandesi le cose cambiarono molto rapidamente per questi uccelli terrestri e, in particolare, per il dodo. Nonostante la sua carne non fosse particolarmente commestibile in quanto dura e dal gusto amaro, del dodo ne venne fatta da subito una strage, anche perché essi, non abituati a mammiferi predatori, non avevano alcun timore degli uomini.
Alla brutalità e alla violenza gratuite si aggiunse anche la distruzione dell’habitat del dodo per l’introduzione nell’isola di animali domestici (soprattutto cani e maiali) che arrivarono anche nelle zone più inaccessibili e dei topi che divorarono senza pietà pulcini e uova depositate direttamente sul terreno.
Dopo solo poche decine di anni dalla colonizzazione dell’isola il dodo era oramai scomparso e di lui ne rimase un solo esemplare imbalsamato (che qualche anno più tardi fu divorato dai tarli) e ne rimangono ora solamente alcune rappresentazioni pittoriche.
Ma non è finita qui perché, intorno al 1970, alcuni ricercatori si accorsero che un albero molto diffuso sull’isola Mauritius, il tambalacoquela (Sideroxylon grandiflorum, chiamata in passato Calvaria maior), non si riproduceva più. E non lo faceva già da molto tempo. Dopo approfonditi studi ci si accorse che tale problema era direttamente collegato all’estinzione del dodo perché l’uccello era l’unico animale presente sull’isola in grado di rompere il resistente guscio dei frutti e di nutrirsene. In tal modo i semi, ingoiati assieme alla polpa, venivano erosi dallo stomaco e poi espulsi con le feci che davano possibilità agli stessi di germogliare e di contribuire alla prosecuzione della specie. Su tali basi è ragionevole pensare che anche il tambalacoquelala, non avendo più animali in grado di svolgere la stessa funzione del dodo, potrà essere trascinato anch’esso nel baratro dell’estinzione.
La storia del dodo e della pianta ad esso indirettamente collegata (la relazione è stata scoperta solo dopo circa 200 anni dall’estinzione dell’animale!) ci fa comprendere chiaramente come non siano ancora del tutto chiari alla scienza gli effetti sugli ecosistemi di una estinzione di singoli animali o di singoli vegetali, anche se molto probabilmente sono più gravi di quello che si possa pensare.
In natura tutto è strettamente collegato da relazioni che si mantengono in un continuo equilibrio precario. Una piccola perturbazione determina un piccolo spostamento di relazioni che aggiusta il sistema e lo mantiene stabile. Se, però, la perturbazione è troppo grande e avviene troppo velocemente (ad esempio l’estinzione improvvisa di una specie oppure un evento climatico estremo) le altre specie, che vivono strettamente interconnesse, non riescono ad adattarsi ed avviene una rottura. Prima o poi l’equilibrio precario in qualche modo tenta di ristabilirsi ma i danni al sistema possono essere molto gravi e determinare, a catena, altre perturbazioni in una spirale continua. Così può nascere la desertificazione di un territorio per effetto della perdita della foresta. Così può nascere la proliferazione della zanzara per effetto della perdita dei suoi predatori a causa dei pesticidi. Così può nascere la perdita di una specie vegetale commestibile per effetto dell’introduzione di una specie competitiva più resistente.
Tali relazioni interessano anche l’uomo e le sue attività (si pensi alla funzione impollinatrice degli insetti). Pertanto, anche se la perdita dell’insignificante dodo o dello sconosciuto tambalacoquela possano sembrare insignificanti di fronte al nuovo tablet dallo schermo touch, al nuovo motore diesel da 150 cavalli o alla nuova moda dei leggins, in realtà ci dovrebbero far comprendere come, invece, ci saremmo dovuti e ci dovremmo impegnare fortemente alla loro difesa perché, in gioco, non c’è il nostro divertimento ma la nostra sopravvivenza su questi pianeta verde-blu.
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Fonte: Giuseppe Brillante, “L’ecologia spiegata ai ragazzi”, Mondadori (2010)
Foto: Wikipedia – (1) Quadro della testa di un dodo di Cornelis Saftleven (1638): l’ultima descrizione originale; (2) Il famoso “Edwards’ Dodo” dipinto da Roelant Savery (1626).
Le lampade a LED ci rubano il sonno
L’illuminazione artificiale – sia quella pubblica disseminata sul territorio sia quella privata presente nelle case – rappresenta un’importante causa di privazione del sonno che può avere conseguenze importanti sulla salute in generale. Si va dal maggior rischio di obesità e diabete a causa del fatto che la veglia prolungata induce a mangiare di più, ben oltre le necessità energetiche dell’organismo; si arriva al maggior rischio di avere problemi di natura neurologica e comportamentale, come la scarsa attenzione, concentrazione e apprendimento fino ad arrivare all’incremento dello stato di ansia e di depressione. Si giunge infine anche al rischio di avere malattie cardiocircolatorie come infarti e ictus. Insomma dormire è molto importante per una vita sana tanto che si possono avere effetti importanti anche sul sistema immunitario.
In generale la scienza ha osservato che stare svegli più a lungo altera l’espressione di centinaia di geni che incidono fortemente sul benessere e sulla salute delle persone. E le lampade a LED, che vengono considerate un’importante soluzione in termini di efficienza energetica, potrebbero anche peggiorare la situazione.
La luce a LED bianca è, infatti, ricca delle componenti blu-verde dello spettro luminoso che sono proprio quelle a cui sono più sensibili le cellule gangliari della retina che trasmettono al cervello le informazioni relative al ritmo sonno-veglia (ritmo circadiano). Il risultato sarà allora il seguente: l’illuminazione artificiale (in particolare quella a LED, compresi i televisori e i computer che si basano sempre di più su questa tecnologia) segnalerà sempre di più al nostro cervello che non è ancora giunta l’ora di dormire con la conseguenza di farci perdere ogni giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, preziose ore di sonno.
La soluzione, già all’attenzione dei progettisti e dei produttori, potrebbe essere quella di correggere la componente blu-verde delle luci a LED con un’emissione più orientata verso la tonalità giallo-arancio.
Si deve però osservare il fatto che un’importante contributo al mantenimento della salute non si può delegare solo alla tecnica ma deve far parte anche di un atteggiamento di maturità critica e culturale delle persone che, da un lato, le porta ad avere rispetto per il riposo anche attraverso l’elaborazione di un senso del limite per la veglia e per l’eccessiva illuminazione delle case e, dall’altro, le spinge a richiedere una minore quantità di illuminazione pubblica.
Le problematiche in discussione evidenziano il fatto che i fenomeni che riguardano gli equilibri ecologici e quelli del benessere psico-fisico delle persone sono estremamente complessi e che lavorare solo in un unico ambito (nel caso delle lampade a LED sul solo versante della mera efficienza energetica) può far perdere di vista l’obiettivo di ottenere miglioramenti che riguardino entrambi gli aspetti.
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Fonte: “Le Scienze”
Vivere nel verde rende più felici
Se vivi in un’area ricca di prati, di alberi e di verde sarai più felice rispetto a chi non ha tale possibilità. L’affermazione potrebbe sembrare abbastanza ovvia ma a confermarla è intervenuto anche un recente studio condotto da parte di alcuni ricercatori dell’inglese Exeter University e pubblicato sul giornale Psychological Science.
Secondo gli autori per ottenere tale beneficio – che consiste in livelli più bassi di stress, di maggior efficienza sul lavoro e di minore irritabilità nei confronti delle cose e delle persone che ci circondano – non è necessario trasferirsi a vivere in campagna ma basterebbe investire ed aumentare la disponibilità di “verde” anche nelle aree urbane.
Per realizzare lo studio i ricercatori hanno analizzato i dati ricavati da un sondaggio nazionale al quale hanno partecipato oltre 10.000 adulti che vivono nel Regno Unito. Tra il 1991 e il 2008 i partecipanti hanno risposto a questionari relativi al loro benessere psicofisico descrivendo, anno dopo anno, l’evoluzione del proprio umore, degli stati d’animo e dei problemi lavorativi e familiari. Dati che poi i ricercatori hanno messo in relazione con gli spostamenti dei partecipanti verso aree urbane più verdi. Ne è risultato che chi vive più a contatto con la natura esprime evidenti benefici in termini di soddisfazione e di benessere, pari addirittura a situazioni della vita importanti come avere un lavoro soddisfacente o un matrimonio felice. Spiega Mathew White – il responsabile della ricerca – “Abbiamo visto che vivere in un’area urbana con livelli di verde relativamente elevati ha un impatto significativamente positivo sul benessere, pari all’incirca a un terzo di quello dato dalla vita matrimoniale. Questi dati devono essere tenuti in considerazione dai politici quando devono decidere come investire le risorse pubbliche, ad esempio per lo sviluppo o la manutenzione dei parchi”.
Il risultato dello studio non dimostra che andare a vivere in una zona verdeggiante potrà portare automaticamente a una maggiore felicità, ma spiega che per stare bene non possiamo prescindere dalla natura e che anche brevi immersioni in ambienti naturali sono assolutamente necessari per migliorare l’umore e il funzionamento cognitivo, ma anche per garantire minore mortalità per malattie cardio-circolatorie.
Allo scopo di evitare che tali ambienti naturali siano solo esterni alla città e che per raggiungerli sia necessario utilizzare grandi quantità di energia per i trasporti, bisogna sia chiara ai pianificatori urbani la necessità che nella gestione delle città si tenga assolutamente conto di tale aspetto. Ad esempio devono aumentare i parchi (non gli alberi isolati piantati in piccole aiuole); devono aumentare i prati; devono aumentare i corsi d’acqua; devono aumentare gli orti. Come controparte i nostri amministratori e le lobby che spesso li muovono (e li finanziano) devono rinunciare a qualche centro commerciale, a qualche stadio, a qualche palazzo o a qualche strada.
La società nel suo complesso sarà più sana e felice e si potranno risparmiare anche molti costi indiretti legati alla cura delle persone malate o con un basso livello di benessere psico-fisico.
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Fonte: la Repubblica
Confermata la relazione tra smog e cancro ai polmoni
Se qualcuno avesse ancora qualche dubbio si dovrà ricredere dopo la lettura della ricerca recentemente pubblicata su Lancet Oncology dalla quale emerge, con rigore scientifico, che la combustione produce particolato e il particolato fa morire prematuramente chi lo respira!
Punto.
Se si entra nel dettaglio dello studio si può osservare che esso – prima ricerca che ha interessato un grande numero di persone alla quale hanno collaborato 36 centri e oltre 50 ricercatori – è stato condotto sulla popolazione residente in 9 Paesi europei, tra i quali l’Italia. Per trarre le loro conclusioni gli studiosi hanno analizzato per 13 anni circa 313 mila persone sparse nel continente, individuando un chiaro nesso di causalità tra l’esposizione a polveri fini (particolato) e tumore al polmone. Dallo studio si è potuto appurare che ad ogni incremento di 5 μg/m3 di PM2,5 il rischio di tumore al polmone aumenta del 18% e del 22% a ogni aumento di 10 μg/m3 di PM10. Il che significa, tradotto nel linguaggio comune, che più alta è la concentrazione di smog maggiore è il rischio di sviluppare un tumore polmonare. Inoltre sembra non esserci una soglia al di sotto della quale l’effetto cancerogeno viene meno dal momento che i tumori (anche se in minori quantità) si registrano anche tra coloro che vivono in aree dove le polveri sottili sono al di sotto dei limiti di legge previsti in Ue.
Tra i Paesi europei analizzati l’Italia, relativamente alle polveri sottili, è risultata essere tra quelli più inquinati. In città come Torino e Roma sono state registrate rispettivamente concentrazioni medie di 46 e 36 mg/m3 di PM10, in confronto ad una media europea decisamente più bassa: ad esempio ad Oxford tale valore è 16 e a Copenhagen è 17.
Per completare i dati solo in Italia, nel 2010, si sono registrati 31.051 nuovi casi di tumore al polmone (1) che, da solo, rappresenta circa il 20% di tutte le morti premature per tumore nel Bel Paese.
Lo studio conferma un elemento ben chiaro a livello di buon senso per chi si è sempre battuto per l’eliminazione (o almeno la riduzione) dell’inquinamento da smog: che fa male alla salute e che fa morire prematuramente.
Ora non ci sono più scuse per amministratori pubblici, scienziati negazionisti, imprenditori, sindacalisti e giornalisti: dobbiamo far transitare al più presta la nostra economia basata sulla combustione verso forme che siano più bioimitative e che fondino la produzione di energia sul sole e sulla forza cinetica.
L’alternativa è quella di continuare a piangere morti premature e di sprecare enormi quantità di denaro per curare (o tentare di curare) malattie che, in mancanza di inquinamento, avrebbero un’incidenza molto minore.
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(1) www.tumori.net
MAD Bike
L’obiettivo era quello di creare a Oslo, in Norvegia, un parcheggio per 200 biciclette in una strada molto stretta e scarsamente illuminata. Inoltre si desiderava fornire ai pedoni e ai ciclisti un interessante impatto visivo per invogliarli anche ad entrare nell’area commerciale posta al piano terra di uno dei palazzi della via.
La soluzione architettonica e urbana proposta dallo Studio MAD Arkitecter per realizzare il parcheggio è stata quella di creare delle installazioni stilizzate di biciclette in acciaio (le “MAD Bike”) che possano fornire contemporaneamente un parcheggio sicuro per le biciclette e un’installazione piacevole dal punto di vista estetico, data sia dalle originali strutture che dalle luci. Queste ultime, infatti, che forniscono anche l’illuminazione pubblica al parcheggio, ripropongono i fanalini (rossi dietro e bianchi davanti) delle vere biciclette, orientate in direzione del fiordo.
L’effetto finale dell’installazione è molto interessante perché, oltre a promuovere opere belle e originali da realizzare nelle città, agisce anche nell’ambito dell’urbanistica e della mobilità perché orienta i cittadini verso la percezione che il trasporto in bicicletta è efficace e alternativo a quello automobilistico (anche nella fredda Norvegia).
Se lo fanno loro perché non realizzarlo anche noi!?
Una gita in barca al Polo Nord
Le immagini girate dalla webcam del North Pole Environmental Observatory di Washington mostrano in timelapse quello che è successo al ghiaccio del Polo Nord dal 16 aprile 2013 al 24 luglio 2013.
La sequenza è impressionante e certifica con assoluta certezza come, a causa delle straordinariamente alte temperature raggiunte quest’anno, oramai il Polo Nord sia perfettamente navigabile.
Ne sa qualcosa anche un equipaggio inglese che qualche anno fa lo ha raggiunto in barca a remi.
Da quando sono iniziate le le rilevazioni (anni ’70), nel 2013 il ghiaccio ha raggiunto il livello minimo mai registrato. Quanto dovremo ancora aspettare per fare qualcosa per il clima? Che l’aria diventi rovente e non sia più respirabile?
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Foto: foto del Polo Nord del 25 luglio 2013, ore 13.23
Quattrocentoventimila
Il pedigree dell’INAIL è chiaro a tutti: non si tratta né di una delle più dure associazioni ambientaliste né di una delle organizzazioni più anarchiche e rivoluzionarie operanti in Italia.
Eppure, con il suo progetto Expah, co-finanziato dall’Unione europea, desidera studiare approfonditamente gli effetti sulla salute umana degli idrocarburi policiclici aromatici (IPA) (1) contenuti nel particolato presente soprattutto nelle aree fortemente urbanizzate. Le polveri sottili, infatti, possono avere effetti nocivi sulla salute colpendo soprattutto l’apparato respiratorio e quello cardiovascolare delle persone esposte.
Dal momento che le principali cause di inquinamento atmosferico sono legate al traffico veicolare, ai sistemi di riscaldamento domestico, alle emissioni industriali e di produzione energetica, l’idea dell’INAIL – che opera in collaborazione con l’Azienda sanitaria locale Roma E, il CNR, la società Arianet e il National Institute for Health and Welfare finlandese (THL) – è quella di ridurre l’inquinamento non mediante progetti ipertecnologici ma “banalmente” attraverso l’applicazione delle tecnologie già esistenti, supportando politiche ambientali e una legislazione in questo specifico ambito.
Sulla base delle misurazioni delle IPA e di altri inquinanti ambientali effettuate ed elaborando dei modelli matematici di esposizione della popolazione, si è potuto stimare che in Europa, ogni anno, muoiono presumibilmente almeno 420.000 persone a causa dell’inquinamento. “Una cifra assolutamente inaccettabile” secondo il commissario UE all’Ambiente Janez Potočnik (e non solo per lui!).
Finalmente si sta sgretolando il muro di scetticismo che nel tempo è stato eretto a difesa del sistema tecnologico e produttivo basato sulla combustione di materiali organici e, oltre alle associazioni indipendenti, anche Enti ed istituzioni governative cominciano a pensare che sia anche più vantaggioso economicamente nel medio-lungo periodo investire ora, per migliorare sia la produzione di energia e di beni che l’efficienza energetica dei prodotti, delle abitazioni e dei trasporti.
Una ulteriore conferma che per ottenere il massimo vantaggio per la salute e per le attività umane sia necessario imitare la natura che basa il proprio funzionamento “sull’energia solare e sull’energia cinetica, senza combustione”.
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(1) Gli idrocarburi policiclici aromatici (IPA) – il più famoso dei quali è il benzo(a)pirene, ritenuto cancerogeno – sono sostanze chimiche presenti nelle polveri fini atmosferiche prodotte dalla combustione incompleta di materiale organico. Le principali fonti di emissione sono il traffico stradale, le caldaie del riscaldamento domestico e le emissioni industriali. Le IPA hanno una elevata capacità di penetrare negli ambienti chiusi.
Foto: Struttura tridimensionale (modello space-filling) del corannulene, IPA strutturalmente formato dalla condensazione di 5 anelli benzenici e un anello centrale di ciclopentano. (Fonte Wikipedia)
Foto ricordo da Fukushima
Se qualcuno avesse ancora dubbi sulla potenziale pericolosità dell’energia nucleare…
… ecco qualche foto ricordo di fiori, frutti, piante o animali nati nella regione dell’incidente nucleare di Fukushima dell’11 marzo 2011.
Esse sono la dimostrazione lampante del motivo per cui la natura non fonda la produzione di energia sulle fonti radioattive. Troppo pericolose!!!
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Foto: Corriere.it
Brutti, fastidiosi e antipatici
Qualche volta, di notte, durante i miei viaggi autostradali o percorrendo le strette e tortuose strade di campagna, mi soffermo a pensare a quell’innumerevole schiera di falene, moscerini, zanzare o coleotteri che appaiono improvvisamente alla luce dei fari e che, immediatamente dopo, lasciano inesorabilmente i loro corpi a disegnare graffiti sulle carrozzerie e sui vetri di auto e camion, compresa la mia. Vite che la velocità dell’automobile spezza su lunotti, su frontali cromati, su paraurti in plastica o su fanalini di vetro. Residui che, poi, al termine della stagione estiva risultano pure difficili da pulire e che lasciano segni sulle carrozzerie di vernice metallizzata pagate, magari, anche a rate.
Spesso il mio pensiero va alle loro umili vite e al ruolo apparentemente inutile ma, invece, estremamente prezioso, che essi hanno nel “tutto”.
Tra loro ci saranno sì dei parassiti per l’uomo e le sue attività ma anche animali di indubbia utilità agricola e ambientale. Tra loro ci saranno anche insetti senza una qualche particolare attrattiva naturalistica ma anche animali rari o particolarmente interessanti. Tra loro ci sono, comunque, vite che vanno rispettate in quanto tali perché partecipi di una funzione globale che è il mantenimento, nel trascorrere del tempo, della vita sul Pianeta, compresa anche la nostra.
Mi chiedo, allora, quali perdite ecologiche tali morti di massa possano comportare. Non è infatti un mistero che la massa vivente sulla terra (di cui gran parte è composta di insetti) si stia contraendo in termini di volumi, vuoi per effetto di una antropizzazione diffusa, vuoi per effetto di cambiamenti climatici che determinano la scomparsa di habitat, vuoi per effetto di una agricoltura sempre più invadente ed invasiva, vuoi per i sempre più “mostruosi” mezzi di trasporto umani.
La natura, per ben funzionare ha bisogno di tutti e ha bisogno che tra tutti gli esseri viventi esistano relazioni continue, non sempre necessariamente pacifiche.
Nostra cura dovrà essere quella di far sì che, nello svolgimento delle nostre vite e nell’esercizio delle attività economiche, tutte le specie, anche quelle apparentemente insignificanti, siano considerate “specie a rischio di estinzione” e siano oggetto di attenzioni e di protezione.
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Per questo non è cosa banale attaccare la spina di un congelatore qualsiasi, premere il pulsante di una lavatrice qualsiasi, girare la chiave di un’auto qualsiasi.
Barroso e la transizione verso la green economy
Quando le mie orecchie sentono parlare di sostenibilità e in qualche modo di “decrescita” figure politiche del calibro di José Manuel Barroso (Presidente della Commissione Europea) mi sorge spontanea una domanda: ci crederanno veramente a quello che dicono o ci stanno solo vendendo la solita minestra (economico-politica) ben mascherata con una rassicurante patina “verde”? Avendo un minimo di esperienza sulle spalle so che l’attuale sistema economico predatorio basato sui consumi e sulle merci è estremamente resistente e difficile da scardinare perché, oltre che rappresentare un’importante fonte di ricchezza personale per le oligarchie economiche mondiali che sfruttano politici compiacenti, è anche ben radicato nella nostra filosofia sociale. Nonostante ciò, però, una piccola speranza comincia a farsi luce e, via via che passa il tempo, diventa sempre più luminosa. Essa, alimentata da una crisi economica sempre più dura da combattere e che si preannuncia duratura perché insita nel malfunzionamento del sistema capitalistico, comincia a far breccia anche tra la classe dirigente del vecchio continente in cerca di soluzioni per mantenere in vita l’apparato socio-politico europeo. Questa speranza è rappresentata dalla cosiddetta green economy e dallo sviluppo sostenibile.
Senza entrare troppo nel merito del ritardo almeno trentennale con cui i nostri politici se ne sono accordi e dell’entità esigua degli aiuti finanziari a sostegno di pratiche economico-sociali sostenibili (una briciola rispetto a quelli che tengono in vita il sistema produttivo-finanziario tradizionale), desidero fare solo un’osservazione, fondamentale perché tale onda di pensiero basata sull’ecologia e sull’attenzione per il benessere degli individui possa avere successo nel lungo periodo.
È estremamente importante che non si faccia poggiare la green economy sugli stessi pilastri ideologici della fase economica precedente!!!
Pertanto, nel disegnare la nuova economia del futuro deve essere abbandonata la logica cieca e unica della crescita e deve essere dato, invece, più “ascolto” alla natura e ai principi del suo funzionamento. Principi che devono poi essere applicati al sistema economico, produttivo e sociale.
Solo così si potrà sperare di uscire veramente dal tunnel della insostenibilità ambientale e di creare un sistema economico-produttivo duraturo e in grado di interessare la più ampia percentuale possibile di popolazione mondiale.
La luce artificiale nuoce alla salute
Per analizzare il fenomeno dell’inquinamento luminoso è sufficiente prestare un po’ di attenzione ai luoghi che si frequentano abitualmente per osservare, negli anni, come si moltiplichino sia i pali per l’illuminazione pubblica sia le fonti di illuminazione privata, nei giardini e davanti alle case (1).
Anno dopo anno sempre più numerosi in un inarrestabile processo di crescita quasi ad indicare l’illusione dell’uomo tecnologico di vincere la notte!
Il fenomeno viene anche segnalato da anni sia dai movimenti ambientalisti (che spesso si concentrano di più sul consumo energetico) sia dalla ricerca scientifica che osserva sempre di più problemi legati alla salute delle persone causati dall’eccessiva esposizione all’illuminazione artificiale notturna. Così come l’orecchio ha due funzioni, quella dell’udito e quella dell’equilibrio, anche l’occhio ne ha due, quella della visione ma anche quella di trasmettere al cervello, tramite le cellule gangliari della retina, le informazioni circa la presenza di luce nell’ambiente. Una volta giunti nel cervello questi segnali innescano una serie di effetti diversi: inibiscono i neuroni che promuovono il sonno, sopprimono il rilascio dell’ormone melatonina importante per la regolazione dei cicli sonno-veglia da parte dell’ipofisi, attivano i neuroni orexina nell’ipotalamo che promuovono lo stato di veglia.
In sostanza il quadro è il seguente: l’essere umano si è evoluto secondo i ritmi circadiani regolati sulla luce naturale. Quando c’è luce siamo attivi; quando c’è buio riposiamo. Se, però, durante la notte si accendono le luci artificiali, nel nostro sistema neurovegetativo vengono riprodotti gli stessi segnali che sarebbero propri del giorno. E il fenomeno è sempre più intenso e pervasivo, tantoché nelle zone abitate il buio assoluto quasi non esiste praticamente più!
In un recente articolo de “Le Scienze” viene trattato questo tema osservando che la privazione (o la riduzione) del sonno legata alla presenza di fonti di illuminazione artificiale sia esterne che interne alle abitazioni (compresa la televisione e il pc) predispone ad importanti problemi di salute quali obesità, diabete, malattie cardiovascolari, depressione e ictus.
Secondo le statistiche oramai circa un terzo degli statunitensi adulti attivi lamenta un numero insufficiente di ore di sonno (2), mentre era solo il 3 per cento 50 anni fa. Le cose non sono migliori per i bambini poichè i dati mostrano che, a livello mondiale, ogni notte dormono in media 1,2 ore in meno rispetto a un secolo fa.
Visto l’impatto sempre più evidente (dimostrato dalla scienza) che l’illuminazione notturna ha sulla salute interroghiamoci seriamente su alcuni aspetti ad essa legati:
- è proprio necessario moltiplicare ogni anno le installazioni luminose pubbliche e private o possiamo valutare di mantenere solo quelle assolutamente necessarie?
- è proprio necessario che il sistema economico del consumo ci proponga beni e servizi h 24/24 senza valutare la necessità di un’area franca di riposo notturna?
- è proprio necessario che i nostri comportamenti individuali domestici ci portino a rubare inutilmente ore di sonno al nostro corpo attraverso la televisione e il computer?
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(1) Si pensi che all’illuminazione artificiale viene destinato attualmente il 19 per cento dell’energia prodotta nel mondo!
(2) Normalmente la quantità ideale per gli adulti è di sei ore per notte.
Foto: La crescita dell’inquinamento luminoso in Italia (1971/1998/2025) – www.lightpollution.it
Fonte: “Le Scienze”
Gli alberi sono catalizzatori di polveri sottili
A livello intuitivo potrebbe sembrare cosa ovvia ma quando lo dice una ricerca scientifica pubblicata su riviste autorevoli la questione acquista maggior valore. Si tratta di quantificare l’importanza degli alberi nel contesto urbano non solo dal punto di vista paesaggistico e del benessere prodotto ma anche dal punto di vista depurativo e catalizzatore per le polveri sottili.
Le polveri sottili (o particolato fine) sono quella forma tipica di inquinamento delle nostre città. Esse derivano dalla combustione del carbonio (principalmente traffico veicolare, riscaldamento, industrie e inceneritori) e determinano una mortalità precoce non solo per infiammazioni croniche delle vie respiratorie ma anche per un’accelerata arteriosclerosi e per alterazioni delle funzioni cardiache. Oltre al carbonio e ai residui della combustione possono contenere anche metalli e agenti chimici vari. Inoltre la loro pericolosità è direttamente proporzionale alla loro dimensione: più le particelle di polvere derivante dalla combustione sono piccole e più riescono a penetrare in profondità nel corpo sino ad infiltrarsi (quando la loro dimensione è nanometrica) in tutti gli organi, con enormi difficoltà ad essere smaltite.
La ricerca (pubblicata da Environmental Pollution) è stata condotta in dieci grandi città statunitensi dal U.S. Forest Service e dal Davey Institute e rappresenta il primo sforzo per stimare l’impatto complessivo del verde urbano sulle concentrazioni delle polveri sottili inferiori ai 2,5 micron: le cosiddette Pm 2,5. Dallo studio, che ha interessato le città di Atlanta, Baltimora, Boston, Chicago, Los Angeles, Minneapolis, New York, Philadelphia, San Francisco e Syracuse (Stato di New York), è emerso che gli alberi urbani sono in grado di rimuovere il particolato fine dall’atmosfera e, pertanto, possono incidere fortemente sulla prevenzione di malattie gravi, potenzialmente mortali per i cittadini.
La quantità totale di Pm 2,5 rimossa annualmente dagli alberi varia dalle 4,7 tonnellate a Syracuse alle 64,5 tonnellate di Atlanta.
«Abbiamo bisogno di più ricerca per migliorare queste stime» – dice David J. Nowak, uno dei ricercatori – «ma il nostro studio suggerisce, una volta di più, che gli alberi sono uno strumento efficace nella riduzione dell’inquinamento dell’aria e la creazione di ambienti urbani più sani».
Spiega inoltre Michael T. Rains, Direttore della stazione di ricerca del servizio forestale: «Questo studio illustra chiaramente che i boschi urbani degli Stati Uniti sono investimenti di capitale perché, aiutando a produrre aria e acqua pura, riducono i costi energetici e rendono la città più vivibile. Semplicemente, le foreste urbane migliorano la vita!».
E tu, caro Sindaco, cosa scegli? Bosco o tunnel? (1)
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(1) Il riferimento è al Sindaco della città di Verona che desidererebbe costruire una nuova importante arteria (auto)stradale (in parte sotto un tunnel) nei pressi della città.
La morte del paesaggio
Mi fa inorridire sentir dire a priori, senza alcun spirito critico, che l’Italia è bella solo perché ha un invidiabile patrimonio artistico-culturale e un magnifico paesaggio. Balle!
L’Italia, è vero, ha un enorme patrimonio artistico-culturale che vanta il più grande numero di siti UNESCO del mondo ma, invece di essere coccolato e difeso, viene in gran parte lasciato marcire nei magazzini dei musei, viene fatto crollare o viene pian piano sommerso da strade, cavalcavia, capannoni industriali o da villette a schiera, spesso abusive. Se questa è bellezza?!
L’Italia, è altrettanto vero, vanta interessanti paesaggi naturali, spesso associati ad attività agricole o a centri abitati e borghi che fondano le loro origini nell’antichità. Sempre più spesso, però, questi capolavori di armonia estetica, frutto di secoli di lavoro e di ingegno umano, vengono orribilmente deturpati da imprenditori senza scrupoli e da amministratori privi di idee che approvano, spesso nei luoghi più impensabili, la distruzione del territorio attraverso la costruzione di nuove periferie abitative fatte di case anonime senza estetica, di rotatorie inguardabili, di aree industriali senza identità, di strade, di capannoni isolati, di ponti, di cavalcavia, di ferrovie, di pollai, di muri di cemento armato…
La difesa, nel tempo, dell’economia e del benessere sociale deve passare anche attraverso la salvaguardia del territorio, fatto di paesaggi e di patrimonio artistico-culturale, molto spesso interconnessi.
Noi cittadini, per questo, ci dobbiamo indignare nei confronti di chi ha minacciato e continua a minacciare tale risorsa e dobbiamo iniziare a chiedere, da subito, che il Parlamento vari due semplici provvedimenti già da tempo sperimentati dagli altri paesi europei più evoluti di noi:
- Una maggiore tassazione del patrimonio immobiliare rispetto al reddito, con esenzione o limitazione delle tasse per chi non consumi territorio attraverso restauri o recuperi di aree già urbanizzate;
- Una limitazione annua del consumo di territorio a livello globale che impedisca l’espansione eccessiva del sistema economico dell’edilizia e delle infrastrutture consentendo allo stesso (quello più meritevole in termini di capacità imprenditoriale) di sopravvivere più a lungo nel tempo.
Da questi due nuovi capisaldi normativi si deve poi immaginare un nuovo sistema urbanistico compatto che è più efficiente in termini energetici e che conserva la bellezza dei paesaggi nonché un sistema di infrastrutture realizzato in funzione dei flussi e delle necessità reali piuttosto che fondato sul principio che gli appalti, anche se non necessari, sono comunque il volano dell’economia.
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Foto: www.verdeepaesaggio.it
el Restel | Azienda agricola
“Immaginiamo quello che desideriamo mangiare e cominciamo a produrlo”.
L’azienda agricola el Restel, che si trova nella Pianura Padana in provincia di Verona, si estende su una superficie di 30 ettari dove si coltivano, nel rispetto della metodologia dell’agricoltura biologica, cereali e alberi da frutta, soprattutto actinidia (kiwi).
Anticamente l’azienda era concentrata prevalentemente sulla produzione del riso e da qualche anno si è deciso di riprendere tale coltivazione che sta incontrando sempre più interesse tra i clienti dell’azienda.
L’azienda agricola el Restel segue completamente la metodologia biologica certificata da ente terzo e tutte le colture annuali vengono avvicendate per consentire il mantenimento della caratteristiche chico-fisiche del terreno. Inoltre le coltivazioni sono intervallate da siepi e boschi che consentono di interrompere le folate di vento e rappresentano un ottimo habitat per la flora e la fauna, soprattutto volatile.
L’azienda agricola el Restel desidera organizzare sempre di più una filiera di commercio diretto per portare a un numero sempre maggiore di consumatori un prodotto di gran qualità che arriverebbe sulle tavole a un prezzo troppo elevato se passasse attraverso i canali della grande distribuzione.
I principali prodotti aziendali sono:
- riso
- altri cereali (grano, mais, soia)
- succhi di frutta.
The Copenhagenize Index
Nell’immaginario comune la città più ciclabile d’Europa (e, forse, anche del mondo) è Amsterdam. In effetti tale risultato viene confermato dalla Copenhagenize Design Co., un’organizzazione che si occupa di cultura del ciclismo, di pianificazione urbana, di traffico, di comunicazione nell’ambito del ciclismo urbano e della vivibilità delle città e che, a partire dal 2011, elabora una classifica delle città più vivibili del mondo per gli utenti a due ruote.
Nella classifica del 2013 (The Copenhagenize Index) il primo posto è occupato da Amsterdam (con votazione 83), seguita da Copenhagen (votazione 82) e Utrecht (votazione 77). I dati per elaborare tale graduatoria vengono forniti da 400 persone che vivono sparse per le diverse città del mondo e che aiutano a verificare la rispondenza dei 13 criteri utilizzati per la valutazione:
- Advocacy: quanto le organizzazioni della città si occupano di mobilità in bicicletta e quale influenza hanno sulla politica locale;
- Cultura della bicicletta: quanto la bicicletta viene percepita dai cittadini come mezzo di trasporto;
- Infrastrutture per le biciclette: quanto nella città sono presenti infrastrutture specifiche per il trasporto in bicicletta (piste ciclabili, rampe, ponti, spazi sui mezzi di trasporto);
- Tasso infrastrutturale per le biciclette: in quale percentuale sono presenti le infrastrutture per la bicicletta;
- Programma di bike-sharing: quanto è presente e utilizzato il programma di bike-sharing;
- Utilizzo di genere: quanto la bicicletta è usata dalle donne;
- Modal share per le biciclette: obiettivi di sostenibilità urbana orientati allo sviluppo della cultura della bicicletta;
- Incremento del modal share dal 2006: quanto è incrementata la sostenibilità urbana legata all’uso della bicicletta dal 2006;
- Percezione della sicurezza: qual è la percezione della sicurezza dei ciclisti legata all’uso volontario del casco;
- Politica: qual è l’atteggiamento della politica locale nei confronti della mobilità in bicicletta;
- Accettazione sociale: quanto gli autisti e la comunità in generale considera la mobilità in bicicletta;
- Pianificazione urbanistica: quanto l’amministrazione comunale investe nelle infrastrutture ciclistiche e quanto è consapevole delle migliori pratiche;
- Limitazione del traffico: quanto l’amministrazione comunale fa nell’ambito della limitazione della velocità delle auto e nella limitazione del traffico per aumentare la sicurezza di pedoni e ciclisti.
Sia nella classifica del 2011 che in quella del 2013 non compare nessuna città italiana! Sarà forse un messaggio per capire che si deve fare subito qualcosa in più e considerare la mobilità in bicicletta e le sue infrastrutture un importante valore socio-economico piuttosto che una parola che riempie solo la bocca in occasione delle campagne elettorali?
Basta solo prendere i 13 criteri ed iniziare ad investire…