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Cosa non va nel riciclo della carta

Qualche tempo fa, mentre mi trovavo a Roma per lavoro, passo davanti ad un ufficio e rimango colpito da una persona che sta mettendo minuziosamente dei pezzi di carta in un sacchetto di plastica. Cosa inusuale per il suo lavoro di impiegato commerciale. Alla mia comprensibile curiosità mi viene risposto che sta “semplicemente” preparando la carta da portare a casa e da avviare al riciclo perché non è convinto che in azienda la separazione dei rifiuti venga ben fatta o, addirittura, non venga fatta per nulla nonostante si tratti di una multinazionale dotata di protocolli e rigide procedure interne nonché di certificazioni internazionali di ogni tipologia e grado.

Io, che sono particolarmente sensibile alla materia, cerco di approfondire la questione (magari ne viene fuori anche un bel articolo per Bioimita…) e scopro che per lui comportarsi in questo modo è una cosa assolutamente normale ma non viene ben visto dai colleghi che, quasi quasi, lo deridono per la piccola perdita di tempo e per la sensibilità un po’ troppo eccessiva (se non stupida) rispetto ad un problema secondario del lavoro o della vita come la gestione dei rifiuti prodotti sul lavoro. In effetti ci sono gli addetti alle pulizie che hanno il compito di liberare i cestini dai rifiuti a fine lavoro. Se, poi, non li avviano al previsto riciclo e li mescolano che vuoi che sia. Non cascherà mica il mondo!

Ragionando in seguito e con calma sull’episodio (mentre mi sto addormentando in albergo, tanto che devo prendere un foglio di carta e una penna dal comodino per appuntarmi le idee) penso che, in ambito lavorativo, per ogni persona che abbia questa spiccata sensibilità per il problema del riciclo dei rifiuti e della sostenibilità ambientale, ce ne siano purtroppo almeno 50 (o, forse, anche 100) che non si pongono affatto il problema o che, se se lo pongono, se lo pongono in maniera troppo superficiale e non fanno quasi nulla di concreto per risolverlo.

L’episodio è anche la dimostrazione evidente che un sistema basato sul continuo consumo delle materie e sulla conseguente produzione di rifiuti (anche se da avviare al riciclo) non può essere risolto solo dal punto di vista organizzativo e tecnico e non può prescindere dal comportamento e dalla cultura degli esseri umani-cittadini.

Il riciclo dei rifiuti, per funzionare veramente e per garantire una duratura sostenibilità ambientale come ci viene da più parti sbandierato, deve essere molto vicino al 100%. Cioè, all’interno della filiera, dovrebbero essere correttamente smaltiti tutti i rifiuti prodotti senza errori. Nessuno può permettersi di sbagliare contenitore e nessuno può permettersi di sbagliare le procedure. Mentre invece, come si sa, c’è sempre chi è “distratto” e sbaglia bidone; c’è chi è menefreghista e qualche volta si “dimentica”; c’è chi, come gli operatori della raccolta, non è attento sul lavoro. E chi più ne ha più ne metta…

Dal momento che il riciclo dei rifiuti non è adeguato quale strumento per garantire sostenibilità ambientale duratura perché è troppo influenzato da variabili comportamentali che è estremamente difficile poter orientare verso la direzione voluta, è allora necessario che in quest’ambito, cioè quello del fine vita dei prodotti, si operi a livelli diversi in modo tale da escludere il più possibile scelte troppo razionali e consapevoli da parte degli utenti.

In particolare è necessario che il sistema tecnocratico (la politica) e la forza critica dei consumatori spingano il sistema produttivo a farsi carico di riconsiderare la produzione riprogettando i beni nell’ottica finale della NON produzione dei rifiuti attraverso una maggiore riparabilità, il riuso tal quale delle parti e delle materie e, solo alla fine, il trattamento degli stessi attraverso il riciclo. In quest’ottica il sistema produttivo deve iniziare a ragionare che il rifiuto, così come lo abbiamo conosciuto fino ad ora da avviare all’incenerimento, alla discarica o, se va bene, al riciclo, non deve più esistere.

Ce lo mostra la natura che funziona in questo modo e ce lo chiede il futuro dei nostri figli.

 

Il cambiamento degli “stili di vita” funziona?

Prendo spunto dall’interessante articolo “Stili di vita. La ricetta neo-liberista” pubblicato qualche tempo fa dal sito saluteinternazionale.info per avventurarmi in un’analisi sociologica di quali siano i possibili limiti per far sì che una maggiore consapevolezza ecologica si traduca poi in azioni concrete da parte dei singoli individui verso una sempre più profonda sostenibilità ambientale. Peraltro necessaria.

È vero, l’articolo in questione parla di salute pubblica e non di ecologia ma gli argomenti in discussione – salute e sostenibilità ambientale – sono così strettamente interconnessi nei loro obiettivi, nelle loro dinamiche sociali e nei loro risultati che si possono perfettamente sovrapporre.

In particolare nell’articolo si osserva quanto siano inefficaci le campagne di educazione di massa sulla salute (quelle che si propongono di modificare gli “stili di vita”) basate sul presupposto che la causa ultima delle malattie – e l’obiettivo su cui agire – risieda quasi esclusivamente nei singoli individui e nelle libere scelte che essi compiono. Focalizzare l’attenzione sulla responsabilità individuale fornisce un alibi ai decisori di aver fatto tutto il possibile per risolvere i problemi, anche se poi i risultati o sono scarsi o, se positivi, risultano troppo lenti nel realizzarsi. Inoltre la scelta di agire sul cambiamento dei nostri comportamenti – sapendo che sono lunghi nel concretizzarsi – può destare anche il sospetto che le loro decisioni siano fortemente influenzate dalle lobby che vogliono guadagnare soldi sulle nostre disgrazie.

Attualmente la visione dominante relativa alla promozione della salute tra gli operatori del settore igienico-sanitario e tra i decisori politici è solo quella che coinvolge il cambiamento dello “stile di vita” che ogni singolo individuo è sollecitato a compiere. La letteratura scientifica sull’argomento, però, dimostra la scarsa efficacia di tale approccio educativo-individualistico ponendo l’attenzione, invece, su un approccio strutturale e globale esercitato da parte della politica – cioè da parte dello Stato – che si pone un obiettivo a lungo termine ed agisce da più fronti per perseguirlo. Anche, se necessario, imponendolo.

Lavorare sugli individui e sui loro comportamenti essenzialmente vuol dire non voler risolvere i problemi ma mantenerli sempre vivi – pur facendo finta di risolverli – per assecondare il desiderio di medicalizzazione spinta della società che viene sostenuta da chi ne trae vantaggi. Solo lo Stato, invece, è in grado di incidere su cambiamenti rapidi e duraturi, attraverso scelte fiscali, scelte tecniche e scelte organizzative anche forti ed estreme.

Spostando ora l’attenzione sulle questioni ambientali si può osservare esattamente la stessa dinamica. I decisori politici fanno (apparentemente?) di tutto per “educarci” ad essere più ecologici e più sensibili alle tematiche ambientali anche se poi continuano ad accettare incenerimento dei rifiuti, traffico veicolare urbano, ampio uso di chimica in agricoltura e chi più ne ha più ne metta. Questo atteggiamento però – maliziosamente o inconsapevolmente – tende a rallentare molto un processo che, invece, dovrebbe concretizzarsi in breve tempo perché la situazione è grave e dovrebbe essere risolta presto. Meglio sarebbe, invece, l’individuazione delle priorità d’azione inderogabili e la messa in campo di interventi forti da parte dello Stato nel perseguimento degli obiettivi.

Per capire meglio il concetto si prenda tra i tanti, ad esempio, due temi importanti dal punto di vista ambientale: la produzione di energia utilizzando fonti rinnovabili e la corretta gestione dei rifiuti, ponendo l’attenzione soprattutto sul riuso e sul riciclo dei materiali.

In merito alla produzione di energia è evidente comprendere come sia cosa molto lenta – e forse non del tutto efficace – coinvolgere individualmente i cittadini (un po’ tutti, anche quelli che hanno scarso interesse o scarsa cultura in materia) che prima devono analizzare nel dettaglio il problema, capirne l’importanza e, poi, agire concretamente o per richiedere sul mercato energia prodotta da fonti rinnovabili o per prodursela da soli. Se invece lo Stato imponesse delle tasse a chi produce energia inquinando e fornisse, come in parte ha fatto ma si è fermato sul più bello, forti incentivi (ripagati dalle tasse di cui prima) a chi produca o utilizzi energia da fonti rinnovabili, si capirebbe anche intuitivamente quali sarebbero i risultati.

Venendo ai rifiuti, alla limitazione della loro produzione, alla loro corretta gestione e al loro corretto trattamento, si fa veramente fatica ad educare, in breve tempo e verso una direzione univoca, una massa di individui che hanno diverse personalità e diverse culture. Inoltre, in quest’ambito, il cattivo comportamento di pochi potrebbe determinare danni ambientali anche molto gravi che coinvolgono tutti (ad es. gli incendi o l’abbandono dei rifiuti che si verificano soprattutto in alcune regioni d’Italia). Migliori risultati si otterrebbero invece attraverso un intervento molto forte dello Stato che tassa già alla fonte i materiali poco riciclabili, che crea politiche che incentivano il riuso dei materiali, che penalizza chi produce troppi imballaggi e così via.

Sulla base di queste considerazioni – replicabili in una infinità di ambiti – si comprende facilmente come la modifica dei comportamenti individuali sia inefficace. Solo un forte intervento pubblico, invece, dispiegato in numerosi settori (tassazione, educazione, organizzazione, punizione, ecc.) può perseguire il raggiungimento di obiettivi concreti.

Il dubbio, però, è se qualcuno li voglia veramente perseguire!!!

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Immagine: www.controlacrisi.org

 

Gli inceneritori dello “Sblocca Italia”

In agosto, finché eravamo quasi tutti in ferie o in vacanza, nel torpore per il gran caldo e nella generale distrazione dovuta alla voglia di rilassarsi e divertirsi, il Governo – maliziosamente come fa di solito quando si tratta di far passare norme che i cittadini normalmente non vogliono – ha proposto, in un decreto attuativo dell’art. 35 della legge cosiddetta “Sblocca Italia(1), di far aprire 10/12/18 (il numero ancora incerto non è importante) inceneritori nelle varie regioni italiane. Non si tratterebbe solo di un’apertura verso questa forma di trattamento dei rifiuti che le regioni, nel loro processo decisionale autonomo devono poi vagliare ma, piuttosto, di un vero e proprio obbligo nei loro confronti. Prendere o lasciare!

Per comprendere l’assurdità della proposta ministeriale nel contesto di un mondo serio che va in tutt’altra direzione, qualche settimana fa il giornale Il Fatto Quotidiano ha pubblicato l’intervista a Enzo Favoino, ricercatore presso la Scuola Agraria del Parco di Monza ed esperto che lavora con le istituzioni europee e con diversi governi nazionali nella definizione delle migliori strategie nel settore della gestione e del trattamento dei rifiuti. Favoino, che non è aprioristicamente del tutto contrario all’incenerimento dei rifiuti, osserva che tale pratica richiede molte risorse finanziarie, ben quattro volte superiori rispetto a quelle necessarie per il funzionamento degli impianti “a freddo”. Il motivo è dovuto al fatto che gli impianti, essendo molto costosi, necessitano di continui apporti di rifiuti per poter funzionare tantoché le amministrazioni pubbliche, per non dilapidare denaro, sono costrette a rallentare i programmi di espansione della raccolta differenziata. Molto meglio dell’incenerimento dei rifiuti – osserva sempre Favoino – sarebbe il trattamento a freddo degli stessi con recupero di materia attraverso sistemi di selezione e stabilizzazione biologica. Da essi si otterrebbe:

  • dalla frazione organica compost pulito da riutilizzare in agricoltura;
  • dal residuo materie prime (carta, plastica, metalli, vetro) da reimpiegare nelle attività produttive ed eventualmente, per la piccola parte che rimane, materiale da avviare all’incenerimento o alla discarica.

Dato il loro costo minore gli impianti di trattamento a freddo consentono anche di modulare politiche di espansione della raccolta differenziata a monte, cioè effettuata già da parte dei cittadini.

Una delle critiche (ingiuste) al trattamento a freddo dei rifiuti è che esso non consente di evitare le discariche. Spiega sempre Favoino che anche l’incenerimento dei rifiuti ha bisogno di discariche perché le ceneri (circa il 30% del totale) e le scorie intercettate dai camini – tra l’altro molto nocive – da qualche parte devono pur essere messe. Per evitare la discarica, invece, sarebbe necessario e possibile potenziare la raccolta differenziata a monte, sviluppare programmi di riduzione nella produzione dei rifiuti, introdurre sistemi di tariffazione puntuale (si paga in base a quello che effettivamente si produce in termini di peso). Tutte cose che l’incenerimento dei rifiuti non si propone affatto di fare nella logica della sua avidità bulimica di enormi quantità di materiali da bruciare.

La giusta soluzione per la gestione dei rifiuti, ben spiegata dagli esperti, è piuttosto semplice e in parte (es. la raccolta differenziata) è già stata da tempo avviata. Mi chiedo solo una cosa: o le figure politiche che continuano a propinarci vecchie e inutili soluzioni sono incapaci e devono essere subito sostituite oppure dietro di loro hanno qualcuno che fa prendere loro le decisioni sbagliate. Ed è ancora peggio!

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(1) Il D.L. del 12 settembre 2014, n. 133 lo hanno chiamato “Sblocca Italia” a significare che si tratta di una politica “del fare” contraria al vecchio immobilismo del passato e ai sistemi troppo democratici. Se poi se si tratta, in alcuni aspetti, anche di “fare male” o di “fare per gli amici” (vedi semplificazioni infrastrutturali, edilizie, estrazioni petrolifere, produzione energetica dai rifiuti e altro) questo non è un grosso problema e chi paga sono sempre i poveri cittadini inermi che subiscono scelte che non vanno a loro vantaggio!
Per approfondire:
Pizzarotti scrive a Renzi: “Se si segue il modello Parma si chiudono gli inceneritori
Patrizia Gentilini: “Sbocca Italia e inceneritori, dove sta la coerenza con le politiche europee?

 

Life without plastic

Qualche anno fa il giornale britannico The Indipendent ha pubblicato la storia di Thomas Smith, un dottorando in chimica di Manchester che ha tentato di vivere senza plastica. Dopo sei mesi si è purtroppo arreso perché questo terribile e fantastico materiale è dappertutto e pervade con involontaria insistenza tutta la nostra esistenza quotidiana e tutta la nostra vita. Da quando nasciamo a quando la nostra pelle è la carta geografica delle nostre numerose esperienze di vita la plastica è con noi. Dal biberon al catetere ospedaliero. Dalla penna al computer. Dalle bevande al cibo non ne possiamo fare a meno e chi ci ha provato si è dovuto arrendere di fronte allo stress di combattere un “nemico” troppo potente.

È stato abbastanza difficile trovare frutta e verdura senza imballaggi di plastica – ha affermato Thomas Smith – ma le ho trovate nei piccoli negozi di quartiere. Più complesso è stato trovare la carta igienica non imballata o dentifricio e spazzolini da denti non in plastica. Il sapone poi me lo sono fatto da solo. Anche fare acquisti in internet non è stato semplice – continua Smith – perché gli imballaggi degli spedizionieri sono anch’essi in plastica”.

Di fare a meno della plastica ci hanno provato anche molti altri. E tutti, prima o poi, hanno dovuto desistere dall’impresa. Beth Terry, dalla California, afferma di essere riuscita a vivere senza plastica per anni, anche se non è riuscita a far sì che il suo bagno fosse del tutto plastic free. Gavin McGregor, di Londra, ha sperimentato una vita senza plastica ma è durato solo un mese per le enormi difficoltà di acquistare, in una grande città, alimenti senza imballaggi di plastica.

Tutto questo nonostante il fatto che gli ingredienti chimici di più del 50% della plastica in commercio siano, in accordo con la classificazione delle Nazioni Unite, molto pericolosi per la salute. Ne è un esempio il Bisfenolo A presente in numerosi prodotti, tra cui dispositivi medici e imballaggi per cibo e bevande; gli ftalati che possono danneggiare il sistema riproduttivo e possono procurare asma e cancro; gli additivi del PVC, del polistirene, del poliuretano e del policarbonato che sono dei potenti interferenti endocrini e possono provocare il cancro.

Fare a meno della plastica risulta impossibile anche nonostante il fatto che essa rappresenti un grave problema per la corretta gestione dei rifiuti, compreso il loro riciclo. Circa la metà dei rifiuti plastici prodotti nell’Unione europea finisce nelle discariche e non viene trattata. A livello mondiale la produzione di plastica è aumentata dagli 1,5 milioni di ton. del 1950 agli attuali circa 260 milioni di ton., di cui circa 60 milioni di ton. sono prodotti nella sola Europa, con un incremento previsto di circa il 5% annuo.

È certo che si deve fare qualcosa. E presto. Da subito è necessario che si inizino a stabilire delle regole che impongano plastica totalmente riciclabile o compostabile. Ma anche questo non è sufficiente perché la raccolta dei rifiuti e il conseguente riciclo degli stessi è un fenomeno troppo capillare e complesso per poter funzionare bene. Sarà allora necessario cercare di far sì che già dalla produzione siano evitati i prodotti usa e getta e si inizi a pensare maggiormente al riuso degli stessi, affinché possano avere una nuova vita senza diventare per forza rifiuti. Piuttosto che eliminare la plastica – per ora ancora insostituibile – sarà necessario operare perché la stessa comporti il minor impatto ambientale possibile e sia concepita – attraverso imposte che la tassino enormemente o attraverso metodi che ne impediscano l’uso indiscriminato – come un materiale raro, da riutilizzare e trasformare continuamente.

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Nota: Per chi desiderasse provare a vivere senza plastica o per chi fosse semplicemente interessato a limitare il proprio impatto ambientale derivante dall’uso di tale materiale può cercare ispirazione per prodotti senza plastica nel sito Life Without Plastic (www.lifewithoutplastic.com).
Fonte: The Indipendent

 

La maledizione dei rifiuti

Per capire che la gestione dei rifiuti non funziona (anche quella differenziata porta a porta o l’incenerimento) (1) basta vedere le foto che ho scattato quest’inverno sulle spiagge di Vallecrosia e di Ventimiglia, in provincia di Imperia. Le foto le faccio nelle stesse spiagge tutti gli anni almeno da 15 e, nonostante le diverse tecniche di raccolta differenziata messe in atto dai governi e nonostante le differenti capacità dei vari amministratori locali,  noto che nel tempo i rifiuti non accennano né a diminuire in quantità né a mutare nella loro qualità. Si tratta prevalentemente di pneumatici, contenitori di plastica, salvagenti, bottiglie e lattine, piccoli pezzi di plastica dai colori e dei formati più vari, scarpe e ciabatte spaiate, galleggianti delle reti da pesca, giocattoli… mescolati a residui vegetali lignei. Da questo, in modo abbastanza empirico ma con solidi fondamenti nella realtà, deduco che in generale l’attuale gestione di rifiuti è totalmente fallimentare.

Questa “rumenta” – come la chiamano da quelle parti – d’estate non si vede perché le amministrazioni comunali, prima dell’inizio della stagione turistica, spendono i soldi dei contribuenti per eliminarle o, peggio, non riescono ad impedire che vengano bruciati direttamente sul posto. Nonostante le operazioni di maquillage pre-estivo, i rifiuti vengono comunque tutti gli anni portati a riva dalle mareggiate invernali e, vista la loro quantità e variabilità, non si può assolutamente parlare di qualche episodio sporadico ma di una evidente profonda e cronica lacuna del sistema che deve essere assolutamente rivisto e riformato.

Tanto per capire da dove i rifiuti presenti in spiaggia provengono, analizzandoli a vista si può innanzitutto osservare che, in parte, essi sono presenti in mare perché gettati dalle navi e dalle barche al largo; in parte vengono gettati negli alvei dei torrenti quando sono in secca e solo le piogge autunnali se li portano a mare; in minima parte sono già presenti nelle spiagge a causa dell’incuria di chi le frequenta che si “dimentica” pacchetti di sigarette, sacchetti delle patatine, buste di plastica, lattine di birra o bottigliette di acqua.

La falla nel sistema è evidente e non risiede tanto nelle tecniche sbagliate che vengono impiegate nella raccolta e nel trattamento dei rifiuti, quanto, piuttosto, nel fatto che dovrebbe essere applicato il principio della bioimitazione e i rifiuti non dovrebbero essere proprio prodotti. Piuttosto che impegnare un mare di risorse economiche e di sforzi organizzativi per cercare di raccogliere al meglio i residui dei nostri consumi (2) (che però i nostri comportamenti sbagliati e la nostra scarsa cultura ed etica contribuiscono a far in parte fallire), sarebbe meglio ribaltare il problema ed iniziare ad obbligare i produttori (con leggi vincolanti ed incentivi a chi è più virtuoso) a rivedere le loro tecniche produttive e l’uso degli imballaggi. Bisognerebbe incentivare maggiormente quei prodotti costruiti con materiali ecocompatibili e rinnovabili che riescono ad essere smontati e riparati facilmente. Nel caso di imballaggi bisognerebbe penalizzare chi utilizza materiali non rinnovabili e non facilmente riciclabili. Bisognerebbe disinnescare poi la pratica dell’obsolescenza programmata e bisognerebbe operare a livello culturale per convincere i consumatori che è meglio acquistare prodotti di qualità piuttosto che prodotti a bassissimo costo.

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(1) Il mancato funzionamento della gestione dei rifiuti a cui si fa riferimento non si riferisce agli aspetti tecnici ma a quelli filosofici  che continuano ad accettare un sistema che produce rifiuti anzichè pensare a sistemi che non li considerino affatto.
(2)
Raccogliere e trattare i residui dei nostri consumi (cioè i rifiuti) è, in termini economici, un affare di appalti che può dare origine anche a numerose irregolarità e pratiche corruttive.

 

La tazza di ceramica

Avete presente i distributori d’acqua in boccioni? Quelli che qualche anno fa si vedevano solo nei film polizieschi americani nei corridoi di centrali di polizia fumose dove detective agitati e sudati cercavano di risolvere brutali omicidi? Da una decina d’anni sono entrati anche all’interno di numerose aziende ed uffici italiani per fornire gratuitamente ristoro ai lavoratori e ai loro ospiti. A fianco del boccione c’è poi sempre un contenitore per la distribuzione di bicchieri di plastica e un cestino per la raccolta dei rifiuti che, a fine giornata, tende ad essere pieno di bicchieri che sono ancora praticamente puliti perché in gran parte utilizzati una volta sola e, per di più, solo per l’acqua.

Quello che fa più specie in tutto ciò non è solo il fatto che la plastica dei bicchieri usa e getta potrebbe essere sostituita – e, anzi, dovrebbe essere sostituita da subito – con materiali più ecologici (tipo materie plastiche compostabili di origine vegetale o carta), ma il fatto che la maggior parte delle persone che si servono dei distributori dell’acqua utilizzino un bicchiere pulito ogni volta che devono bere. Quello che più spesso vedo è che le persone si alzano dalla loro postazione di lavoro alla scrivania, prendono un bicchiere vuoto, lo riempiono di acqua, si dissetano e… pling. Buttano il bicchiere vuoto nel cestino. Pochi di loro si portano il bicchiere di plastica vuoto dalla loro scrivania utilizzandolo per tutta la giornata o, meglio, fanno uso di un bicchiere in vetro o di una tazza in ceramica lavabile e riutilizzabile, che sarebbe la soluzione migliore e più sostenibile dal punto di vista ambientale.

Io, che lo faccio da anni sia nel mio ufficio sia presso alcuni clienti (1), modestamente mi chiedo che cosa ci voglia a cambiare questo comportamento. È una cosa relativamente semplice che non comporta particolari spese per colui che la adotta e non influisce né negli aspetti igienici né in quelli di praticità. Anzi. In più è un comportamento che spesso incuriosisce molto coloro che lo vedono (tra i colleghi di lavoro, tra sconosciuti in treno e in qualsiasi altro ambiente di vita collettiva) e che per emulazione potrebbero iniziare anche loro a praticarlo.

La tazza di ceramica

Per questo, per Natale, ho deciso che ai parenti e agli amici regalerò delle tazze (mug) personalizzate o prese al mercatino dell’usato (ci devo ancora pensare…) (2). Chissà che qualcosa non inizi a cambiare. Anche, perché no, il valore etico e sociale dei doni che si fanno in questo periodo dell’anno.

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(1) Personalmente utilizzo anche una tazza in ceramica per il caffè (in ufficio) e contenitori riutilizzabili (Vapur, Lifefactory, Laken, SIGG, ecc.) per l’acqua e/o altre bevande.
(2) L’anno scorso, a Natale, ho regalato delle bottiglie Vapur in plastica riutilizzabile.
Foto: La mia scrivania durante una giornata tipo presso un cliente che frequento abitualmente.

 

Più lavoro, meno prodotti

Mi ha molto colpito la dichiarazione di Horst Neumann, capo del personale del Gruppo Volkswagen, il quale ha recentemente affermato l’intenzione del colosso europeo dell’auto di sostituire gran parte della manodopera che uscirà dal mercato del lavoro per raggiunta anzianità lavorativa con i robot. In particolare la sua analisi nasce dal fatto che nel Gruppo, nei prossimi 15 anni, andranno in pensione circa 32 mila persone e, dal momento che il costo del lavoro nell’Europa occidentale è molto elevato (circa 40 euro l’ora) se paragonato con quello dei paesi dell’est europeo (circa 11 euro l’ora), della Cina (circa 10 euro l’ora) o dei paesi emergenti, questi lavoratori verranno in gran parte rimpiazzati da dei sostituti meccanici che, per effetto delle più moderne tecnologie, non costano più di 5 euro l’ora. Solo così, secondo il manager, si potranno salvare le produzioni europee e garantire sufficienti profitti alle aziende.

Ma in Europa non dovevamo creare nuovi posti di lavoro per i giovani e per i lavoratori anziani che, colpiti dalla crisi, sono rimasti a casa? Questa parola – il lavoro – è sulla bocca di tutti i politici del vecchio continente durante le campagne elettorali anche se mi sembra che le loro azioni, quando iniziano a governare, vadano poi in direzione contraria e seguano più i desideri degli imprenditori di licenziare liberamente, di precarizzare il lavoro, di meccanizzare i processi produttivi a svantaggio dell’occupazione e creando conflittualità sociale. In definitiva si tratta solo di “fuffa” per abbagliare l’elettorato ma poi, in sostanza, negli anni la manodopera si è vista calare e calerà in tutta Europa tanto che i nostri figli si vedranno strappare diritti di civiltà e benessere che non dovrebbero assolutamente essere materia di negoziazione per il futuro.

Se gli industriali e i tecnocrati pensano di risolvere il problema della redditività delle aziende europee scalfendo, giorno dopo giorno e anno dopo anno, i diritti dei lavoratori e la manodopera, è da dire che il problema – e la sua soluzione – potrebbe essere visto anche da altri punti di vista. È il caso dell’economia circolare e della possibilità che quest’ultima possa davvero creare occupazione per i lavoratori, ricchezza per le aziende e stabilità sociale avendo come base la sostenibilità ambientale e la garanzia del mantenimento delle risorse per le generazioni future.

Com’è possibile ottenere tutti questi importanti risultati? Un interessante strumento potrebbe essere quello della tassazione e della sua modulazione in modo tale da favorire il lavoro piuttosto che l’uso e lo scambio delle materie, dal momento che queste ultime saranno sempre più scarse e le persone, invece, saranno sempre più numerose. Attualmente i nostri sistemi economico-sociali prevedono una bassa tassazione delle risorse e un’alta tassazione del lavoro che comportano, per l’ottenimento di prodotti competitivi sul mercato, un elevato uso delle materie e un sempre più basso impiego di manodopera. Se, invece, si optasse per il contrario – un’elevata tassazione delle risorse e una bassa tassazione del lavoro – si otterrebbe il risultato di limitare l’uso delle materie e dei servizi e si orienterebbe il sistema economico verso un maggiore utilizzo della forza lavoro.

Sarebbero così più vantaggiose tutte quelle attività ad elevata incidenza di manodopera, come il riuso e la riparazione dei prodotti. Le aziende si ritroverebbero costrette a riprogettare i loro beni nell’ottica del riuso e della riparabilità; l’efficienza sarebbe potenziata, l’obsolescenza programmata sarebbe un lontano ricordo e si svilupperebbero servizi di locazione dei prodotti e dei servizi piuttosto che la loro continua vendita (e la creazione di rifiuti) attraverso il commercio e il marketing.

In sostanza si passerebbe da un’economia linearmente infinita fatta di materie, prodotti, rifiuti e non sostenibile ad un’economia circolare dove il lavoro viene messo in primo piano, sparisce il concetto di rifiuto e viene favorito il riuso dei prodotti e la riciclabilità delle materie.

Economia lineare

Economia circolare

Economia circolare con lavoro

È vero, le tasse sono disgustose ma anche necessarie per sostenere il funzionamento della società. Visto che non ne possiamo fare a meno cerchiamo almeno di ripensarle e di orientarle in modo tale che siano una barriera verso l’indiscriminato e folle utilizzo di materie sempre più scarse e un volano verso l’utilizzo della manodopera, unico e solo vero scopo di una società democratica e sana (1).

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(1) La Costituzione italiana in vari articoli (art. 1, art. 35) tutela il lavoro come strumento di base per una sana società ma in essa non si fa riferimento alle materie, al commercio e ai rifiuti…
Per approfondire: www.ex-tax.com

 

I limiti del compostaggio

Per lavoro frequento aziende che operano nell’ambito del compostaggio dei rifiuti e che, dalla raccolta differenziata del cosiddetto “umido” producono compost ed energia. Il compost è originato da un processo di degradazione aerobica (1) della frazione organica dei rifiuti mentre l’energia è prodotta attraverso la combustione del biogas – costituito da gas metano e altri gas – che viene creato volutamente mediante degradazione anaerobica (2) del materiale organico. In sostanza, all’interno degli impianti, tutto funziona in un flusso circolare dove lo scarto di una fase è la materia prima di un altra fase e ciò rappresenta la piena applicazione della bioimitazione.

In sé si tratta di un’attività estremamente utile a livello sociale perché consente una corretta gestione dei rifiuti prodotti dalle famiglie e dalle attività economiche nonché avanzata dal punto di vista tecnologico perché, almeno in teoria, è in grado di ottenere dagli stessi rifiuti ammendante da utilizzare in agricoltura ed energia da un gas che si produce inevitabilmente nel processo e che altrimenti andrebbe disperso in atmosfera con gravi conseguenze per il riscaldamento globale e i cambiamenti climatici (3).

La questione, purtroppo, è solo valida a livello teorico perché, prima di arrivare agli impianti di compostaggio e al loro funzionamento, si deve passare, a monte, dalla corretta gestione dei rifiuti da parte di cittadini e aziende fino alla raccolta e al trasporto degli stessi verso gli impianti di trattamento. In questa filiera se qualcosa non funziona correttamente – e spesso non funziona – ne va a discapito il buon funzionamento degli impianti e la validità del processo tecnologico. Per non parlare, poi, della qualità del prodotto finito, sia esso compost da utilizzare in agricoltura o negli orti e biogas da impiegare per la produzione di energia.

Sta di fatto che spesso, per scarsa informazione e formazione dei cittadini sulle corrette modalità di raccolta differenziata e sulle motivazioni per cui la stessa non deve essere fatta con superficialità, piuttosto che per l’incuria della classe dirigente, politica e imprenditoriale più interessate ai grossi affari che ruotano attorno alla gestione dei rifiuti piuttosto che alla qualità del servizio offerto alla società, le cose non vanno come dovrebbero andare e i risultati sono quelli inquietanti mostrati dalle foto scattate in un impianto…

I limiti del compostaggio_01

I limiti del compostaggio_03

I limiti del compostaggio_02

Da notare come la plastica sia l’elemento principale (in peso addirittura quasi superiore a quello organico) nel materiale di compostaggio arrivato all’ultima fase di lavorazione. Per essere eliminata – solo la parte più grande della stessa perché quella più piccola rimane nell’ammendante e viene inevitabilmente sparsa nei terreni con effetti incerti sulla salute – il rifiuto deve essere sottoposto a numerosi cicli di vagliatura e di selezione manuale e meccanica con grande dispendio di energie e spreco di denaro.

L’effetto finale è, per fortuna, quello della foto…

I limiti del compostaggio_04

… ma a quale prezzo?

Grandi e decisamente più salutari risultati si potrebbero ottenere con i seguenti minimi sforzi a monte:

  • Educare maggiormente i cittadini a fare correttamente la raccolta differenziata a casa e a comprendere che piccoli gesti che comportano un minimo sforzo (come non raccogliere il materiale organico nei sacchetti di plastica, per fare un esempio tra i casi più frequenti) possono determinare enormi risultati a livello industriale nel processo di trattamento dei rifiuti;
  • Obbligare le amministrazioni comunali a gestire correttamente la raccolta differenziata dei rifiuti, magari sanzionandole economicamente o bloccando il trasporto o lo smaltimento dei rifiuti stessi in caso di gravi inadempienze. Ora, invece, i rifiuti vengono sempre gestiti e trattati, indipendentemente dalla loro qualità. Quello che cambia è il prezzo di smaltimento, ma la scarsa qualità del rifiuto vuol dire anche scarsa qualità del prodotto finito.
  • Togliere la politica – spesso non all’altezza o collusa con chi vuole che il sistema non funzioni – dalla gestione e dall’amministrazione delle municipalizzate o dei consorzi che si occupano di rifiuti e dare questi incarichi a professionisti del settore mediante concorsi.

Per rendere credibile il sistema della raccolta differenziata agli occhi dei cittadini che vedono non sempre ripagati i loro sforzi domestici bisogna far si che lo stesso sistema funzioni bene e che, nel tempo, funzioni sempre meglio.

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(1) Per digestione (o degradazione) aerobica si intende la degradazione in presenza di ossigeno delle sostanze organiche da parte di diversi microrganismi. Tale processo comporta la mineralizzazione del materiale organico, cioè la trasformazione del materiale organico in prodotti più semplici e stabili (non putrescibili).
(2) Per digestione (o degradazione) anaerobica si intende la degradazione in assenza di ossigeno delle sostanze organiche da parte di numerosi microrganismi. Tale processo produce biogas come gas di scarto.
(3) Il metano è un gas che è circa 30 volte più climalterante (ad effetto serra) dell’anidride carbonica (CO2).
Fonte: Wikipedia

 

Casa Batroun

Conosco personalmente Maya, la proprietaria di “Casa Batroun”. L’ho conosciuta nel 2009 a Beirut (1) durante uno dei miei soliti viaggi in giro per il mondo.

Maya si divide tra Londra – dove collabora con EcoConsulting, una società di consulenza nel campo ambientale – e Beirut (la sua città natale) dove cerca, con mille difficoltà ma anche con molta tenacia, di mettere in pratica quello che nell’Europa del nord è considerato essere cosa abbastanza normale.

Casa Batroun è una casa sostenibile e la sua particolarità non sta tanto nel fatto che si tratta di una casa ecologica per la quale sono state adottate certe soluzioni tecniche piuttosto che altre, quanto nel contesto in cui è stata realizzata. Il contesto è il Medio Oriente, una regione dove l’ecologia e la sostenibilità ambientale sono concetti praticamente agli albori (per non dire quasi inesistenti) e dove, per questa ragione, l’importanza del progetto e della realizzazione di Casa Batroun è ancora più importante. In parte perché può rappresentare un interessante esempio per le comunità locali di come si possa concretamente realizzare un edificio sostenibile; in parte perché può accrescere la cultura e la conoscenza degli artigiani locali verso tecniche nuove, meno impattanti su un ambiente, il loro, già abbastanza messo sotto pressione da abusivismo edilizio, pessima gestione dei rifiuti, trasporti e industrie inquinanti.

Casa Batroun_02Da come ora in origine a come è stata recuperata, Casa Batroun è ora completamente trasformata. Per arrivare a questo importante traguardo le soluzioni adottate per il restauro sono state:

  • riuso di vecchio legno sia per la parte strutturale che per alcuni pavimenti
  • riuso di vecchie porte, finestre, scale, piastrelle e mobili
  • utilizzo di legno proveniente da foreste sostenibili (FSC)
  • utilizzo di collanti a bassa emissione di solventi e formaldeide
  • utilizzo di isolamento a base di lana di pecora e pasta di legno
  • utilizzo di calce naturale
  • utilizzo di idropittura ecologica AURO
  • utilizzo di linoleum prodotto da resina naturale: durevole, riciclabile e privo di solventi
  • design bioclimatico: ventilazione, posizionamento delle finestre e ombreggiatura
  • riscaldamento mediante stufa a pellet
  • utilizzo di pannelli solari per la produzione di acqua calda
  • utilizzo di lampade a led
  • utilizzo di apparecchiature a basso consumo energetico
  • utilizzo di vasche per la raccolta dell’acqua da usare per l’irrigazione e le toilette
  • realizzazione di un tetto verde
  • predisposizione di un sistema di raccolta differenziata e di compostaggio dei rifiuti organici.

[Vedi il progetto di Casa Batroun]

Casa Batroun è stata costruita secondo i criteri della certificazione BREEAM Excellent (non ancora certificata) e ha ricevuto il premio Green Apple per la costruzione ecologica e per il recupero architettonico.

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(1) Durante quel viaggio sono anche stato in Siria e mi piange il cuore pensare come la sta riducendo una stupida guerra civile.

 

Polska

Ore 4.30 del mattino di un imprecisato giorno di agosto. Gli occhi ancora assonnati e lo sguardo perso nel vuoto (almeno il mio).
Stiamo partendo, Paola ed io, con la nostra Renault Twingo per un viaggio in terra polacca di due settimane. Le tappe non le abbiamo ben definite ma sappiamo di voler arrivare subito a Cracovia per vedere il campo di concentramento di Auschwitz-Birchenau, assaporare le bellezze naturalistiche della foresta di Białowietza e i suoi bisonti nonché visitare Danzica e le spiagge del nord che si affacciano sul Mar Baltico. Tutto il resto sarà una piacevole incognita.

Come al solito, prima di intraprendere un lungo viaggio, ci auguriamo che sia piacevole e interessante. Ma, questa volta, ci chiediamo anche qualche cosa di più: desideriamo compiere concretamente qualche azione etica ed ecologicamente corretta per dare alla nostra vacanza un sapore di sostenibilità.

Stabiliamo, allora, di fare un piccolo “gioco” e di lavorare sui rifiuti prodotti proponendoci innanzitutto di evitare, per quanto possibile, gli imballaggi nella fase di acquisto. In secondo luogo ci proponiamo di riciclare tutti i rifiuti da noi prodotti direttamente nei luoghi visitati e, nel caso in cui questi ultimi non siano organizzati per la raccolta differenziata, la scelta non può essere altro che caricare tutti i materiali maleodoranti sulla nostra piccola vettura per trasportarli verso il corretto smaltimento o a casa assieme alle valigie, alla tenda da campeggio e ai souvenir vari recuperati nel corso del viaggio.

Non sapendo ancora quello che ci aspetterà ci guardiamo con un sorriso (il mio sguardo rimane ancora molto assonnato nonostante il tentativo di pensiero elaborato), ingraniamo la marcia e iniziamo la nostra vacanza itinerante nell’Europa nord-orientale.

Al di là delle piccole oasi felici che incontriamo lungo la via (purtroppo presenti solo nella fase iniziale del viaggio), gran parte dei rifiuti, opportunamente separati per materiali omogenei (carta, plastica, vetro, metallo) devono essere messi in auto con noi. L’unico materiale che trova sempre una collocazione in loco (per fortuna, visto il cattivo odore!) è il residuo organico dei nostri pranzi all’aperto che viene lasciato a decomporsi ai margini delle strade o nei boschi.

L’esperienza della vacanza ci ha fatto empiricamente comprendere una cosa molto semplice: la separazione a valle dei rifiuti per la raccolta differenziata è un’operazione veramente efficace solo a livello teorico. Nella realtà dei fatti si basa su variabili che sono indipendenti dalla fisica o dalla biochimica e troppo legate ai comportamenti umani: politici, culturali, progettuali o sociali. Per tali ragioni, vuoi perché manca un servizio efficiente di raccolta differenziata su un determinato territorio, vuoi perché i cittadini non sono sufficientemente educati o sensibili al problema, vuoi perché la progettazione dei prodotti rende difficile un’agevole separazione dei materiali anche per le persone più intraprendenti, rimane sempre una percentuale di materiali (anche preziosi o molto inquinanti) che finisce interrata nelle discariche o bruciata negli inceneritori.

La natura, a guardarla bene, non prevede alcuna gestione o riciclo dei rifiuti. Tutto viene riparato, riutilizzato o trasformato, senza perdite o sprechi di materiale.

Pertanto, se vogliamo intraprendere seriamente il percorso verso il progresso e la difesa della civiltà del benessere, dobbiamo per forza passare attraverso la sostenibilità ambientale. Quella seria e duratura – non quella che alimenta effimeri processi ecologici – è quella che riprogetta i prodotti e i materiali e si libera del concetto di rifiuto.

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Foto: Rifiuti raccolti nel corso del viaggio in attesa del riciclo: plastica, carta, lattine.

 

Fermiamo l’uso della torba

La torba si forma dalla parziale decomposizione del materiale organico in zone ricche d’acqua e in assenza di ossigeno. Questo processo fisico-chimico trattiene il carbonio, che, assieme al metano, si libera sotto forma di anidride carbonica (CO2) non appena la torbiera viene essiccata per le operazioni di estrazione. Il carbonio continua poi ad essere rilasciato, sempre sotto forma di anidride carbonica, anche quando la torba viene utilizzata in giardino, spesso quale ingrediente principale dei sacchi di terriccio in vendita nei negozi di giardinaggio e nei supermercati.

L’estrazione della torba, inoltre, distrugge habitat unici popolati da uccelli, farfalle, libellule, piante e altri esseri viventi che, esclusivamente, in essi vivono.

Per tutte queste ragioni, da più parti, si è cercato da tempo di scoraggiarne l’uso coinvolgendo sia le aziende produttrici sia i consumatori. Malgrado tutti gli sforzi, però, l’uso della torba da parte degli amanti del giardinaggio è molto difficile da eradicare.

Dal lato dei consumatori perché spesso non conoscono la composizione dei sacchi di terra che acquistano ed ignorano le implicazioni che la torba in essi contenuta può avere sugli ecosistemi e sul clima.

Dal lato dei produttori perché, soprattutto in alcuni Paesi del nord Europa, la torba è molto economica e con pochi investimenti è possibile trasformare terreni agricoli in facili profitti. Basta solo asciugare il terreno, estrarre la torba, metterla nei sacchetti (magari miscelata ad altri elementi) e venderla nel sistema della grande distribuzione. Naturalmente prima servono le autorizzazioni, ma esse non sono difficili da ottenere.

Se, però, nel prezzo della torba si considerassero anche i costi ambientali invisibili che essa incorpora (stimati in decine di milioni di euro l’anno) dovuti alle alterazioni climatiche, alla perdita di habitat, alla funzione di filtrazione, alla funzione di accumulo di carbonio e metano che le torbiere hanno, il suo prezzo raddoppierebbe e nessuno la utilizzerebbe più.

I materiali alternativi alle torbiere esistono e fanno parte del sistema di trattamento della frazione organica dei rifiuti o della gestione delle deiezioni animali. Tali materiali, che risponderebbero più ai principi della bioimitazione, garantirebbero una maggiore circolarità delle risorse e una maggiore consapevolezza tra i consumatori sull’importanza della raccolta differenziata dei rifiuti organici.

Fate in modo che un hobby salutare quale il giardinaggio sia volano della sostenibilità ambientale e fermate l’uso della torba!!!

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Foto

 

Il passaporto dei prodotti

Sussulto quando le mie orecchie sentono figure politiche del calibro di Janez Potočnik (Commissario europeo all’Ambiente) affermare che in Europa, per mantenere competitiva l’industria, è necessario cambiare il modo in cui si produce e si consuma. Il motivo del sussulto è che, dopo anni – forse già decenni – che “noi” ambientalisti lo diciamo, se ne sono finalmente accorti anche “loro”. Loro che, invece, fino ad ora, ci hanno sempre detto che tutto andava bene e che dovevamo essere solo più ottimisti.

La realtà dei fatti è che nel mondo – vuoi per l’emergere di nuove economie che ci fanno competizione, vuoi per la scarsità delle risorse che si profila, all’orizzonte, sempre più profonda – vi è sempre meno disponibilità di materie e, se si desiderano acquistare, i loro prezzi sono elevati.

L’idea che ha lanciato il Commissario Potočnik, spinto da alcuni paesi europei (tra cui l’Italia) e da alcune ONG, è quella di istituire una sorta di “Passaporto dei prodotti”, allo scopo di massimizzare l’uso delle risorse europee, il riciclo e il riuso dei materiali.

In sostanza l’idea del Commissario è quella di creare un’economia circolare delle risorse interne all’Ue, possibile solamente se, a monte, si conosce come è composto un prodotto e quali sono le modalità per disassemblarlo e riutilizzarne correttamente i materiali. Inoltre i prodotti devono anche essere (ri)progettati e fabbricati con l’idea di riutilizzarne poi i materiali che li compongono.

Secondo le stime della Ue da questa manovra si potrebbe ridurre realisticamente la richiesta di materiali fra il 17% e il 24%, aumentando il Pil e creando fra 1,4 e 2,8 milioni di posti di lavoro.

All’interno del progetto proposto potrebbero essere previste anche norme riguardanti l’uso di agenti chimici e prodotti pericolosi in agricoltura nonché azioni verso l’eliminazione progressiva dei sussidi nocivi per l’ambiente e la salute pubblica come quelli ai carburanti fossili, nel settore energetico nonché sull’uso dell’acqua in agricoltura e nell’industria.

Se dalle parole si passerà ai fatti si vedranno realizzare concretamente i principi della bioimitazione.

Chapeau!

 

Sagre e feste paesane insostenibili

Con l’arrivo dell’estate si apre la stagione delle fiere, delle sagre e delle feste paesane che dal nord al sud del Bel Paese allieteranno piacevolmente le serate in ricordo di santi patroni o di antiche tradizioni enogastronomiche locali dove, anche nel più sperduto angolo d’Italia, si è elaborato un cibo leggermente diverso da quello del paese vicino.

Le sagre, si sa, rappresentano anche sistemi molto criticabili messi in atto dalle Pro-Loco o dalle associazioni per generare, talvolta, una discutibile economia locale e raccogliere ingenti guadagni, spesso esentasse e al di fuori delle regole autorizzative ed igieniche. Ecco allora spuntare feste della birra dove quest’ultima non viene prodotta; ecco spuntare feste per ogni anonimo quartiere o strada; ecco spuntare feste della polenta, feste della costina, dell’asparago, della lumaca o della lepre dove questi prodotti o questi animali non si erano mai visti.

Ad un attento osservatore quello che impressiona di tali feste e al quale bisogna assolutamente dire “BASTA!”, è l’enorme quantità di rifiuti non differenziabili che in esse si utilizzano e la scarsa differenziazione del materiale riciclabile che le caratterizza. Basta fare un giro dietro le quinte o nei pressi delle cucine per appurare la montagna di sacchi di spazzatura prodotti!

Piatti, bicchieri, posate, tazzine del caffè, tovaglie, coprivassoi pubblicizzati, bottiglie di plastica e chi più ne ha più ne metta, vengono raccolti in sacchi di materiale indistinto, senza che vi sia un minimo accenno alla raccolta differenziata (anche se molti materiali sarebbero in sé facilmente differenziabili). E spesso senza che qualche amministratore locale dica poco o nulla, anche presso quei Comuni dove vi è una raccolta differenziata molto spinta (porta a porta) dei rifiuti.

Personalmente ritengo che il solo riciclo dei rifiuti non sia la vera e unica soluzione al problema e, pertanto, sono convinto che, per rendere le sagre sostenibili, si debbano stabilire da subito delle regole ben chiare che provo ad elencare in ordine di importanza:

  1. favorire l’utilizzo di piatti, bicchieri e posate lavabili e riutilizzabili;
  2. per i prodotti usa e getta vietare l’uso di quelli in materiale plastico non riciclabile e obbligare l’uso di quelli compostabili;
  3. sanzionare chi non effettua la raccolta differenziata dei rifiuti.

A noi cittadini spetta il compito di non frequentare, boicottandole, quelle sagre, fiere o feste paesane che non adempiano a tali principi e che non perseguano concretamente il percorso verso la sostenibilità ambientale.

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Foto: www.igorvitale.org

 

H&M Conscious | Abbigliamento

Anche le grandi aziende multinazionali possono contribuire con i loro prodotti e con le loro scelte commerciali a garantire la sostenibilità ambientale ma, soprattutto per l’impatto che hanno su un gran numero di consumatori, a sviluppare una diffusa coscienza ecologica.

H&M – la famosa multinazionale svedese dell’abbigliamento – per la primavera-estate 2013 ha messo in commercio la Conscious Collection e la Conscious Exclusive, collezioni di vestiti e accessori non solo prodotti con tessuti biologici, ma anche caratterizzata dalla ricerca di una filiera produttiva sostenibile.

HM Conscious ExclusiveInoltre H&M, in questo contesto della Conscious Collection e della Conscious Exclusive, ha messo in campo anche un’iniziativa interessante di raccolta dei vestiti usati, indipendentemente dalla marca. La motivazione consiste nel fatto che, anziché far finire del materiale in gran parte ancora utilizzabile nelle discariche o negli inceneritori, H&M, in cambio di un buono sconto, si impegna a consegnare gli abiti raccolti al più vicino impianto di trasformazione. Gli abiti ancora buoni verranno riusati oppure verranno riciclati i tessuti.

Ragioniamo per paradossi

Ragioniamo per paradossi e ipotizziamo che, oggi, almeno metà degli italiani abbia buttato un foglio di carta A4 da 80 g nel cestino della raccolta indifferenziata (1). Qualcuno lo ha fatto di proposito, qualcuno non ci ha pensato più di tanto. In tutto fa circa 30 milioni di fogli per un totale di 240.000 Kg di carta che, anziché finire in un centro di riciclaggio per il recupero della cellulosa, finisce in un inceneritore o in una discarica.

Se, poi, questa proporzione si dovesse ripetere tutti i giorni dell’anno si parlerebbe di 87.600.000 (87 milioni circa) annui di Kg di sola carta proveniente dal mancato riciclo di un foglio per persona.

A pensarci bene, avendo ben chiaro cosa siano 87 milioni di chilogrammi, fa venire i brividi! E dimostra, con limpida chiarezza, che il concetto del riciclo dei rifiuti è ambientalmente sostenibile solo a livello teorico. Purtroppo nella pratica questa operazione si scontra con troppe variabili (la cultura, la mancanza di sensibilità, l’inerzia della politica, l’assenza di un servizio pubblico di raccolta, la pigrizia) che vanificano gli sforzi dei cittadini virtuosi e che non fanno ottenere risultati concreti di recupero delle materie e di eliminazione delle discariche e degli inceneritori.

Sarà che dietro i rifiuti – e dietro la loro filiera fino ad arrivare al loro incenerimento – ci sono troppi interessi economici ma è chiaro che il sistema del riciclo ha un pieno valore ecologico solo se funziona come un orologio svizzero. Altrimenti sono solo chiacchiere!

Sì è vero, dirà qualcuno, che ogni anno si recuperano milioni di tonnellate di quella materia o di quell’altro prodotto e le cifre aumentano di anno in anno. Ma perché questo abbia un valore concreto a livello di sostenibilità ambientale deve essere pari al totale. Oramai la pratica del riciclo dei rifiuti è in campo da parecchi decenni e se non è ancora arrivata al livello del 100% significa che, in fondo, c’è qualcosa che non va!

Una possibile soluzione alternativa dovrebbe essere quella di mettere in campo idee e soluzioni nuove. A partire dalla semplice formazione dei cittadini casa per casa, per passare dalla dismissione delle cave e degli inceneritori con lo scopo di dare vita a centri di recupero totale del materiale, fino ad arrivare alla riprogettazione dei prodotti, dalle materie che li compongono alla facile separabilità delle stesse a fine vita.

Purtroppo i tempi cominciano, per mille ragioni, ad essere stretti e non è più tempo di buttare al vento parole… parole… parole…

(1) osservando i comportamenti negli uffici di varie città d’Italia che frequento in qualità di consulente, secondo me le quantità sono molto più elevate rispetto a quelle ipotizzate.

Foto: aliceandmyworld

Amore Raffaele Snc | Prodotti usa e getta

L’azienda Amore Raffaele S.n.c. è un’azienda a conduzione familiare che opera nel settore del catering e che da qualche anno si è specializzata nella fornitura di stoviglie monouso biodegradabili e compostabili, certificate secondo le normative tecniche UNI EN.

Le stoviglie offerte sono:

  • piatti in polpa di cellulosa
  • piatti in foglia di palma
  • posate in amido di mais o in legno
  • bicchieri per bevande fredde in PLA
  • bicchieri per bevande calde in cartoncino e film in PLA
  • vaschette in PLA con coperchio per cibi freddi
  • vaschette Biopap® in cartoncino con e senza coperchio per utilizzi da -40° a + 215°, microonde compreso;
  • shopper in amido di patate e PLA;
  • prodotti in cellulosa (tovaglioli, carta igienica, bobine, etc.) certificati PEFC;
  • personalizzazioni su cellulosa certificata FSC;
  • kit bio personalizzati e imbustati nel PLA.

Tra i prodotti (acquistabili anche on-line) figurano anche prodotti alimentari da agricoltura biologica.

L’azienda Amore Raffaele S.n.c. sceglie i propri fornitori privilegiando quelli più vicini che consentano limitazioni nei trasporti con conseguente risparmio di emissione di CO2.

Recreathing | Riuso e riciclo

Scrive Stefania sul suo blog Recreathing, di riuso e riciclo creativo:

Vivo a Verona con un’ingegnere elettronico e due gatte, ho studiato informatica, sono un ex programmatore e ho una passione nota per le scarpe e la tecnologia. Dopo 18 anni da tecnico ho deciso di cambiare la mia vita e ripartire con qualcosa di nuovo. Da qualche anno cerco rendere il mio stile sostenibile per migliorare il mio stile di vita nel rispetto dell’ambiente. Ho scoperto tardivamente di avere un’anima manuale e ho cominciato a modificare mobili e oggetti per dare delle nuove funzionalità o una nuova vita. Giro per mercatini per trovare mobili a basso costo che stimolino la mia fantasia e li trasformo cercando la soluzione giusta per l’idea che mi si forma nella mente. Inoltre riciclo materiali per dare loro una nuova funzionalità e metto tutti i miei progetti su questo blog.”.

Stefania si è inventata il marchio Recreathing/Recreathink per fornire interessanti indicazioni su come, se dotati di un minimo di manualità e di senso estetico, si possa ridare vita a vecchi oggetti mediante il riuso o se ne possa creare di nuovi mediante il riciclo della materia.

Se siete alla ricerca di un’interessante ispirazione…

Bioplat® Bio-Line | Prodotti usa e getta

Bioplat Bio-Line

Bioplat® Bio-Line è la gamma di prodotti usa e getta biodegradabili ed ecologici prodotti dalla SDG – Scatolificio del Garda. La serie comprende bicchieri in cartoncino e PLA, posate in legno, contenitori misti in foglie di palma, in polpa di cellulosa e in canna da zucchero.

In particolare:

Canna da zucchero: consente di produrre contenitori che hanno caratteristiche simili all’alluminio e al polistirolo;


Cellulosa: accoppiata ad un film di bioplastica consente di produrre contenitori (soprattutto bicchieri e coppette) resistenti sia al freddo che al caldo;


Foglie di palma: proveniente dall’indonesia, consente di produrre contenitori semirigidi e resistenti;


Legno: consente di produrre elementi particolarmente resistenti, soprattutto posate;


PLA: il PLA (acido polilattico) è un materiale derivante dall’amido di mais e per la sua trasparenza consente di produrre soprattutto bicchieri per bevande fredde.


Tutta la gamma Bioplat® Bio-Line è completamente biodegradabile e va conferita con la frazione organica nella raccolta differenziata dei rifiuti.


La filosofia usa e getta non si può definire sostenibile ma se proprio non se ne può fare a meno… è doveroso usare prodotti biodegradabili con basso impatto ambientale.

Grazie Natural Lucart

“Niente si disperde se tutto si ricicla!”

È questa l’idea da cui, prendendo spunto dalla sua lunga esperienza nella produzione di carta riciclata, è partita la cartiera della Lucart Group per realizzare i prodotti Grazie Natural. L’obiettivo, in particolare, era quello del riciclo e del recupero della materia dai contenitori di Tetra Pack.

Un normale contenitore di Tetra Pack è composto, per i 3/4 del suo peso, da fibre di cellulosa. Attraverso un processo di separazione meccanico queste ultime vengono separate dal resto dei componenti: l’alluminio e il polietilene. Inoltre, al fine di evitare l’uso di agenti chimici per la sbiancatura o coloranti il prodotto finito presenta una colorazione naturale.

I prodotti Grazie Natural Lucart sono prodotti per l’igiene, carte igieniche, fazzoletti e asciuga tutto e sono sottoposti a rigidi criteri di qualità previsti dalle certificazioni ottenute da Lucart Group (Ecolabel, Emas, ISO 14001, ISO 9001, test dermatologico).