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Marzo 3039
“Marzo 3039 come sempre a Londra piove / ma con calma e precisione / ho lasciato il sottosuolo per riflettere da solo / sull’attuale situazione
Dalla guerra del ’21 non ho visto più nessuno / della mia generazione / siamo tutti chiusi / in casa spaventati da ogni cosa, / da un’idea, da un’emozione
Chissà com’era quando il sole si poteva guardare / e sentirlo sulla pelle fino a farsi bruciare
Però oggi partono i missili, / li guarderò e saranno bellissimi.
Marzo 3000 e qualche cosa, è una notte luminosa / c’è la luna artificiale / sugli schermi informativi, su quei pochi ancora attivi / sembra sia tutto normale
Chissà com’era quando l’aria si poteva respirare / e sentirla nei polmoni fino a farli scoppiare / ogni notte sogno sempre di nuotare / e sento il fuoco sulle labbra che ti lascia il sale
E poi / Correre nel traffico, mettersi il soprabito / respirare microbi, perdersi nei vicoli
inciampare negli ostacoli, affidarsi a degli oroscopi / arrabbiarsi con le nuvole, evitare le pozzanghere
Sì ma… / Però… (correre nel traffico…) / oggi partono i missili (mettersi il soprabito) / li guarderò e saranno bellissimi (respirare microbi, perdersi nei vicoli)
Così… (inciampare negli ostacoli) / oggi partono i missili (affidarsi a degli oroscopi) / li aspetterò e saranno tantissimi (arrabbiarsi con le nuvole, evitare le pozzanghere)
Perché… oggi partono i missili”
Nei testi delle sue canzoni Daniele Silvestri è sempre molto evocativo e, con sublime maestria, quando affronta temi sociali riesce a descrivere storie che fanno molto pensare.
Questo è capitato a me quando ho sentito per la prima volta, molti anni fa, “Marzo 3039” (1). Anche se immagino che le ambientazioni della canzone si possano riferire ad un mondo post-atomico successivo ad una terribile guerra di un lontano futuro, io subito ho pensato anche a quello che potrebbe capitare alla Terra e alle attività umane a seguito di un enorme sconvolgimento climatico o ecologico.
Nell’apparente normalità di una notte con la luna artificiale (quella che un po’ viviamo anche noi ora in cui ci ripetono di continuare a consumare, di bruciare petrolio e di non pensare al futuro per godere solo il presente) il protagonista della canzone si chiede, con rammarico, quali potevano essere le sensazioni di respirare l’aria e di nuotare nel mare fino a sentire il bruciore del sale sulle labbra.
Marzo 3039 mi offre lo spunto per parlare di ecologia e di sostenibilità ambientale nell’ottica della prevenzione. Capire cioè che dobbiamo agire concretamente ADESSO per non dover rammaricarci in futuro di non aver fatto nulla, o quasi, per evitare la catastrofe. Anche perché credo che quello che eventualmente ci mancherà saranno proprio le piccole cose del “perdersi nel traffico”, “mettersi il soprabito”, “respirare microbi”, “perdersi nei vicoli”, “inciampare negli ostacoli”…
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(1) Il brano “Marzo 3039” è contenuto nell’album “Prima di essere un uomo” di Daniele Silvestri (sito ufficiale).
Sette principi per un’agricoltura sostenibile
Lo scorso mese di maggio Greenpeace ha pubblicato il rapporto “Agricoltura sostenibile – Sette principi per un nuovo modello che metta al centro le persone”. Si tratta di una proposta politico-economica che, basata sulle più recenti innovazioni scientifiche, si propone di mettere al centro l’idea che è necessario produrre alimenti sani lavorando in sinergia con la natura e non contro di essa. Per ottenere ciò, in sintesi, è necessario rimettere al centro le persone e i loro bisogni, non il mero profitto.
L’introduzione al rapporto recita: “Basta guardare i numeri per capire che c’è qualcosa che non va: quasi un miliardo di persone ogni notte va a dormire affamato. Allo stesso tempo nel mondo viene prodotta una quantità di cibo più che sufficiente a sfamare i sette miliardi di persone che popolano la Terra. Circa un miliardo di persone sono sovrappeso od obesi. Una percentuale sconvolgente del cibo prodotto, che arriva al 30%, viene sprecata.
Il problema oggi non è quello di produrre più cibo, ma di produrlo dove ce n’è più bisogno e in un modo rispettoso della natura. L’attuale agricoltura industriale non è in grado di farlo.
Nel frattempo il Pianeta soffre. Stiamo sfruttando in maniera eccessiva le risorse, compromettendo la fertilità del suolo, la biodiversità e la qualità delle acque. Ci stiamo circondando di sostanze tossiche, che si accumulano intorno a noi. La quantità di rifiuti prodotti continua ad aumentare. E tutto questo accade in un contesto di cambiamenti climatici e di crescente pressione sulle risorse del nostro Pianeta, che si stanno riducendo.
L’attuale sistema agricolo è dipendente dall’uso massiccio di sostanze chimiche e di combustibili fossili. È sotto il controllo di un ristretto numero di multinazionali, concentrate in poche aree del mondo, prevalentemente nei Paesi più ricchi e industrializzati. Si basa in modo eccessivo su poche colture, minando alle basi di un sistema sostenibile di produzione del cibo da cui dipende la vita.
Questo modello agricolo inquina le acque, contamina il terreno e l’aria. Contribuisce in maniera significativa ai cambiamenti climatici, minaccia la biodiversità e il benessere di agricoltori e consumatori. Fa parte di un più ampio sistema fallimentare che sta determinando:
- un crescente controllo delle multinazionali in alcune regioni del mondo, che si traduce in una sempre minore indipendenza e autodeterminazione per agricoltori e consumatori, impossibilitati a operare scelte autonome su come e cosa viene coltivato;
- un’insostenibile spreco di cibo (tra il 20 e il 30 per cento), che avviene principalmente nella fase di post-raccolto nei Paesi in via di sviluppo e nella fase di distribuzione e consumo nei i Paesi ricchi;
- l’utilizzo di vaste aree e risorse per l’allevamento (circa il 30 per cento delle terre e il 75 per cento dei terreni agricoli) e per la produzione di biocarburanti;
- un sistema agroalimentare basato sulla coltivazione di poche monocolture, da cui si origina un’alimentazione insostenibile e poco salutare, spesso povera di nutrienti, alla base sia di problemi di malnutrizione sia di obesità;
- gravi impatti sugli ecosistemi, inclusi:cambiamenti climatici (il 25 per cento delle emissioni di gas serra, comprese quelle derivanti dalla conversione dei terreni, deriva dal settore agricolo e inquinamento dell’aria;
- problemi di scarsità e contaminazione delle acque in diverse aree del Pianeta: l’agricoltura utilizza il 70 per cento delle risorse d’acqua dolce; degrado del suolo, compresi fenomeni diffusi di acidificazione dovuti all’uso eccessivo di fertilizzanti chimici o di perdita di materia organica nel suolo; perdita di biodiversità e agrobiodiversità a tutti i livelli, dalla varietà genetica delle colture alla perdita di specie a livello naturale.
Oltre ad affrontare questioni di equità sociale – come la mancanza di un accesso paritario alle risorse per gli agricoltori (in particolare per le donne), la riduzione dei sistemici sprechi di cibo e il diritto a un’alimentazione sana – dobbiamo anche abbandonare l’attuale sistema fallimentare di produzione e dirigerci verso un sistema compatibile con l’agricoltura sostenibile.
L’agricoltura sostenibile è la soluzione per il futuro. È necessario agire adesso per avviare un cambiamento di cui abbiamo estremo bisogno“.
In questo contesto i sette principi per un’agricoltura sostenibile proposti dal rapporto di Greenpeace sono:
1. Sovranità alimentare – Restituire il controllo sulla filiera alimentare a chi produce e chi consuma, strappandolo alle multinazionali dell’agrochimica;
2. Sostegno agli agricoltori e alle comuntà rurali – L’agricoltura sostenibile contribuisce allo sviluppo rurale e alla lotta contro la fame e la povertà, garantendo alle comunità rurali la disponibilità di alimenti sani, sicuri ed economicamente sostenibili;
3. Produrre e consumare meglio – E’ possibile già oggi, senza impattare sull’ambiente e la salute, garantire sicurezza alimentare e, contemporaneamente, lottare contro gli sprechi alimentari. Occorre diminuire il nostro consumo di carne e minimizzare il consumo di suolo per la produzione di agro-energia. Dobbiamo anche riuscire ad aumentare le rese dove è necessario, ma con pratiche sostenibili;
4. Biodiversità – E’ necessario incoraggiare la (bio)diversità lungo tutta la filiera, dal seme al piatto con interventi a tutto campo, dalla produzione sementiera all’educazione al consumo. Ciò vuol dire esaltare i sapori, puntare sul significato di nutrizione e cultura del cibo, migliorando allo stesso tempo l’alimentazione e la salute;
5. Suolo sano e acqua pulita – Significa proteggere e aumentare la fertilità del suolo, promuovendo le pratiche colturali idonee ed eliminando quelle che invece consumano o avvelenano il suolo stesso o l’acqua;
6. Un sistema sostenibile di controllo dei parassiti – Significa consentire agli agricoltori di tenere sotto controllo parassiti e piante infestanti, affermando e promuovendo quelle pratiche (già esistenti) che garantiscono protezione e rese senza l’impiego di costosi pesticidi chimici che possono danneggiare il suolo, l’acqua, gli ecosistemi e la salute di agricoltori e consumatori;
7. Sistemi alimentari resistenti – Un’agricoltura sostenibile crea una maggiore resistenza (resilienza). Significa rafforzare la nostra agricoltura perché il sistema di produzione del cibo si adatti ad un contesto di cambiamenti climatici e di instabilità economica.
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Scarica il rapporto completo in italiano [qui]
Bio Soil Expert
Bio Soil Expert è un’azienda che ha sede a Rovereto (TN) e che opera nel campo delle biotecnologie ambientali e per il territorio. La sua forza sta nella capacità di aver sostituito le metodologie tradizionali – il cemento, le reti metalliche, la chimica o le materie plastiche – con sistemi biologici viventi costituiti da piante e microrganismi per risolvere problematiche legate al territorio e all’ambiente mantenendo i medesimi standard qualitativi.
I sistemi proposti hanno un elevato grado di sostenibilità ambientale in quanto sono costituiti da essenze vegetali erbacee abbinate a specifici consorzi microbici. La sinergia di questi esseri viventi consente a tali essenze di avere un elevato sviluppo degli apparati radicali, sia in termini di profondità che di quantità. Non a caso il motto dell’azienda è “Soluzioni “radicali” per l’ambiente”.
Bio Soil Expert fornisce sia una consulenza progettuale per comprendere quale sia la problematica da risolvere e quale sia la soluzione migliore che tenga anche conto degli aspetti paesaggistici e naturalistici. Bio Soil Expert poi realizza gli interventi ed effettua attività di ricerca e sviluppo per capire nuove e migliori soluzioni tecniche.
Gli ambiti dove l’Azienda principalmente opera attraverso soluzioni “verdi” sono:
- dissesto idrogeologico per consolidamenti del suolo
- bonifica biologica di aree inquinate e contaminate
- fasce tampone di filtraggio delle acque superficiali e dei fiumi
- restauri ecologici che ripristino la naturalità del territorio
- fitodepurazione mediante specie vegetali.
Tossico come un pesticida
È stato da poco pubblicato il rapporto “Tossico come un pesticida” di Greenpeace, uno studio molto approfondito (1) che analizza gli effetti sulla salute umana delle sostanze chimiche utilizzate in agricoltura.
Riporto integralmente la prefazione allo studio che, da sola, è in grado di spiegare bene il fenomeno e di far capire quali siano i numerosi e gravi rischi di salute pubblica che stiamo correndo. Si tratta solo di esserne consapevoli per accettarli nella logica del sistema economico-finanziario che ce li impone (anche se ci dovessero colpire direttamente o dovessero colpire un componente della nostra famiglia) oppure per contrastarli adoperandosi perché ciò che mangiamo non sia solo poco costoso ma anche – e soprattutto – il meno nocivo possibile per gli addetti del settore, per i consumatori e per i cittadini in generale attraverso le varie contaminazioni ambientali.
“Dal 1950 la popolazione mondiale è più che raddoppiata, mentre l’area destinata alle coltivazioni è cresciuta solo del 10 per cento. C’è un’enorme pressione a produrre sempre più cibo, a basso costo, su terreni che diventano inesorabilmente più poveri, sempre più privati delle sostanze nutritive. L’attuale sistema agricolo – intensivo e su scala industriale – si regge sull’impiego abbondante di input esterni come fertilizzanti e pesticidi, sostanze conosciute anche come fitofarmaci, agrofarmaci, antiparassitari.
I pesticidi sintetici sono stati usati in maniera massiccia in agricoltura industriale a partire dagli anni Cinquanta. Col passare del tempo, a causa del loro uso diffuso e, in alcuni casi, della loro persistenza, molti pesticidi hanno finito per accumularsi nell’ambiente. Alcuni, come il DDT e i suoi derivati, si degradano in tempi molto lunghi e pur essendo vietati da decenni continuano a circolare e a essere rilevati nell’ambiente.
La persistenza di queste sostanze e i potenziali rischi ambientali hanno favorito una crescita esponenziale delle ricerche sui loro effetti (Köhler e Triebskorn, 2013) che, come è ormai chiaro, sono vari e diffusi. Nello stesso periodo è aumentata anche la conoscenza scientifica sugli effetti dei pesticidi per la salute umana. Gli studi rivelano associazioni statistiche tra esposizione e aumento del rischio di sviluppare disabilità, disturbi neurologici e al sistema immunitario, alcuni tipi di cancro.
Dimostrare che l’esposizione a un determinato pesticida è la causa di una malattia presenta varie difficoltà. Anzitutto perché non esistono fasce di popolazione totalmente non esposte ai pesticidi, e in secondo luogo perché la maggior parte delle malattie non è causata da un singolo fattore, ma da una molteplicità di fattori che rendono molto complessa l’analisi (Meyer-Baron et al. 2015). Inoltre, la maggioranza delle persone è esposta quotidianamente a veri e propri mix di composti chimici (non solo pesticidi) tramite diverse vie di esposizione. E i pesticidi contribuiscono ad aumentare questo carico di tossicità (2).
In generale siamo tutti esposti a un cocktail di pesticidi attraverso il cibo che consumiamo ogni giorno. Nelle aree agricole, dove queste sostanze chimiche circolano nell’aria quando sono irrorate sui coltivi (il cosiddetto “effetto deriva”), i pesticidi inquinano il terreno e le acque, e in alcuni casi vengono assorbiti anche dalle piante a cui non sono destinate (organismi non-target). In città le persone più esposte sono quelle che vivono nei dintorni delle aree verdi, ma l’uso domestico dei pesticidi può contaminare anche abitazioni e giardini.
Le fasce di popolazione maggiormente esposte e più vulnerabili includono:
- agricoltori e operatori addetti ai trattamenti con i pesticidi, compresi quelli che lavorano nelle serre, esposti ad alti livelli di sostanze chimiche durante lo svolgimento delle loro mansioni. Questa vulnerabilità è stata ampiamente dimostrata dai livelli trovati nel sangue e nei capelli di queste persone;
- bambini e feti in fase di sviluppo: le donne in gravidanza esposte ai pesticidi possono trasmettere alcune di queste sostanze direttamente al feto, particolarmente vulnerabile alla tossicità delle sostanze chimiche.
In generale i bambini sono più a rischio degli adulti poiché il loro tasso di esposizione è maggiore, per esempio a causa dell’abitudine di toccare le superfici e di portarsi le mani alla bocca. Anche dimensioni e peso corporeo ridotti contano, senza considerare che l’organismo dei bambini ha una capacità inferiore di metabolizzare le sostanze tossiche. Gli effetti sulla salute registrati nei bambini esposti ad alti livelli di pesticidi durante la gestazione includono ritardi dello sviluppo cognitivo, problemi comportamentali e difetti alla nascita. Esiste inoltre una forte correlazione tra l’esposizione ai pesticidi e l’incidenza dei casi di leucemia infantile.
Alcuni studi mettono anche in relazione una forte esposizione ai pesticidi con un aumento dell’incidenza di vari tipi di tumori (prostata, polmoni e altri) e di malattie neurodegenerative come il Parkinson e l’Alzheimer. Altre evidenze suggeriscono inoltre che alcuni pesticidi interferiscono con le normali funzioni del sistema endocrino e del sistema immunitario.
Mentre i processi che portano a queste disfunzioni rimangono in parte oscuri, è invece chiaro che in alcuni casi vengono compromesse le funzioni enzimatiche e altri importanti meccanismi di comunicazione cellulare. Le ricerche indicano inoltre che alcune di queste sostanze chimiche interferiscono con l’espressione genica, e che queste interferenze possono trasmettersi anche alle generazioni che non sono state direttamente esposte ai pesticidi (la cosiddetta “eredità epigenetica”). Ciò significa che gli effetti dannosi derivanti dall’uso dei pesticidi possono perdurare per moltissimo tempo anche dopo che queste sostanze sono state messe fuori legge.
Questo rapporto prende in esame una serie di studi e ricerche – in continuo aumento – che mettono in luce gli effetti conosciuti o sospetti dei pesticidi sulla salute umana. Pur non negando l’esistenza di incertezze e punti oscuri, né la presenza di ricerche contrastanti, le prove scientifiche raccolte nel rapporto “Pesticides and our health – a growing concern” mostrano che l’attuale modello di agricoltura industriale basato sull’uso massiccio di pesticidi sintetici minaccia la salute degli agricoltori, delle loro famiglie e di una più vasta fascia di popolazione.
Tra i principi attivi potenzialmente dannosi in circolazione troviamo per esempio il clorpirifos, un organofosfato spesso rilevato negli alimenti e nel latte materno che diversi studi mettono in relazione con tumori, disfunzioni nello sviluppo dei bambini, disfunzioni neurologiche, Parkinson e fenomeni di ipersensibilità.
L’unico modo sicuro per ridurre la nostra esposizione ai pesticidi tossici è abbandonare l’attuale modello di produzione industriale del cibo, fortemente dipendente dalla chimica, e investire in un’agricoltura sostenibile. Serve un approccio moderno e basato sull’efficienza in grado di produrre cibo sano e sicuro per tutti che non dipenda da prodotti chimici tossici. È questo l’unico modo per nutrire una popolazione mondiale in crescita e allo stesso tempo tutelare la salute umana e gli ecosistemi che ci sostengono. Sono quindi necessari accordi giuridicamente vincolanti a livello nazionale e internazionale per iniziare immediatamente a eliminare tutti i pesticidi dannosi per gli organismi non target“.
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(1) Rapporto integrale in inglese e bibliografia completa qui
(2) La IARC (International Agency for Research on Cancer) lo scorso 20 marzo ha pubblicato un aggiornamento relativo alla classificazione di 5 pesticidi. Si tratta di un erbicida (glifosate) e di due insetticidi (malathion e diazinon) che sono stati dichiarati probabili cancerogeni per l’uomo (Gruppo 2A). Altri due insetticidi (parathion e tetrachlorvinphos) sono stati invece riconosciuti come possibili cancerogeni umani (Gruppo 2B).
La plastica non è amica della natura
È vero e sacrosanto che la plastica ha semplificato molto la vita dell’uomo e ha consentito la produzione di oggetti a bassissimo costo per gli usi più comuni fino ad arrivare a quelli più complessi e specialistici. La plastica viene usata sia per la produzione di sacchetti usa e getta che per la produzione di strumentazione sanitaria. La plastica viene usata sia per imballare i prodotti più disparati che per la realizzazione di componentistica per gli aerei o per le navicelle spaziali.
La plastica, però, presenta un paio di inconvenienti che non la rendono troppo amica della natura. I suoi componenti e gli additivi utilizzati per produrla nelle sue infinite tipologie e colorazioni molto spesso non sono salutari se vengono ingeriti, soprattutto se vi è stata una qualche alterazione termica della stessa. La plastica poi fa molta fatica a degradarsi (si ragiona nell’ordine di migliaia di anni) se esposta agli agenti atmosferici e ai microrganismi. Per questo abbandonarla in natura e non gestirne correttamente lo smaltimento provoca quello che si vede dalle foto che, da sole e senza troppe parole, descrivono molto bene il problema.
È quindi giunta l’ora che si abbandoni definitivamente la produzione di questi materiali che oramai fanno parte della storia e si inizi a realizzare plastiche (o surrogati delle plastiche) più salutari, facilmente degradabili e biocompatibili. Non ci sono più scuse.
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Foto 1: La tartaruga è cresciuta deforme a causa di un anello di plastica che le ha compresso il carapace.
Foto 2: La tartaruga d’acqua dolce è cresciuta deforme a causa di un imballaggio per il trasporto delle lattine che le ha compresso la parte anteriore del carapace.
Foto 3: I resti di un albatros trovato su isole remote disabitate. Si può notare come il suo stomaco sia pieno di pezzi di plastica che ha probabilmente ingoiato confondendoli con il cibo.
Foto 4: Il leone marino soffre per le continue ferite riportate da un filo di plastica che è avvolto intorno al suo collo e che l’animale non riesce a togliersi.
La maledizione dei rifiuti
Per capire che la gestione dei rifiuti non funziona (anche quella differenziata porta a porta o l’incenerimento) (1) basta vedere le foto che ho scattato quest’inverno sulle spiagge di Vallecrosia e di Ventimiglia, in provincia di Imperia. Le foto le faccio nelle stesse spiagge tutti gli anni almeno da 15 e, nonostante le diverse tecniche di raccolta differenziata messe in atto dai governi e nonostante le differenti capacità dei vari amministratori locali, noto che nel tempo i rifiuti non accennano né a diminuire in quantità né a mutare nella loro qualità. Si tratta prevalentemente di pneumatici, contenitori di plastica, salvagenti, bottiglie e lattine, piccoli pezzi di plastica dai colori e dei formati più vari, scarpe e ciabatte spaiate, galleggianti delle reti da pesca, giocattoli… mescolati a residui vegetali lignei. Da questo, in modo abbastanza empirico ma con solidi fondamenti nella realtà, deduco che in generale l’attuale gestione di rifiuti è totalmente fallimentare.
Questa “rumenta” – come la chiamano da quelle parti – d’estate non si vede perché le amministrazioni comunali, prima dell’inizio della stagione turistica, spendono i soldi dei contribuenti per eliminarle o, peggio, non riescono ad impedire che vengano bruciati direttamente sul posto. Nonostante le operazioni di maquillage pre-estivo, i rifiuti vengono comunque tutti gli anni portati a riva dalle mareggiate invernali e, vista la loro quantità e variabilità, non si può assolutamente parlare di qualche episodio sporadico ma di una evidente profonda e cronica lacuna del sistema che deve essere assolutamente rivisto e riformato.
Tanto per capire da dove i rifiuti presenti in spiaggia provengono, analizzandoli a vista si può innanzitutto osservare che, in parte, essi sono presenti in mare perché gettati dalle navi e dalle barche al largo; in parte vengono gettati negli alvei dei torrenti quando sono in secca e solo le piogge autunnali se li portano a mare; in minima parte sono già presenti nelle spiagge a causa dell’incuria di chi le frequenta che si “dimentica” pacchetti di sigarette, sacchetti delle patatine, buste di plastica, lattine di birra o bottigliette di acqua.
La falla nel sistema è evidente e non risiede tanto nelle tecniche sbagliate che vengono impiegate nella raccolta e nel trattamento dei rifiuti, quanto, piuttosto, nel fatto che dovrebbe essere applicato il principio della bioimitazione e i rifiuti non dovrebbero essere proprio prodotti. Piuttosto che impegnare un mare di risorse economiche e di sforzi organizzativi per cercare di raccogliere al meglio i residui dei nostri consumi (2) (che però i nostri comportamenti sbagliati e la nostra scarsa cultura ed etica contribuiscono a far in parte fallire), sarebbe meglio ribaltare il problema ed iniziare ad obbligare i produttori (con leggi vincolanti ed incentivi a chi è più virtuoso) a rivedere le loro tecniche produttive e l’uso degli imballaggi. Bisognerebbe incentivare maggiormente quei prodotti costruiti con materiali ecocompatibili e rinnovabili che riescono ad essere smontati e riparati facilmente. Nel caso di imballaggi bisognerebbe penalizzare chi utilizza materiali non rinnovabili e non facilmente riciclabili. Bisognerebbe disinnescare poi la pratica dell’obsolescenza programmata e bisognerebbe operare a livello culturale per convincere i consumatori che è meglio acquistare prodotti di qualità piuttosto che prodotti a bassissimo costo.
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(1) Il mancato funzionamento della gestione dei rifiuti a cui si fa riferimento non si riferisce agli aspetti tecnici ma a quelli filosofici che continuano ad accettare un sistema che produce rifiuti anzichè pensare a sistemi che non li considerino affatto.
(2) Raccogliere e trattare i residui dei nostri consumi (cioè i rifiuti) è, in termini economici, un affare di appalti che può dare origine anche a numerose irregolarità e pratiche corruttive.
Il giro del mondo in barca a vela con orto e galline
Lo scorso 19 ottobre Matteo Miceli è salpato con la sua Eco 40 da Riva di Traiano per effettuare , in solitaria, il giro del mondo in barca a vela. Fino a qua nulla di strano. Nonostante non sia una passeggiata, l’hanno oramai fatto in tanti e tanti, con l’aiuto della tecnologia – anche alimentare fatta di barrette liofilizzate e cibi preparati – sono riusciti nell’impresa.
Ciò che contraddistingue, però, lo skipper Matteo Miceli dagli altri, non è solo nel fatto di utilizzare una barca ecologica, la “Eco 40” ma, soprattutto, nel fatto che egli ha portato con sé alcune galline (la Bionda e la Mora) e cerca di coltivare, sulla barca, addirittura un orto. L’obiettivo primario di questo viaggio è infatti quello di tentare di ripercorrere i viaggi degli antichi navigatori che erano interamente basati sull’autosufficienza. Innanzitutto quella alimentare perché non disponevano di prodotti sofisticati, di conservanti e nemmeno di tecnologia del raffreddamento e, per questo, dovevano portare con sé animali vivi a bordo e dovevano coltivare un orto (che veniva chiamato “giardinetto”), di solito nella parte di poppa della nave.
Oltre all’autosufficienza alimentare Matteo Miceli è stato il primo skipper ad intraprendere un viaggio intorno al mondo anche in totale autosufficienza energetica. “In barca – ha dichiarato Miceli – non ci sarà una goccia di combustibile, neanche per cucinare. Tutto sarà elettrico e rigenerato, perché starò in mare per cinque mesi”. Per questo la barca è dotata di 12 m2 di pannelli solari, due impianti eolici e due turbine ad idrogeno che alimentano tutti i dispositivi elettrici della nave, soprattutto il dissalatore, i sistemi di comunicazione e il pilota automatico. (1)
Purtroppo l’orto si è rovesciato durante la prima burrasca e lo skipper non ha deciso di ricostruirlo perché le lampade artificiali che consentivano la crescita degli ortaggi consumavano troppa energia. Anche le galline hanno sofferto un po: la Bionda è morta quasi subito e la Mora, pur non manifestando particolari problemi di adattamento al viaggio, ha smesso ben presto di fare le uova.
Il 13 marzo 2015, allo ore 15.40 ci sono però delle cattive cattive notizie. Nel bel mezzo dell’Oceano Atlantico, circa sulla linea dell’Equatore, in condizioni di tempo e di mare favorevoli, Eco 40 ha perso la chiglia (probabilmente andando a sbattere contro un cetaceo) e Matteo Miceli è stato costretto ad abbandonare la barca e l’impresa del giro del mondo in solitaria (Progetto “Roma Ocean World”) (2). Nel naufragio, oltre alla perdita di tutto il materiale (che si cercherà di recuperare) è purtroppo morta anche la gallina superstite.
A circa due settimane dall’arrivo previsto a Roma e dal completamento dell’impresa qualche cosa è andato storto (sig) e l’interessante progetto, come osserva il testardo e coraggioso Miceli, dovrà essere riprogrammato. Buon vento, allora!
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(1) Oltre alla sfida sportiva il Progetto “Roma Ocean World” si proponeva anche di effettuare una ricerca sui cambiamenti climatici. Attraverso strumenti sofisticati durante il viaggio sono stati registrati anche alcuni parametri quali temperatura, pressione dell’acqua e dell’aria, movimento delle onde che verranno resi disponibili della comunità scientifica.
(2) Il Progetto “Roma Ocean World” si propone:
- di mostrare direttamente i cambiamenti climatici in atto
- di contribuire direttamente all’indagine scientifica oceanografica e biologica attraverso campionamenti e misurazioni
- dimostrare che l’attuale tecnologia e un atteggiamento responsabile consentono di poter vivere e navigare bene, in modo ecologicamente sostenibile e utilizzando solo fonti energetiche rinnovabili
Pesticidi nel piatto
Oramai è assodato da ricerche scientifiche e da controlli effettuati da parte degli Enti di gestione delle acque pubbliche (1) che, assieme ai cibi, assieme all’acqua e attraverso altre esposizioni ingurgitiamo e veniamo in contatto anche con un mix di componenti chimici rientranti genericamente sotto il nome di “pesticidi”. In pratica si tratta di sostanze che appartengono a 2 macrogruppi di additivi che vengono sparsi sui terreni o sulle piante: gli antiparassitari (per debellare funghi, batteri, virus o insetti); gli erbicidi (o diserbanti).
La complessità delle molecole utilizzate, la loro enorme variabilità commerciale, la loro interazione reciproca e le cattive tecniche di gestione da parte degli utilizzatori rendono molto difficile identificare quali siano i veri rischi per la salute degli utilizzatori diretti (in particolare gli agricoltori) ma anche di chi ne viene in contatto indirettamente, cioè attraverso i cibi e la popolazione in generale che vive e che frequenta il proprio territorio.
Si hanno numerose evidenze scientifiche che l’esposizione a pesticidi possa comportare, tra le più gravi, principalmente problematiche neurologiche e tumorali. Pertanto è assolutamente necessario che si inizi a fare qualcosa di concreto sia per avvertire i cittadini del rischio sia per trovare delle alternative tecniche e organizzative che evitino la diffusione, spesso non necessaria, di tali agenti chimici nell’ambiente.
Solo così si farà vera prevenzione e si opererà con intelligenza per evitare inutili sofferenze e cure per patologie evitabili o, per lo meno, la cui incidenza sia fortemente limitabile.
Sul tema sabato 17 gennaio 2015 a Sommacampagna (VR) si terrà la conferenza [vedi locandina] “Pesticidi nel piatto – Pericolosità dei pesticidi per la salute umana e per tutti gli esseri viventi: il cambiamento è possibile!”. Interverranno il prof. Gianni Tamino, biologo; il dott. Roberto Magarotto, oncologo; la dott.ssa Renata Alleva, nutrizionista e il dott. Daniele degli Innocenti, ricercatore universitario. Partecipate numerosi…
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(1) L’ISPRA (Istituto Superiore per la Ricerca e la Protezione dell’Ambiente) nei suoi rapporti annuali descrive, anno dopo anno, situazioni di contaminazione da pesticidi – sia in termini di quantità che di qualità – delle acque superficiali e sotterranee. Basti pensare che nell’ambito dei prodotti fitosanitari dell’agricoltura si usano annualmente (dati ufficiali che non tengono conto delle situazioni illecite) circa 350 sostanze diverse per quantitativi totali superiori a 140.000 ton. L’Istituto rivela inoltre che la contaminazione è molto più diffusa nella Pianura Padano-Veneta a causa delle sue caratteristiche idrogeologiche, dell’intensa vocazione agricola della sua economia e del fatto che le indagini (fornite dalle Regioni e dalle Agenzie regionali di protezione dell’ambiente in base ai loro monitoraggi) risultano più complete e rappresentative nelle regioni del nord.
Foto e immagini: Legambiente
Con ingredienti naturali al 100%
Qualche settimana fa, mentre ero in attesa del mio treno nella metropolitana di Milano, sono rimasto colpito dal cartello pubblicitario della ADOC (vedi foto). In esso, su uno sfondo azzurro con silhouette di cani più scure spiccava la scritta “ADOC. Naturalmente diverso” e un rettangolo bianco che enfatizzava la presenza di “Ingredienti naturali al 100%”.
Subito dopo averlo letto ci ho ragionato un po’ e mi sono chiesto una cosa che può sembrare banale: ma se questo cibo per cani ha tutti gli ingredienti che sono naturali al 100%, vuol dire allora che è possibile che altri cibi non li abbiano? Se questo si verifica nell’ambito dell’alimentazione animale, può essere che la questione interessi anche quella umana?
Per cercare di dare una risposta alle domande, in effetti due sono gli aspetti che sarebbe interessante osservare:
- che cosa si intende per ingredienti naturali al 100%;
- quali possono essere gli effetti sulla salute – degli animali e delle persone – dovuti alla presenza di ingredienti non totalmente naturali.
Innanzitutto è da osservare il fatto che sulla Terra non esiste nulla di innaturale perché tutto si origina dagli elementi chimici presenti nella tavola periodica degli elementi che fanno parte del nostro “Sistema”. Caso mai – e forse è questo il concetto di “innaturale” – l’unione di alcuni elementi e la creazione di alcune molecole richiede metodi così complessi che in natura è praticamente impossibile che si possano realizzare, se non in condizioni estreme. Ecco allora, ad esempio, che la plastica è fatta di elementi chimici ovviamente naturali anche se la natura non è in grado di produrre autonomamente i legami molecolari che la caratterizzano. Inoltre non è detto che i prodotti “naturali al 100%” siano per forza salutari. Anzi, in natura esistono numerosi prodotti tossici e addirittura mortali. Per togliere qualsiasi dubbio al consumatore che, come me, vede la pubblicità e magari è invogliato a scegliere ciò che gli dà più fiducia, bisognerebbe cercare di spiegare un po’ meglio un po’ a tutti quale sia il concetto di “naturale” e bisognerebbe vietarne l’uso generico in pubblicità. Detto ciò si può senza dubbio affermare che “naturale al 100%” non vuol dire assolutamente nulla!
Dopo aver chiarito questo importante aspetto è necessario cercare di capire la sostanza della nostra analisi: quand’è che ci possono essere effetti sulla salute a causa della presenza nei cibi di prodotti non naturali o, meglio, di sintesi? Dare una risposta a questa questione è molto complesso sia perché le nostre conoscenze sono molto limitate ad hanno ancora numerosissimi buchi, sia perché il problema della salute legato ai cibi non è solo quello diretto dovuto alla loro ingestione, ma anche quello indiretto dovuto all’inquinamento che i cibi e i loro metodi produttivi possono determinare. Tutto ciò si riflette, poi, anche sull’ambiente circostante e infine arriva a lambire, partendo da lontano, la salute delle persone. Da questo punto di vista si fa sinceramente fatica ad esprimere un giudizio univoco sulla pericolosità dei prodotti di sintesi.
Quello che però si può dire – e che io sostengo da tempo attraverso Bioimita – è il fatto che noi ci siamo evoluti in un “Sistema”, il pianeta Terra, che prevede certe regole di funzionamento e ha certe caratteristiche specifiche. All’interno di questo “Sistema” l’evoluzione della vita è stata tortuosa e lunga, molto lunga. Talmente lunga che pensare al fatto che si sia verificata in più di 3,5 miliardi di anni quando la vita media umana è di circa 80, è cosa praticamente impossibile. Fuori scala! Ecco allora che nella produzione dei cibi e nella conseguente alimentazione, nella produzione energetica e in quella di beni e servizi, nella gestione degli scarti (rifiuti) e nelle dinamiche sociali dobbiamo partire da quelli che sono gli elementi di base del nostro “Sistema”, senza introdurre distorsioni (gli elementi di sintesi o squilibri chimico-fisici) che, alla fine, perseguono solamente scopi puramente commerciali o economici di generare profitti (1) ed incidono solo apparentemente sul nostro benessere.
Anche se le nostre conoscenze sui pilastri di funzionamento del “Sistema” non sono ancora molto evolute, dobbiamo comunque renderci conto che possiamo partire solo da lì perché qualsiasi forzatura ci darà l’illusione momentanea di una soluzione semplicistica a problemi complessi ma, poi, in un modo o nell’altro, ci si rivolterà inevitabilmente contro con conseguenze inaspettate nei confronti delle quali saremo impreparati e che potranno avere conseguenze anche molto gravi.
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(1) L’evoluzione, ad esempio, ci fornisce molti strumenti di difesa nei confronti di gran parte degli agenti naturali negativi mentre risulta molto più impreparata nei confronti degli agenti di sintesi. La carne in putrefazione ha un forte odore e noi, per difesa evolutiva, ne abbiamo repulsione poiché ci farebbe molto male alla salute. Il Bisfenolo A, invece, che simula il funzionamento di alcuni ormoni e che interferisce anche in maniera molto grave con la nostra salute, lo possiamo liberamente ingerire attraverso gli alimenti e le bevande senza avere alcun strumento innato di allerta e protezione.
L’esperienza di un pendolare folgorato dalla bici pieghevole
Sul numero 140 di “Ruotalibera”, la rivista della FIAB di Verona, è stato recentemente pubblicato un mio articolo sull’uso della bicicletta pieghevole. Eccolo…
“Stanco dei soliti discorsi un po’ “italiani” che vedono le responsabilità e i comportamenti sbagliati sempre negli “altri” e che identificano le soluzioni ai diversi problemi che dovrebbero applicare sempre e solo gli “altri”, un paio di anni fa mi sono chiesto come, concretamente, con comportamenti pratici, avrei potuto limitare l’inquinamento che determinavo attraverso gli spostamenti con la mia auto privata. Capivo che c’era qualcosa che potevo migliorare e ci ho provato!
Per la cronaca vivo a circa 20 km da Verona ma ho la sede del mio lavoro in centro. Se è vero che, per ragioni di lavoro, mi ci reco al massimo solo un paio di giorni alla settimana, è altrettanto vero che per arrivarci o devo parcheggiare lontano e prendere un autobus oppure devo affrontare code e traffico per arrivare ad un parcheggio a pagamento con la preoccupazione, talvolta, di essere a rischio infrazione e di essere punito con una sanzione.
Ho deciso, pertanto, dopo essere rimasto folgorato da una bici pieghevole (folding bike) vista in una vetrina e dopo aver fatto una breve ricerca su internet relativamente a tale mezzo, di affrontare la spesa di circa 500 € e di acquistarne una. Il calcolo che ho fatto è stato sia quello di poter risparmiare dei soldi per il biglietto dell’autobus e dei parcheggi sia quello di poter fare anche un po’ di moto e, perché no, di vedere la mia città con occhi diversi: quelli di un ciclista che è all’aria aperta e che può meglio assaporare monumenti e spazi urbani. L’unico dubbio che mi rimaneva era solo quello di essere esposto all’inquinamento da gas di scarico che anch’io, prima di usare la bici, contribuivo a determinare in modo più rilevante.
Devo dire che dopo due anni il bilancio è assolutamente positivo. Dal punto di vista economico ho praticamente ammortizzato del tutto il costo del mezzo (che, tra l’altro, non ho mai dovuto portare dal meccanico) per minori spese di autobus o parcheggi; dal punto di vista del benessere fisico fare attività fisica aerobica mi fa sentire meglio e, tra l’altro, sono più allenato anche per fare altri sport; dal punto di vista del piacere ho iniziato a notare angoli che non avevo mai notato prima e ho iniziato ad essere veramente libero di muovermi per la pausa pranzo o per commissioni varie; dal punto di vista dell’inquinamento ho letto e ho sperimentato di persona che, in effetti, non è poi così elevato ma che, anzi, è maggiore nell’abitacolo di un’auto. L’unico difetto è rappresentato dal fatto che la città che frequento ama poco i ciclisti e rende loro la vita un po’ difficile – e rischiosa – nei trasferimenti quotidiani. Manca una vera rete di piste ciclabili; mancano regole certe di frequentazione degli spazi urbani e tra i ciclisti (ma anche tra i pedoni) vige una buona dose di anarchia; manca un corpo di polizia specializzato nell’educazione e nella repressione degli illeciti; manca una generale cultura alla sicurezza da parte dei ciclisti che non indossano caschi, non sono sufficientemente illuminati nelle ore serali e utilizzano dei mezzi senza freni e non del tutto efficienti.
Comunque alla bici pieghevole ci ho preso veramente gusto e, piano piano, l’ho iniziata ad usare sia in estate che in inverno, con la pioggerella e con il sole. Inoltre la faccio vedere agli altri con orgoglio e, dopo averne regalata una anche a mia moglie che la sta molto apprezzando, attualmente la tengo sempre nel baule della mia auto e ne vado veramente fiero quando qualcuno, che me la vede montare o smontare nei parcheggi o ai bordi delle strade, mi osserva con curiosità e attenzione. Vorrei dirgli “Fallo anche tu”: è una cosa semplice e veramente rivoluzionaria che, oltre a diminuire l’inquinamento (che rappresenta l’aspetto più importante), porta con sé anche altre interessanti rivoluzioni come quella del sistema infrastrutturale urbano e quella culturale dei cittadini”.
Nel blu dipinto di blu
Nel blu dipinto di blu / Felice di stare lassù / E volavo volavo / Felice più in alto del sole / Ed ancora più su… cantava un insuperabile Domenico Modugno.
Ma non c’è nulla da essere felici nella Pianura Padana per un cielo blu dipinto di blu. Almeno dopo aver visto le foto della Val Padana che Alexander Gerst, astronauta dell’ESA (European Space Agency) in missione sulla Stazione Spaziale Internazionale, ha scattato e divulgato il 30 ottobre scorso.
Come si può notare dalle foto i cieli di Svizzera, Francia, Austria, Slovenia e Croazia sono limpidi, la corona alla Pianura Padana delle Alpi è limpida, le regioni a sud della catena degli Appennini sono limpide mentre le valli Prealpine, le valli degli Appennini a ridosso della grande pianura, la Liguria centrale, la pianura a nord di Venezia e il lago di Garda meridionale sono un po’velati. Nelle foto quello che fa veramente impressione è vedere che la zona di tutta la Pianura Padana centrale – soprattutto le aree del Piemonte, della Lombardia fino a lambire il Veneto occidentale – è interamente ricoperta da un mortifero velo grigio-blu di smog. Quello che nelle giornate serene non ci fa vedere le montagne in lontananza, ci fa apparire il sole un po’ pallido e il cielo non proprio blu conferendogli quel colore indistinto tra il biancastro e l’azzurro che noi che ci abitiamo conosciamo bene.
Si dirà che tutto questo è colpa dell’alta pressione che ci ha regalato tempo stabile per settimane, assenza di ventilazione e scarsa inversione termica, tutti ingredienti fondamentali che favoriscono il ristagno degli inquinanti in quel catino che è la Pianura Padana. Tutto vero. E tutto vero è il fatto che la prima pioggia spazzerà via quasi tutto (buttandolo a terra ovviamente e creando altri problemi!) e ci ridarà migliori condizioni atmosferiche.
Dopo aver visto in maniera così chiara ed evidente grazie alla benedetta tecnologia quale sia lo stato dell’aria del mio territorio, quello che mi chiedo io – che in Pianura Padana ci vivo con la mia famiglia – è quale effetto potrà avere tutto questo sulla nostra salute. Perché nessuno ha ascoltato gli scienziati, gli enti di controllo, i medici e gli ambientalisti che da decenni stanno monitorando gli indicatori ambientali ed epidemiologici della popolazione dell’Italia del nord urlando al mondo che la Pianura Padana è una delle aree più inquinate del Pianeta? Dov’erano quei soggetti che, pur sapendo le criticità ambientali del nostro territorio principalmente dovute alla scarsissima ventilazione (1), hanno continuato ad autorizzare inceneritori, aziende, strade, traffico, abitazioni, cave, rotonde in una spirale infinita senza tenere conto delle conseguenze? E noi cittadini vittime dello smog dove eravamo? Noi che avevamo il miraggio del “benessere” ci siamo fatti convincere che tutto questo fosse progresso e lo abbiamo avvallato consumando senza fine prodotti senza senso che hanno intasato le nostre case nonché continuando a votare e sostenere gli stessi soggetti che ci hanno portato in questo folle baratro. Però poi contiamo anche i malati.
Quello che mi sento rispondere più spesso quando cerco di descrivere la situazione a chi mi sta intorno è che tanto il sistema funziona così e non si può cambiare. Balle! Davanti a noi esistono milioni di alternative più sostenibili che possono essere praticate. Basta la buona volontà, la disponibilità alla rinuncia e il desiderio di sognare un mondo migliore con la capacità di rimanere impermeabili a chi da questo schifo si arricchisce facendo di tutto per farcelo sembrare immodificabile.
Bioimita rappresenta un fondamento teorico al cambiamento. Noi dobbiamo fare il resto modificando i nostri comportamenti!!!
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(1) Come non ricordare quella puntata di Portobello – la trasmissione televisiva degli anni ’70-’80 condotta dallo sfortunato Enzo Tortora – dove un concorrente voleva bucare le alpi liguri per favorire l’aerazione della Val Padana e far sparire la nebbia?
Foto: Alexander Gerst
Une carafe d’eau
Durante la settimana di vacanza recentemente trascorsa a Parigi con la mia famiglia non poteva mancare la consumazione del pasto in un vero locale parigino: la brasserie. Una di quelle tipiche, ubicata all’angolo di un bel palazzo, con i tavolini sul marciapiede e con la vista sulla gente che passa a qualche palmo di mano. Magret de canard (carne di anatra) in salsa di miele, omelette ai funghi, patate al forno e patate fritte (frittes) sono le leccornie che ci vengono portate al tavolo. Oltre, ovviamente, alla bella vista da lontano della chiesa di Mont Martre che, forse, in piccola parte ci viene anche fatta pagare sul prezzo delle pietanze.
Beviamo anche una Coca Cola (per tentare di digerire i fritti e non rimanere appesantiti tutto il pomeriggio) e sul tavolo ci viene portata anche una bella caraffa d’acqua fresca, gentilmente “offerta” dal sindaco di Parigi. Per averla è sufficiente dire al cameriere “Une carafe d’eau” e lui, senza battere ciglio e senza fare l’offeso per il mancato guadagno derivante dalla vendita di una bottiglia d’acqua che gli costa 0,30 € e viene venduta almeno a 2,50 € (guadagno del 600%), ci porta quanto richiesto.
Un tale servizio viene anche offerto dai bar e da tutti i servizi pubblici. Senza. Problema. Alcuno.
La cosa è semplice e non sarebbe male istituire un tale semplice comportamento anche da noi che, già dal momento che ci sediamo al tavolo, abbiamo il primo obolo da pagare che nel conto compare con la voce di “coperto”. Sarebbe una soluzione di correttezza nei confronti dei clienti che hanno diritto ad avere acqua gratis; sarebbe un’importante iniziativa a favore dell’ambiente perché farebbe risparmiare migliaia di tonnellate l’anno di imballaggi usa e getta per l’acqua, migliaia di tonnellate di CO2 e di inquinamento atmosferico dovuti ai trasporti dell’acqua imbottigliata, oltre che depauperare le fonti idriche montane con le concessioni.
Poiché ad ottenere un tale risultato in Italia ci hanno già provato in tanti ottenendo modesti e limitati risultati soprattutto a causa della forte lobby dei produttori di acqua minerale e di quella dei ristoratori che vendono ai loro clienti letteralmente acqua a peso d’oro, a mio avviso la vera soluzione del problema dovrebbe essere di natura politico-amministrativa. Il Parlamento (o chi ne ha l’autorità a livello nazionale) dovrebbe emanare un atto che obblighi i gestori di esercizi pubblici a fornire GRATUITAMENTE ai loro ospiti l’acqua del rubinetto nel momento in cui si siedono al tavolo. Punto.
Tutte le scuse accampate di scarsa qualità dell’acqua pubblica e di scarsa igiene dei contenitori non sigillati sono ignobili farse per non far progredire il Paese e per ingessare comportamenti sbagliati che dovrebbero da subito cambiare.
Chiediamo allora ai nostri referenti politici di attuare immediatamente questa semplice regola. Vedrete che saranno maggiormente responsabilizzati i sindaci a fornirci acqua di migliore qualità e non ci saranno particolari contraccolpi economici per i ristoratori che, per ripagare economicamente il loro lavoro, potranno concentrarsi più sulla fornitura di buoni cibi e sulla scelta di bevande diverse dall’acqua.
I limiti del compostaggio
Per lavoro frequento aziende che operano nell’ambito del compostaggio dei rifiuti e che, dalla raccolta differenziata del cosiddetto “umido” producono compost ed energia. Il compost è originato da un processo di degradazione aerobica (1) della frazione organica dei rifiuti mentre l’energia è prodotta attraverso la combustione del biogas – costituito da gas metano e altri gas – che viene creato volutamente mediante degradazione anaerobica (2) del materiale organico. In sostanza, all’interno degli impianti, tutto funziona in un flusso circolare dove lo scarto di una fase è la materia prima di un altra fase e ciò rappresenta la piena applicazione della bioimitazione.
In sé si tratta di un’attività estremamente utile a livello sociale perché consente una corretta gestione dei rifiuti prodotti dalle famiglie e dalle attività economiche nonché avanzata dal punto di vista tecnologico perché, almeno in teoria, è in grado di ottenere dagli stessi rifiuti ammendante da utilizzare in agricoltura ed energia da un gas che si produce inevitabilmente nel processo e che altrimenti andrebbe disperso in atmosfera con gravi conseguenze per il riscaldamento globale e i cambiamenti climatici (3).
La questione, purtroppo, è solo valida a livello teorico perché, prima di arrivare agli impianti di compostaggio e al loro funzionamento, si deve passare, a monte, dalla corretta gestione dei rifiuti da parte di cittadini e aziende fino alla raccolta e al trasporto degli stessi verso gli impianti di trattamento. In questa filiera se qualcosa non funziona correttamente – e spesso non funziona – ne va a discapito il buon funzionamento degli impianti e la validità del processo tecnologico. Per non parlare, poi, della qualità del prodotto finito, sia esso compost da utilizzare in agricoltura o negli orti e biogas da impiegare per la produzione di energia.
Sta di fatto che spesso, per scarsa informazione e formazione dei cittadini sulle corrette modalità di raccolta differenziata e sulle motivazioni per cui la stessa non deve essere fatta con superficialità, piuttosto che per l’incuria della classe dirigente, politica e imprenditoriale più interessate ai grossi affari che ruotano attorno alla gestione dei rifiuti piuttosto che alla qualità del servizio offerto alla società, le cose non vanno come dovrebbero andare e i risultati sono quelli inquietanti mostrati dalle foto scattate in un impianto…
Da notare come la plastica sia l’elemento principale (in peso addirittura quasi superiore a quello organico) nel materiale di compostaggio arrivato all’ultima fase di lavorazione. Per essere eliminata – solo la parte più grande della stessa perché quella più piccola rimane nell’ammendante e viene inevitabilmente sparsa nei terreni con effetti incerti sulla salute – il rifiuto deve essere sottoposto a numerosi cicli di vagliatura e di selezione manuale e meccanica con grande dispendio di energie e spreco di denaro.
L’effetto finale è, per fortuna, quello della foto…
… ma a quale prezzo?
Grandi e decisamente più salutari risultati si potrebbero ottenere con i seguenti minimi sforzi a monte:
- Educare maggiormente i cittadini a fare correttamente la raccolta differenziata a casa e a comprendere che piccoli gesti che comportano un minimo sforzo (come non raccogliere il materiale organico nei sacchetti di plastica, per fare un esempio tra i casi più frequenti) possono determinare enormi risultati a livello industriale nel processo di trattamento dei rifiuti;
- Obbligare le amministrazioni comunali a gestire correttamente la raccolta differenziata dei rifiuti, magari sanzionandole economicamente o bloccando il trasporto o lo smaltimento dei rifiuti stessi in caso di gravi inadempienze. Ora, invece, i rifiuti vengono sempre gestiti e trattati, indipendentemente dalla loro qualità. Quello che cambia è il prezzo di smaltimento, ma la scarsa qualità del rifiuto vuol dire anche scarsa qualità del prodotto finito.
- Togliere la politica – spesso non all’altezza o collusa con chi vuole che il sistema non funzioni – dalla gestione e dall’amministrazione delle municipalizzate o dei consorzi che si occupano di rifiuti e dare questi incarichi a professionisti del settore mediante concorsi.
Per rendere credibile il sistema della raccolta differenziata agli occhi dei cittadini che vedono non sempre ripagati i loro sforzi domestici bisogna far si che lo stesso sistema funzioni bene e che, nel tempo, funzioni sempre meglio.
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(1) Per digestione (o degradazione) aerobica si intende la degradazione in presenza di ossigeno delle sostanze organiche da parte di diversi microrganismi. Tale processo comporta la mineralizzazione del materiale organico, cioè la trasformazione del materiale organico in prodotti più semplici e stabili (non putrescibili).
(2) Per digestione (o degradazione) anaerobica si intende la degradazione in assenza di ossigeno delle sostanze organiche da parte di numerosi microrganismi. Tale processo produce biogas come gas di scarto.
(3) Il metano è un gas che è circa 30 volte più climalterante (ad effetto serra) dell’anidride carbonica (CO2).
Fonte: Wikipedia
Lifefactory | Bottiglie riutilizzabili e biberon
Lifefactory è nata negli USA nel 2007 quando Pam Marcus, una pediatra specializzata in alimentazione e Daren Joy, un designer, si sono incontrati per sviluppare una linea di biberon che fossero salutari, sicuri, sostenibili dal punto di vista ambientale e, perché no, anche belli da vedere. Per ottenere i risultati desiderati i due imprenditori hanno focalizzato la loro attenzione su:
- Contenitore in vetro borosilicato: facilmente riciclabile, prodotto da un materiale naturale abbondante, pulito, senza residui chimici pericolosi (BPA, BPS e ftalati) (1);
- Guscio protettivo (senza BPA e BPS) che, in caso di urti o di cadute, eviti che il vetro abbia scheggiature e da rotture;
- Tappi in polipropilene (senza BPA e BPS; senza ftalati) che, in sicurezza, possano venire in contatto con qualsiasi cibo o bevanda;
- Tettarelle dei biberon in silicone medico (senza BPA e BPS; senza ftalati).
Mano a mano che il progetto cresceva nel tempo è stata abbandonata la sola linea di produzione di biberon ed è stata estesa ad altri ambiti la linea dei prodotti offerti. Infatti Lifefactory, garantendo le stesse qualità dei biberon, ora produce anche:
- bicchieri
- borracce e bottiglie
- contenitori per alimenti
La sostenibilità ambientale dei prodotti Lifefactory è principalmente legata al fatto il vetro, un materiale totalmente atossico, facilmente lavabile e igienizzabile nonché prodotto mediante un processo relativamente semplice con una materia abbondante sia stato pensato per essere utilizzato più e più volte senza spreco di imballaggi usa e getta in un ambito diverso da quello domestico e possa essere portato con sé in totale sicurezza. Tale sicurezza è legata al fatto che il contenitore è ricoperto da un guscio protettivo in silicone che garantisce che il più grande difetto del vetro – l’elevata fragilità agli urti – sia evitato o fortemente limitato per le principali situazioni di uso comune.
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(1) BPA = Bisfenolo A; BPS = Bisfenolo S
Il paradosso del pomodoro
Qualche anno fa, in Francia, due camion fecero uno scontro frontale terribile. La cosa non è strana, ne capitano tutti i giorni. Quello che è particolare, nell’incidente, è il fatto che entrambi i mezzi lasciarono sull’asfalto il medesimo prodotto: pomodori. Il paradosso è poi il fatto che un camion viaggiava da nord a sud e trasportava pomodori dall’Olanda a Barcellona e l’altro viaggiava da sud a nord e trasportava, sempre pomodori, da Almeria, in Spagna, all’Olanda.
Questa storia, che viene attribuita al contadino e filosofo francese Pierre Rabhi, è in grado di descrivere meglio di mille ricerche scientifiche e meglio di mille marce ambientaliste la follia che sta dietro al sistema della grande distribuzione organizzata (GDO) delle merci e dei trasporti delle stesse. Ci spiega, senza troppi giri di parole, che è un’assurdità il fatto che, alla ricerca del prezzo più basso di produzione con l’idea della sola massimizzazione dei profitti in un’agricoltura industriale, si possano produrre beni alimentari dove più conviene, per poi trasportarli in giro per il mondo, magari anche a discapito della qualità.
Se si vuole perseguire la vera sostenibilità ambientale I cibi devono essere prodotti e consumati localmente, magari creando rapporti di fiducia diretti con i produttori. A cosa serve coltivare (e consumare) le mele biologiche se poi il mercato di vendita è a 10.000 km di distanza? A cosa serve pagare un chilo di pomodori pochi centesimi di euro se poi non hanno gusto e la loro buccia è così dura (per ragioni di conservazione) che non si riesce a provare il piacere di addentarli? A cosa serve mangiare in primavera le vitamine di una pera che viene dal Cile se poi ci inquina indirettamente con i residui dei trasporti?
L’incidente dei camion di pomodori e l’assurdità che lo caratterizza dimostra bene questo paradosso ed è buona cosa che noi consumatori, attraverso le nostre scelte, vi poniamo fine. A tale proposito Pierre Rabhi è solito raccontare un’altra storia, quella del colibrì. “Un giorno – secondo tale storia – vi è un immenso incendio nella foresta. Tutti gli animali rimangono atterriti e impotenti di fronte a tale disastro e, tra loro, solo il piccolo colibrì è infaticabile nel trasportare con il suo piccolo becco l’acqua per spegnere il fuoco. Ad un certo punto l’armadillo, in tono sarcastico, gli chiede il perché di tale agitazione, visto e considerato che non saranno quelle piccole gocce sufficienti a spegnere l’incendio. Con molta naturalezza il colibrì gli risponde che sì, lui lo sa, ma vuole comunque fare la sua parte”.
Plastic bags kill
“I sacchetti di plastica uccidono” (Plastic bags kill, ndt).
Uccidono in particolare se finiscono in mare e vengono scambiati dagli animali acquatici per cibo, soprattutto per delle meduse.
Al netto di qualsiasi parola e descrizione le immagini che seguono, da sole, spiegano ampiamente il triste e assurdo fenomeno.
Non vi chiedo di rinunciare ai sacchetti di plastica quando andate ad acquistare in negozio. Lo do già per scontato. Vi chiedo qualcosa di più: chiedete ai vostri rappresentanti politici di operare per mettere al bando definitivamente la plastica per gli imballaggi (1), attualmente ancora largamente presente in Italia e nell’Unione europea. Solo così potremo incidere, di riflesso, nei confronti dei Paesi in via di sviluppo che sono anche quelli che contribuiscono maggiormente all’inquinamento dei mari!
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(1) Bandire la plastica dagli imballaggi non significa accontentare la lobby del settore e consentire quel “pasticcio” della plastica con additivi che, al contatto con i raggi ultravioletti del sole, permettono alla stessa di rompersi in miroframmenti. Questi ultimi, non essendo biodegradabili, si mescolano all’acqua ed entrano facilmente nella catena alimentare. Bandire la plastica dalla produzione degli imballaggi significa solamente vietarne la produzione e consentire, in alternativa, solo quella con materiali biodegradabili di origine vegetale.
La ragnatela urbana
Avete presente quelle splendide ragnatele che talvolta, di mattina presto, in controluce e, magari, evidenziate anche dalla brina, si disegnano tra i rami degli alberi? Se siete fortunati che qualcuno e qualcosa non le abbia rovinate le potete vedere nella loro interezza cogliendo appieno la loro struttura: una forma che, da un punto centrale parte a raggiera e che ha i raggi portanti della struttura uniti tra loro da segmenti, via via sempre più lunghi e radi più ci si allontana dal centro. Una trappola invisibile, perfetta, per insetti volanti che vi dovessero finire sopra.
Ora, provate a mettere in orizzontale la ragnatela e a trasporla, in dimensioni maggiori, su un qualsiasi territorio, meglio se pianeggiante e senza ostacoli. La potete notare meglio di sera, con i lampioni accesi, ora che l’illuminazione notturna ha raggiunto (ahimè!) anche le strade più remote. Vedrete che la sua forma ricalca perfettamente la struttura delle città e delle sue vie di comunicazione: il fulcro è il centro urbano e i fili delle ragnatele sono le strade o la ferrovia. Quelle a raggiera sono le principali mentre quelle di congiunzione dei raggi sono quelle secondarie, di quartiere o, via via che ci si allontana dal centro, quelle più rade di periferia e di campagna.
Come quella del ragno anche la “ragnatela” del territorio (ragnatela urbana, la si può definire) la potremmo considerare un’enorme trappola. Che non fa prigionieri e morti come quella del ragno ma che porta l’urbanizzazione sempre più lontano dalle città divorando sempre più territorio, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno.
La ragnatela urbana è la conseguenza dei comportamenti e delle decisioni scellerate degli amministratori pubblici per portare “progresso” e “benessere” (e, spesso, anche interessi economici personali e lobbistici) perché si devono costruire nuove strade, per poi fare nuove aree industriali, per poi costruire nuove case, per poi fare nuovi ponti, per poi fare nuove valutazioni di impatto ambientale, per poi fare nuovi progetti, per poi ottenere nuovi finanziamenti, per poi fare nuove strade, per poi…
La ragnatela urbana è anche la conseguenza delle richieste avanzate dagli imprenditori per garantire competitività alle proprie imprese: più vie di comunicazione uguale più facilità nei trasporti e nella movimentazione delle merci e dei prodotti. Inoltre costruire case, aree industriali e infrastrutture è, per loro, anche un ottimo sistema per diversificare gli investimenti.
E noi, cittadini, in mezzo, informati da un sistema di comunicazione che tende ad indagare poco perché non indipendente dai “poteri”, che ci beviamo un po’ tutto convinti che vada bene così.
Al di là di quello che ci viene detto a me sembra che la ragnatela urbana sia piuttosto una trappola e lo proverò a spiegare.
Innanzitutto la ragnatela urbana consuma territorio prezioso sia per l’agricoltura e la sovranità alimentare che per il paesaggio, fonte di reddito nell’ambito turistico. Poi, la ragnatela urbana è inefficiente perché esplode le città e le distribuisce su un territorio sempre più ampio, rendendo più complessi tutti i trasporti: dalle merci, alle informazioni, all’energia. Inoltre la ragnatela urbana contribuisce ad incrementare il consumo di energia, sia per costruirla che per gestirla, oltre che ad avere un effetto indiretto di distribuzione generalizzata dei fenomeni inquinanti.
La natura – che è sempre in lotta con il reperimento dell’energia a basso sforzo e per risparmiarla – a guardarla bene, invece, produce strutture collettive compatte, le uniche in grado di minimizzare gli sforzi e, al contempo, massimizzare le relazioni.
Sulla base di questo principio è necessario che da subito i Comuni e le Regioni inizino a praticare l’obiettivo di consumo netto del territorio (1) pari a ZERO senza attendere i fantomatici regolamenti comunitari o le leggi nazionali, che non arriveranno mai perché realizzate da chi ha anche interessi personali diretti e indiretti sull’edilizia e sulla realizzazione delle infrastrutture.
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(1) Per consumo netto del territorio si intende solo il consumo del territorio vergine, al netto dei recuperi effettuati su territorio già urbanizzato.
Il giro del mondo in 180 giorni
L’8 marzo è stata la festa della donna e, negli stessi giorni, in Parlamento, si è consumata una votazione complessa e sofferta per le cosiddette “quote rosa” che ha visto la bocciatura degli emendamenti proposti a favore della parità di trattamento di genere. Il tutto, come al solito, infarcito da ipocrisia e opportunismo che hanno fatto passare in secondo piano il vero obiettivo della proposta. Significativa, a tale riguardo, è stata l’intervista del Presidente della Camera Laura Boldrini che chiede addirittura che si ponga un qualche freno alla libertà di espressione e si limiti la satira politica quando interessa le donne oppure l’atteggiamento trasversale di alcune deputate che, a mio avviso, più che difendere la dignità e la considerazione delle donne pensavano a difendere la loro ben pagata “poltrona”.
Io, personalmente, non credo alle mimose per l’8 marzo quale strumento di rispetto per le donne e penso, anzi, che il vero atto discriminatorio sia proprio quello stabilire la parità di genere per legge e quello di forzare artificiosamente il numero delle donne in Parlamento o nelle cariche istituzionali. La parità di genere, se si vuole veramente realizzare, si ottiene con asili nidi a basso costo e disponibili senza interminabili liste d’attesa, con servizi alle famiglie per la gestione dei figli e di genitori anziani, con l’educazione alla cultura della parità e con tutti quegli interventi sociali che siano in grado di non obbligare le donne a trascurare le loro aspirazioni e i loro desideri per spirito di sacrificio verso la famiglia. Con tutto ciò la donna sarà in grado di dimostrare da sola il proprio valore ed esprimere le proprie potenzialità.
Per dimostrare, al di là dei simboli, il mio rispetto e la mia idea di parità sociale tra uomo e donna dedico questo articolo a Paola Gianotti che, partita l’8 marzo, tenterà di fare il giro del mondo in bicicletta. Un viaggio di circa 30.000 km, che toccherà ben 22 paesi e che verrà percorso in poco meno di 6 mesi con l’obiettivo non solo di battere un record del Guiness dei primati ma anche di lanciare un messaggio di speranza per il futuro del nostro Pianeta (1).
Chi meglio di una donna (che è madre) può preoccuparsi per i propri figli e per il loro futuro?
Seguite in diretta il viaggio di Paola… www.keepbrave.com
[Nel video Fabrizio Zanotti canta “Dieci Dita” e presenta l’impresa di Paola Gianotti]
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(1) Sul sito internet keepbrave.com Paola Gianotti dichiara che “Vivere ogni giorno in un ambiente con aria inquinata si riversa inesorabilmente sulla nostra salute e su quella dei nostri figli. Voglio che gli esseri umani siano più consapevoli riguardo questo tema, direttamente collegato alla qualità delle nostre vite in questo mondo, per questo motivo, lungo il mio viaggio in bicicletta, valuterò la qualità dell’aria attraverso la frequenza dei licheni (bioindicazione lichenica) utilizzando il metodo e gli strumenti sviluppati dall’equipe diretta dal Prof. Ammann dell’Università di Berna (Svizzera) per il WWF Elvetico. Tale metodologia permette di predire i tassi di inquinamento da dette sostanze con una certezza pari al 98 %”. Leggi l’intera dichiarazione di Ecosostenibilità & Mail cycling.
Man
Steve Cutts (1) pubblica il video “Man” il 21 dicembre 2012 e, in poco tempo, riceve più di 5 milioni di visualizzazioni sulla piattaforma YouTube e circa 1 milione su Vimeo.
Il tema principale di questo magnifico cortometraggio animato è il rapporto tra l’uomo (“man”, appunto, che compare nel titolo) e l’ambiente. Un rapporto che dura da circa 500.000 anni e che è inizialmente idilliaco in un luogo ricco di animali e piante, ma che si trasforma, a poco a poco, in un vero e proprio incubo.
Una delle prime cose che l’uomo impara e inizia a praticare è la violenza, anche gratuita, nei confronti degli altri esseri viventi che popolano il Pianeta. Dall’atto gratuito si passa poi all’utilitarismo: l’uomo uccide i serpenti per farsi degli stivali e le foche per farsi delle pellicce che lo possano riparare dal freddo. Con il passare del tempo e con l’avvento delle armi da fuoco inizia a anche ad uccidere gli animali per gli scopi più futili: per divertimento e per avere inutile e superflui oggetti di lusso. La violenza dell’uomo nei confronti della natura si manifesta anche attraverso il taglio di alberi e foreste che diventano altissime torri di carta, nella cementificazione e urbanizzazione di tutto ciò che lo circonda, nel consumismo sfrenato nonché nella produzione di montagne di rifiuti.
Il tutto si consuma in una paradossale danza di inconsapevolezza autodistruttiva che porta progressivamente l’uomo nelle sua marcia folle verso il baratro.
Con il video “Man” Steve Cutts, in poco più di tre minuti, ci racconta la strafottenza la brama di potere e l’idiozia dell’uomo e ci mette di fronte all’assurdità dei nostri comportamenti facendoci comprendere che il male più grande dell’agire umano non sembra essere tanto l’errore – inevitabile e comunque risolvibile – quanto piuttosto la perseveranza nel continuare a sbagliare.
Il video “Man” sembra un accorato appello dell’autore che ci pone davanti agli occhi, senza censure, la brutalità delle nostre azioni e ci dice… ADESSO BASTA!
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(1) Steve Cutts è un blogger e artista freelance londinese che spazia dalla pittura alla scultura, dall’illustrazione all’animazione interessandosi di numerose tematiche sociali, tra cui anche l’ecologia.
Musica: “In the Hall of the Mountain King” di Edvard Grieg
Sacchi a mare !!!
Come poter risolvere l’enorme problema dei rifiuti e dell’inquinamento del mare se fosse vero quanto riportato dal video mandato in onda lo scorso 20 dicembre della televisione brasiliana Sbt, terza emittente televisiva del Paese per numero di telespettatori?
In pratica, secondo quanto affermato e documentato con video da parte di Sergio da Silva Oliveira, sembra che dalla nave da crociera MSC “Magnifica” siano stati gettati in mare alcuni sacchi neri in prossimità della costa brasiliana, addirittura nei pressi di un santuario naturalistico. “Non si trattava di rifiuti organici – racconta Sergio da Silva Oliveira parlando ai microfoni di Sbt – si sentiva il rumore delle bottiglie e delle lattine: una delle buste si è strappata e ne sono uscite scatole di tetrapack che sono rimaste a galleggiare in mare”.
Il presunto smaltimento irregolare dei rifiuti da parte della compagnia italo-svizzera MSC Crociere dimostra che la filiera dei rifiuti – dalla produzione dei prodotti e degli imballaggi, alla gestione del loro smaltimento una volta esaurita la loro utilità – è troppo, troppo fragile. Basta poco (e in questo caso potrebbe essere anche stato un dipendente dell’azienda poco istruito sulla gestione dei rifiuti o poco controllato dai superiori) per creare un problema ben più grave, sia per l’ambiente che per l’immagine di MSC Crociere.
Nonostante MSC Crociere affermi di essere a posto con la legislazione relativa al trattamento dei rifiuti del settore della navigazione, di essere impegnata in ambito ambientale e di aver ottenuto certificazioni riguardo a tale impegno, in ogni caso il problema dell’inquinamento, anche involontario del mare, permane.
L’unica via per combatterlo passa inevitabilmente attraverso i seguenti punti:
- una politica di “rifiuti zero”, espressa sia in termini legislativi che culturali;
- una legislazione orientata a favorire chi produce e chi consuma prodotti biodegradabili e a penalizzare chi non lo fa;
- una legislazione che spinga i produttori a realizzare beni tenendo conto del ciclo di vita dei materiali, del riuso e della riparabilità degli stessi;
- un sistema chiaro di sanzioni che penalizzi chi venga trovato ad inquinare o a smaltire illegalmente i rifiuti nell’ambiente;
- un atteggiamento critico da parte dei consumatori che pongano, tra gli elementi di scelta di un fornitore o di un bene, non solo il prezzo o i servizi offerti ma anche le performance ambientali e di responsabilità sociale.
Solo così si verrà veramente fuori dal problema dei rifiuti e si provvederà a salvaguardare quell’enorme “pattumiera blu” che è il mare.
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Fonte: Il Fatto Quotidiano