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Il consumo del territorio semplicemente mi sconvolge
Nell’opinione pubblica gli ambientalisti sono sempre quelli del “NO” e quelli contrari al “progresso” e alla “tecnologia”. Sono quelli conservatori che vorrebbero tornare a vivere come l’uomo di Neanderthal senza benessere e senza medicine. Sono anche quelli – per dirne alcune – che hanno liberato le nutrie nei fiumi, quelli che hanno portato in Europa la zanzara tigre o quelli che minacciano l’economia montana in quanto difensori di orsi e lupi.
Per confutare questa tesi io, che mi definisco orgogliosamente ambientalista (1), voglio esprimere il mio profondo dissenso e disgusto per il terribile fenomeno del consumo del territorio e della cementificazione selvaggia al quale si deve per forza porre un freno. Lo desidero fare esprimendo la mia profonda contrarietà nei confronti di due episodi particolari – uno vissuto direttamente da me l’altro letto su Il Fatto Quotidiano – verso i quali mi preoccupo di proporre delle valide e benefiche alternative.
Innanzitutto vorrei partire dal concetto secondo cui io non sono a priori contrario alla realizzazione di infrastrutture urbane che, se necessario, potrebbero anche utilizzare del territorio vergine, cioè prima adibito a verde o ad agricoltura. Le cose importanti e fondamentali, però, sono almeno due: che siano fatte nella logica del benessere per i potenziali utilizzatori e non invece per ingrassare l’economia clientelare degli appalti; che siano realizzate da persone molto competenti in materia e non dagli amici degli amici che hanno poche qualifiche e che mirano solamente ad ottenere il massimo profitto personale. Perché, se realizzate male, le opere infrastrutturali ed urbane consumano irrimediabilmente territorio (una risorsa non facilmente rinnovabile) e contemporaneamente non sono utili per i potenziali beneficiari, cioè i cittadini.
Ora, detto ciò, vengo a descrivere le due situazioni di cui sopra. Le possibili soluzioni non richiedono troppe spiegazioni ma verranno direttamente da sé.
Qualche tempo fa sono stato con mia figlia a vedere il Museo delle Scienze di Trento (MUSE). Al di là del fatto che il museo è molto interessante, moderno e frequentato da moltissime persone, esso è stato realizzato in un contesto urbano – le Albere – pensato e progettato da Renzo Piano per recuperare l’area di una vecchia fabbrica di pneumatici. Quello che mi ha colpito dell’insediamento è il fatto che esso sia diventato, con il suo enorme parco alberato, con il museo e con le attività commerciali insediate, un importante luogo di aggregazione dei cittadini. Mi ha dato l’idea che essi non solo vadano in quel luogo per svolgere le loro attività ma desiderino recarsi proprio lì per vivere serenamente qualche ora e godere di una parte della loro città. Passandoci un pomeriggio quel luogo mi ha anche dato l’idea che poteva essere progettato in mille modi ma farlo progettare da uno dei migliori ha fatto senza dubbio la differenza. Come affermò il progettista «Le Albere è un classico esempio di trasformazione dei brownfields, i terreni industriali dismessi, in greenfields, un terreno cementato che diventa in gran parte verde, l’opposto di quello che si è fatto per tanti anni nelle città» aggiungendo che «Usare il legno è già di per sé un’attività intelligente perché è un materiale che viene dalle foreste, e le foreste si rinnovano, per cui di fatto è energia rinnovabile oltre che perfettamente riciclabile».
Leggo qualche giorno fa su Il Fatto Quotidiano l’articolo di Alex Corlazzoli “Ho visitato una scuola svizzera. E sono rimasto sconvolto” nel quale racconta la sua personale esperienza in una scuola elvetica di secondo grado (la nostra scuola media). Al di là degli strumenti didattici e della possibile fruizione della scuola che ne possono fare i professori (che possono accedervi sempre, con chiavi personali, anche di domenica e di sera) e al di là del rispetto che gli alunni hanno per il bene pubblico, quello che mi ha colpito è il fatto che la scuola fosse dotata, oltre che di sala professori con ogni comfort, di mensa ben progettata, anche addirittura di un teatro, di un laboratorio d’arte, di un’emeroteca e di una ludoteca aperta ai ragazzi. La realizzazione di tale scuola non è stata data ad un progettista qualsiasi ma era stato affidato a Santiago Calatrava che non ha scopiazzato un progetto a caso di una scuola qualsiasi ma ha tentato di “pensare” questo spazio abitativo pubblico in funzione dei ragazzi e dei professori. Uno spazio pensato per assolvere in maniera chiara ad una funzione educativa. E non credo sia un caso che, se educati in tali ambiti, i cittadini svizzeri siano poi dei cittadini modello.
I due esempi sono chiari riferimenti al fatto che dobbiamo iniziare a pretendere che il consumo del territorio sia una cosa seria che deve rientrare prioritariamente nell’agenda della politica che non deve solamente pensare di limitarne il consumo ma anche iniziare ad imporre regole che tolgano dal sistema della progettazione a personaggi incompetenti che lavorano in quanto amici degli amici o finanziatori e sostenitori degli amici. Sono certo che, in un tale contesto operativo, la limitazione del consumo del territorio verrebbe anche un po’ da sé…
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(1) La definizione di “ambientalista” non è chiara e ben definita ma si riferisce a colui che ha a cuore, attraverso la cultura e la conoscenza e spesso attraverso il buon senso, il futuro benessere dei propri figli. Essere ambientalista è essere semplicemente “padre” (o “madre”). E io mi sento pienamente di esserlo.
Foto 1: Quartiere Le Albere visto dall’alto
Foto 2: Scuola Media di Bellinzona, Svizzera
Le luci e le ombre del 2016 per il WWF
Sull’onda del primo articolo del 2017: “Bioimita – Anno Quarto” riporto alcuni dati interessanti riguardanti l’ambiente e la sua tutela pubblicati alla fine dell’anno scorso da parte del WWF che ha fatto un bilancio delle cose fatte (e non fatte o fatte male) nel 2016. Come era intuibile cercando di ripercorrere mentalmente le notizie dei mesi passati, ne sono uscite più ombre che luci. Vediamo quali sono state…
Il 2016 ha segnato un traguardo importante per l’associazione ambientalista: l’anniversario dei 50 anni della fondazione di WWF Italia. Essa è stata celebrata sia da parte di papa Francesco che da parte delle massime cariche istituzionali del Paese che, per lo meno nel cerimoniale, hanno dimostrato interesse per i temi e i problemi che il WWF ha evidenziato in questi decenni di lotte e di azioni. In particolare si è discusso dell’Agenda 2030 dell’ONU per lo sviluppo sostenibile (1); della lotta ai cambiamenti climatici; della “Emergenza Mediterraneo” (antropizzazione della fascia costiera e sovrasfruttamento degli stock ittici); della necessità di dare il giusto valore al capitale naturale del Pianeta; della perdita di biodiversità (2).
Per quanto riguarda la politica italiana il WWF osserva, per il 2016, come le istituzioni del nostro Paese siano state capaci di contribuire agli impegni internazionali per la definizione di obiettivi globali ambiziosi sul cambiamento climatico e per la definizione di piani d’azione efficaci in attuazione delle Direttive europee sulla Natura. Purtroppo, dentro i confini nazionali, ci si attesta ancora su posizioni di retroguardia, come il referendum votato lo scorso 17 aprile sulla durata delle concessioni delle piattaforme offshore per estrarre combustibili fossili (petrolio e gas) e con riforme che, di fatto (nello smantellamento del Parco Naturale dello Stelvio) e delle norme vigenti (revisione della legge 394/1991, legge quadro sulle aree protette), depotenziano la tutela della natura indebolendo la governance delle aree protette e la loro vocazione alla tutela della biodiversità. Segnali poco incoraggianti giungono anche dal fronte della sostanziale cronicità dei crimini di natura, soprattutto il bracconaggio, che colpiscono in Italia ancora specie simbolo come lupi, orsi, uccelli rapaci e persino animali quasi scomparsi come gli ibis eremita. Sulla strategia nazionale di decarbonizzazione stiamo ancora muovendo i primi passi, mentre lo sviluppo delle energie rinnovabili o dei trasporti più sostenibili continuano ad essere una corsa ad ostacoli di scarsa cultura e burocrazia.
Il 2016 è stato un anno cruciale anche dal punto di vista della difesa della biodiversità del Pianeta. Sul fronte internazionale la notizia migliore è stata quella della istituzione, nell’oceano Meridionale che circonda l’Antartide, della più grande area protetta marina di sempre: 1,57 milioni di km quadrati (una superficie grande circa come 5 Italie) per proteggere mammiferi marini, pinguini, procellarie e gli ecosistemi più fragili e importanti del pianeta. Buone notizie anche per alcune specie minacciate: per la prima volta in 100 anni il numero delle tigri è in crescita (3.890 individui, erano 200 nel 2010), mentre un accordo internazionale ha costituito una importante vittoria per fermare il commercio illegale di pangolini, braccati per le loro squame, vendute a 600-1000 dollari al kg. Un nuovo regolamento fa poi segnare un passo in avanti per stroncare il commercio di avorio. Sono, infatti, centinaia di migliaia gli esemplari di elefante uccisi ogni anno, venduti come specialità gastronomiche o ridotti in preparati dalle indubbie qualità mediche. Anno positivo infine anche per il panda gigante – simbolo del WWF (e di tutte le specie minacciate) – declassato da una categoria di minaccia maggiore (endangered) ad una minore (vulnerabile). Le cattive notizie riguardanti la biodiversità però non mancano: quattro specie di grandi scimmie su sei sono ora in pericolo di estinzione e continuano le stragi di elefanti (ne abbiamo persi più di 100.000 in 10 anni).
Tornando all’Italia, in merito al consumo del suolo e alla manutenzione del territorio – tema caldo nella percezione dell’opinione pubblica italiana che vede continue colate di cemento e asfalto anche nei nostri paesaggi più belli – dopo 4 anni di continui tentennamenti da parte dei Governi che si sono succeduti, dalla fine del 2012 al 2016, il 12 maggio scorso è stato finalmente approvato in prima lettura alla Camera il disegno di legge sul consumo del suolo che, finalmente, tra gli aspetti positivi, stabilisce che il suolo è risorsa non rinnovabile e che debbano essere fissati obiettivi nazionali, regionali e locali per il contenimento del consumo del suolo e strumenti che favoriscano la rigenerazione urbana, cioè il riuso di aree già urbanizzate. Nel contempo, però, attraverso i soliti cavilli linguistici e normativi, le potenti lobby del cemento rischiano di ottenere l’obiettivo opposto: quello di fingere la difesa del suolo e invece favorire nuove edificazioni, sostanzialmente attraverso i cosiddetti compendi agricoli neorurali.
In buona sostanza la partita per garantire un prospero futuro ai nostri figli e alle nuove generazioni volge quasi alla fine e, purtroppo, la stiamo perdendo 2 a 0. La rimonta è possibile e deve essere sempre ricercata ma ci dobbiamo tutti rimboccare le maniche perché il gioco della squadra avversaria è spesso scorretto (le lobby) e gli arbitri (la politica) non sempre fischiano correttamente i falli.
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(1) Un nome a mio avviso orribile per parlare seriamente dei problemi ecologici – che per essere veramente efficaci devono rompere lo schema economico del consumismo legato in buona parte al concetto di “sviluppo” – ma comunque utile per iniziare a portare a galla la questione e farla conoscere un po’ a tutti.
(2) Il report del WWF “Living Planet Report 2016” riassume tutto il senso dell’urgenza che il WWF attribuisce alla difesa della biodiversità ricordando come, in meno di 5 anni (entro il 2020), il pianeta rischia di perdere il 67% della popolazione globale di specie vegetali e animali, mentre tra il 1970 e il 2012 le popolazioni globali di pesci, uccelli, mammiferi, anfibi e rettili si sono già ridotte del 58%, più della metà.
Il giardino delle (bio)diversità
Ora che è sopraggiunta la primavera e la natura si è risvegliata dopo il torpore invernale intorno a me vedo giardini curati come fossero prodotti industriali di plastica, uniformi nel materiale e nei colori. Erba rasata alla perfezione senza impurità di altre specie. Gruppi di fiori uniformi e ipertrofici. Aiuole ben definite, con riga e compasso. Siepi perfettamente squadrate e alberi – quei pochi presenti – sempre ben tagliati e potati per non dare troppo disturbo e per non sporcare.
Ma questi non sono giardini. Sono trasposizioni nella “natura” di prodotti industriali tutti uguali, tutti uniformi, tutti precisi che nulla hanno di veramente naturale. Per ottenerli necessitano di un grande dispendio di lavoro, di energia, di utensili e di prodotti chimici vari le cui conseguenze principali sono inquinamento diffuso – anche rumore – e perdita di biodiversità.
È da anni che io, invece, cerco di concepire il mio giardino (1) come un piccolo angolo di diversità, sia di specie viventi che in esso vivono, sia di mescolamento e di distribuzione casuale in esso delle stesse. In sostanza, ispirandomi alla natura spontanea che vedo intorno a me, cerco di fare in modo che nel mio giardino un po’ tutte le specie vegetali possano avere spazio (cerco di contenere un minimo solamente quelle troppo invasive) e che esse non abbiano un luogo dedicato dove crescere ma che possano diffondersi il più liberamente possibile. Nella scelta delle piante poi – che naturalmente in gran parte anch’io acquisto – cerco di prediligere quelle perenni o quelle che hanno capacità autonoma di diffusione, evitando possibilmente quelle che derivano da selezione troppo spinta o da ibridazione. Per quel che posso raccolgo le piante nei giardini di altre persone o, compatibilmente con le regole ambientali, anche in natura per poi ripiantarle nel mio. Oltre alle specie vegetali, nel mio giardino tento di attrarre anche uccelli (mettendo nidi e mangiatoie nel periodo invernale), pipistrelli e insetti, soprattutto farfalle. Questo mi obbliga a tollerare anche specie nocive, come limacce e insetti parassiti, perché spesso sono il nutrimento di lucciole, di insetti utili, di pipistrelli e di ricci.
In questo modo cerco di determinare uno spazio dove venga ricostruita una sorta di armonia naturale e vi sia – compatibilmente con le interferenze dei mie vicini che nel loro giardini fanno un po’ di tutto – il raggiungimento di un certo equilibrio tra le specie.
Se ho una specie invasiva da contenere, ad esempio, non penso a quale diserbante chimico o meccanico utilizzare per debellarla ma altresì penso a quali altre piante posso piantare che con la loro crescita possano rallentare la diffusione di quelle invasive. Inoltre non penso che vi siano “malerbe” o “erbe infestanti” da combattere a tutti i costi ma, piuttosto, cerco che tutte le specie vegetali abbiano il loro spazio e si possano diffondere in maniera equilibrata.
In questo modo, applicando il principio della bioimitazione secondo cui la natura è basata su una rete di reciproche relazioni e collaborazioni, noto che, rispetto agli altri, il mio giardino è più colorato, è più ricco di fiori, ha alberi frondosi e abbondanti ed è più sostenibile dal punto di vista ambientale.
Ecco qualche foto che lo rappresenta…
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(1) Abito in un vecchio fienile ristrutturato in una zona rurale prevalentemente dedita alla coltura della vite e dell’actinidia (kiwi) sulla morena del Lago di Garda, in provincia di Verona.
Giornate ecologiche. Ma per piacere!
Il fallimento delle giornate ecologiche che, soprattutto durante il periodo invernale, periodicamente vengono messe in campo un po’ a casaccio per contrastare il fenomeno tristemente reale dello smog nelle nostre città dimostra due importanti aspetti:
- il fenomeno dell’inquinamento non si può contrastare solamente attraverso comportamenti virtuosi collettivi messi in pratica dai cittadini;
- i principi della bioimitazione sono corretti e vanno assolutamente perseguiti per la ricerca delle soluzioni.
Ma andiamo con ordine e cerchiamo di approfondire i punti di cui sopra.
Contrastare l’inquinamento dell’aria, che interessa in particolare alcune aree geografiche (ad es. la Pianura Padana) e comunque, chi più chi meno, tutti i centri abitati, è un dovere assoluto perché – secondo studi recenti pubblicati da parte dell’Agenzia Europea dell’Ambiente – determina poco meno di 500 mila morti premature all’anno in Europa e circa 85 mila solo in Italia. A tale riguardo ciò che la politica sa mettere in campo per contrastare tale fenomeno è solo cercare di educare i cittadini ad avere singolarmente dei comportamenti virtuosi – cosa assolutamente inefficace di cui ho già parlato in un altro articolo – attraverso l’istituzione delle cosiddette giornate ecologiche, cioè giornate in cui i centri urbani sono interdetti alla circolazione delle auto, oppure di altre azioni palliative come la giornata delle biciclette o la circolazione a targhe alterne. Ma la politica non deve fare educazione, a questo ci pensa già la letteratura, l’arte, la radio, la televisione. La politica deve trovare soluzioni concrete e queste risiedono solamente nei finanziamenti a sistemi di produzione di utilizzo di energie più sostenibili (tutte le energie, non solo quelle dedicate al trasporto), al contrasto mediante le leggi a sistemi di trasporto inquinanti, al potenziamento dei servizi di trasporto pubblico e di mezzi alternativi di mobilità (es. biciclette).
Che non si voglia essere incisivi è talmente palese se si pensa al fatto che tali misure vengono messe in campo solo di domenica (per non “disturbare” il sistema economico, si intende) e a macchia di leopardo, senza una regia comune. Ecco che allora può capitare che una città abbia il blocco del traffico e quella a qualche chilometro di distanza abbia organizzato il mercatino dell’antiquariato o i carri allegorici del carnevale. Così i piccoli benefici della prima vengono vanificati dalle scelte di senso contrario della seconda.
E, in effetti, queste misure sono talmente inefficaci e disgustose per i cittadini che, durante la loro applicazione, si rilevano addirittura picchi di traffico veicolare con intasamento delle arterie cittadine periferiche e riempimento totale dei parcheggi a pagamento.
Per quanto riguarda le soluzioni a tale fenomeno dell’inquinamento dell’aria da smog, determinato per un terzo circa dai sistemi di trasporto, per un terzo circa dal sistema di produzione industriale e per un terzo circa dal sistema domestico, sono fermamente convinto – e i dati mi danno ampiamente ragione – che i principi della bioimitazione vengano in soccorso per adottare quelle misure necessarie sia nel breve periodo ma, soprattutto, nel lungo periodo, dove gli effetti dello smog sulla salute si fanno maggiormente sentire. Da un lato la bioimitazione osserva che in natura l’energia non viene prodotta attraverso la combustione ma è di derivazione solare e cinetica. Pertanto è necessario che si riproponga urgentemente tale pratica anche nei sistemi umani impedendo al più presto, per quanto già possibile, l’uso del carbone, del petrolio e di altri gas e favorendo metodi rinnovabili ed ecologici di produzione. Inoltre la bioimitazione, attraverso i suoi principi, ci dice che la natura usa solamente l’energia di cui ha bisogno. Pertanto sono troppi gli sprechi e le inefficienze sui quali si deve intervenire a livello tecnico per evitare che venga prodotta – male – l’energia che poi contribuisce all’inquinamento. Infine sempre la bioimitazione ci dice che la natura si fonda su una serie di reciproche collaborazioni.
In buona sostanza se vogliamo limitare l’inquinamento derivante dai trasporti è necessario che si inizi a pensare di dissuadere il trasporto privato (di solito rappresentato da una grande massa, quella del veicolo, che serve per muovere una sola persona) e di passare all’intermodalità, fatta di mezzi privati, di sistemi di trasporto pubblico, di veicoli a pedali e di pedoni. Per fare questo bisogna cominciare seriamente ad investire per (ri)orientare ed obbligare le scelte di trasporto verso queste direzioni.
Solo così si potrà contrastare seriamente il problema dell’inquinamento atmosferico ed evitare che la risposta alla giornata ecologica sia: “Ma per piacere!”.
Ecobnb | Turismo sostenibile
Ecobnb è un portale web dedicato al turismo sostenibile in Europa. Esso si propone di cambiare il modo di viaggiare delle persone e di mettere in rete le possibilità di turismo rispettoso dell’ambiente, dell’economa e delle comunità locali. In Ecobnb si possono trovare diverse sistemazioni ecofriendly, dalle case sugli alberi all’hotel tradizionale, dall’albergo diffuso nei vecchi borghi all’igloo in alta montagna, dall’agriturismo al rifugio.
Per poter aderire a Ecobnb è necessario possedere una struttura ricettiva e che quest’ultima possieda almeno 5 tra i seguenti 10 criteri ambientali riconosciuti a livello internazionale da numerosi marchi che si occupano di ecoturismo.
- Cibo biologico – La struttura ricettiva nella composizione dei menu deve utilizzare prevalentemente cibo proveniente da agricoltura biologica certificata. Non devono essere utilizzati prodotti OGM.
- Bioarchitettura – L’edificio della struttura ricettiva deve avere un elevato livello di efficienza energetica (il consumo annuo di energia è inferiore a 60 Kwh/mq) e deve inserirsi armonicamente nel paesaggio. Al fine di ridurre l’impatto ambientale della costruzione la struttura ricettiva deve utilizzare materiali provenienti da fonti locali. La prima regola è che l’edificio più verde è l’edificio che non viene costruito. Poiché costruzione degrada quasi sempre un cantiere, non costruire affatto è preferibile alla bioedilizia, in termini di riduzione dell’impatto ambientale. La seconda regola è che ogni edificio deve essere il più piccolo possibile, per ridurre il consumo di risorse naturali. La terza regola è di non contribuire al consumo di suolo e di utilizzare la maggior parte dei metodi per ridurre l’impatto ambientale e i consumi degli edifici turistici.
- Elettricità al 100% da fonti rinnovabili – L’elettricità utilizzata dalla struttura ricettiva deve deriva al 100% da fonti rinnovabili. La struttura ricettiva può produrre l’energia pulita in loco o acquistarla da fornitori di energia pulita (derivante al 100% da fonti rinnovabili).
- Pannelli solari per l’acqua calda – La struttura ricettiva deve produrre acqua calda utilizzando energia pulita tramite i pannelli solari. Tale acqua calda preferibilmente dovrebbe essere utilizzata anche per il riscaldamento domestico e della piscina.
- Prodotti per la pulizia ecologici – I detergenti utilizzati dalla struttura ricettiva per la pulizia degli ambienti, della biancheria e delle stoviglie devono essere a base di prodotti naturali. I detersivi devono essere altamente biodegradabili ed ecocompatibili. I saponi e i deodoranti a disposizione degli ospiti devono essere naturali e biologici. La struttura ricettiva non deve fare uso di prodotti chimici di sintesi per la pulizia.
- Raccolta differenziata oltre l’80% – I rifiuti devono essere separati, riciclati e smaltiti in modo adeguato superando l’80% di differenziazione. Devono essere messi a disposizione degli ospiti appositi contenitori per la raccolta differenziata di carta, vetro, plastica e lattine. Deve essere effettuato, dove possibile, il compostaggio dei rifiuti organici. Devono essere fornite informazioni agli ospiti sulla raccolta differenziata invitandoli a contribuire.
- Accessibile senz’auto – E’ possibile raggiungere la struttura ricettiva con i mezzi pubblici o grazie ad un servizio navetta per gli ospiti che arrivano nella località con i mezzi pubblici. La struttura ricettiva deve offrire informazioni sui servizi di trasporto pubblico disponibili sul territorio e deve incentivare di mezzi di trasporto ecologici (auto elettriche, biciclette, car pooling).
- Lampadine a basso consumo – La struttura ricettiva deve ridurre il consumo di energia elettrica utilizzando lampade a risparmio energetico. Almeno l’80% di tutte le lampadine installate nella struttura ricettiva deve avere un’efficienza energetica almeno di classe A. La struttura ricettiva deve anche promuovere un’azione di sensibilizzazione degli ospiti al risparmio energetico.
- Riduttori di flusso per l’acqua – La struttura ricettiva deve ridurre i consumi di acqua utilizzando appositi riduttori di flusso del getto d’acqua. La struttura ricettiva deve promuove inoltre un’azione di sensibilizzazione degli ospiti al risparmio idrico.
- Gestione sostenibie dell’acqua – La struttura ricettiva deve raccogliere e riutilizzare le acque piovane per usi secondari (sciacquoni dei bagni, irrigazione di orti o giardini, ecc).
Ecobnb mette anche in evidenza altri requisiti ambientali secondari come: servizio di noleggio biciclette, cibo a km 0, biodiversità delle aree verdi, eliminazione delle porzioni monodose e imballaggi usa e getta, prodotti del commercio equo e solidale, sostegno dell’economia locale, controllo automatico delle luci, utilizzo di carta riciclata, marchi ambientali e certificazioni energetiche, ecc.
Per ogni struttura ricettiva viene mostrato il grado di sostenibilità in relazione a quanti dei punti precedenti sono soddisfatti.
Anche la gestione di Ecobnb è sostenibile dal momento che i server che utilizza sono alimentati al 100% da fonti di energia rinnovabile.
Capitozzatura
Grande spiegamento di uomini e mezzi. Tripudio di elmetti gialli e giubbini catarifrangenti. Transenne. Sbarramenti di strade. Cartelli stradali. Motoseghe scoppiettanti. Non mancava nemmeno l’immancabile enorme piattaforma a braccio che raggiunge (in sicurezza, per fortuna) altezze inimmaginabili. Così qualche giorno fa ho partecipato, involontariamente, alle operazioni di potatura (ma io le definirei più propriamente operazioni di “capitozzatura”) di splendidi grandi alberi ubicati in un parco pubblico di Milano, a ridosso di una strada che ho percorso a piedi per recarmi al lavoro.
Ma così non si taglia un albero. Gli si fa solamente del male (in senso filosofico e botanico, si intende) e lo si rende addirittura più pericoloso per chi transiti sulla strada o desideri godere degli spazi pubblici verdi.
Ma andiamo con ordine e, per spiegare la cosa, vediamo cosa si intende per capitozzatura e vediamo quali possono (e devono) essere le soluzioni per far sì che il doveroso lavoro di potatura periodica degli alberi sia ben fatto per la salute degli esseri viventi in oggetto e per la sicurezza di chi in qualsiasi circostanza si trovi sotto le loro chiome.
La capitozzatura è una pratica di arboricoltura che prevede il taglio indiscriminato delle branche di un albero, soprattutto allo scopo di ridurre le sue dimensioni generali e di renderlo (a torto) più sicuro. La capitozzatura, però, non è il giusto metodo di contenimento della crescita di una pianta e di diminuzione dei pericoli ad essa connessi. Anzi, nel lungo periodo, la capitozzatura rende l’albero più pericoloso. Vediamo il perché.
La capitozzatura è una pratica che rimuove improvvisamente e quasi istantaneamente la chioma di un albero, dal 50% al 100% del suo volume. La risposta della pianta – che trae l’energia della propria sopravvivenza dalle foglie e che tale pratica elimina quasi completamente dall’albero – è quella di far innescare un meccanismo di sopravvivenza attivando le gemme latenti e forzando la rapida crescita dei germogli attorno ad ogni taglio. Lo scopo della pianta è quello di ri-costruire nel più breve tempo possibile una nuova chioma (1). Un albero così danneggiato, oltre ad essere più facilmente attaccato da malattie, da funghi e da insetti parassiti che, nel lungo periodo, lo possono fortemente indebolire, è anche portato a produrre un’enorme quantità di piccoli rami che non si sviluppano nelle condizioni ottimali e che presentano un tessuto di ancoraggio al moncone molto precario che, nel tempo, tende ad indebolirli e a predisporli più facilmente alla rottura. La capitozzatura, oltre a ciò, è una pratica che imbruttisce enormemente gli alberi delle nostre città, dei nostri parchi e dei nostri giardini ed è anche molto costosa perché impone frequenti (più frequenti di altre pratiche) interventi di ulteriore potatura.
Ecco allora che, per tutte queste ragioni, è necessario osservare e studiare la natura per imparare da essa a come meglio intervenire per ottenere una sana potatura dell’albero. È pertanto necessario affidarsi a professionisti esperti che siano in grado di studiare la pianta, di capire le esigenze del luogo in cui si trova, di comprendere che l’intervento si fa sempre su un essere vivente – molto diverso da noi ma che condivide lo stesso pianeta e che ha più o meno i nostri stessi scopi – e poi di operare i giusti tagli che garantiscano sicurezza ma, nel contempo, rispettino anche la sopravvivenza e il benessere dell’albero.
La bioimitazione è anche questo e il mio sogno è quello di non vedere più quei tronconi osceni senza vita che ci imbruttiscono l’anima e che non rispettano la vita.
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(1) L’accrescimento di gran parte delle piante e dei fiori oppure la distribuzione delle foglie sui rami avviene secondo la serie di Fibonacci che contribuisce a creare in natura ordine e armonia, ma anche efficienza ed efficacia con il minimo sforzo.
Fonte: www.mrgreenservices.it
Disegno: [disegno originale]
Rapporto sul Benessere Equo e Sostenibile in Italia
L’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT) ha da poco presentato la terza edizione del “Rapporto sul Benessere Equo e Sostenibile in Italia (BES |2015)” (1), un quadro integrato dei principali fenomeni sociali, economici e ambientali che stanno caratterizzando l’evoluzione del nostro Paese in questi anni recenti. Anche quest’anno il Rapporto BES analizza i fattori che hanno un impatto diretto sul benessere umano e sull’ambiente attraverso l’analisi dei seguenti 12 argomenti (commentati).
- Salute – Vita media in aumento, ma stabile quella in buona salute. Disuguaglianze territoriali in crescita, disuguaglianze di genere in diminuzione.
- Istruzione e Formazione – Migliorano i livelli di formazione e si riduce il divario con l’Europa, in crescita la partecipazione culturale.
- Lavoro e conciliazione dei tempi di vita – Primi segnali di ripresa ma ancora forti divari e lontani dall’Europa.
- Benessere economico – Dal 2014 segnali di miglioramento della condizione economica delle famiglie. Non si attenuano le disuguaglianze.
- Relazioni sociali – Aumenta la fiducia negli altri, cresce la rete potenziale di aiuto e cala la partecipazione politica.
- Politica e istituzioni – Cresce la presenza delle donne nei luoghi decisionali economici e politici, ma resta elevata la sfiducia nelle istituzioni.
- Sicurezza – Dopo anni di sostenuto aumento della criminalità predatoria, rallenta la crescita dei reati. Diminuisce la violenza contro le donne ma aumenta la sua gravità.
- Benessere soggettivo – Cresce l’ottimismo verso il futuro, soddisfazione per la vita ancora stabile.
- Paesaggio e patrimonio culturale – Progressi insufficienti nella tutela dei beni comuni.
- Ambiente – Passi in avanti ma ancora criticità per la gestione delle risorse naturali e della qualità dell’ambiente.
- Ricerca e innovazione – Poche sorprese sul fronte della ricerca e innovazione. La situazione resta in gran parte stabile.
- Qualità dei servizi – Graduale miglioramento dell’erogazione di acqua, energia elettrica, gas e rifiuti. Ancora criticità per servizi sociali, mobilità e carceri.
Mentre dal Rapporto BES 2015 emerge che la situazione è abbastanza positiva sul lato dei temi socio-economici con buoni livelli di salute, di formazione e di lavoro nonché una buona percezione da parte dei cittadini sia per le relazioni sociali che – stranamente – per la loro condizione economica, dal Rapporto stesso emerge, invece, che la situazione è alquanto negativa relativamente ai temi socio-ambientali, in particolare il paesaggio, il patrimonio culturale e l’ambiente in generale.
Se si considerano in maniera più approfondita i temi che manifestano aspetti di più spiccata negatività, ci si rende conto che la tutela del paesaggio e dell’ambiente non è sufficiente a garantire quei livelli necessari perché si configuri benessere per i cittadini.
Dal lato della tutela del paesaggio e del patrimonio culturale, anche se alcuni obiettivi si possono dire quasi raggiunti (es. piccolo rallentamento nel consumo di territorio agricolo a causa della crisi del settore edile), altrettanto non si può dire dal lato della dismissione di aree agricole interne che non vengono più coltivate e da quello dell’espansione delle monocolture industriali. Purtroppo sul piano del paesaggio vi è una forte disparità regionale e territoriale (tra Nord e Sud) sulla capacità delle istituzioni di tutelare i beni pubblici e vi è un elevato abusivismo edilizio, non riscontrabile in altre economie avanzate. In Italia, poi, nonostante la grande vocazione turistica per i paesaggi e per i beni culturali, vi è un’inadeguata spesa pubblica dedicata a tali scopi. Elementi fortemente negativi sono presenti anche riguardo la percezione da parte dei cittadini per il paesaggio, che li rende fortemente insoddisfatti, soprattutto al Nord.
Dal lato poi dell’Ambiente in generale, pur avendo il patrimonio naturalistico in Italia anche una importante funzione economica (per l’agricoltura e per il turismo), vi è comunque una scarsa tutela degli ecosistemi che richiederebbe, invece, maggiori sforzi anche in considerazione dei cambiamenti climatici in atto. La protezione dell’ambiente rappresenta una chiave determinante e lungimirante per le scelte del sistema Paese ed anche dei singoli cittadini. Le azioni volte oggi ad uno sviluppo ecosostenibile possono condurre, domani, al miglioramento del benessere delle persone. Le azioni di tutela dell’ambiente, di gestione sostenibile delle risorse naturali e di lotta ai cambiamenti climatici, con un piano di sviluppo legato alle energie rinnovabili e all’efficienza energetica, possono aggiungere valore e proteggere i nostri territori, sostenere la società e l’economia. Luci e ombre sono ancora presenti fra le varie aree del Paese e fra i diversi aspetti che costituiscono la tematica ambientale, anche se nel corso degli ultimi anni, con l’impulso delle normative e dei vincoli europei, sono stati compiuti passi in avanti in quest’ambito. Aumenta la disponibilità di aree verdi urbane a disposizione dei cittadini, si riduce l’inquinamento dell’aria in diverse città, cresce l’energia prodotta da fonti rinnovabili, si contraggono le emissioni di gas serra e il consumo di materiale interno, questi ultimi anche come conseguenza della crisi economica. A questi progressi non resta insensibile neanche la popolazione italiana che esprime più consapevolezza sulle problematiche ambientali, maggiore partecipazione attiva e migliori scelte di spesa. È ancora evidente però, la necessità di interventi sostanziali sul territorio in termini di tutela e gestione dell’ambiente. Nel settore dei rifiuti urbani si riduce la quota dello smaltimento in discarica, anche se l’Italia rimane in netto ritardo rispetto agli altri paesi europei. Resta anche grave, soprattutto in alcune regioni del Mezzogiorno e dell’Italia centrale, la dispersione di acqua potabile dalle reti di distribuzione comunale, così come la depurazione delle acque reflue urbane. Ugualmente grave la presenza di diversi siti inquinanti da bonificare diffusi sul territorio nazionale. Permane infine la presenza di diverse aree del territorio con problemi di dissesto idrogeologico e alluvioni accentuati dall’incremento di eventi climatici estremi.
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(1) Nato nel 2010, il BES si è ispirato ad iniziative internazionali simili anche se il quadro di riferimento adottato in Italia risulta tra i più ambiziosi proponendosi di misurare non solo il livello di benessere attraverso l’analisi degli aspetti rilevanti della qualità della vita dei cittadini, ma anche la sua l’equità in termini di distribuzione delle determinanti del benessere tra soggetti sociali e la sua sostenibilità, a garanzia che lo stesso livello di benessere possa essere fornito anche alle generazioni future.
La teoria delle finestre rotte
Siamo nel 1969, negli USA, e il prof. Philip Zimbardo dell’Università di Stanford ha un’intuizione per cercare di spiegare alcune dinamiche di comportamento sociale. Per avvalorare le sue tesi lasciò abbandonate in strada due automobili uguali: stesa marca, stesso modello, stesso colore. Una nel Bronx, un’area al tempo molto degradata della città di New York e l’altra in un quartiere borghese di Palo Alto, in California. Ciò che accadde fu che l’auto del Bronx cominciò subito ad essere smantellata: i materiali che potevano essere utilizzati vennero rubati mentre la carcassa rimasta venne distrutta e data alle fiamme. Al contrario l’auto di Palo Alto rimase perfettamente intatta.
L’esperimento non termino così perché i ricercatori decisero in seguito di rompere un vetro dell’auto di Palo Alto per vedere quale ne fosse l’effetto. In poche ore si assistette anche in California alle stesse dinamiche di furto e di vandalismo che avevano caratterizzato il Bronx, a dimostrazione che le cause dei crimini non devono per forza essere attribuite alla povertà – come era ed è spesso opinione comune – ma anche ad altri fattori, molto più profondi e complessi.
Da qui, dopo ulteriori esperimenti di approfondimento e di conferma (1), nacque la cosiddetta “Teoria delle finestre rotte”. In sostanza, se viene rotta la finestra (di un’auto o di un edificio) è probabile che ne verrà rotta un’altra. Se le finestre rotte sono due o più, la probabilità che ne vengano rotte altre aumenta in maniera esponenziale. Se la finestra rotta viene invece riparata, il processo normalmente si interrompe. E ciò è indipendente dal luogo dove avviene, sia esso povero ed emarginato o ricco e borghese. Al limite è solo una questione di tempo.
Questa teoria si associa normalmente ai concetti della “esemplarità” e della “emulazione“, secondo cui le persone tendono ad osservare i comportamenti degli altri e a copiarli. Se sono positivi non ci saranno problemi particolari ma, se sono negativi, vi è la possibilità che si verifichino situazioni anche più gravi.
Se, traendo spunto da questa teoria, negli anni ’90 del secolo scorso il sindaco di New York Rudolph Giuliani è stato in grado di sconfiggere la criminalità, anche quella grave, che attanagliava la sua metropoli attraverso interventi volti a reprimere situazioni di microcriminalità e di degrado, è facile intuire che ciò possa funzionare anche per altri temi, come quelli ambientali.
Se, ad esempio, è difficile sconfiggere la mafia che inquina alcune regioni d’Italia attraverso la gestione illegale dei rifiuti, si può tentare di ripristinare, in quelle stesse regioni, la legalità spiccia che si manifesta regolarmente nei comportamenti quotidiani di tutti. Bisogna liberare le strade dai piccoli rifiuti urbani abbandonati a terra e bisogna far rispettare, banalmente, anche le regole del Codice della Strada.
Se è difficile sconfiggere l’abusivismo edilizio che ruba ogni anno migliaia di ettari di territorio agricolo e impedisce la corretta riscossione delle tasse, si può tentare di recuperare la legalità e il piacere della bellezza urbana eliminando i graffiti sui muri, regolamentando il traffico e i piccoli comportamenti quotidiani, spesso esercitati anche da parte dei giovani, che portano ad avere incuria e mancato rispetto per i beni pubblici.
Se è difficile impedire che le persone si riversino e avvelenino i centri urbani con le loro vetture private, si può tentare di far pagare a tutti i servizi di trasporto dei mezzi pubblici, sanzionando pesantemente e inflessibilmente soprattutto le piccole infrazioni della circolazione stradale urbana. Ciò farebbe orientare una buona parte degli spostamenti urbani verso la bicicletta (ritenuta sicura) e verso i trasporti pubblici (percepiti sicuri ed efficienti).
Ci vorrebbe veramente poco. A volerlo…
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(1) Nel 2007 e nel 2008 Kees Keizer e colleghi, dell’Università di Groningen, approfondendo gli esperimenti del prof. Philip Zimbardo hanno condotto una serie di studi sociali controllati per determinare se l’effetto del disordine esistente (come la presenza di rifiuti o l’imbrattamento da graffiti) avesse aumentato l’incidenza di criminalità aggiuntive come il furto, il degrado o altri comportamenti antisociali. Hanno scelto diversi luoghi urbani successivamente trasformati in due modi diversi ed in tempi diversi. Nella prima fase il luogo è stato mantenuto ordinato, libero da graffiti, finestre rotte, ecc. Nella seconda fase esattamente lo stesso ambiente è stato trasformato in modo da farlo sembrare di proposito in preda all’incuria e carente relativamente al controllo: sono state rotte le finestre degli edifici, le pareti sono state imbrattate con graffiti ed è stata accumulata sporcizia. I ricercatori hanno poi segretamente controllato i vari luoghi urbani osservando se le persone si comportavano in modo diverso quando l’ambiente era stato appositamente reso disordinato. I risultati dello studio hanno corroborato la teoria secondo cui un disordine lieve, come l’accumulo di rifiuti per strada o la presenza di graffiti sui muri, può facilmente incoraggiare altri comportamenti ben più gravi, come ad esempio il furto.
10 passi verso una casa più verde
Molto probabilmente nel 2060 la popolazione mondiale sarà di circa 10 miliardi di individui e, inevitabilmente, associato ad essa ci sarà un forte aumento dei consumi di energia elettrica. In particolare, al tasso attuale di consumo, si presume che per quella data i consumi elettrici mondiali saranno di 57,3 trilioni di kWh, in netto incremento dai 16,4 del 2006 e dai 7,3 del 1980.
Dal momento che le conseguenze legate alla produzione di tutta quella energia possono essere molto gravi per il Pianeta, non potendo prevedere ora se e quando in futuro potremo disporre di una fonte di energia pulita e sicura, è necessario iniziare a pensarci fin da ora facendo l’unica cosa che abbiamo a disposizione: risparmiarla! Partendo dal presupposto che l’energia consumata a livello domestico rappresenta un’elevata percentuale del totale e considerando che è necessario che ognuno faccia, nel proprio piccolo, la propria parte, allo scopo di aiutare i cittadini ad agire l’Azienda inglese CES Group ha pubblicato una chiara ed esaustiva infografica sull’argomento.
Per facilità di lettura se ne riporta la versione tradotta in italiano.
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Nota: Traduzione non ufficiale ad opera di Bioimita.
L’Italia fa anche schifo
Si sente sempre dire che l’Italia è bella, che è piena di opere d’arte. Che l’Italia ha buon cibo e che l’Italia ha tanti talenti. Tutto vero e sacrosanto anche se è doveroso ricordare che, assieme alle cose positive, ve ne sono numerose di negative – molto negative – che fanno letteralmente inorridire per quanto siano assurde, soprattutto nel contesto dei bei paesaggi e della storia umana che hanno lasciato segni indelebili in questo Paese.
Se approfondirete i numerosi dati dell’interessante sito internet: www.padaniaclassics.com (1) vi potrete rendere conto, senza dubbi, che l’Italia fa anche schifo. E molto!
Dalla visione delle orribili situazioni raccontate nelle numerose foto pubblicate e dalla completezza dei dati delle diverse sezioni del sito ci si rende conto che la sostenibilità ambientale è sinonimo di ricchezza paesaggistica e culturale, il carburante economico essenziale per un Paese che vuole fondare una considerevole parte della propria ricchezza sul turismo e sulle eccellenze alimentari.
Difendere il territorio da speculazioni inutili e dalle bruttezze, spesso figlie dell’ignoranza, vuol dire difendere anche il futuro dei nostri figli affinché abbiano una vita prospera e sana.
Prendo spunto dal sito per riportare un assaggio di frasi significative che, da sole, fanno ben comprendere che cosa sia – e quanto triste e brutta sia – la MacroRegione Padana:
“La MacroRegione senza cantieri non sarebbe macro”;
“La MacroRegione è una giungla che schiaffeggia il viaggiatore con messaggi pubblicitari ai lati delle strade”;
“Nella Macroregione vivono 19 milioni e 300 mila persone. Ognuna di esse può contare su 1,8 metri di strada asfaltata”.
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(1) Padania Classics è anche un libro fotografico: “L’Atlante dei Classici Padani” che racchiude tutto il lavoro di Padania Classics dal 2010 al 2015. Suddiviso in 18 capitoli il libro affronta in maniera ossessiva tematiche riguardanti la Regione divenuta Macro, dalla cementificazione al Dio dell’Oro, dai rifiuti ai monumenti all’assurdo, dalla politica alla religione, dalla monetina inserita nel videopoker alla mano inserita nella mutanda dopo il massaggio.
Foto: http://padaniaclassics.tumblr.com/
La vita è una splendida avventura
“Nel mondo c’è posto per tutti. La natura è ricca e sufficiente per tutti noi. La vita può essere felice e magnifica ma l’abbiamo dimenticato. Le macchine invece di abbondanza ci hanno dato povertà! La scienza ci ha trasformato in cinici, l’abilità ci ha resi spietati. Pensiamo troppo e sentiamo troppo poco. Più che di macchine abbiamo bisogno di umanità! Più che di intelligenza, di dolcezza e di bontà. Siamo uomini, non macchine. Facciamo in modo che la vita sia una splendida avventura!”
Ho letto queste frasi qualche giorno fa sul muro di un campetto di calcio mentre pranzavo nel parco pubblico di Caselle di Sommacampagna (VR). Ci vado abbastanza spesso e non ci avevo mai fatto caso. Belle frasi, totalmente condivisibili.
E, a pensarci bene, non c’è bisogno di molto perché la vita sia una splendida avventura…
Le cave e la legge dell’entropia
Qualche settimana fa, con un cliente, mi è capitato di percorrere la strada che da Marengo (frazione di Marmirolo, in provincia di Mantova) porta a Valeggio sul Mincio, in provincia di Verona. Questa strada secondaria a ridosso del confine delle due province è letteralmente disseminata, parte per parte, da immense cave. Ferite enormi aperte nel territorio che grondano centinaia di migliaia di metri cubi di ghiaia e sabbia l’anno trasportate da migliaia di camion che riempiono le strade e ammorbano la popolazione con traffico, inquinamento, polveri e rumore. Una parte di esse era ancora attiva (o “coltivata” come si dice in gergo) al nostro passaggio; un’altra risultava dismessa e le tracce ora rimaste sono enormi buche ricoperte di vegetazione spontanea e qualche laghetto artificiale di acqua affiorante.
Il mio cliente – un imprenditore nel settore tecnologico – mi ha portato di proposito su quella strada per mostrarmi e per commentare la negatività di tali opere umane e di un certo tipo di imprenditoria, predatoria e fortemente impattante nei confronti del territorio.
Ho pensato a lungo a quello che ho visto e a quello che ci siamo detti in auto e, dopo qualche giorno, mentre stavo percorrendo un’altra strada disseminata di grandi cave tra Lugagnano di Sona e Caselle di Sommacampagna, non lontano da dove abito in provincia di Verona, ho fatto il collegamento con la legge dell’entropia.
Innanzitutto, per spiegare questo collegamento, è necessario capire a cosa serve coltivare una cava di ghiaia e sabbia. L’estrazione di tali materiali naturali non rinnovabili, di solito prodotti in tempi geologici dalle maree, dall’erosione di un ghiacciaio o da fenomeni alluvionali (le zone a cui ho fatto riferimento sono state caratterizzate da entrambi questi ultimi i fenomeni) serve principalmente ad alimentare l’industria edile e delle costruzioni stradali, sia per il sottofondo sia per la produzione dell’asfalto e del calcestruzzo (o del “cemento”, per usare il termine un po’ forte impiegato dai movimenti che difendono il territorio). Da ciò si comprende in modo evidente che l’estrazione mediante cave a cielo aperto di ghiaia e sabbia è collegata in maniera indissolubile all’edilizia ma, soprattutto, alla realizzazione di grandi opere (strade, ferrovie, ponti, gallerie, ecc.), ove vi è un elevato contenuto di calcestruzzo e di movimento terra. Non ci si può quindi lamentare se ci sono troppe cave (che spesso poi vengono riempite di rifiuti) se poi si è favorevoli alla politica delle grandi opere e si pensa che l’edilizia (per lo meno quella sin qua svolta basata su enormi quantità di cemento, calcestruzzo e alre materie non rinnovabili) sia alla base del sistema economico.
Detto questo, l’entropia (1) – quella grandezza fisica che parla del disordine irreversibile dei sistemi che usano molte energia e trasformano molta materia – entra in gioco in quanto per trasformare o per movimentare quell’enorme massa di materiale non rinnovabile – la ghiaia e la sabbia – si altera così profondamente l’ambiente da non aver più possibilità di tornare indietro. In sostanza, secondo la legge dell’entropia, cavare materiale dal terreno e trasformarlo è un processo unidirezionale che non consentirà più, in un futuro, nemmeno con le migliori tecnologie e con un enorme dispendio di energia, di recuperare e ripristinare gli elementi originari.
Cavare e utilizzare i materiali estratti è dunque un qualcosa di profondamente sbagliato non tanto (e non solo) per ragioni astratte di tutela del territorio, di tutela del paesaggio e della bellezza ma anche, e soprattutto, per ragioni energetiche e di disponibilità di materie per il futuro. Si tratta, in sostanza, di un grave problema concreto che mette in seria discussione la possibilità di avere disponibilità di materie e di energia – oltre che di possibile sopravvivenza della specie umana su un pianeta con l’equilibrio climatico molto alterato – per le future generazioni, cioè per i nostri figli e i figli dei loro figli. Si tratta di una questione così enorme e così potenzialmente pericolosa (anche se in parte generata da banalissime cave) dalla quale nessuna ricchezza potrà salvarci, se non andare su un altro pianeta.
Sarà per questo che i più ricchi della Terra stanno finanziando immani progetti di colonizzazione di Marte?
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(1) l’entropia è quella grandezza fisica legata al secondo principio della termodinamica secondo cui, se si introduce disordine in un sistema passando da uno stato di equilibrio ordinato ad uno disordinato, tale processo di disordine è solamente unidirezionale: tanta più materia ed energia si trasforma in uno stato indisponibile, tanta più sarà sottratta alle generazioni future e tanto più vi sarà disordine che viene riversato nell’ambiente.
Foto 1: Le cave ubicate vicino al paese di Caslle di Sommagampagna (VR) hanno una suerficie pari quasi pari a quella del centro abitato (Fonte: Google Maps).
Foto 2: Cave ubicate nei pressi del paese di Dossobuono di Villafranca di Verona (VR) e dell’aeroporto della città (Fonte: Google Maps).
Foto 3: Altre cave ubicate tra i comuni di Villafranca di Verona (VR) e di Verona. La loro estensione è grande come quella di un paese (Fonte: Google Maps).
Foto 4: Cave ubicate nel comune di Roverbela (MN) (Fonte: Google Maps).
Foto 5: Cave ubicate nel comune di Valeggo sul Mincio (VR) (Fonte: Google Maps).
Foto 6: La foto ritrae Bosco della Fontana ubicato a Marmirolo (MN). C’è una bella differenza di paesaggio e di apporto ecologico tra un bosco primario e una cava. E se al posto delle cave si realizzassero dei boschi? (Fonte: Google Maps).
Ad Oslo inaugurata un’autostrada per gli insetti
È da tempo che affronto il problema della perdita di biodiversità e che propongo soluzioni drastiche quale unica via d’uscita. In particolare ritengo sia necessaria la costruzione di una rete ecologica planetaria (che chiamo “cintura ecologica”) che sia in grado di far vivere e viaggiare animali e piante liberamente, senza ostacoli dovuti alla modificazione sempre più profonda della natura da parte dell’uomo.
Mentre in Italia si discute di realizzare grandi opere – le solite – con la scusa del progresso del Paese ma con il desiderio celato di far arricchire i soliti e dare potere ai soliti altri, nella civilissima Norvegia, ad Oslo, si realizza la prima autostrada urbana per insetti.
Si, non siete sordi e nemmeno un po’ matti. E non lo sono nemmeno io. Avete proprio capito bene. Su proposta della Società di Giardinaggio della capitale del Paese scandinavo e con il beneplacito della politica locale, è stato realizzato un lungo percorso cittadino fatto di fiori e piante che sia in grado di nutrire api, farfalle, calabroni e altri insetti in modo tale che non abbiano troppo stress nei loro spostamenti urbani.
Per realizzare questa bellissima autostrada non si sono dovuti fare cantieri, non si è dovuto produrre calcestruzzo e gettare cemento armato, non si è dovuta fare alcuna movimentazione di terra o deviazione di corsi d’acqua mediante l’ausilio di pale meccaniche. Non si è nemmeno dovuta fare alcuna gara d’appalto con conseguenti illeciti e infiltrazioni mafiose. Ci si è preoccupati semplicemente di organizzare, in maniera oculata e professionale, il posizionamento di vasi di fiori sui tetti o sui balconi e terrazzi delle case, lungo un percorso che va da est a ovest di Oslo. Così ogni 250 metri circa i nostri piccoli fratelli invertebrati trovano un “punto di ristoro”, un “fast food” che sia in grado di nutrirli e far loro superare lo stress prodotto dalle manipolazioni umane sull’ambiente e sulla natura.
L’obiettivo dei promotori di questa lungimirante iniziativa non è solamente quello di preservare la biodiversità, ma anche quello di cercare soluzioni per svilupparla tenendo conto che in Europa si sta verificando la progressiva estinzione di 6 specie di insetti su 35.
Quando vedo concretizzarsi iniziative così apparentemente insignificanti ma così profonde nell’analisi dei problemi e nella ricerca di possibili soluzioni mi viene in mente quella bellissima frase di Haruki Murakami che recita: “Il tempo può risolvere molti problemi. Ma quelli che il tempo non può risolvere, li dobbiamo risolvere da soli”.
Consumo e cementificazione del territorio. I dati dell’ISPRA
Non è più tempo di chiacchiere e di tanti bei discorsi sul consumo e sulla cementificazione del suolo. Bisogna agire prendendo decisioni politiche e legislative che incidano su tale inutile spreco. E subito!!!
I dati che emergono dal “Rapporto sul consumo di suolo 2015” dell’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) sono impietosi e non lasciano spazio a dubbi o perplessità. Nonostante la crisi che in questi ultimi anni ha colpito il settore dell’edilizia e che ha diminuito di molto le richieste di nuove abitazioni, in Italia si continua comunque a consumare suolo a ritmi che sono già insostenibili e lo saranno ancora di più se li si proietta nel futuro. E i dati sono allarmanti.
Già ora – come osserva l’ISPRA – il 7% della superficie italiana (pari a circa 21 mila chilometri quadrati che sono, per intenderci, la superficie dell’Emilia Romagna) è cementificato, asfaltato, impermeabilizzato per la costruzione di edifici e di infrastrutture e non risulta più disponibile per l’agricoltura o per la crescita dell’erba e degli alberi. Si tratta di un percentuale addirittura quasi doppia rispetto alla media europea.
Dai dati emerge che il fenomeno è più elevato nel nord-ovest del Paese dove si raggiungono tassi dell’8,4%, per arrivare al 7,2% nel nord-est, al 6,6% nel centro e al 6,2 al sud. Il consumo di suolo è più elevato nelle aree urbane, soprattutto nelle periferie dove le città cercano sbocchi per espandersi, ma raggiunge percentuali impressionanti anche sulle coste dove il tasso arriva quasi al 20%. Ovviamente, come è facile intuire, questo fenomeno interessa anche le aree con fragilità idrogeologiche e sulle rive di fiumi e laghi.
Se lo vediamo nell’ambito delle regioni il fenomeno interessa principalmente la Lombardia – seguita a ruota dal Veneto – che hanno tassi di consumo del suolo che si aggirano intorno al 10%, mentre la Liguria è la regione che presenta il maggior consumo di territorio sulle zone costiere, che si attesta intorno al 40%. Tra le province poi il triste primato se lo aggiudica quella di Monza e Brianza (35%), seguita da Napoli (29%) e Milano (26%).
Se si fa un raffronto con il passato e si pensa che negli anni ’50 (circa 60 anni fa) la superficie cementificata dell’Italia era il 2,7%, vengono i brividi. E se si pensa che nel 1998 (solo 17 anni fa) il consumo del suolo era del 5,8% (1,2% in meno), viene da chiedersi chi abbia autorizzato tutto questo scempio. Perché l’effetto della cementificazione del territorio non si fa sentire solamente su quello effettivamente consumato, ma si estende anche sui terreni vicini per un raggio di altri circa 100 metri. Ecco che così si passa da un tasso di consumo del territorio del 7% ad uno ben più preoccupante del 55%. E questo fa ancora più paura!
Se infine analizziamo il consumo di territorio dal punto di vista delle cause possiamo osservare come il 30% sia dovuto alla costruzione di edifici, mentre il restante 70% sia dovuto alla costruzione di infrastrutture (40% per le nuove strade). La perdita di suolo avviene poi prevalentemente a discapito di aree agricole (60%) – con inevitabili conseguenze sulla produzione autonoma del cibo – e per il 19% a discapito di aree naturali.
Le conseguenze della cementificazione e della impermeabilizzazione del suolo non sono solamente quelle ovvie della perdita di terreni agricoli, della perdita di aree naturali e della biodiversità o dell’incremento di fenomeni idrogeologici estremi a seguito di intense precipitazioni piovose. Le conseguenze sono anche una minore capacità di assorbimento dell’anidride carbonica (CO2) per mancanza di vegetali oppure un aumento delle aree che fungono da “isole di calore”, cioè – come fanno il cemento o l’asfalto – che assorbono energia termica attraverso le radiazioni del sole e la rilasciano nell’atmosfera.
In buona sostanza bisogna agire fin da ora per porre un freno a questo devastante fenomeno che non sta portando benefici ai cittadini ma arricchisce prevalentemente pochi imprenditori, dà potere a qualche politico e alimenta fenomeni malavitosi. E la prima cosa da fare è quella di prevedere un sistema di tassazione che disincentivi il consumo di territorio vergine ma, invece, favorisca il recupero di edifici o di terreni già urbanizzati.
In tutto questo mare di dati chiari e precisi mi piacerebbe sapere cos’ha da dire – e non sono pochi, soprattutto tra gli amministratori locali – chi è favorevole a EXPO, TAV, espansione urbanistica, espansione per le seconde case, autostrade e strade varie. Sarei proprio curioso.
Scava la buca, riempi la buca
Dopo qualche decennio di esperienza personale nel mondo reale – caratterizzato anche dalla presenza di numerosi “furbetti” e da parecchi “leccaculo” – posso dire, con una buona dose di certezza, che gran parte delle grandi opere pubbliche realizzate in questi ultimi decenni siano state più un esercizio di arricchimento dei soliti finanzieri, la manifestazione di potere e di tangenti dei soliti politicanti e inutili sprechi di denaro pubblico piuttosto che interventi volti a migliorare veramente la vita dei cittadini e della collettività. I politici, a tutti i livelli, nei loro dibattiti istituzionali, nei loro discorsi pubblici e nelle loro interviste giornalistiche si sono sforzati di farcele apparire necessarie e portatrici di benessere anche se, in cuor loro, quasi sempre sapevano essere il contrario e sapevano che avrebbero alimentato solo l’arricchimento di pochi e, in caso di successo, la loro fortuna personale nell’ambito del mare magnum della politica.
Dopo la ricostruzione post bellica, la realizzazione delle grandi nervature autostradali degli anni ‘50 e’60 del secolo scorso (iniziate negli anni ’30), i miglioramenti della rete ferroviaria degli anni ’70 (dopo quelli degli anni ’30), si può osservare come gran parte delle grandi opere costruite a partire dagli anni ’90 del secolo scorso siano state inutili colate di cemento e asfalto, probabili depositi illegali di rifiuti tossici e bieche speculazioni urbanistiche.
Tanto per fare qualche esempio, tra i più recenti interventi inutili (1) si potrebbe annoverare il MOSE, la linea ferroviaria ad alta velocità (TAV), l’EXPO e le numerose strade e autostrade attualmente in corso di realizzazione o in programmazione (vedasi decreto “Sblocca Italia” e i numerosi progetti presenti sul tavolo dei ministeri, dalla Nogara-Mare alla Pedemontana Lombarda, dalla Valdastico nord al 3° Passante di Genova).
Il MOSE (Modulo Sperimentale Elettromeccanico) ci è stato venduto come l’unica soluzione ingegneristica e tecnologica praticabile al problema dell’acqua alta di Venezia ma, per ora, è stato solo cemento, ferro, lunghi cantieri ed un enorme colabrodo di soldi pubblici, anche spesi in tangenti. Si pensi, solo per fare un esempio, che oltre all’elevatissimo valore economico di costruzione (circa 6 miliardi di euro, una delle opere più costose della storia italiana), il MOSE ci dovrebbe costare (sempre di soldi nostri) circa 40 milioni di euro ogni 5 anni per interventi di manutenzione alle paratie. A causa della scarsa qualità dell’acciaio utilizzato per le dighe mobili che, immerse gran parte del tempo nell’acqua salata della laguna tendono a corrodersi in maniera molto più elevata rispetto a quella inizialmente pensata, sembra però che tali manutenzioni dovranno essere molto più frequenti (forse addirittura ogni 2 anni).
La TAV, la linea di trasporto merci e passeggeri ad alta velocità – che non riguarda solo quella “famosa” che dalla Francia e dal Piemonte va verso est ma anche quella che da Monaco, attraverso il Brennero, dovrebbe andare a Palermo – è un’opera sostanzialmente inutile perché non viene incontro ad una reale esigenza di saturazione della attuali linee ferroviarie o a necessità sociali (trasporto pendolare) ma, piuttosto, è basata su vecchie previsioni dei trasporti che non hanno, almeno ad ora, un reale riscontro per il futuro. Quello di cui si avrebbe bisogno, oltre a qualche tratta ad alta velocità che colleghi grandi centri urbani lontani tra loro, sono linee decenti di trasporto locale (soprattutto per i pendolari) e linee di media percorrenza a costi popolari. Inoltre tale opera immane è già a livello progettuale un grande buco nero di soldi pubblici, sia nella parte alpina prevista quasi tutta nelle gallerie, sia in quella di pianura caratterizzata da vomitate di cemento, di cavalcavia, terrapieni, ponti, rialzi e chi più ne ha più ne metta tanto da arrivare a costare, in alcune tratte, fino a circa 60 milioni di euro a chilometro.
Cosa dire infine dell’EXPO e delle numerose strade e autostrade progettate o in fase esecutiva. Il primo evento, l’EXPO, doveva essere l’esposizione universale del cibo come energia della vita. Prima del suo svolgimento è difficile anticipare come riuscirà a rappresentare “l’energia della vita” ma quello che ad ora è certo è il fatto che l’evento si è rivelato il solito enorme spreco di territorio agricolo, di tangenti, di mafia e di corruzione. Il vero nodo non sarà tanto l’EXPO in sé ma capire cosa ne sarà degli spazi realizzati dopo la chiusura della manifestazione anche se le premesse non sono edificanti dal momento che le gare per l’assegnazione degli immobili stanno andando deserte per mancanza di interessati.
Per quanto riguarda le strade e le autostrade che si stanno costruendo e che si vorrebbero costruire, per gran parte di esse mancherebbero i numeri economici e di traffico che ne giustificherebbero gli enormi investimenti (vedasi la Brebemi che dopo qualche mese dalla sua apertura è praticamente vuota). Si vogliono fare comunque lo stesso, se non esplicitamente per far piacere ai soliti finanzieri e ai soliti costruttori, anche perché si ritiene che gli investimenti in grandi opere pubbliche creino giro economico e sostengano quel minimo di crescita e di consumi.
Dato tutto ciò e visto e considerato che tutte queste opere costano immensamente in termini di finanze pubbliche (che sono quelle che alimentiamo noi con le nostre tasse) nonché in termini di degrado ambientale e del paesaggio (così importante per l’Italia ad elevata vocazione turistica), mi chiedo se non sia il caso, per alimentare comunque l’economia delle opere pubbliche, di cambiare strategia e di adottare la tecnica del: “Scava la buca, riempi la buca”. In sostanza sarebbe quasi meglio definire delle aree poco abitate e di scarso interesse economico-ambientale e, in esse, mettere in pratica la cantierizzazione di opere decennali di escavazione con conseguente successivo riempimento. Lo scopo è semplice: non creare nulla, sostenere l’economia e lo sviluppo tecnologico ma anche fare meno danni possibile (2).
Alla fine, nella logica delle opere inutili di cui sopra, cosa cambierebbe? Però, magari, salviamo ancora quel poco che c’è di salvabile…
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(1) Inutili perché, nel rapporto tra i costi e i benefici, prevalgono i primi.
(2) Ovviamente la tecnica del “Scava la buca, riempi la buca” è fittizia e provocatoria anche se si propone di cercare di capire veramente a chi e a che cosa servano le grandi opere. Di soldi in tasse ne tiriamo fuori tanti ma di benefici, quelli veri, noi cittadini spesso ne vediamo pochi.
Maltempo killer
Dopo un lungo periodo di bel tempo tardo estivo ecco che arriva l’inevitabile (e normale) pioggia autunnale. Mettici, in più, i cambiamenti climatici in atto e la cementificazione selvaggia del territorio et voilà, ecco che la “frittata” è fatta. Smottamenti, allagamenti, frane, piene sono le conseguenze ovvie di una tale situazione che già da qualche decennio scienziati e meteorologi continuano a ricordarci facendo luce sul fatto che, prima o poi, le conseguenze dei cambiamenti climatici non provocheranno solo danni materiali, danni economici e perdite umane ma anche forti ondate migratorie di popolazioni che abitano territori divenuti sempre più inospitali.
In questo contesto – soprattutto dopo che i fenomeni naturali e le loro conseguenze sul territorio hanno determinato dei morti – le parole che più frequentemente ricorrono nei titoli dei giornali e nella dialettica dell’informazione televisiva e radiofonica sono: “Maltempo killer”, “natura matrigna”, “pioggia omicida”, “piena devastante” e chi più ne ha più ne metta. Quasi che la natura si diverta ad essere cattiva e malevola nei confronti degli esseri umani e degli altri esseri viventi del Pianeta.
Anche se nel profondo del mio animo penso che la Natura, dopo tutto quello che le abbiamo fatto e che le stiamo continuamente facendo, abbia pienamente ragione di essere dura nei nostri riguardi, è da osservare che, in realtà, non è essa ad essere negativa nei nostri confronti ma siamo piuttosto noi stessi che, con i nostri comportamenti, abbiamo fatto di tutto per fare la cosa ingiusta ed essere nel posto sbagliato.
Si pensi, ad esempio, ai numerosi condoni edilizi dei decenni passati che hanno fatto diventare pollai e ricoveri per attrezzi delle splendide ville pluripiano poste sulle pendici più impervie delle colline. Si pensi ancora alle lottizzazioni ed alle espansioni urbanistiche autorizzate nelle aree di prossimità dei grandi fiumi o, peggio, negli alvei dei fiumi stessi. Si pensi ai porti costruiti presso le foci dei fiumi, ai parcheggi o ad interi quartieri costruiti addirittura sopra i fiumi, al disboscamento delle pendici per far posto a vigneti o ad altre coltivazioni, alla cementificazione dei torrenti, alla mancata manutenzione delle rive. Date queste condizioni come si può ancora pensare che il killer sia ancora il maltempo?
Cari commentatori Il vero killer dei fenomeni meteorologici è la stupidità, l’ignoranza e l’avidità dell’uomo che, offuscato dal miraggio della propria superiorità rispetto alla natura, pensa di poterla dominare attraverso la forza piuttosto che attraverso la conoscenza del suo funzionamento.
Fintantoché continueremo a pensare in questo modo avremo ancora temporali killer e frane omicide. E un’inutile montagna di bla bla bla…
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Foto: gli effetti del recente nubifragio a Roma (foto Corriere della Sera)
Bello o brutto?
Qualche mattina fa, a Verona, mi trovavo a percorrere una piacevole strada panoramica urbana sul fiume Adige. Mentre aspettavo il mio turno fermo al semaforo il mio sguardo fu attratto da dei bellissimi fiori gialli che svettavano alti e imponenti tra gli steli d’erba e tra le margherite nei pressi del ciglio stradale, ad un paio di metri da me. Il ciglio stradale e l’argine ne erano pieni e lo spettacolo era veramente notevole. Purtroppo, però, bisogna rassegnarsi al fatto che le cose belle hanno breve durata e, come per magia, poco avanti c’erano anche due operai vestiti di tutto punto, con i loro bei giubbini catarifrangenti arancio, con i loro bei caschetti, le cuffie, il paraocchi e i guanti, armati di decespugliatori a filo che… broom… broom tagliavano tutti i vegetali e tutti i fiori che trovavano sul loro cammino, facendone tabula rasa.
Quei poveri operai erano stati mandati là da qualcuno che, a mio avviso, senza fare troppe ricerche scientifiche sulla biodiversità urbana e senza preoccuparsi troppo della bellezza del paesaggio spontaneo, aveva deciso che le erbacce erano brutte e che doveva essere fatto un po’ di “ordine”.
Mi sono subito chiesto che cosa sia il concetto del “bello” e quello del “brutto”. Mi sono subito chiesto se sia più bello (nella Pianura Padana) un prato all’inglese verde smeraldo di steli d’erba ben allineati e rasati in maniera uniforme oppure un prato, un po’ più “selvatico”, pieno di margheritine bianche e tarassachi gialli. Se sia più bella un’aiuola con tutti i fiori uniformi e ben separati oppure realizzata da una mescolanza di piante e di colori; se sia più bello un giardino con le piante ben allineate e tutte ben potate oppure caratterizzato da un groviglio di alberi semi-selvatici.
Per me la risposta è ovvia, perché tento di ragionare e di legare il mio piacere anche a ciò che è bene per la natura, che poi in definitiva è anche il mio e della mia salute. Però mi rendo conto che per molte persone la scelta più comoda sia quella dell’ordine, del rigore, della uniformità. Non importa poi il fatto che per raggiungere il risultato voluto si debba abbondare con i diserbanti e con i pesticidi, si debba esagerare con le attrezzature a motore, si debbano sprecare centinaia di metri cubi d’acqua potabile, si debba violentare la biodiversità vegetale e animale.
A pensarci bene, però, mi rendo conto che la questione affonda le sue radici prevalentemente nella dimensione culturale. È solo legata al fatto che qualcuno ci ha inculcato l’idea che debba essere fatto così. Punto. Senza troppi ragionamenti e senza troppe analisi critiche.
Cari lettori, aprite lo sguardo e cercate di vedere le cose anche con un occhio diverso. Cercate di non farvi influenzare dalle mode e dal conformismo. Vedrete che si apriranno interessanti orizzonti che vanno al di là dei meri concetti di “bello” e di “brutto” e sarete più predisposti anche a cambiamenti più radicali e più giusti, a nuove soluzioni tecniche, economiche e sociali che porteranno ad un nuovo progresso per il futuro.
Sono sempre più convinto che la differenza la facciamo veramente solo noi, attraverso le nostre scelte!
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Foto 1 e 2: L’argine del fiume Adige
Foto 3: Esempio di prato “all’inglese”
Foto 4: Esempio di prato “selvatico”
EXPO 2015
Manca circa un anno a EXPO 2015 “Nutrire il Pianeta, energia per la vita” e quello che sino ad ora abbiamo sono solo numeri, cemento e tangenti. Poco è il nutrimento per il Pianeta e molto scarsa è l’energia per la vita.
I numeri sono quelli che dicono i politici, gli amministratori, i giornalisti e la gente comune in televisione, alla radio sui giornali, al bar, dal barbiere. Le solite cose: che EXPO è una grande opportunità; che EXPO arricchirà la città di Milano con il turismo e l’Italia con il prestigio; che EXPO fa e farà lavorare la gente (1). I cartelloni pubblicitari che in questi giorni tappezzano la metropolitana di Milano parlano di 1 milione di visitatori e di 145 paesi del mondo presenti. I racconti degli amministratori parlano di 190 mila posti di lavoro. Vedremo. Sono solo proiezioni che saranno tutte da dimostrare alla fine della manifestazione quando avremo i dati definitivi.
Per quanto riguarda il cemento che è coinvolto nella realizzazione di EXPO basta vedere qualche foto del cantiere (in ritardo rispetto ai tempi previsti) per capire. Fino ad ora si tratta di un groviglio di strade, di infrastrutture e di fondamenta di palazzi in calcestruzzo. Mi sembra non resti quasi nulla dell’idea di sostenibilità che aveva contraddistinto l’opera fin dall’inizio (2) e che era stata “venduta” all’opinione pubblica ma, soprattutto, del progetto di riutilizzo dei padiglioni alla fine della manifestazione, l’autunno prossimo. Potrebbe essere che, come è successo per l’EXPO di Siviglia o per le Olimpiadi di Atene, i palazzi non trovino una nuova collocazione et voila… si riempiano di erbacce.
Per quanto riguarda le tangenti basta scorrere la cronaca di quest’ultimo periodo (maggio 2014) per capire il marcio che c’è dietro alla manifestazione. Politici, imprenditori e tecnici coinvolti in giri di tangenti e di corruzione che fanno impallidire quelle del passato che, al confronto, per i soldi che erano interessati, rappresentano solo la “paghetta” di un bambino.
Sulla base di ciò ci si può ragionevolmente chiedere che cosa sia veramente EXPO. Ci si può chiedere se veramente il suo scopo sia quello di “nutrire il Pianeta” e di dare la giusta “energia per la vita” o sia, piuttosto, quello di alimentare le solite opere per fare un favore alle banche, agli speculatori e, forse, alla malavita. In merito alla creazione dei (presunti) posti di lavoro e al (presunto) prestigio dell’Italia non sarebbe stato meglio investire quei miliardi di soldi pubblici per lo sviluppo di nuove tecnologie in sintonia con la bioimitazione e in creazione di cultura collettiva, magari intervenendo, in parte, anche in piccole opere di utilità sociale?
Il problema è che EXPO, se correttamente comunicato ai cittadini e da loro approvato, fa muovere i soldi subito mentre la cultura e la ricerca no. Se, poi, i benefici tanto sbandierati non arrivano… chissenefrega!
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(1) Per meditare su chi parla in televisione e si manifesta palesemente a favore di un’opera senza capire poi realmente da che parte stia, si può fare riferimento alla cronaca di questi giorni: l’ex ministro Clini arrestato per presunto peculato e per aver sottratto fondi a diversi progetti esteri (Iraq e Cina). Quando parlava a favore di ILVA e snocciolava numeri su numeri… ci si può chiedere per chi lo facesse? Per i cittadini o per il perseguimento di un interesse personale? Mah!
(2) ad es. si veda il Master Plan del progetto proposto da William McDonough e partner
Foto 1: Rendering dell’area espositiva dell’EXPO 2015
Foto 2: Progetto proposto dallo Studio William McDonough + Partners
La ragnatela urbana
Avete presente quelle splendide ragnatele che talvolta, di mattina presto, in controluce e, magari, evidenziate anche dalla brina, si disegnano tra i rami degli alberi? Se siete fortunati che qualcuno e qualcosa non le abbia rovinate le potete vedere nella loro interezza cogliendo appieno la loro struttura: una forma che, da un punto centrale parte a raggiera e che ha i raggi portanti della struttura uniti tra loro da segmenti, via via sempre più lunghi e radi più ci si allontana dal centro. Una trappola invisibile, perfetta, per insetti volanti che vi dovessero finire sopra.
Ora, provate a mettere in orizzontale la ragnatela e a trasporla, in dimensioni maggiori, su un qualsiasi territorio, meglio se pianeggiante e senza ostacoli. La potete notare meglio di sera, con i lampioni accesi, ora che l’illuminazione notturna ha raggiunto (ahimè!) anche le strade più remote. Vedrete che la sua forma ricalca perfettamente la struttura delle città e delle sue vie di comunicazione: il fulcro è il centro urbano e i fili delle ragnatele sono le strade o la ferrovia. Quelle a raggiera sono le principali mentre quelle di congiunzione dei raggi sono quelle secondarie, di quartiere o, via via che ci si allontana dal centro, quelle più rade di periferia e di campagna.
Come quella del ragno anche la “ragnatela” del territorio (ragnatela urbana, la si può definire) la potremmo considerare un’enorme trappola. Che non fa prigionieri e morti come quella del ragno ma che porta l’urbanizzazione sempre più lontano dalle città divorando sempre più territorio, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno.
La ragnatela urbana è la conseguenza dei comportamenti e delle decisioni scellerate degli amministratori pubblici per portare “progresso” e “benessere” (e, spesso, anche interessi economici personali e lobbistici) perché si devono costruire nuove strade, per poi fare nuove aree industriali, per poi costruire nuove case, per poi fare nuovi ponti, per poi fare nuove valutazioni di impatto ambientale, per poi fare nuovi progetti, per poi ottenere nuovi finanziamenti, per poi fare nuove strade, per poi…
La ragnatela urbana è anche la conseguenza delle richieste avanzate dagli imprenditori per garantire competitività alle proprie imprese: più vie di comunicazione uguale più facilità nei trasporti e nella movimentazione delle merci e dei prodotti. Inoltre costruire case, aree industriali e infrastrutture è, per loro, anche un ottimo sistema per diversificare gli investimenti.
E noi, cittadini, in mezzo, informati da un sistema di comunicazione che tende ad indagare poco perché non indipendente dai “poteri”, che ci beviamo un po’ tutto convinti che vada bene così.
Al di là di quello che ci viene detto a me sembra che la ragnatela urbana sia piuttosto una trappola e lo proverò a spiegare.
Innanzitutto la ragnatela urbana consuma territorio prezioso sia per l’agricoltura e la sovranità alimentare che per il paesaggio, fonte di reddito nell’ambito turistico. Poi, la ragnatela urbana è inefficiente perché esplode le città e le distribuisce su un territorio sempre più ampio, rendendo più complessi tutti i trasporti: dalle merci, alle informazioni, all’energia. Inoltre la ragnatela urbana contribuisce ad incrementare il consumo di energia, sia per costruirla che per gestirla, oltre che ad avere un effetto indiretto di distribuzione generalizzata dei fenomeni inquinanti.
La natura – che è sempre in lotta con il reperimento dell’energia a basso sforzo e per risparmiarla – a guardarla bene, invece, produce strutture collettive compatte, le uniche in grado di minimizzare gli sforzi e, al contempo, massimizzare le relazioni.
Sulla base di questo principio è necessario che da subito i Comuni e le Regioni inizino a praticare l’obiettivo di consumo netto del territorio (1) pari a ZERO senza attendere i fantomatici regolamenti comunitari o le leggi nazionali, che non arriveranno mai perché realizzate da chi ha anche interessi personali diretti e indiretti sull’edilizia e sulla realizzazione delle infrastrutture.
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(1) Per consumo netto del territorio si intende solo il consumo del territorio vergine, al netto dei recuperi effettuati su territorio già urbanizzato.
Casa Batroun
Conosco personalmente Maya, la proprietaria di “Casa Batroun”. L’ho conosciuta nel 2009 a Beirut (1) durante uno dei miei soliti viaggi in giro per il mondo.
Maya si divide tra Londra – dove collabora con EcoConsulting, una società di consulenza nel campo ambientale – e Beirut (la sua città natale) dove cerca, con mille difficoltà ma anche con molta tenacia, di mettere in pratica quello che nell’Europa del nord è considerato essere cosa abbastanza normale.
Casa Batroun è una casa sostenibile e la sua particolarità non sta tanto nel fatto che si tratta di una casa ecologica per la quale sono state adottate certe soluzioni tecniche piuttosto che altre, quanto nel contesto in cui è stata realizzata. Il contesto è il Medio Oriente, una regione dove l’ecologia e la sostenibilità ambientale sono concetti praticamente agli albori (per non dire quasi inesistenti) e dove, per questa ragione, l’importanza del progetto e della realizzazione di Casa Batroun è ancora più importante. In parte perché può rappresentare un interessante esempio per le comunità locali di come si possa concretamente realizzare un edificio sostenibile; in parte perché può accrescere la cultura e la conoscenza degli artigiani locali verso tecniche nuove, meno impattanti su un ambiente, il loro, già abbastanza messo sotto pressione da abusivismo edilizio, pessima gestione dei rifiuti, trasporti e industrie inquinanti.
Da come ora in origine a come è stata recuperata, Casa Batroun è ora completamente trasformata. Per arrivare a questo importante traguardo le soluzioni adottate per il restauro sono state:
- riuso di vecchio legno sia per la parte strutturale che per alcuni pavimenti
- riuso di vecchie porte, finestre, scale, piastrelle e mobili
- utilizzo di legno proveniente da foreste sostenibili (FSC)
- utilizzo di collanti a bassa emissione di solventi e formaldeide
- utilizzo di isolamento a base di lana di pecora e pasta di legno
- utilizzo di calce naturale
- utilizzo di idropittura ecologica AURO
- utilizzo di linoleum prodotto da resina naturale: durevole, riciclabile e privo di solventi
- design bioclimatico: ventilazione, posizionamento delle finestre e ombreggiatura
- riscaldamento mediante stufa a pellet
- utilizzo di pannelli solari per la produzione di acqua calda
- utilizzo di lampade a led
- utilizzo di apparecchiature a basso consumo energetico
- utilizzo di vasche per la raccolta dell’acqua da usare per l’irrigazione e le toilette
- realizzazione di un tetto verde
- predisposizione di un sistema di raccolta differenziata e di compostaggio dei rifiuti organici.
[Vedi il progetto di Casa Batroun]
Casa Batroun è stata costruita secondo i criteri della certificazione BREEAM Excellent (non ancora certificata) e ha ricevuto il premio Green Apple per la costruzione ecologica e per il recupero architettonico.
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(1) Durante quel viaggio sono anche stato in Siria e mi piange il cuore pensare come la sta riducendo una stupida guerra civile.