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La cintura ecologica inizia a Castellaro Lagusello
Qualche settimana fa, nell’afa estiva domenicale, mi sono recato a fare una gita a Castellaro Lagusello, in Provincia di Mantova. Pazzo, direte (in)giustamente voi… L’obiettivo era certamente quello di vedere il bellissimo borgo medievale, ben conservato e ben restaurato, ma anche quello di fare una gita ristoratrice a piedi nella riserva naturale del lago morenico a forma di cuore che dà anche quel nome “lagusello” al borgo stesso.
Quella di Castellaro Lagusello è una riserva naturale regionale che occupa una superficie di circa 138,6 ettari, protetta anche dall’UNESCO dal punto di vista storico-culturale per i suoi due insediamenti precristiani su palafitte tipici dell’arco alpino. La riserva, dal punto di vista naturalistico, è in gran parte coperta da boschi di latifoglie tipiche delle zone umide (salici e ontani), da praterie umide nonché da un fitto sottobosco, rifugio e habitat di una serie di animali endemici e rari. In particolare anfibi, quali la rana di Lataste (1).
Nella piccola riserva – un’oasi circondata da attività agricole non intensive e da turismo rurale – quella domenica in poco tempo ho visto animali che io, abitante a mia volta della campagna morenica veronese, dalle mie parti non avevo mai visto. Non c’è nessun gruccione (Foto n. 4) intorno a casa mia. Nessun upupa e nessuna rana di Lataste (Foto n. 5). Anzi. Poche rondini, sempre meno; poche farfalle, sempre le stesse ovvero la cavolaia; pochi anfibi, tranne i soliti rospi; pochi ricci, sempre più vittime dei veleni dell’agricoltura e della circolazione stradale.
Quello che mi ha colpito della piccola riserva naturalistica di Castellaro Lagusello e che ho capito chiaramente durante la gita, è il fatto che la preservazione della natura è assolutamente incompatibile con le attività umane. Anche se da più parti ci raccontano dell’economia green e della sostenibilità, dall’altra le attività umane, anche se notevolmente migliorate rispetto al passato, rappresentano comunque un enorme ostacolo alla difesa della biodiversità e alla tutela della natura.
Vivere in campagna fa poca differenza quando la si deve raggiungere in auto e, per farlo, si chiedono strade sempre più ampie. Praticare l’agricoltura non è poi così salutare se essa è oramai industriale e, per essere sempre più produttiva e redditizia, ha bisogno di spazi aperti (senza alberi), di chimica e di attrezzature sempre più sofisticate. Abitare in case efficienti dal punto energetico non è poi cosa così positiva se per costruirle si divora, mese dopo mese, anno dopo anno, territorio agricolo o verde, frammentandolo con rotatorie,capannoni, giardini rasati e cemento in generale.
Dopo la mia gita a Castellaro Lagusello (non è stato il caldo,ve lo assicuro!) mi è chiaro, sempre più chiaro, il fatto che per tutelare veramente la natura e preservare la biodiversità vi è una e una sola strada da percorrere: la realizzazione di una cintura di aree protette caratterizzate da una zona più interna non praticabile dall’uomo e dalle sue attività e, un’altra, più esterna che funge da cuscinetto, dove le attività devono essere gestite in maniera orientata e responsabile verso la sostenibilità ambientale.
Solo così si potrà sperare di tutelare e ricostruire una certa biodiversità vegetale e animale e consentire alle specie di migrare indisturbate – cioè non cadere vittime di incidenti o di effetti collaterali vari (es. veleni) – tra una zona e l’altra.
Questo è l’unico futuro che vedo per l’uomo. Un futuro che finalmente, almeno nei tentativi, sia in grado di coniugare attività umane e tutela della natura. Tale futuro deve partire dalle aree protette già esistenti e deve mirare a fare in modo che esse non rimangano isolate le une dalle altre ma che siano perfettamente comunicanti tra loro. Si deve cercare di acquistare (ma anche di garantire dal punto di vista giuridico) centimetro dopo centimetro, metro dopo metro, vie verdi che colleghino tra loro, in una rete continua come quella stradale o ferroviaria, tutti i diversi ambienti terrestri.
Solo così l’umanità sarà in grado di ripristinare il senso del proprio inevitabile limite e sarà in vera pace con gli altri esseri viventi che condividono con noi (loro involontariamente) il possibile declino che stiamo infliggendo a questo innocente pianeta.
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(1) La rana di Lataste (Foto n. 5) l’ho anche vista e fotografata. La Lista rossa IUCN classifica questa specie come vulnerabile. Solo se il suo habitat verrà preservato le popolazioni potranno salvarsi dal rischio di estinzione.
È morta l’orsa Kj2
È morta l’orsa! Lei, animale selvatico, muore il 13 agosto per mano dei forestali che ne seguono le mosse tra i boschi alpini con il radiocollare quando il presidente della Provincia Autonoma di Trento, Ugo Rossi, dichiara che l’animale è pericoloso e deve essere catturato o abbattuto. Pericoloso per quale ragione? Perché ha aggredito, in questa torrida estate del 2017, due persone senza esiti particolarmente nefasti.
Con la carcassa ancora calda del plantigrado sul lettino di acciaio per le immancabili foto da dare in pasto ad una stampa morbosa sono iniziate poi una serie di discussioni tra chi – i soliti – dichiarano che gli animali selvatici non sono compatibili con l’uomo in quanto pericolosi per l’incolumità e per le attività economiche e chi – gli ambientalisti – piangono, con parole forti e spesso fuori luogo, per la morte della “madre” e per l’omicidio dell’animale innocente, arrivando addirittura a chiedere di boicottare il turismo in Trentino oppure ad agire per vie legali.
Purtroppo si tratta, a mio avviso, delle solite azioni vuote e senza senso da entrambe le parti, che non inquadrano il problema vero e che non ci mettono di fronte al dilemma che dovremmo invece iniziare ad affrontare.
Vogliamo o no cercare di condividere questo pianeta con gli altri esseri viventi che lo abitano oppure vogliamo rimanere la sola specie presente, con poche altre a noi comode, simpatiche o utili? Questo è in effetti il vero problema da mettere sul tavolo e, che lo si veda da un lato o lo si veda dall’altro, ci dobbiamo finalmente muovere ed agire per realizzarlo.
Nel caso in cui desideriamo essere i soli abitanti del pianeta non abbiamo molto da fare. Basta proseguire nel percorso che abbiamo già intrapreso da qualche secolo e, a poco a poco, ciò avverrà (1).
Se invece – come sostengo io – si debba iniziare a pensare che il pianeta Terra lo dobbiamo godere in condivisione con altre specie viventi e che anch’esse hanno il diritto sacrosanto di esserci e prosperare (2), allora non possiamo più nasconderci dietro il dito dell’ipocrisia che umanizza gli animali selvatici o che vede la natura come benevola, ma dobbiamo iniziare a pensare che noi e la nostra esistenza moderna non è MAI compatibile e condivisibile negli stessi spazi con gli animali selvatici. Non possiamo pretendere che un orso, un lupo, un leone o uno squalo siano “buoni” con noi. Essi sono animali programmati anche per essere brutali e così si devono comportare. Noi non possiamo pretendere di andare a fare una passeggiata, un safari o una surfata e non disturbarli. Questo potrà accadere anche alle persone più benevole e, se l’animale ha fame o ha paura per se o per la propria prole, attaccherà! E potrebbe anche andare a finire male.
Se vogliamo veramente pensare di salvaguardare la biodiversità e condividere il pianeta con la maggior parte possibile di altre specie viventi, dobbiamo seriamente iniziare a pensare che noi, uomini, dobbiamo rinunciare a godere di alcune parti del Pianeta. Attraverso la politica queste parti, senza deroghe, devono essere rese totalmente inaccessibili all’uomo e devono iniziare ad essere viste come una specie di “arca di Noè” dove gli animali e i vegetali selvatici vivono, prosperano e soccombono da soli.
Se proprio dobbiamo pensare ad una guerra, questa potrebbe essere la sola futura concepibile e potrebbe essere lo scopo futuro degli eserciti. Difendere la cintura ecologica (3) creata per la salvaguardia delle specie viventi dagli interventi umani.
A mio avviso questo è l’unico serio percorso che si può iniziare ad intraprendere a difesa della biodiversità. Unico percorso che non solo ci permette finalmente di iniziare la condivisione del Pianeta in pace con altre specie ma, soprattutto, quello che finalmente ci consente di dimostrare la nostra presunta intelligenza o superiorità.
È giunta l’ora di iniziare a fare qualcosa perché fino ad ora la nostra storia ci insegna purtroppo solo il contrario…
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(1) La possibile conseguenza di una tale scelta è, in definitiva, la perdita della biodiversità animale e vegetale del Pianeta nonché il dominio dell’economia, del denaro e del profitto, con possibili conseguenze negative a medio-lungo termine, anche per la specie umana. Perdere la biodiversità e la variabilità delle specie viventi potrebbe comportare anche un degrado globale dei sistemi viventi del Pianeta che potrebbe intaccare anche il benessere dell’uomo. Il rischio è anche il fatto che l’uomo, con presunzione, potrebbe applicare massicciamente l’ingegneria genetica arrivando addirittura a produrre nuove specie animali e vegetali.
(2) La conseguenza di una tale scelta, a mio avviso, oltre ad essere etica è anche economica e lambisce il campo delle libertà. Etica perché riconosce pari diritti di esistenza a tutte le specie viventi del Pianeta; economica perché le specie viventi producono una enormità di servizi gratuiti alla specie umana; di libertà in quanto, se non brevettabili da privati, consentono a chiunque di usufruirne gratuitamente, per svago (ad es. un bosco per le passeggiate o per il paesaggio) o per produrre beni e servizi (es. le radici degli alberi e la terra che depurano gratuitamente l’acqua piovana).
(3) Della cintura ecologica ne ho parlato più volte su Bioimita. Qui Qui Qui
Foto: www.lameziaoggi.it
Pappagalli padani
Una decina di anni fa ho visto per la prima volta dei grossi pappagalli tropicali verdi allo stato libero nei parchi pubblici di Siviglia, in Spagna. Poi, qualche anno fa, è stata la volta di Roma dove li ho sentiti cinguettare fuori dalla finestra dell’albergo che, una volta aperta, me li ha mostrati, sui rami di un albero, nella loro splendida livrea mimetica verde-gialla.
Qualche mattina fa è toccato a Verona, la mia città. Mentre mi trovavo in ufficio siamo stati tutti allertati da cinguettii molto forti che sembravano essere dentro i locali. Invece, una volta aperta la finestra, abbiamo scoperto che quei suoni così forti, che superavano addirittura la barriera del vetro, erano dovuti al canto di un bel pappagallo di circa 30 cm dalla livrea verde con numerosi altri colori sparsi un po’ qua un po’ là, posato sui rami di un albero. Devo dire uno spettacolo. Che quasi quasi è difficile da vedere anche negli zoo.
Il pappagallo era libero, forse fuggito da qualche gabbia (una sua fortuna, devo dire!), forse liberato volontariamente da qualche anima pia, forse venuto spontaneamente da qualche altro luogo più a sud dell’Italia e adattatosi a vivere in un centro storico del nord. Qui in effetti trova riparo per affrontare gli (oramai) sempre più scarsi geli invernali; qui non ha grossi predatori; qui recupera abbondanza di cibo, quegli scarti ancora buoni dell’uomo che lui, dotato di ali e di abilità nel volo, riesce a trovare in giro.
Non sono interessato al pensiero degli ignoranti che dice che la colpa è sempre degli ambientalisti (o dei soliti animalisti), ma so che anche alcuni naturalisti e alcuni studiosi, puristi della difesa della biodiversità ad oltranza, direbbero che si tratta di un grosso problema, da risolvere eradicando gli ospiti indesiderati. Cose sacrosante e vere se si vivesse in un mondo ideale dove si può applicare liberamente la scienza e si possono mettere in pratica i principi che essa ha scoperto. Io, però, so che questo non è più possibile nei contesti naturali oramai ampiamente antropizzati e, data la situazione tragica che interessa la Natura sempre più martoriata dall’uomo, dalla sua forza e aggressività, faccio il tifo per i pappagalli e la loro libertà padana. Mi auguro che essi possano trovare un luogo ideale per la loro esistenza libera e possano proliferare ed avere qui un successo darwiniano.
Questo, lo so, potrebbe andare contro i principi della biodiversità pura (1) che mira a salvaguardare specie endemiche di luoghi molto piccoli e isolati, tipo la rana del ruscello X o l’insetto del fiore Y. La situazione della Natura è però ora così compromessa dall’uomo e dalla sua voracità che, così come l’uomo ha creato i problemi, così l’uomo può essere l’artefice, anche involontario a causa della propria ignoranza o stupidità, della ripartenza. Le specie poi si adatteranno alle nuove situazioni, si creeranno nuovi equilibri ecologici e si ricostruirà una nuova biodiversità.
La situazione riguardante la Natura è così compromessa dagli interventi umani che, giunti a questo punto, salvare la biodiversità originaria è come voler curare il raffreddore ad un malato terminale. Cosa inutile. Meglio mettere il malato in terapia farmacologica d’urto e sperare che essa possa fare effetto. Al limite si potrà sempre dire di averci provato!
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(1) Ho molto rispetto per chi si occupa di biodiversità e cerca di difenderla – a volte a costo della vita – anche se rimane solo un barlume molto piccolo di speranza, come un piccolo appezzamento di foresta originaria, un piccolo tratto di fiume non alterato dall’uomo, una sola grotta o una sola piccola prateria. Con questo articolo però desidero osservare come i dati di degrado della biodiversità mondiale siano così catastrofici rispetto a ciò che si riesce effettivamente a difendere che, alla fine, ora come ora, è forse tristemente meglio prendere quello che viene e non andare tanto per il sottile.
Canzone contro la natura – The Zen Circus
Un titolo che ti spara in faccia la rivolta inesorabilmente della natura.
Sono anni che il pianeta Terra ci sta mandando segnali sul suo stato e sulla sua ribellione, che testardamente non vogliamo vedere.
C’è chi si ostina a negare i cambiamenti climatici, che causano lo scioglimento dei ghiacciai e dei poli, mentre aumenta l’inquinamento che innesca la forza bruta della natura, come i cicloni.
Sulla Terra siamo l’unica specie senziente che odia i suoi simili, che distrugge i propri territori, sia vicini o lontani.
Ci vogliamo contrapporre al pianeta con tutta la conoscenza accumulata e la tecnologia creata, ma la natura sembra proprio fregarsene, continua a sfidarci e sotto sotto ride perché noi stessi siamo parte di lei.
Ecco la sua vendetta … eppure noi uomini continuiamo imperterriti a non avere rispetto per l’ambiente, ovvero la natura.
The Zen Circus sono una band pisana di punk rock e con uno stile irriverente, tipicamente toscano, ci cantano a brutto muso la Canzone contro la natura.
Il consumo del territorio semplicemente mi sconvolge
Nell’opinione pubblica gli ambientalisti sono sempre quelli del “NO” e quelli contrari al “progresso” e alla “tecnologia”. Sono quelli conservatori che vorrebbero tornare a vivere come l’uomo di Neanderthal senza benessere e senza medicine. Sono anche quelli – per dirne alcune – che hanno liberato le nutrie nei fiumi, quelli che hanno portato in Europa la zanzara tigre o quelli che minacciano l’economia montana in quanto difensori di orsi e lupi.
Per confutare questa tesi io, che mi definisco orgogliosamente ambientalista (1), voglio esprimere il mio profondo dissenso e disgusto per il terribile fenomeno del consumo del territorio e della cementificazione selvaggia al quale si deve per forza porre un freno. Lo desidero fare esprimendo la mia profonda contrarietà nei confronti di due episodi particolari – uno vissuto direttamente da me l’altro letto su Il Fatto Quotidiano – verso i quali mi preoccupo di proporre delle valide e benefiche alternative.
Innanzitutto vorrei partire dal concetto secondo cui io non sono a priori contrario alla realizzazione di infrastrutture urbane che, se necessario, potrebbero anche utilizzare del territorio vergine, cioè prima adibito a verde o ad agricoltura. Le cose importanti e fondamentali, però, sono almeno due: che siano fatte nella logica del benessere per i potenziali utilizzatori e non invece per ingrassare l’economia clientelare degli appalti; che siano realizzate da persone molto competenti in materia e non dagli amici degli amici che hanno poche qualifiche e che mirano solamente ad ottenere il massimo profitto personale. Perché, se realizzate male, le opere infrastrutturali ed urbane consumano irrimediabilmente territorio (una risorsa non facilmente rinnovabile) e contemporaneamente non sono utili per i potenziali beneficiari, cioè i cittadini.
Ora, detto ciò, vengo a descrivere le due situazioni di cui sopra. Le possibili soluzioni non richiedono troppe spiegazioni ma verranno direttamente da sé.
Qualche tempo fa sono stato con mia figlia a vedere il Museo delle Scienze di Trento (MUSE). Al di là del fatto che il museo è molto interessante, moderno e frequentato da moltissime persone, esso è stato realizzato in un contesto urbano – le Albere – pensato e progettato da Renzo Piano per recuperare l’area di una vecchia fabbrica di pneumatici. Quello che mi ha colpito dell’insediamento è il fatto che esso sia diventato, con il suo enorme parco alberato, con il museo e con le attività commerciali insediate, un importante luogo di aggregazione dei cittadini. Mi ha dato l’idea che essi non solo vadano in quel luogo per svolgere le loro attività ma desiderino recarsi proprio lì per vivere serenamente qualche ora e godere di una parte della loro città. Passandoci un pomeriggio quel luogo mi ha anche dato l’idea che poteva essere progettato in mille modi ma farlo progettare da uno dei migliori ha fatto senza dubbio la differenza. Come affermò il progettista «Le Albere è un classico esempio di trasformazione dei brownfields, i terreni industriali dismessi, in greenfields, un terreno cementato che diventa in gran parte verde, l’opposto di quello che si è fatto per tanti anni nelle città» aggiungendo che «Usare il legno è già di per sé un’attività intelligente perché è un materiale che viene dalle foreste, e le foreste si rinnovano, per cui di fatto è energia rinnovabile oltre che perfettamente riciclabile».
Leggo qualche giorno fa su Il Fatto Quotidiano l’articolo di Alex Corlazzoli “Ho visitato una scuola svizzera. E sono rimasto sconvolto” nel quale racconta la sua personale esperienza in una scuola elvetica di secondo grado (la nostra scuola media). Al di là degli strumenti didattici e della possibile fruizione della scuola che ne possono fare i professori (che possono accedervi sempre, con chiavi personali, anche di domenica e di sera) e al di là del rispetto che gli alunni hanno per il bene pubblico, quello che mi ha colpito è il fatto che la scuola fosse dotata, oltre che di sala professori con ogni comfort, di mensa ben progettata, anche addirittura di un teatro, di un laboratorio d’arte, di un’emeroteca e di una ludoteca aperta ai ragazzi. La realizzazione di tale scuola non è stata data ad un progettista qualsiasi ma era stato affidato a Santiago Calatrava che non ha scopiazzato un progetto a caso di una scuola qualsiasi ma ha tentato di “pensare” questo spazio abitativo pubblico in funzione dei ragazzi e dei professori. Uno spazio pensato per assolvere in maniera chiara ad una funzione educativa. E non credo sia un caso che, se educati in tali ambiti, i cittadini svizzeri siano poi dei cittadini modello.
I due esempi sono chiari riferimenti al fatto che dobbiamo iniziare a pretendere che il consumo del territorio sia una cosa seria che deve rientrare prioritariamente nell’agenda della politica che non deve solamente pensare di limitarne il consumo ma anche iniziare ad imporre regole che tolgano dal sistema della progettazione a personaggi incompetenti che lavorano in quanto amici degli amici o finanziatori e sostenitori degli amici. Sono certo che, in un tale contesto operativo, la limitazione del consumo del territorio verrebbe anche un po’ da sé…
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(1) La definizione di “ambientalista” non è chiara e ben definita ma si riferisce a colui che ha a cuore, attraverso la cultura e la conoscenza e spesso attraverso il buon senso, il futuro benessere dei propri figli. Essere ambientalista è essere semplicemente “padre” (o “madre”). E io mi sento pienamente di esserlo.
Foto 1: Quartiere Le Albere visto dall’alto
Foto 2: Scuola Media di Bellinzona, Svizzera
Neil Young sta con i nativi di Standing Rock
In onore delle nostre future generazioni, noi combattiamo questo oleodotto per proteggere la nostra acqua, i nostri luoghi sacri e tutti gli esseri viventi.
Standing Rock.org
Purtroppo la storia si ripete con gli indiani d’America: pochi giorni fa è stato sgombrato il campo base dell’accampamento di protesta di Standing Rock. I nativi americani che vivono nella omonima riserva stanno contestando e cercando di bloccare pacificamente la costruzione dell’oleodotto Dakota Access Pipeline che attraverserà delle aeree fluviali e lacustri. I nativi sono molto preoccupati per l’impatto ambientale e ai possibili danni causati dall’inquinamento. Le proteste sono iniziate nel 2014 e hanno avuto una risonanza anche internazionale. Molte celebrità hanno dato il loro supporto e sono state a Standing Rock. Fra chi ha dato il suo contributo, non poteva mancare il rocker Neil Young. Il cantautore canadese ha dedicato una canzone alla battaglia di Standing Rock, tratta dal suo ultimo disco Peace Trail (2016).
L’album è stato definito un instant record perché affronta temi contemporanei su cui c’è un forte dibattito: la politica, l’ambiente da salvaguardare o la riflessione sul disinteresse delle persone. Il disco è diretto e scarno per testimoniare l’urgenza dei messaggi. Proprio il brano Indian Givers è a favore delle persone di Standing Rock e della loro causa. Il video della canzone è stato montato con reportage televisivi e riprese fatte con lo smartphone da Neil Young stesso. La canzone è un duro atto d’accusa verso i bianchi e l’ipocrisia che sta dietro alla costruzione del Dakota Access Pipeline. È noto che fra i finanziatori ci sono due banche europee: l’italiana Intesa Sanpaolo e l’olandese ING.
Greenpeace Italia ha lanciato una petizione per chiedere a Banca Intesa di non finanziare il Dakota Access Pipeline. [Si può firmare qui].
There’s a battle raging on the sacred land
Our brothers and sisters have to take a stand
Against us now for what we’ve all been doin’
On the sacred land there’s a battle brewin’
I wish somebody would share the news
I wish somebody would share the news
I wish somebody would share the news
Now it’s been about five hundred years
We keep taking what we gave away
Just like what we call Indian givers
It makes you sick and gives you shivers
I wish somebody would share the news
I wish somebody would share the news
I wish somebody would share the news
I wish somebody would share the news
Big money goin’ backwards and ripping the soil
Where graves are scattered and blood was boiled
When all who look can see the truth
But they just move on and keep their groove
I wish somebody would share the news
I wish somebody would share the news
I wish somebody would share the news
Saw Happy locked to the big machine
They had to cut him loose and you know what that means
Yeah, that’s when Happy went to jail
Behind big money justice always fails
I wish somebody would share the news
I wish somebody would share the news
I wish somebody would share the news
I wish somebody would share the news
Bring back the days when good was good
Lose these imposters in our neighborhood
Across our farms and through our waters
All at the cost of our sons and daughters
Our brave songs and beautiful daughters
We’re all here together fighting poison waters
Standing against the evil way
That’s what we have at the end of dayI wish somebody would share the news
I wish somebody would share the news
I wish somebody would share the news
I wish somebody would share the newsC’è una battaglia che infuria sulla terra sacra
I nostri fratelli e sorelle devono prendere posizione
Contro di noi per colpa di ciò che stiamo facendo
Sulla terra sacra una battaglia si avvicina
Spero che qualcuno condividerà la notizia
Spero che qualcuno condividerà la notizia
Spero che qualcuno condividerà la notizia
Ormai sono cinquecento anni che
Continuiamo a tenerci quello che abbiamo portato via
E continuiamo a dirci, “che indiani generosi” (1)
Ti fa sentire disgustato e ti dà i brividi
Spero che qualcuno condividerà la notizia
Spero che qualcuno condividerà la notizia
Spero che qualcuno condividerà la notizia
Spero che qualcuno condividerà la notizia
Il denaro torna indietro e lacera la terra
Cosparsa di tombe e dove il sangue ribolliva
Quando chiunque guarda può vedere la verità
Invece se ne va e torna alla sua vita
Spero che qualcuno condividerà la notizia
Spero che qualcuno condividerà la notizia
Spero che qualcuno condividerà la notizia
Ho visto Happy incatenato alla grande macchina (2)
Dovevano dargli il benservito, sai cosa vuol dire
Yeah, fu così che Happy andò in prigione
Davanti ai soldi la giustizia perde sempre
Spero che qualcuno condividerà la notizia
Spero che qualcuno condividerà la notizia
Spero che qualcuno condividerà la notizia
Spero che qualcuno condividerà la notizia
Torniamo ai giorni in cui il bene era il bene
Cacciamo questi impostori dal nostro quartiere
Dalle nostre fattorie e dai nostri fiumi
Ne va dei nostri figli e delle nostre figlie
I nostri coraggiosi figli e le nostre bellissime figlie
Siamo qui tutti insieme a combattere le acque avvelenate
In piedi contro il male
E’ quello che ci resta alla fine della giornata
Spero che qualcuno condividerà la notizia
Spero che qualcuno condividerà la notizia
Spero che qualcuno condividerà la notizia
Spero che qualcuno condividerà la notizia
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(1) “Indian givers” è un’espressione che significa “persona che vuole riprendersi ciò che ha regalato”. Tale espressione nacque in America all’epoca dei colonizzatori europei e viene oggi ritenuta offensiva nei confronti dei nativi americani (Wikipedia). Non essendo possibile tradurla letteralmente, si è optato per una traduzione che rendesse lo stesso significato critico e ironico che costituisce il messaggio della canzone. Con l’espressione originale Young intende sottolineare che l’uomo bianco si comporta esattamente come coloro che ha sempre criticato e combattuto: i nativi.
(2) Young si riferisce ad un episodio avvenuto durante le proteste a Standing Rock. Dale “Happy” è un attivista che è stato arrestato per essersi incatenato alle attrezzature in segno di protesta.
Curiosità: Neil Young ha festeggiato il suo 71° compleanno suonando con gli indiani a Standing Rock.
Nota: Il testo e la traduzione sono del sito neilyoungtradotto.blogspot.it.
DMZ
L’acronimo DMZ indica quell’area demilitarizzata (De-Militarized Zone) che divide, dal 1953, le due Coree. Essa ha una lunghezza di 248 km e una larghezza di 4 km ed è stata istituita quando, a seguito del cessate il fuoco della guerra di Corea (teoricamente i due paesi sono ancora in guerra), i due belligeranti hanno deciso di far arretrare dal fronte le proprie truppe di 2 km ciascuno. In tal modo si è così creata una zona cuscinetto di 4 km, totalmente inaccessibile sia per gli accordi presi a suo tempo sia per la presenza di numerose mine disseminate sul territorio che ne impediscono una sicura frequentazione (1).
Al di là delle questioni militari e geopolitiche, l’aspetto interessante che caratterizza questa DMZ è il fatto che in essa la natura prospera e segue dinamiche evolutive autonome, non influenzate dall’intervento degli esseri umani. La natura cresce, si evolve e raggiunge equilibri spontaneamente fornendo rifugio a specie animali e vegetali oramai rare o estinte in altre aree che sono in condivisione con gli esseri umani. In essa si avvistano (da lontano, visto che non la si può facilmente frequentare) rarissime specie di uccelli come gli avvoltoi neri o la gru della Manciuria oppure il leopardo dell’Amur, l’orso nero asiatico e il goral. In essa vi è anche una florida vegetazione fatta di piante, di fiori rari e di funghi (di cui uno, in particolare, è endemico). Nella DMZ gli scienziati hanno identificato circa 2.900 specie vegetali, 70 diverse specie di mammiferi e 320 specie di uccelli. Per non parlare poi dei rettili, degli anfibi e degli insetti.
La DMZ coreana e quello che la caratterizza ora in termini di varietà naturale dopo più di 60 anni di isolamento fa ben comprendere due aspetti, tra loro strettamente connessi:
- che la presenza umana è, anche nel migliore dei casi, sempre e comunque molto alterante della natura;
- che per salvare la natura e la biodiversità non sono sufficienti né le associazioni ambientaliste né le leggi, né l’istituzione dei parchi naturali né la cultura ecologica: per salvare la natura è necessario solo eliminare la presenza dell’uomo!
Va da sé allora che, partendo dall’esperienza significativa della DMZ e di altri casi di isolamento forzato della natura dalla presenza umana (Chernobyl e Fukushima, ad esempio), per salvare veramente la natura e la biodiversità dall’azione predatoria e distruttiva dell’uomo è assolutamente necessario creare una rete planetaria comunicante di corridoi ecologici sufficientemente ampi (2) – difesi, se necessario, anche dagli eserciti –i quali siano totalmente inaccessibili all’uomo e alle sue attività. Questi corridoi (che definirei più propriamente “cinture ecologiche”) devono essere lasciati per un lunghissimo periodo di tempo (almeno 100 anni) a seguire le proprie dinamiche evolutive, senza alcun intervento umano.
E il punto di partenza di questa cintura ecologica planetaria potrebbe essere proprio la Corea. È un po’ triste dirlo ma speriamo che i rapporti tra le due Coree rimangano tesi (senza guerra e senza uso di armi) ancora un po’ perché nella DMZ la natura è assolutamente rigogliosa e non potrebbe essere altrimenti se avesse strade, ferrovie, ponti, case, orti, campi coltivati, turismo…
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(1) Jongwoo Park, il primo civile a mettere piede nella zona dall’armistizio del 1953, su incarico del ministero della Difesa sudcoreano, a partire dal 2009 ha iniziato a documentare lo stato della DMZ.
(2) L’esperienza involontaria della DMZ ci fa comprendere che un corridoio ecologico (cintura ecologica), per essere efficace e funzionare su scala planetaria, deve essere ampio almeno 5 km. Inoltre esso non deve avere nessuna interruzione e non deve avere, in esso, alcun manufatto umano che richieda interventi periodici e manutenzioni. La presenza umana poi deve essere assolutamente bandita, senza deroga alcuna se non, dietro specifiche autorizzazioni, quella degli scienziati. Per funzionare poi il corridoio ecologico non deve aver alcuno scambio con l’esterno – per lo meno per gli animali terrestri di grossa taglia – per evitare che essi rappresentino una minaccia delle attività economiche che si sviluppano vicine ad essi. Nei corridoi ecologici deve essere poi bandito anche il turismo, di qualsiasi tipo esso sia.
Foto: Natonal Geographic, Jongwoo Park
Il disboscamento della foresta di Białowieża
Io, nella foresta di Białowieża (1), ci sono stato. Era il 2007 e, animato dal desiderio di vedere gli ultimi bisonti europei e una delle più antiche e meglio conservate foreste al mondo, con una Renault Twingo sono partito da casa per raggiungere la Polonia e, tra le altre cose, quel bosco magico. Ho dormito un paio di giorni in tenda nel campeggio adiacente alla foresta e ho fatto, accompagnato da guide esperte, qualche escursione a vedere la foresta vergine e a “sentire” la sua forte energia. Quello che subito mi ha colpito maggiormente sono state due cose: la lunga strada per arrivare al centro del parco naturale costeggiata da alberi così fitti da essere quasi una massa compatta che impediva il passaggio della luce; la presenza nella foresta, oltre di alberi grandi ed antichi, di numerosissimi alberi morti e a terra, la vera risorsa di un bosco sano e lasciato alle proprie dinamiche evolutive.
Naturalmente dei bisonti neanche l’ombra! E, d’altronde, non poteva essere diversamente visto e considerato il fatto, che quei pochi rimasti nel cuore dell’Europa, per sopravvivere alla caccia indiscriminata di qualche decennio fa hanno dovuto adattarsi a vivere nel fitto della boscaglia, prevalentemente nelle ore di penombra, piuttosto che negli spazi aperti delle praterie. Ovviamente i bisonti li ho dovuti osservare in cattività e, devo dire, che è stato meglio così perché penso che trovarsi davanti, nella foresta, un animale così imponente e così minaccioso possa essere particolarmente traumatico.
Della foresta di Białowieża me ne sono ricordato quando, sul Corriere della Sera, ho letto un articolo nel quale si racconta che a fine maggio è partito un programma – voluto dal governo conservatore che attualmente amministra la Polonia – di disboscamento massiccio dell’ultima foresta vergine d’Europa. La “scusa” è quella – la solita – di combattere un minuscolo insetto parassita, il bostrico, che scava gallerie nel legno degli alberi anche se vi è un forte sospetto che l’obiettivo vero, come sostengono ambientalisti e scienziati, possa essere quello di sfruttare economicamente il legname estendendo le attività forestali commerciali anche nelle aree più protette e più tutelate della foresta. Il Ministero dell’Ambiente difende comunque il programma, definendolo una misura di sicurezza per proteggere operatori, guide e turisti dal rischio caduta degli alberi malati ma, sinceramente, tali motivazioni sono piuttosto labili e ingiustificate per dare origine ad un’intensa attività di abbattimento e di disboscamento come è quella in programma.
Il mio sospetto – ma anche quello più autorevole di scienziati e di attivisti locali – è quello evidente di spremere il più possibile quello che resta dell’ambiente, magari anche quello incontaminato, nell’ottica del “tanto a che cosa serve?”. Di fondo il pensiero di questi tecnocrati, come pure quello di una buona parte dell’umanità, è quello che vede l’uomo come unico depositario e come unico benefattore delle risorse naturali. È quello che non si cura del “creato” nella sua globalità ma vede il “creato”come una scatola da cui attingere a piene mani il più possibile, incurante del fatto che prima o poi la scatola si svuoterà. È un pensiero che non riconosce il senso del limite e confida un po’ troppo ciecamente o nel fato, anche quello religioso, o nella illimitata capacità di soluzione dei problemi da parte dell’uomo e della tecnologia, prodotto del suo (scarso) sapere.
Io la penso esattamente all’opposto e, per questo, non solo credo che la foresta di Białowieża vada difesa con vigore dal disboscamento ma anche che, di tali foreste incontaminate, se ne debbano creare molte di più.
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(1) Białowieża è una foresta molto antica, incontaminata da circa diecimila anni, che si estende su una superficie di circa 1.400 chilometri quadrati tra Polonia e Bielorussia. Il parco nazionale polacco, Patrimonio Unesco dal 1979, copre l’area centrale (il 17% del totale). Accoglie 20 mila specie animali, compresi 250 tipi di uccelli e 62 specie di mammiferi. Inoltre ospita gli alberi più alti del continente: querce secolari, frassini di 40 metri e abeti di 50.
Fonte: Corriere della Sera
Foto: Wikipedia, Corriere della Sera
Basta solo cambiare prospettiva e…
L’uomo si è arrogato unilateralmente il ruolo di essere dominante del Pianeta, sia su tutti gli altri animali che sulle piante. Questo atteggiamento non si basa su una reale e oggettiva nostra supremazia perché, rispetto a loro, non siamo ne migliori ne più intelligenti (l’intelligenza è un concetto relativo che commisuriamo solo alla nostra capacità logica e analitica). Siamo solo più aggressivi, spregiudicati e opportunisti!
Per comprendere gran parte degli errori che commettiamo nei nostri rapporti con gli animali e per capire l’inutile cattiveria che spesso abbiamo nei loro confronti e che produce un mare di sofferenza, è sufficiente tentare di cambiare solo la prospettiva.
Per farlo riporto una serie di illustrazioni di differenti autori che, con durezza e senza filtri, ci costringono a guardare in faccia la cruda realtà senza alibi. Ecco allora il rinoceronte che, da vivo, taglia il naso ad un uomo. Oppure l’aragosta che mette un neonato vivo in acqua bollente e si lamenta delle urla. Oppure ancora l’uccello che tiene un uomo in gabbia per il canto.
Da vedere. E meditare…
ATTENZIONE: Alcune immagini sono molto forti e potrebbero urtare la vostra sensibilità
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Fonte: greenme.it
Il giardino delle (bio)diversità
Ora che è sopraggiunta la primavera e la natura si è risvegliata dopo il torpore invernale intorno a me vedo giardini curati come fossero prodotti industriali di plastica, uniformi nel materiale e nei colori. Erba rasata alla perfezione senza impurità di altre specie. Gruppi di fiori uniformi e ipertrofici. Aiuole ben definite, con riga e compasso. Siepi perfettamente squadrate e alberi – quei pochi presenti – sempre ben tagliati e potati per non dare troppo disturbo e per non sporcare.
Ma questi non sono giardini. Sono trasposizioni nella “natura” di prodotti industriali tutti uguali, tutti uniformi, tutti precisi che nulla hanno di veramente naturale. Per ottenerli necessitano di un grande dispendio di lavoro, di energia, di utensili e di prodotti chimici vari le cui conseguenze principali sono inquinamento diffuso – anche rumore – e perdita di biodiversità.
È da anni che io, invece, cerco di concepire il mio giardino (1) come un piccolo angolo di diversità, sia di specie viventi che in esso vivono, sia di mescolamento e di distribuzione casuale in esso delle stesse. In sostanza, ispirandomi alla natura spontanea che vedo intorno a me, cerco di fare in modo che nel mio giardino un po’ tutte le specie vegetali possano avere spazio (cerco di contenere un minimo solamente quelle troppo invasive) e che esse non abbiano un luogo dedicato dove crescere ma che possano diffondersi il più liberamente possibile. Nella scelta delle piante poi – che naturalmente in gran parte anch’io acquisto – cerco di prediligere quelle perenni o quelle che hanno capacità autonoma di diffusione, evitando possibilmente quelle che derivano da selezione troppo spinta o da ibridazione. Per quel che posso raccolgo le piante nei giardini di altre persone o, compatibilmente con le regole ambientali, anche in natura per poi ripiantarle nel mio. Oltre alle specie vegetali, nel mio giardino tento di attrarre anche uccelli (mettendo nidi e mangiatoie nel periodo invernale), pipistrelli e insetti, soprattutto farfalle. Questo mi obbliga a tollerare anche specie nocive, come limacce e insetti parassiti, perché spesso sono il nutrimento di lucciole, di insetti utili, di pipistrelli e di ricci.
In questo modo cerco di determinare uno spazio dove venga ricostruita una sorta di armonia naturale e vi sia – compatibilmente con le interferenze dei mie vicini che nel loro giardini fanno un po’ di tutto – il raggiungimento di un certo equilibrio tra le specie.
Se ho una specie invasiva da contenere, ad esempio, non penso a quale diserbante chimico o meccanico utilizzare per debellarla ma altresì penso a quali altre piante posso piantare che con la loro crescita possano rallentare la diffusione di quelle invasive. Inoltre non penso che vi siano “malerbe” o “erbe infestanti” da combattere a tutti i costi ma, piuttosto, cerco che tutte le specie vegetali abbiano il loro spazio e si possano diffondere in maniera equilibrata.
In questo modo, applicando il principio della bioimitazione secondo cui la natura è basata su una rete di reciproche relazioni e collaborazioni, noto che, rispetto agli altri, il mio giardino è più colorato, è più ricco di fiori, ha alberi frondosi e abbondanti ed è più sostenibile dal punto di vista ambientale.
Ecco qualche foto che lo rappresenta…
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(1) Abito in un vecchio fienile ristrutturato in una zona rurale prevalentemente dedita alla coltura della vite e dell’actinidia (kiwi) sulla morena del Lago di Garda, in provincia di Verona.
Capitozzatura
Grande spiegamento di uomini e mezzi. Tripudio di elmetti gialli e giubbini catarifrangenti. Transenne. Sbarramenti di strade. Cartelli stradali. Motoseghe scoppiettanti. Non mancava nemmeno l’immancabile enorme piattaforma a braccio che raggiunge (in sicurezza, per fortuna) altezze inimmaginabili. Così qualche giorno fa ho partecipato, involontariamente, alle operazioni di potatura (ma io le definirei più propriamente operazioni di “capitozzatura”) di splendidi grandi alberi ubicati in un parco pubblico di Milano, a ridosso di una strada che ho percorso a piedi per recarmi al lavoro.
Ma così non si taglia un albero. Gli si fa solamente del male (in senso filosofico e botanico, si intende) e lo si rende addirittura più pericoloso per chi transiti sulla strada o desideri godere degli spazi pubblici verdi.
Ma andiamo con ordine e, per spiegare la cosa, vediamo cosa si intende per capitozzatura e vediamo quali possono (e devono) essere le soluzioni per far sì che il doveroso lavoro di potatura periodica degli alberi sia ben fatto per la salute degli esseri viventi in oggetto e per la sicurezza di chi in qualsiasi circostanza si trovi sotto le loro chiome.
La capitozzatura è una pratica di arboricoltura che prevede il taglio indiscriminato delle branche di un albero, soprattutto allo scopo di ridurre le sue dimensioni generali e di renderlo (a torto) più sicuro. La capitozzatura, però, non è il giusto metodo di contenimento della crescita di una pianta e di diminuzione dei pericoli ad essa connessi. Anzi, nel lungo periodo, la capitozzatura rende l’albero più pericoloso. Vediamo il perché.
La capitozzatura è una pratica che rimuove improvvisamente e quasi istantaneamente la chioma di un albero, dal 50% al 100% del suo volume. La risposta della pianta – che trae l’energia della propria sopravvivenza dalle foglie e che tale pratica elimina quasi completamente dall’albero – è quella di far innescare un meccanismo di sopravvivenza attivando le gemme latenti e forzando la rapida crescita dei germogli attorno ad ogni taglio. Lo scopo della pianta è quello di ri-costruire nel più breve tempo possibile una nuova chioma (1). Un albero così danneggiato, oltre ad essere più facilmente attaccato da malattie, da funghi e da insetti parassiti che, nel lungo periodo, lo possono fortemente indebolire, è anche portato a produrre un’enorme quantità di piccoli rami che non si sviluppano nelle condizioni ottimali e che presentano un tessuto di ancoraggio al moncone molto precario che, nel tempo, tende ad indebolirli e a predisporli più facilmente alla rottura. La capitozzatura, oltre a ciò, è una pratica che imbruttisce enormemente gli alberi delle nostre città, dei nostri parchi e dei nostri giardini ed è anche molto costosa perché impone frequenti (più frequenti di altre pratiche) interventi di ulteriore potatura.
Ecco allora che, per tutte queste ragioni, è necessario osservare e studiare la natura per imparare da essa a come meglio intervenire per ottenere una sana potatura dell’albero. È pertanto necessario affidarsi a professionisti esperti che siano in grado di studiare la pianta, di capire le esigenze del luogo in cui si trova, di comprendere che l’intervento si fa sempre su un essere vivente – molto diverso da noi ma che condivide lo stesso pianeta e che ha più o meno i nostri stessi scopi – e poi di operare i giusti tagli che garantiscano sicurezza ma, nel contempo, rispettino anche la sopravvivenza e il benessere dell’albero.
La bioimitazione è anche questo e il mio sogno è quello di non vedere più quei tronconi osceni senza vita che ci imbruttiscono l’anima e che non rispettano la vita.
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(1) L’accrescimento di gran parte delle piante e dei fiori oppure la distribuzione delle foglie sui rami avviene secondo la serie di Fibonacci che contribuisce a creare in natura ordine e armonia, ma anche efficienza ed efficacia con il minimo sforzo.
Fonte: www.mrgreenservices.it
Disegno: [disegno originale]
Lo scimmione nudo
Vi dice qualcosa la definizione di “scimmione nudo”? Per facilitarvi nella soluzione dell’enigma non ci troviamo ne in uno zoo e nemmeno in una riserva africana ma invece, più banalmente, all’interno delle città e negli spazi di vita a noi umani molto familiari. Infatti, se ci pensate bene, quello scimmione nudo siamo proprio noi, Homo sapiens, unica specie di scimmie – tra le 193 esistenti in totale – a non essere ricoperte di pelo.
Questa definizione un po’ ironica e un po’ irriverente dell’uomo la diede per la prima volta lo zoologo inglese Desmond Morris nel suo famoso libro scientifico-divulgativo “The Nacked Ape: a zoologist’s study of the uman animal” (tradotto in italiano con il titolo “La scimmia nuda – Studio zoologico sull’animale uomo”), pubblicato nel 1967 (1).
Come osserva Morris siamo una razza estremamente capace che trascorre molto tempo ad esaminare i propri moventi più nobili ma altrettanto tempo ad ignorare quelli fondamentali rappresentati dal fatto di essere rimasta in moltissimi elementi una scimmia che si comporta ancora istintivamente e impulsivamente. Per una serie di circostanze fortunose e anche casuali siamo diventati, in breve tempo, l’animale predominante della Terra ma non ce ne dobbiamo compiacere troppo e non dobbiamo essere presuntuosi di pensare di essere eterni. Molte specie sensazionali del passato si sono estinte e noi non costituiamo un’eccezione a tale regola biologica. Prima o poi scompariremo per far posto a qualcos’altro, ma se vogliamo che ciò avvenga il più tardi possibile è necessario che cominciamo a considerarci in modo attento e spietato come esemplari biologici e cominciamo a renderci conto dei nostri limiti.
Alcuni – osserva Morris – sostengono che poiché l’uomo ha sviluppato un elevato livello di intelligenza e un potente impulso all’invenzione, sarà sempre e in ogni caso in grado di adattarsi a tutte le nuove situazioni che si verificheranno sul pianeta Terra, magari anche modificando la natura. In realtà la nostra primitiva natura animale e i nostri comportamenti opportunistici non lo consentiranno mai. Sarà solo riconoscendo apertamente i nostri limiti che avremo maggiori probabilità di sopravvivenza.
Ciò non significa – approfondisce ancora Morris – per forza un ingenuo “ritorno alla natura”, ma vuol dire semplicemente che dovremo adattare i nostri progressi dovuti all’intelligenza alle caratteristiche del nostro comportamento, aggressivo e talvolta violento. In sostanza dobbiamo migliorare in qualità piuttosto che in quantità e in forza. Potremo così continuare a progredire tecnologicamente in modo sensazionale e sbalorditivo senza necessariamente negare la nostra eredità evolutiva di rimanere pur sempre degli animali. In caso contrario i nostri compressi impulsi biologici si accumuleranno fino a far crollare la diga e tutta la nostra complessa esistenza sarà spazzata via dalla piena.
Non male come analisi per essere stata fatta quasi 50 anni fa. E, alla luce di quanto è successo in questa manciata di anni (in rapporto al tempo della nostra evoluzione), quanta ragione Morris aveva?
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(1) Desmond Morris afferma nel libro di aver “deliberatamente insultato la nostra specie, usando una espressione come “scimmione nudo” per “mantenere il senso delle proporzioni che ci obbliga ad osservare quello che accade appena al di sotto della nostra superficie di esseri superiori”.
Chi è il più intelligente?
Dopo che avrete visto il video della BBC nel quale un corvo riesce a risolvere una complessa sequenza di azioni per raggiungere il cibo, spero vi ricrederete un po’ su che cosa sia “l’intelligenza” e su chi sia l’animale più intelligente della Terra.
Sarà l’uomo che è certamente capace di produrre tecnologia complessa ma che è anche in grado di comportare seri problemi al funzionamento equilibrato del pianeta che abita oppure sarà il corvo che, pur avendo un cervello meno sviluppato in termini di massa e dimensioni rispetto all’uomo, per raggiungere i propri scopi – molto spesso nutrirsi – è in grado di studiare la realtà che lo circonda e di compiere una sequenza di azioni complesse per ottenere i propri risultati? Oppure intelligente sarà il pipistrello che, pur avendo un cervello estremamente contenuto in termini di dimensioni, è in grado di riprodurre immagini tridimensionali nella propria immaginazione che gli consentono non solo di evitare gli ostacoli ma addirittura di cacciare insetti volanti di piccole dimensioni solo attraverso la decodificazione delle onde sonore? Oppure, ancora, sarà più intelligente il delfino o l’elefante che sono in grado di creare relazioni complesse di comunicazione all’interno dei loro gruppi fino ad arrivare a “piangere” i loro morti?
Beh, se per caso avete dei dubbi, non chiedetelo di certo all’Homo sapiens perché sicuramente vi risponderà che solo egli stesso può essere considerato l’animale più intelligente della Terra. Tutto il resto, se mai lo fosse, lo è solo in maniera embrionale e di certo viene dopo di lui.
Sono fermamente convinto che se desideriamo risolvere i numerosi problemi di sostenibilità ambientale che affliggono i nostri tempi sia assolutamente necessario cambiare prospettiva. Sono fermamente convinto che sia necessario abbandonare l’idea di essere gli unici animali intelligenti – e quindi forti – del Pianeta a cui tutti gli altri esseri viventi devono per forza piegarsi e sottostare. Essere veramente intelligenti significa capire che l’intelligenza non si misura sulla forza, sull’aggressività o sulle capacità tecniche ma piuttosto è un concetto vago, che dipende dalle particolari e uniche necessità di sopravvivenza che un animale ha dovuto sviluppare all’interno di un dato ambiente.
Su queste prospettive essere intelligenti significa allora tutto e niente. Significa sì essere in grado di costruire un GPS ma anche essere in grado di sopravvivere a lungo in una foresta o in un deserto senza un GPS.
Solo così, ragionando che ogni essere vivente che abita questo sasso blu dell’universo è a suo modo intelligente e ha diritto di avere il proprio spazio, si potranno avere delle chances reali di far perdurare il benessere dell’umanità nel futuro. In caso contrario – come purtroppo sta avvenendo – sarà solo caos e, alla fine, tra qualche manciata di decina di anni, credo che gli unici vincitori nella dura lotta per la sopravvivenza potranno essere solo gli insetti.
Vaquita
Il nome “vaquita” (piccola mucca in lingua spagnola) è tutto un programma. Non si riferisce ad un animale terrestre erbivoro di grandi dimensioni con un grande naso e dallo sguardo un po’ triste ma, più precisamente, ad un mammifero marino: la focena del Golfo di Caifornia (Phocoena sinus). Si tratta di uno dei più piccoli cetacei esistenti (circa 150 cm di lunghezza per circa 50 kg di peso) che è molto schivo all’uomo e che vive in una zona estremamente limitata della parte settentrionale del Golfo di California (Mare di Cortez) [vedi immagine]. La vaquita presenta una colorazione grigio scura sul dorso e grigio chiara sul ventre, ha un grande anello nero intorno agli occhi e delle macchie sul labbro tanto che, come commenta un ricercatore, “questi animali sembrano truccati, con rossetto e mascara intorno agli occhi”. Questo cetaceo vive in lagune basse e scure situate lungo la costa e raramente è stato avvistato in acque più profonde di 30 metri. La vaquita è così schiva che vi sono pochissime segnalazioni di essa in natura e quello che sappiamo su di lei spesso o deriva dallo studio degli esemplari morti oppure da strumentazioni elettroniche posizionate in mare.
La vaquita non è cacciata direttamente dall’uomo ma, dal momento che nuota e si alimenta molto lentamente, finisce facilmente intrappolata nelle reti da pesca – sia legali che non – che vengono impiegate per pescare un altro pesce endemico del Golfo di California, il totoaba (1), molto richiesto soprattutto dai cinesi a causa della sua vescica natatoria che viene utilizzata sia come cibo ma, soprattutto, come rimedio nella medicina tradizionale e può raggiungere migliaia di dollari al chilo (2).
La vaquita è oramai sull’orlo dell’estinzione tanto che, si stima, ne esistano attualmente solamente 97 esemplari. Il problema del declino della specie è noto sin dalla fine degli anni ’50 del secolo scorso (quando, molto probabilmente, ne esistevano circa un migliaio di individui) ma si sta manifestando in tutta la sua gravità solamente in questi ultimi anni nonostante gli interventi sovranazionali di difesa della specie e gli sforzi economici del governo messicano che ha investito tutte le risorse possibili per ottenere il risultato sperato. Le attuali previsioni, in base alle caratteristiche della popolazione attuale, sanciscono la scomparsa definitiva di tale cetaceo intorno al 2018.
L’umanità potrà sopravvivere benissimo anche senza vaquita perché, data la sua limitata diffusione nel mondo e il suo già esiguo numero originario, la sua scomparsa non rappresenterà una grande perdita, né in termini di nutrimento né per altro scopo. L’estinzione della vaquita, però, rappresenta il fallimento dell’agire umano nel suo complesso perché dimostra come le nostre attività siano fortemente invasive nei confronti degli equilibri naturali da essere potenzialmente in grado non solo di far estinguere un piccolo e insignificante cetaceo ma anche di influire profondamente su altri equilibri – come gli oceani o le foreste – ben più importanti per la possibile sopravvivenza armonica di 7 e oltre miliardi di individui. Nonostante la nostra consapevolezza dei problemi che il nostro agire arreca agli ecosistemi, molto spesso non siamo in grado di invertire la rotta.
Per dimostrare a noi stessi che siamo veramente “intelligenti” (come ci autodefiniamo) e di non autoannientarci miseramente è pertanto necessario che facciamo di tutto per salvare la vaquita. Le azioni da mettere in campo sono tante ma, a mio avviso, per prima cosa dobbiamo eliminare filosoficamente il denaro dal rappresentare l’unico scopo della vita: il denaro è utile per vivere ma non dobbiamo sacrificare ad esso la nostra vita, la nostra salute e il Pianeta dove viviamo. In secondo luogo poi,come ho più volte motivato, dobbiamo iniziare a considerare le aree più significative e più vulnerabili della Terra come delle aree super-protette, collegate in rete tra loro, disponibili solo per la vita selvaggia e totalmente inaccessibili a qualsiasi attività umana, anche la più apparentemente benefica (o meno negativa) quale può essere la ricerca scientifica o il turismo.
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(1) Il totoaba è anch’essa una specie di pesce in pericolo di estinzione che si presenta molto simile alla vaquita potendo raggiungere una lunghezza di 1,8 metri e pesare fino a 136 chilogrammi.
(2) Le vaquite rimangono impigliate principalmente nelle reti illegali che vengono disseminate nel Mare di Cortez per pescare il totoaba, un pesce la cui pesca è vietata ma che è molto richiesto dal mercato cinese. Nonostante il fatto che i pescatori vengano risarciti per le mancate entrate economiche derivanti dalle limitazioni della pesca, solamente pochi di essi riescono a resistere alla tentazione di avere molti soldi dalla vendita illegale dei pesci vietati e, di conseguenza, pescano il totoaba e, indirettamente, causano la morte delle vaquite.
Fonte: Wikipedia; National Geographic
Ad Oslo inaugurata un’autostrada per gli insetti
È da tempo che affronto il problema della perdita di biodiversità e che propongo soluzioni drastiche quale unica via d’uscita. In particolare ritengo sia necessaria la costruzione di una rete ecologica planetaria (che chiamo “cintura ecologica”) che sia in grado di far vivere e viaggiare animali e piante liberamente, senza ostacoli dovuti alla modificazione sempre più profonda della natura da parte dell’uomo.
Mentre in Italia si discute di realizzare grandi opere – le solite – con la scusa del progresso del Paese ma con il desiderio celato di far arricchire i soliti e dare potere ai soliti altri, nella civilissima Norvegia, ad Oslo, si realizza la prima autostrada urbana per insetti.
Si, non siete sordi e nemmeno un po’ matti. E non lo sono nemmeno io. Avete proprio capito bene. Su proposta della Società di Giardinaggio della capitale del Paese scandinavo e con il beneplacito della politica locale, è stato realizzato un lungo percorso cittadino fatto di fiori e piante che sia in grado di nutrire api, farfalle, calabroni e altri insetti in modo tale che non abbiano troppo stress nei loro spostamenti urbani.
Per realizzare questa bellissima autostrada non si sono dovuti fare cantieri, non si è dovuto produrre calcestruzzo e gettare cemento armato, non si è dovuta fare alcuna movimentazione di terra o deviazione di corsi d’acqua mediante l’ausilio di pale meccaniche. Non si è nemmeno dovuta fare alcuna gara d’appalto con conseguenti illeciti e infiltrazioni mafiose. Ci si è preoccupati semplicemente di organizzare, in maniera oculata e professionale, il posizionamento di vasi di fiori sui tetti o sui balconi e terrazzi delle case, lungo un percorso che va da est a ovest di Oslo. Così ogni 250 metri circa i nostri piccoli fratelli invertebrati trovano un “punto di ristoro”, un “fast food” che sia in grado di nutrirli e far loro superare lo stress prodotto dalle manipolazioni umane sull’ambiente e sulla natura.
L’obiettivo dei promotori di questa lungimirante iniziativa non è solamente quello di preservare la biodiversità, ma anche quello di cercare soluzioni per svilupparla tenendo conto che in Europa si sta verificando la progressiva estinzione di 6 specie di insetti su 35.
Quando vedo concretizzarsi iniziative così apparentemente insignificanti ma così profonde nell’analisi dei problemi e nella ricerca di possibili soluzioni mi viene in mente quella bellissima frase di Haruki Murakami che recita: “Il tempo può risolvere molti problemi. Ma quelli che il tempo non può risolvere, li dobbiamo risolvere da soli”.
L’asteroide della sesta estinzione
E se l’uomo fosse l’asteroide della sesta estinzione di massa? L’interessante quesito se lo pone il teologo anglicano Richard Bauckham, recentemente ospite al Festival Biblico di Vicenza.
La quinta estinzione di massa si è verificata circa 65 milioni di anni fa, probabilmente a causa della caduta di un asteroide sulla Terra. Fu sconvolgente. Scomparvero i dinosauri e la vita sul nostro pianeta cambiò radicalmente. I rettili, prima enormi ed egemoni, lasciarono il posto ai mammiferi che iniziarono ad occupare tutte le nicchie ecologiche. I rettili, che non scomparirono del tutto, diminuirono notevolmente la loro taglia e ridimensionarono drasticamente la loro posizione sul Pianeta rispetto agli altri esseri viventi. Questa estinzione di massa fu la lontana premessa per la nascita dell’uomo.
Richard Bauckham è un religioso che concepisce il mondo come “Creato”, cioè opera di Dio. Per questo motivo i problemi che riguardano il clima, la natura e l’ambiente diventano una questione teologica. «È importante per i cristiani avere una prospettiva di questo tipo perché in passato la visione dell’ambiente è stata profondamente influenzata dalla teologia. Tuttavia questa visione ha incoraggiato un approccio antropocentrico che pone il creato in una posizione subalterna all’uomo. Ecco: questa è una concezione che va corretta. Perché nelle Sacre Scritture sono presenti tutti gli elementi per sostenere che l’uomo debba assumersi la responsabilità del creato stesso».
«L’estinzione delle specie che si sta consumando così rapidamente – aggiunge Bauckham – naturalmente non è un tema sollevato dalla Bibbia. Tuttavia, quando si pone un tema nuovo per l’uomo occorre tornare alle fonti e osservarle in modo nuovo, interrogandole. Il Nuovo Testamento tratta della salvezza e la redenzione di Cristo non riguarda solo l’uomo, ma anche il mondo nella sua interezza. L’uomo è parte del mondo e Cristo redime uomo e mondo insieme».
«La Creazione avanza per “ambienti”: la luce, cielo e mare, la terra, i corpi celesti, pesci e uccelli, infine gli animali terrestri con l’uomo. Una celebrazione della biodiversità – sostiene Bauckham – e l’uomo, creato alla fine della sesta giornata, non è il culmine e l’obiettivo della narrazione, che infatti continua fino al settimo giorno, lo Shabbat, il riposo di Dio. Dunque l’obiettivo della creazione è la gloria di Dio». Non l’uomo.
La sesta estinzione di cui siamo testimoni e che è bene rappresentata dalla perdita di biodiversità animale e vegetale (escluso l’uomo) della Terra, potrebbe però non essere il culmine della distruzione. Nulla impedisce che l’uomo estingua anche se stesso. «Il riscaldamento globale – osserva ancora Bauckham – ha posto questa questione ricordandoci che siamo così legati alla creazione che se qualcosa va male intorno a noi, va male anche per noi. Tra i cristiani, peraltro, è diffusa la convinzione che Dio non permetterà che si arrivi a tanto. Siamo portati a pensare che ponendoci al fianco del Signore scamperemo all’autodistruzione. Io penso che abbiamo ragione di sperare che sia così, ma non possiamo darlo per garantito».
Per quanto Bauckham avverta che: «Non siamo esseri indipendenti che possano ergersi sopra la distruzione del resto della natura ma che restiamo parte integrante della comunità interdipendente del creato», non si può nascondere il fatto che la questione è resa più complessa dal ruolo della scienza che oramai gode quasi di vita propria ed è diventata molto più della mera estensione dell’intelligenza dell’uomo. «Nel suo approccio alla natura — commenta il teologo — l’uomo ha un’indiscutibile abbondanza di talenti. Ma per quanto certi ritrovati, ad esempio nella medicina, siano benvenuti, l’insieme traccia scenari pericolosi. La tecnologia dev’essere impiegata con rispetto: la sua storia moderna prova che, accanto agli esiti anche negativi previsti e calcolati, moltissimi danni sono stati provocati contro le nostre intenzioni. Occorre riscoprire il valore della modestia, il senso dell’umiltà quando si maneggia la scienza. Io invoco una tecnologia soft».
E io, personalmente, in merito alla scienza e alla tecnologia, ne invocherei una che sia imitativa del funzionamento della natura. Solo così si potranno fare pochi errori; questi ultimi saranno di entità più lieve e si potrà sperare di garantire un adeguato futuro all’umanità senza la spada di Damocle – intuita anche da una parte delle religioni – della distruzione autoindotta.
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Fonte: Corriere della Sera
La plastica non è amica della natura
È vero e sacrosanto che la plastica ha semplificato molto la vita dell’uomo e ha consentito la produzione di oggetti a bassissimo costo per gli usi più comuni fino ad arrivare a quelli più complessi e specialistici. La plastica viene usata sia per la produzione di sacchetti usa e getta che per la produzione di strumentazione sanitaria. La plastica viene usata sia per imballare i prodotti più disparati che per la realizzazione di componentistica per gli aerei o per le navicelle spaziali.
La plastica, però, presenta un paio di inconvenienti che non la rendono troppo amica della natura. I suoi componenti e gli additivi utilizzati per produrla nelle sue infinite tipologie e colorazioni molto spesso non sono salutari se vengono ingeriti, soprattutto se vi è stata una qualche alterazione termica della stessa. La plastica poi fa molta fatica a degradarsi (si ragiona nell’ordine di migliaia di anni) se esposta agli agenti atmosferici e ai microrganismi. Per questo abbandonarla in natura e non gestirne correttamente lo smaltimento provoca quello che si vede dalle foto che, da sole e senza troppe parole, descrivono molto bene il problema.
È quindi giunta l’ora che si abbandoni definitivamente la produzione di questi materiali che oramai fanno parte della storia e si inizi a realizzare plastiche (o surrogati delle plastiche) più salutari, facilmente degradabili e biocompatibili. Non ci sono più scuse.
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Foto 1: La tartaruga è cresciuta deforme a causa di un anello di plastica che le ha compresso il carapace.
Foto 2: La tartaruga d’acqua dolce è cresciuta deforme a causa di un imballaggio per il trasporto delle lattine che le ha compresso la parte anteriore del carapace.
Foto 3: I resti di un albatros trovato su isole remote disabitate. Si può notare come il suo stomaco sia pieno di pezzi di plastica che ha probabilmente ingoiato confondendoli con il cibo.
Foto 4: Il leone marino soffre per le continue ferite riportate da un filo di plastica che è avvolto intorno al suo collo e che l’animale non riesce a togliersi.
Where is my forest?
“Where is my forest?” è il titolo di una foto molto bella del sudafricano Ian Johnson, finalista per la categoria “World in our hands” (Il mondo nelle nostre mani, ndt), che ho visto recentemente alla mostra fotografica “Wildlife Photographer of the Year” (1) presso il Forte di Bard, in provincia di Aosta.
Quello che mi ha colpito della foto in questione e che viene ben descritto dall’immagine colta dall’autore, è il fatto che il gorilla grigio immortalato abita, assieme a circa altri 480 animali, nella foresta del Volcanoes National Park, in Ruanda, un parco che oramai è completamente circondato da coltivazioni ed aziende agricole. I gorilla superstiti vivono quasi in prigione entro i confini del parco e, se per caso ne dovessero superare il perimetro non recintato, sono oggetto di uccisioni o di aggressioni da parte dei contadini che si vedono distruggere le colture che, tra l’altro, vorrebbero sempre più far avanzare. Si tratta del vecchio problema della possibile convivenza tra animali selvatici e uomo. I primi hanno bisogno di spazio per gestire il territorio, per cercare il nutrimento e per accudire i cuccioli; i secondi cercano di conquistare sempre più aree per la gestione delle loro attività economiche, per produrre cibo e per incrementare il loro benessere. Il tutto in un conflitto continuo.
La solitudine del gorilla immortalato nella foto mi fa pensare al fatto che il problema della necessaria convivenza tra uomo e animali può essere risolto principalmente attraverso due strade, che rappresentano un ulteriore passo in avanti alle azioni messe in piedi nei decenni passati per preservare specie animali in pericolo e vicine all’estinzione attraverso la creazione di aree protette.
Nel presupposto che la salvaguardia degli animali selvatici non sia un mero piacere estetico o un capriccio da ricchi e intellettuali ma sia la base della biodiversità e della sopravvivenza futura dell’uomo, la prima strada da percorrere è quella del decremento demografico della popolazione umana mondiale. Sembrerà una cosa che non c’entra molto ma bisognerà iniziare seriamente a pensarci perché non si può pensare di salvare animali, soprattutto se di grossa taglia come i gorilla, gli elefanti, i rinoceronti, i leoni, le tigri e molti altri che hanno bisogno di enormi territori, se non si pone un freno all’aumento della popolazione umana mondiale che, giustamente, nell’ottica della ricerca del benessere per tutti, deve e vuole avere a disposizione un’elevata quantità di territori e risorse.
La seconda strada è rappresentata dalla necessità che vengano individuate delle aree protette, sempre più ampie come estensione territoriale, che siano totalmente inaccessibili all’uomo e nelle quali la natura possa fare liberamente il proprio corso. A differenza di quelle attuali che risultano distribuite a macchia di leopardo su territori normalmente inospitali o poco accessibili e che si finanziano attraverso il turismo e, talvolta, la caccia grossa, si deve invece trattare di aree che vengono messe in rete l’una con le altre e che siano separate dalle attività umane da zone cuscinetto accessibili solo per attività turistiche. Solo così si potrà sperare di ottenere risultati duraturi nella difesa delle specie animali in pericolo e della salvaguardia della biodiversità perché i parchi naturali ad ora esistenti si stanno dimostrando inefficaci a contenere quell’innato desiderio dell’uomo di colonizzare e di espandere le proprie attività.
Mi rendo conto che entrambi gli obiettivi sono molto impegnativi ed estremamente complessi da realizzare ma li vedo l’unica strada che dobbiamo iniziare a percorrere. Per farlo dobbiamo cominciare a pensare che almeno una parte del Pianeta (sia la terra che il mare) non ci appartiene e non è – e non dovrà esserlo mai – a nostra disposizione.
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(1) Si tratta dell’evento fotografico più prestigioso e importante del suo genere ospitato nel Forte di Bard per la prima tappa italiana del tour mondiale. Il “Wildlife Photographer of the Year” è un premio creato per la prima volta nel 1965 da parte del Natural History Museum di Londra in collaborazione con il Bbc Wildlife Magazine che ha raccolto, in questa cinquantesima edizione, ben 42.000 concorrenti provenienti da 96 paesi. Cento sono le immagini premiate suddivise in 18 categorie. Attraverso la lente della fotografia naturalistica la mostra coglie l’intrigo e la bellezza del nostro pianeta, dandoci un punto di vista molto profondo del mondo naturale.
Foto: Ian Johnson
Scegli quale biscotto mangiare e…
Scegli quale biscotto mangiare e salverai una tigre. Scegli quale brioche mangiare e salverai un orango. Scegli quale torta mangiare e salverai un rinoceronte.
Anche se tali affermazioni possono sembrare un po’ assurde, i dati e le statistiche invece parlano chiaro e certificano che da qualche decennio è in atto un imponente attività di distruzione di gran parte delle foreste tropicali asiatiche (soprattutto dell’Indonesia e della Malesia) per convertirle in monocolture di palma da olio. Da questa palma (Elaeis guineensis) viene estratto un olio alimentare dalle molteplici virtù industriali. È economico ed è solido a temperatura ambiente e, per questo, viene impiegato quale componente grassa in numerosi prodotti trasformati che si trovano nei supermercati (1).
Si pensi, tanto per citare qualche dato sull’entità della distruzione delle foreste, che 50 anni fa l’82% del territorio dell’Indonesia era ricoperto di boschi. Nel 1995 tale percentuale era già scesa al 52% e, al ritmo attuale di deforestazione, nel 2020 le foreste indonesiane saranno definitivamente e irreparabilmente distrutte con conseguenze terribili sia sull’economia delle popolazioni locali che sulla biodiversità e sulla sopravvivenza degli animali selvatici. Si pensi ancora che l’olio di palma è il principale responsabile della deforestazione dell’isola di Sumatra, dove vivono (ancora?) elefanti, tigri e rinoceronti. Tutte specie ridotte a poche manciate di individui in pochi anni (2).
Pertanto quando andate al supermercato e fate i vostri acquisti (purtroppo talvolta anche di prodotti biologici) non guardate solo il prezzo ma cercate di pensare anche alla salvaguardia delle foreste tropicali e degli animali che in esse vicono e scegliete quei prodotti che non contengono tra i loro ingredienti l’olio di palma. Per aiutarvi nella scelta consapevole qui un elenco di biscotti che non lo utilizzano.
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(1) L’olio di palma è costituito per il 50% da acidi grassi saturi (in particolare acido palmitico) e dal restante 50% da acidi grassi insaturi (soprattutto acido oleico, monoinsaturo e acido linoleico, polinsaturo). Proprio l’alto tenore dei grassi saturi rende l’olio di palma interessante per l’industria alimentare in quanto assomiglia al burro (che è molto più costoso) e conferisce una certa solidità agli alimenti a temperatura ambiente. Il problema però è che gli acidi grassi saturi risultano essere particolarmente dannosi per la salute e sono ampiamente coinvolti nel determinare un aumentato rischio di patologie cardiovascolari.
(2) Nell’ambito dell’olio di palma esiste una certificazione, la RSPO (Roundtable on Sustainable Palm Oil), che ne attesta la sostenibilità ambientale. Essa però copre una quota infinitesima della produzione e non è affatto in grado di incidere per mitigare i problemi di deforestazione che sono legati a tale grasso.
Immagine: La deforestazione dell’isola del Borneo (anni 1950-2005) – WWF
Foto: I terribili effetti sugli animali e sul territorio della deforestazione nel sud-est asiatico
Fonte: La Stampa; Il Fatto Alimentare
Attenzione: animale sanguinario
Attenzione: animale sanguinario in mare! Il più pericoloso della Terra.
Ogni anno massacra milioni di esseri viventi, spesso senza ragione. Addirittura riesce ad uccidere e mutilare brutalmente (1) esseri della sua stessa specie. È anche in grado di devastare in poco tempo il proprio ecosistema tanto da mettere a repentaglio la sua stessa sopravvivenza. È poi particolarmente furbo e aggressivo, soprattutto in branco, ed è meglio stare lontano dal suo territorio. Per celebrare la sua terribile fama è stato anche protagonista di numerose pellicole cinematografiche che hanno terrorizzato grandi e piccini.
Fate attenzione alla foto perché accanto a lui vedrete nuotare, pacificamente, un enorme squalo bianco (2).
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(2) Con la guerra e con le armi
(1) Ogni anno 10 milioni di squali muoiono agonizzanti a causa del finning [vedi il video], una pratica inumana che consiste nel tagliare le loro pinne e di gettare i loro corpi ancora in vita nel mare. Gli squali morenti o vengono divorati da altri pesci mentre sono ancora in vita oppure muoiono annegati a causa della loro impossibilità a muoversi. Le pinne raccolte vanno ad alimentare il mercato asiatico del cibo che considera la zuppa di pinne di squalo una vera prelibatezza.