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Author Archives: Alessandro Adami

Io freno anche per i ricci

È oramai primavera inoltrata e i ricci (1), dopo essere usciti dal letargo ai primi caldi soli, sono nel pieno della loro attività. I ricci sono animali notturni caratterizzati dalla presenza di aculei (ben 6-7 mila) nella parte superiore del loro corpo, evoluzione dei peli per scopi di difesa dai predatori.

Questi aculei rappresentano la loro fortuna evolutiva ma anche la loro condanna moderna. Infatti sono talmente efficaci contro i predatori che l’animale, in caso di pericolo, ha sviluppato l’istinto di appallottolarsi e di mettere la testa sotto il ventre per rimanere lì. Fermo. Ad aspettare che il pericolo se ne vada.

Purtroppo i pericoli moderni per i pochi ricci superstiti in un ambiente fortemente antropizzato e sottoposto ad agricoltura intensiva com’è quello delle nostre campagne, non sono più in larga parte i rapaci o i piccoli carnivori. Tali pericoli sono invece rappresentati dagli autoveicoli che sfrecciano sempre più numerosi e sempre più veloci nel nostro reticolo stradale urbano.

riccio investito

Per questo e per evitare inutili stragi, a chi per strada mi sta dietro dico di fare attenzione perché… io freno anche per i ricci!

P.S. Scaricate il cartello, stampatelo e attaccatelo sul vetro della vostra auto per segnalare che anche voi frenate per i ricci.

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(1) Il riccio è un mammifero notturno appartenente alla specie degli Erinaceidi caratterizzato dalla presenza di aculei sulla parte superiore del corpo che fungono da sistema di difesa dai predatori. l riccio è un animale onnivoro la cui dieta include insetti, lumache, rane, uova di uccelli e vari vegetali. Ama la frutta, i vermi e tutti gli animaletti che popolano il sottobosco. Può arrivare a mangiare uccelli di piccola taglia, topi e serpenti. Il riccio può anche affezionarsi alle persone e, per questo, può vivere anche in ambienti domestici.

Foto: il corpo di un riccio investito per strada – foto di Matteo Di Nicola

 

L’assurdo spreco di cibo negli USA

Negli Stati Uniti si spreca circa il 40% del cibo prodotto, pari ad un valore di circa 165 miliardi di dollari. Si tratta di cibo buono, non avariato, spesso non cucinato, che viene gettato nella spazzatura ancora confezionato direttamente da parte degli acquirenti. La causa più frequente è legata al raggiungimento e al superamento della data di scadenza (anche se non è detto che il cibo sia immangiabile!) dovuti alla sovrabbondanza di cibo presente nelle dispense di una famiglia media che, semplicemente, ne acquista troppo e si dimentica di averlo.

E pensare che questo cibo potrebbe anche aiutare quei 50 milioni di americani (circa il 16% della popolazione totale degli USA) che sono poveri e fanno fatica a procurarsi da mangiare.

Per spiegare questo fenomeno è interessante osservare l’esperienza di Nick Papadopulos, un agricoltore biologico californiano. Stanco di buttare intere cassette di frutta o verdura rimaste invendute, Papadopulos ha iniziato a confrontarsi con altri produttori locali interessati dallo stesso fenomeno. La sua soluzione è stata quella di creare CropMobster, un servizio per trovare persone interessate a comperare, a prezzi più vantaggiosi, prodotti invenduti.

food is a weaponL’ampliamento del mercato, però, non è l’unica strada da percorrere per risolvere il problema. Servirebbe anche più informazione dei cittadini sia sull’alimentazione che sulle questioni tecniche legate alla coltivazione, alla trasformazione e alla conservazione del cibo. Innanzitutto bisognerebbe insegnare loro a non acquistare il cibo solo per il suo bell’aspetto estetico ma, soprattutto, a tener conto della sua qualità. Inoltre bisognerebbe spiegare loro che le date di scadenza riportate sulle confezioni non sono valide in senso assoluto ma forniscono solamente un’indicazione di massima. Prima di consumarlo, il cibo, deve essere sempre assaggiato. Anche se ciò avviene entro la data di scadenza!

Lo spreco di cibo è una follia. Lo è sia dal punto di vista umano ed etico che dal punto di vista di sostenibilità ambientale. Produrre cibo “consuma” lavoro, energia, materie e produce inquinamento, diretto o indiretto. Purtroppo l’agricoltura è stata interessata da un progressivo fenomeno di industrializzazione che l’ha spinta, come per le produzioni meccaniche, chimiche o altro, verso l’obiettivo della massimizzazione della produttività e l’abbassamento dei prezzi, preoccupandosi relativamente della qualità. Ma il cibo, si sa, è molto diverso da un manufatto. Lo ingeriamo e, attraverso il metabolismo, diventa noi e noi diventiamo un po’ lui.

Paradossalmente, per risolvere il problema dello spreco di cibo ancora buono, si dovrebbe fare una cosa semplice e apparentemente assurda. Si dovrebbe puntare all’aumento dei prezzi di vendita. In un sistema industriale che tende a massimizzare la produzione e a fornire cibo a prezzi bassi ma a discapito della qualità, si dovrebbe aumentarne il valore per far comprendere ai cittadini la sua vera importanza.

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Fonte: Internazionale

 

Il pesce è sempre più caro? La colpa è degli Omega-3

Su “Il Venerdì di Repubblica” del 28 febbraio scorso Loretta Napoleoni, economista, nella sua rubrica “Follow the money” parla dei motivi per cui il pesce è caro (anche quello di allevamento).

Per argomentare le sue tesi scrive: “Quest’anno mangeremo più pesce di allevamento che selvaggio […]. Il motivo è presto detto: da oltre un decennio la domanda ittica mondiale aumenta a un ritmo che oscilla tra il 5 e il 10 per cento annuo e i responsabili sono in primis i Paesi in via di sviluppo, man mano che si arricchiscono cresce la voglia di mangiare pesce […]. Il pianeta mangia pesce ad un ritmo molto più elevato di quello della riproduzione, anche dell’allevamento”.

Sacrosante parole. “Secondo le previsioni – prosegue l’articolo – l’allevamento ittico aumenterà ancora di un 14 per cento prima di raggiungere il massimo della capacità, a meno che non si verifichi un cambiamento radicale, come una rivoluzione tecnologica che permetta di rimuovere l’ostacolo maggiore: per produrre il pesce bisogna usare come alimento principale il pesce”.

Prendiamo il salmone, forse il pesce più gettonato al mondo, la dieta di quello di allevamento deve contenere una certa quantità di Omega-3, che si trova principalmente nei pesci dell’America Latina, che iniziano a scarseggiare. Questo spiega perchè dal 2013 il costo del salmone è in netto aumento […]. Ora la Monsanto sta studiando la possibilità di estrarre Omega-3 dalla soia, e altre multinazionali sperimentano l’utilizzo delle alghe. Una cosa è certa: finché qualcuno non trova la formula giusta, il prezzo del salmone continuerà a salire”.

Cara sig.ra Napoleoni, per risolvere il problema del prezzo del pesce che cresce a causa del depauperamento degli stock ittici che non sono oramai più in grado di soddisfare né la richiesta mondiale di pesce selvaggio né quella dell’industria dei mangimi per il pesce di allevamento non si può solo ragionare in termini di tecnica e di tecnologia. Non si può solo pensare che la soluzione possa essere quella di ottenere gli Omega-3 attraverso l’uso abbondante di energia per estrarli a forza dai prodotti agricoli come la soia o le alghe (che potrebbero essere consumati anche direttamente) al solo scopo di alimentare l’industria dell’allevamento. In più mettendo in competizione il mondo agricolo che produce direttamente cibo con quello che produce beni per l’industria.

La soluzione potrebbe (e dovrebbe) essere, invece, quella che passa attraverso il concetto della “sufficienza”, cioè l’ottenimento del benessere per la più ampia fetta possibile di popolazione mondiale attraverso la riduzione dei livelli di consumo e il miglioramento in termini qualitativi del consumo attuale. Nell’ambito del prezzo in aumento del pesce questo concetto della sufficienza dovrebbe esprimersi sostanzialmente in due direzioni fondamentali:

  1. diminuire i consumi di pesce e crostacei per quella fetta ricca della popolazione mondiale che ne consuma (e spesso ne getta) troppi;
  2. orientare i consumi alimentari verso i vegetali (di qualità, altrimenti finiamo dalla pentola alla brace) piuttosto che verso le carni.

 

La ragnatela urbana

Avete presente quelle splendide ragnatele che talvolta, di mattina presto, in controluce e, magari, evidenziate anche dalla brina, si disegnano tra i rami degli alberi? Se siete fortunati che qualcuno e qualcosa non le abbia rovinate le potete vedere nella loro interezza cogliendo appieno la loro struttura: una forma che, da un punto centrale parte a raggiera e che ha i raggi portanti della struttura uniti tra loro da segmenti, via via sempre più lunghi e radi più ci si allontana dal centro. Una trappola invisibile, perfetta, per insetti volanti che vi dovessero finire sopra.

Ora, provate a mettere in orizzontale la ragnatela e a trasporla, in dimensioni maggiori, su un qualsiasi territorio, meglio se pianeggiante e senza ostacoli. La potete notare meglio di sera, con i lampioni accesi, ora che l’illuminazione notturna ha raggiunto (ahimè!) anche le strade più remote. Vedrete che la sua forma ricalca perfettamente la struttura delle città e delle sue vie di comunicazione: il fulcro è il centro urbano e i fili delle ragnatele sono le strade o la ferrovia. Quelle a raggiera sono le principali mentre quelle di congiunzione dei raggi sono quelle secondarie, di quartiere o, via via che ci si allontana dal centro, quelle più rade di periferia e di campagna.

Come quella del ragno anche la “ragnatela” del territorio (ragnatela urbana, la si può definire) la potremmo considerare un’enorme trappola. Che non fa prigionieri e morti come quella del ragno ma che porta l’urbanizzazione sempre più lontano dalle città divorando sempre più territorio, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno.

La ragnatela urbana è la conseguenza dei comportamenti e delle decisioni scellerate degli amministratori pubblici per portare “progresso” e “benessere” (e, spesso, anche interessi economici personali e lobbistici) perché si devono costruire nuove strade, per poi fare nuove aree industriali, per poi costruire nuove case, per poi fare nuovi ponti, per poi fare nuove valutazioni di impatto ambientale, per poi fare nuovi progetti, per poi ottenere nuovi finanziamenti, per poi fare nuove strade, per poi…

La ragnatela urbana è anche la conseguenza delle richieste avanzate dagli imprenditori per garantire competitività alle proprie imprese: più vie di comunicazione uguale più facilità nei trasporti e nella movimentazione delle merci e dei prodotti. Inoltre costruire case, aree industriali e infrastrutture è, per loro, anche un ottimo sistema per diversificare gli investimenti.

E noi, cittadini, in mezzo, informati da un sistema di comunicazione che tende ad indagare poco perché non indipendente dai “poteri”, che ci beviamo un po’ tutto convinti che vada bene così.

Al di là di quello che ci viene detto a me sembra che la ragnatela urbana sia piuttosto una trappola e lo proverò a spiegare.
Innanzitutto la ragnatela urbana consuma territorio prezioso sia per l’agricoltura e la sovranità alimentare che per il paesaggio, fonte di reddito nell’ambito turistico. Poi, la ragnatela urbana è inefficiente perché esplode le città e le distribuisce su un territorio sempre più ampio, rendendo più complessi tutti i trasporti: dalle merci, alle informazioni, all’energia. Inoltre la ragnatela urbana contribuisce ad incrementare il consumo di energia, sia per costruirla che per gestirla, oltre che ad avere un effetto indiretto di distribuzione generalizzata dei fenomeni inquinanti.

La natura – che è sempre in lotta con il reperimento dell’energia a basso sforzo e per risparmiarla – a guardarla bene, invece, produce strutture collettive compatte, le uniche in grado di minimizzare gli sforzi e, al contempo, massimizzare le relazioni.

Sulla base di questo principio è necessario che da subito i Comuni e le Regioni inizino a praticare l’obiettivo di consumo netto del territorio (1) pari a ZERO senza attendere i fantomatici regolamenti comunitari o le leggi nazionali, che non arriveranno mai perché realizzate da chi ha anche interessi personali diretti e indiretti sull’edilizia e sulla realizzazione delle infrastrutture.

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(1) Per consumo netto del territorio si intende solo il consumo del territorio vergine, al netto dei recuperi effettuati su territorio già urbanizzato.

 

Salute e sostenibilità ambientale sono concetti strettamente interconnessi

La sostenibilità ambientale passa inevitabilmente attraverso la salute e la salute passa attraverso la sostenibilità ambientale, in un pieno rapporto biunivoco. Senza la sostenibilità ambientale non ci può essere salute (soprattutto prevenzione, che è la componente più importante della salute) e senza salute (cioè senza una chiara idea di che cosa sia la salute e la prevenzione) non ci può essere sostenibilità ambientale.

Provo a fare degli esempi. Chi abusa dei farmaci (necessari, ma pur sempre tossici) per togliere qualsiasi sintomo senza preoccuparsi delle cause che lo determinano come può avere una chiara idea di che cosa sia la sostenibilità ambientale? Chi mangia male (cibo spazzatura) e specula sul prezzo del cibo (consumando cibo di bassa qualità) per avere più beni effimeri e non necessari come può agire per perseguire la sostenibilità ambientale? Chi butta la spazzatura a terra anziché adoperarsi per smaltirla correttamente come può capire a fondo cosa sia la salute e la prevenzione? Chi abusa di pesticidi e diserbanti (in agricoltura, negli spazi pubblici, negli spazi verdi privati) come può adoperarsi correttamente per garantire salute a se stesso e ai propri cari nel lungo periodo? E gli esempi potrebbero essere innumerevoli…

A tale proposito qualche giorno fa sono rimasto colpito da un bell’articolo del dott. Roberto Gava pubblicato su Il Fatto Quotidiano nel quale afferma un concetto fondamentale per ragionare in termini di salute e di sostenibilità ambientale: noi stessi siamo la causa delle nostre patologie (e del nostro benessere, aggiungo io).

Quello che afferma il dott. Gava – basandolo sulla propria esperienza clinica – è il fatto che la quasi totalità delle nostre patologie attuali – spesso croniche e invalidanti – sia il frutto di errori pubblici e sociali (ad esempio tollerare ancora elevati tassi di inquinamento per alimentare un sistema economico senza fine basato sulla continua produzione e consumo) e sulla scarsa cultura della prevenzione da parte delle persone. In tutto questo, io mi chiedo dove erano e dove sono i medici e i farmacisti? Qual è il loro ruolo nel rapporto con i pazienti all’interno del processo di mantenimento della salute e di cura? Cosa sanno e cosa percepiscono veramente della salute attraverso la prevenzione e del ruolo che ha la sostenibilità ambientale nel garantirla?

Per promuovere la salute il dott. Gava parla, nel dettaglio, di prevenzione alimentare e dei principali errori che si commettono nel campo della nutrizione:

  • Troppi zuccheri semplici, comprendendo quelli che aggiungiamo noi e quelli che aggiunge l’industria alimentare.
  • Troppi cereali, rispetto a verdure, legumi, frutta e proteine vegetali.
  • Troppi carboidrati raffinati rispetto a quelli complessi.
  • Troppi grassi saturi (grassi animali) e pochi grassi buoni (polinsaturi omega-3 di origine vegetale o ittica e monoinsaturi dell’olio di oliva).
  • Carenza di micronutrienti essenziali: la produzione industriale del cibo li ha gravemente ridotti, insieme allo sfruttamento del terreno e all’inquinamento (viviamo in una situazione di carenza cronica che, di solito, non induce avitaminosi, ma altera il metabolismo dell’organismo e induce una instabilità genomica con maggior suscettibilità al danno del DNA con scarsa capacità di ripararlo).
  • Carenza di fibra alimentare (assente in cibi raffinati) con conseguenti: stipsi, accumulo di sostanze tossiche, mancato legame di zuccheri e grassi (che verrebbero escreti più facilmente riducendo anche il colesterolo-LDL e aumentando il colesterolo-HDL) e aumento di diabete e vasculopatie aterosclerotiche.
  • Alterazione dell’equilibrio acido-base con spostamento verso l’acidosi metabolica a causa di eccessivo consumo di cibi acidificanti (cibi confezionati, carne, uova, latte, formaggi, sale, additivi chimici, ecc.) a cui conseguono: perdita del tono muscolare, osteoporosi, calcoli renali, ipertensione arteriosa, infiammazione tessutale, ecc.
  • Alterato equilibrio sodio/potassio con aumento del sodio (contenuto in abbondanza nei cibi industriali) e calo del potassio (che è scarso in carboidrati raffinati, latte e formaggi), con conseguente aumentato rischio di ipertensione arteriosa, ictus cerebrale, calcoli renali, osteoporosi, asma, insonnia, ecc.

Oltre a tener conto dei punti precedenti tra le possibili soluzioni elenca:

  • La riduzione dell’introito calorico quale miglior modo per rallentare l’invecchiamento e per prevenire le patologie croniche;
  • La restrizione calorica quale modo per facilitare l’eliminazione di cellule danneggiate e la loro sostituzione con cellule nuove derivate dalle riserve staminali.

A ciò io aggiungerei anche:

  • La scelta di prodotti alimentari coltivati e prodotti con il minor impatto ambientale possibile che, per semplificazione, potrebbero essere quelli certificati biologici o biodinamici, sono fondamentali per limitare l’inquinamento e garantire più alti livelli di salute sociale nonché per fornire cibi più sani alle persone;
  • La scelta di prodotti alimentari locali che vengono coltivati o prodotti vicino al luogo di consumo viaggiano di meno: in tale modo possono essere raccolti al raggiungimento della maturazione e, per questo, possono garantire maggiore e migliore apporto di vitamine e nutrienti;
  • La scelta di prodotti alimentari semplici e non troppo industrializzati. In tal modo si limitano inutili additivi (conservanti e insaporenti) e si garantisce più genuinità dei cibi;
  • La scelta di prodotti alimentari che abbiano pochi imballaggi per limitare la produzione dei rifiuti che indirettamente, attraverso l’inquinamento che producono, possono contribuire a diminuire la qualità della salute pubblica.

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Foto: La nuova piramide alimentare

 

Patè de fois gras. Slurp!

Quando vedo un video come quello di Animal Equality sull’allevamento delle oche destinate alla produzione del paté de fois gras (paté di fegato d’oca o di anatra) (1), penso che l’unico VERO animale presente sulla Terra sia l’uomo.

La nostra consapevole brutalità non ha pari. La nostra bestialità nel procurare inutile dolore e sofferenza ad altri esseri viventi non ha pari. La nostra consapevole insensibilità per l’ottenimento di un prodotto non essenziale per la sopravvivenza non ha pari. Il nostro lucido calcolo puramente materialistico non ha pari. Tutto ciò non ha pari nemmeno tra i più sanguinari carnivori del Pianeta, come le tigri, i coccodrilli o gli squali che agiscono istintivamente (senza premeditazione o senza scopi materiali, come il denaro) solo per procurarsi il cibo destinato alla sopravvivenza, loro e del loro clan familiare.

Tornando al video, esso mostra i diversi passaggi produttivi necessari per ottenere il famoso fois gras. Dall’allevamento degli animali in minuscole gabbie, all’alimentazione forzata degli stessi che vengono ingozzati a forza, fino ad arrivare alla loro truce macellazione. Tutto ciò con un unico scopo: procurare agli animali un ingrossamento anomalo del fegato e grandi depositi di grasso nello stesso che gli conferiscono quella consistenza gelatinosa così tanto ricercata dalla gastronomia e dai consumatori.

Il video è stato messa in rete da parte di Animal Equality, l’organizzazione internazionale in difesa degli animali. “Ciò che abbiamo documentato sono scene terribili di animali confinati in minuscole gabbie, affetti da stress e depressione, feriti dal tubo che ogni giorno viene loro spinto con forza nell’esofago [fino anche a farlo sanguinare] per far passare il cibo, oppressi da problemi respiratori e di deambulazione per le abnormi dimensioni raggiunte dal fegato, maltrattati e lasciati morire senza cure” afferma Francesca Testi, portavoce di Animal Equality in Italia. Il tutto senza senso, senza uno scopo importante, direi io. Con il solo oboettivo di accontentare il palato ad un’umanità capricciosa  e senz’anima.

Sono certo che la nostra sopravvivenza futura dovrà passare inevitabilmente anche attraverso il rispetto degli animali. Boicottiamo il paté di fois gras e aderiamo con partecipazione alla campagna di sensibilizzazione di Animal Equality.

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(1) Wikipedia riporta che il fois gras è definito dalla legge francese come “fegato di anatra e di oca  fatta ingrassare tramite alimentazione forzata”. […] L’alimentazione forzata induce una crescita abnorme del fegato ed un aumento di grassi nelle cellule epatiche noto come steatosi. Questo fenomeno è stato interpretato come un adattamento naturale da alcuni esperti, ma come una vera e propria patologia, la steatosi epatica, da altri.

Video: ATTENZIONE: alcune immagini contengono scene di violenza esplicita e potrebbero urtare la vostra sensibilità.

 

Le “Giornate della Terra”

Ieri, 22 aprile, si è svolta la “Giornata della Terra”, un’iniziativa molto interessante nata negli anni ’70 per sensibilizzare l’opinione pubblica sulle tematiche ambientali e sulla necessità di conservazione delle risorse naturali. Ora, giunti alla 44^ edizione, ci sono però ancora numerosissime e importantissime cose da fare.

Se è troppo facile celebrare la “Giornata della Terra”, un po’ meno è mettere in pratica azioni concrete per fare in modo di essere, individualmente o collettivamente, il cambiamento necessario. Per evitare che tale manifestazione rimanga solo una valida iniziativa teorica da oggi, e poi per 364 giorni fino al prossimo 22 aprile, ognuno di noi dovrà impegnarsi seriamente ad agire in prima persona – talvolta rinunciando a qualcosa per guadagnare qualcos’altro – per dimostrare concretamente il proprio impegno a favore della Madre Terra.

In particolare dovremo, per citarne alcune:

limitare l’uso e il consumo del territorio          non sprecare energia          impegnarsi ad usare energia proveniente solo da fonti rinnovabili          limitare il consumo sia dei prodotti finiti che delle materie          limitare e possibilmente evitare il consumo di carne          limitare il consumo dei pesticidi          eliminare il consumo di erbicidi          consumare prodotti e favorire le economie locali          limitare la deforestazione          essere informati sui prodotti che acquistiamo          esercitare il controllo sull’azione politica e amministrativa          scegliere solo finanza etica e, se possibile, limitare comunque la finanza speculativa          limitare l’utilizzo delle auto private e usare maggiormente i trasporti collettivi          preferire la bicicletta per la mobilità urbana          limitare i voli aerei          salvaguardare gli animali selvatici          salvaguardare gli ambienti selvaggi          salvaguardare il paesaggio          difendere le popolazioni indigene          limitare la produzione di rifiuti          separare e riciclare sempre meglio i rifiuti prodotti          non inquinare il suolo, l’aria e i mari          effettuare scelte di consumo orientate verso i prodotti ecologici          riutilizzare e recuperare i vecchi prodotti…

… e se avete altre idee che non ho indicato, sono le benvenute!

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Per approfondire: Earth Day Italia; Earth Day Network

 

2014: anno dell’agricoltura familiare

In Italia e, suppongo, nei paesi “occidentali” che hanno il baricentro sociale spostato sull’industria e sui servizi, l’agricoltura viene oramai relegata ad un ruolo gregario all’interno del sistema economico: tutti concordano sul fatto che serva e che sia fondamentale ma poi la snobbano o la superfinanziano senza criterio preferendo ad essa l’industria o l’edilizia, perché sono in grado di essere molto redditizie e di portar soldi agli investitori in tempi molto brevi, quelli che l’agricoltura non si può permettere. Nonostante i piccoli segnali di ripresa di questi ultimi anni dovuti alla crisi che porta sempre più giovani intraprendere la strada (e l’avventura) nel settore primario, l’agricoltura, da noi, viene vista comunque nell’ottica industriale fatta di mezzi meccanici sempre più sofisticati, di additivi chimici e biotecnologici, di assenza di manodopera nonché di grandi guadagni speculativi che spesso esulano dalla produzione del cibo e virano verso la produzione di energia o verso la gestione dei rifiuti.

È importante sapere, però, che questa idea di agricoltura interessa una minoranza di persone al mondo dove, invece, in massima parte, la stessa è basata sulla piccola agricoltura familiare (1) che coinvolge circa 400 milioni di famiglie di coltivatori diretti con meno di due ettari di terra, circa 100 milioni di pastori e circa 100 milioni di pescatori. In sostanza il 40% della forza lavoro del Pianeta è coinvolto nell’agricoltura familiare che produce circa il 70% del cibo disponibile.

large_AfricaL’agricoltura familiare è caratterizzata principalmente da tre elementi positivi:

  • contribuisce sostanzialmente alla sicurezza alimentare mondiale;
  • difende i prodotti alimentari tradizionali e contribuisce a garantire una dieta bilanciata per le persone povere salvaguardando, contestualmente, l’agro-biodiversità e l’uso sostenibile delle risorse naturali;
  • rappresenta un’opportunità per migliorare ed accrescere le economie locali.

In quest’ottica la FAO ha dichiarato il 2014 “l’anno dell’agricoltura familiare” con lo scopo di porre l’attenzione pubblica sul suo importante ruolo nell’eradicazione della denutrizione e della povertà, nel garantire la sicurezza alimentare e il miglioramento delle condizioni di vita, nella corretta gestione delle risorse naturali, nella protezione dell’ambiente e nel raggiungimento di uno sviluppo sostenibile e durevole, soprattutto delle aree rurali. L’obiettivo è quello di posizionare l’agricoltura familiare al centro delle politiche sociali, ambientali ed economiche degli stati, quale volano per uno sviluppo dell’uomo più equo e bilanciato rispetto a quello che può essere garantito dall’agricoltura industriale.

large_budapestBioimita sostiene l’agricoltura familiare perché rappresenta un punto focale dei suoi principi. Essa, in effetti, è caratterizzata dal fatto di avere caratteristiche specifiche per ciascuna area geografica; essa, essendo di piccola scala è necessariamente basata su una rete di relazioni tra diversi soggetti che si devono scambiare le sementi, le conoscenze, i prodotti; essa favorisce la biodiversità in quanto, non essendo industriale, valorizza i prodotti locali.

 

Il funerale di Windows XP

Oggi, 8 aprile 2014, sarà l’ultimo giorno di vita del sistema operativo Windows XP e, a partire dalla mezzanotte, non ci saranno più aggiornamenti di sicurezza e il software sarà, entro breve, destinato inesorabilmente a morire. Troppo elevato è infatti il rischio che il computer possa essere esposto a rischi di crash o, peggio, ad attacchi di virus che ne possano compromettere definitivamente la funzionalità.

Attualmente si stima che il sistema operativo XP sia ancora utilizzato da quesi il 30% degli utenti che si collegano a internet, ovvero poco meno di 600 milioni di persone nel mondo.

Secondo le indicazioni di Windows questi “quattro gatti” hanno due sole possibilità:

  1. buttare il loro PC (magari ancora perfettamente funzionante) e comperarne uno nuovo che abbia già preinstallato Windows 8.1;
  2. Comperare la licenza di Windows 8.1, da installare sul vecchio PC ad esso compatibile.

In sostanza si tratta della cosiddetta “obsolescenza programmata“, una pratica assurda sulla quale, in Italia, ci sono state delle interessanti proposte di legge ma che non è ancora stata disciplinata con chiarezza da un punto di vista normativo. Nell’ambito del settore informatico essa consente ad un qualsiasi imprenditore di prendere una decisione… et voilà, in poco tempo, circa 600 milioni di macchine, inquinanti e che hanno richiesto notevole energia e materie per essere prodotte (spesso addirittura ancora perfettamente funzionanti), devono essere mandate al macero per far posto ad altre 600 milioni di macchine che in pochi anni saranno obsolete e dovranno essere buttate per far posto ad altre macchine che…

L’alternativa a questa abberrante politica industriale che minaccia seriamente la sostenibilità dell’industria e che dimostra la stupidità dei comportamenti umani è quella di usare software libero, slegato dai brevetti e dalle licenze d’uso a pagamento, sia come sistema operativo (ad es. Linux-Ubuntu) sia come gestore di altre applicazioni (es. Libre Office per il pacchetto “ufficio”). Ciò consente di far durare a lungo il PC pur avendo gli stessi servizi forniti dai software a pagamento che, invece, nella logica del consumismo, li rendono prematuramente obsoleti.

IBM X40Io, ad esempio, che sono passato al software libero qualche anno fa quando Windows 2000 mi è andato definitivamente in crash, sto utilizzando ancora un vecchio IBM X40 del 2003 sia per i miei svaghi che per ragioni professionali. Il PC funziona bene ed è sufficientemente veloce, ma lo avrei buttato già da qualche anno se non avessi seguito la strada del software libero.

P.S. Per info sul software libero e sull’uso di vecchi PC perfettamente funzionanti eventualmente contattare l’Associazione OS3 di Verona.

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Foto: la tastiera oramai consunta del mio PC IBM X40

 

Dimmi che font usi e ti dirò chi sei

È proprio vero che l’informazione di massa – quella a cui possiamo accedere, in primis, mediante televisioni e giornali – ci racconta un po’ quello che vuole, tanto da far sembrare delle vecchie idee come delle assolute novità. (1)

È il caso dello studente quattordicenne Suvir Mirchandani di Pittsburgh, Pennsylvania, che, intervistato dalla Cnn, fa addirittura un appello indiretto al presidente Barak Obama affinché sia il garante di un considerevole risparmio di inchiostro – e di denaro – nella stampa dei documenti pubblici. Suvir, nel passaggio dalle scuole elementari a quelle medie si accorge quanto aumenti il numero delle fotocopie distribuite dalla scuola agli studenti. Facendo un po’ di conti, il ragazzo osserva che, oltre alla carta e all’usura delle macchine, a pesare sul costo delle fotocopie è anche l’inchiostro utilizzato che, in termini di prezzo, non è affatto economico. Nel partecipare, poi, ad un progetto della scuola finalizzato a ridurre gli sprechi e a risparmiare soldi, Suvir pensa a come poter tentare di ridurre le notevoli spese per l’inchiostro, visto che il risparmio energetico è spesso garantito dalla macchina mediante sistemi di spegnimento automatici e quello della carta è garantito dalla stampa fronte-retro. Suvir ragiona su una cosa che può sembrare ovvia e, come prima cosa, inizia a raccogliere le varie dispense che gli vengono distribuite e ad analizzare dal punto di vista tecnico e grafico le lettere utilizzate. Con l’aiuto di un software commerciale (APFill Ink) si spinge poi a valutare quanto inchiostro consumano i diversi font principalmente impiegati (Century Gothic, Comic Sans, Garamond, Times New Roman) e quali siano le differenze tra gli stessi. Dal calcolo emerge che il font più efficiente è il Garamond – caratterizzato da tratti grafici più sottili – che arriva a far risparmiare anche fino al 24% di inchiostro rispetto a quelli meno efficienti. La sua ricerca si spinge anche più in là e, oltre a quantificare il risparmio di inchiostro per la sua scuola (circa 21.000 $ l’anno), osserva che se l’enorme quantità di documenti federali fossero stampati con font Garamond al posto del più comune Times New Roman, il governo USA risparmierebbe ben 136 milioni di dollari l’anno in inchiostro e, se lo facesse anche ogni stato americano, la cifra arriverebbe a 370 milioni, con un risparmio globale maggiore di 400 milioni.

Dall’articolo sembrerebbe che il “genietto” Suvir abbia scoperto l’acqua calda e debbano essere a lui attribuite particolari doti di analisi della realtà che nemmeno i migliori geni matematici del MIT o di Harvard hanno mai osato valutare.

Ricordo, però, che questo problema, come anche le soluzioni, non sono nuove. Qualche anno fa (ne ho parlato anch’io su questo blog) Colin Willems, con il contributo di SPRANQ Creative Comunications di Utrecht, in Olanda, ha fatto gli stessi calcoli e si è spinto addirittura oltre producendo lui stesso un font (Ecofont), da impiegare nelle stampe per risparmiare il 20% di inchiostro rispetto ai font tradizionali. Ecofont, a differenza del font Garamond a cui fa riferimento Suvir, ha qualcosa in più: è svuotato graficamente da fori trasparenti (in sostanza è bucherellato) che non ne pregiudicano la leggibilità nei formati di stampa più comuni.

Cari utenti, cari impiegati, caro presidente Obama e cari presidenti e primi ministri del Mondo, sappiate che le buone idee per garantire maggior efficienza e sostenibilità ci sono già e spesso sono gratuite tanto da non richiedere per forza enormi investimenti per renderle operative. Nel caso della stampa dei documenti è sufficiente che iniziate ad utilizzare, già da ora, i font Garamond o, meglio, dopo averlo acquistato, il font Ecofont. Metteteli predefiniti nei vostri computer: l’ambiente e il vostro (e nostro) portafogli ringrazieranno!

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(1) La cosa non è grave, ma noi “ambientalisti” ne parliamo da anni. Voi, dove eravate?

Fonte: Corriere della Sera

 

Il giro del mondo in 180 giorni

L’8 marzo è stata la festa della donna e, negli stessi giorni, in Parlamento, si è consumata una votazione complessa e sofferta per le cosiddette “quote rosa” che ha visto la bocciatura degli emendamenti proposti a favore della parità di trattamento di genere. Il tutto, come al solito, infarcito da ipocrisia e opportunismo che hanno fatto passare in secondo piano il vero obiettivo della proposta. Significativa, a tale riguardo, è stata l’intervista del Presidente della Camera Laura Boldrini che chiede addirittura che si ponga un qualche freno alla libertà di espressione e si limiti la satira politica quando interessa le donne oppure l’atteggiamento trasversale di alcune deputate che, a mio avviso, più che difendere la dignità e la considerazione delle donne pensavano a difendere la loro ben pagata “poltrona”.

Io, personalmente, non credo alle mimose per l’8 marzo quale strumento di rispetto per le donne e penso, anzi, che il vero atto discriminatorio sia proprio quello stabilire la parità di genere per legge e quello di forzare artificiosamente il numero delle donne in Parlamento o nelle cariche istituzionali. La parità di genere, se si vuole veramente realizzare, si ottiene con asili nidi a basso costo e disponibili senza interminabili liste d’attesa, con servizi alle famiglie per la gestione dei figli e di genitori anziani, con l’educazione alla cultura della parità e con tutti quegli interventi sociali che siano in grado di non obbligare le donne a trascurare le loro aspirazioni e i loro desideri per spirito di sacrificio verso la famiglia. Con tutto ciò la donna sarà in grado di dimostrare da sola il proprio valore ed esprimere le proprie potenzialità.

Per dimostrare, al di là dei simboli, il mio rispetto e la mia idea di parità sociale tra uomo e donna dedico questo articolo a Paola Gianotti che, partita l’8 marzo, tenterà di fare il giro del mondo in bicicletta. Un viaggio di circa 30.000 km, che toccherà ben 22 paesi e che verrà percorso in poco meno di 6 mesi con l’obiettivo non solo di battere un record del Guiness dei primati ma anche di lanciare un messaggio di speranza per il futuro del nostro Pianeta (1).

Chi meglio di una donna (che è madre) può preoccuparsi per i propri figli e per il loro futuro?

Seguite in diretta il viaggio di Paola… www.keepbrave.com

[Nel video Fabrizio Zanotti canta “Dieci Dita” e presenta l’impresa di Paola Gianotti]

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(1) Sul sito internet keepbrave.com Paola Gianotti dichiara che “Vivere ogni giorno in un ambiente con aria inquinata si riversa inesorabilmente sulla nostra salute e su quella dei nostri figli. Voglio che gli esseri umani siano più consapevoli riguardo questo tema, direttamente collegato alla qualità delle nostre vite in questo mondo, per questo motivo, lungo il mio viaggio in bicicletta, valuterò la qualità dell’aria attraverso la frequenza dei licheni (bioindicazione lichenica) utilizzando il metodo e gli strumenti sviluppati dall’equipe diretta dal Prof. Ammann dell’Università di Berna (Svizzera) per il WWF Elvetico. Tale metodologia permette di predire i tassi di inquinamento da dette sostanze con una certezza pari al 98 %”. Leggi l’intera dichiarazione di Ecosostenibilità & Mail cycling.

 

Man

Steve Cutts (1) pubblica il videoMan” il 21 dicembre 2012 e, in poco tempo, riceve più di 5 milioni di visualizzazioni sulla piattaforma YouTube e circa 1 milione su Vimeo.

Il tema principale di questo magnifico cortometraggio animato è il rapporto tra l’uomo (“man”, appunto, che compare nel titolo) e l’ambiente. Un rapporto che dura da circa 500.000 anni e che è inizialmente idilliaco in un luogo ricco di animali e piante, ma che si trasforma, a poco a poco, in un vero e proprio incubo.
Una delle prime cose che l’uomo impara e inizia a praticare è la violenza, anche gratuita, nei confronti degli altri esseri viventi che popolano il Pianeta. Dall’atto gratuito si passa poi all’utilitarismo: l’uomo uccide i serpenti per farsi degli stivali e le foche per farsi delle pellicce che lo possano riparare dal freddo. Con il passare del tempo e con l’avvento delle armi da fuoco inizia a anche ad uccidere gli animali per gli scopi più futili: per divertimento e per avere inutile e superflui oggetti di lusso. La violenza dell’uomo nei confronti della natura si manifesta anche attraverso il taglio di alberi e foreste che diventano altissime torri di carta, nella cementificazione e urbanizzazione di tutto ciò che lo circonda, nel consumismo sfrenato nonché nella produzione di montagne di rifiuti.

Il tutto si consuma in una paradossale danza di inconsapevolezza autodistruttiva che porta progressivamente l’uomo nelle sua marcia folle verso il baratro.

Con il video “Man” Steve Cutts, in poco più di tre minuti, ci racconta la strafottenza la brama di potere e l’idiozia dell’uomo e ci mette di fronte all’assurdità dei nostri comportamenti facendoci comprendere che il male più grande dell’agire umano non sembra essere tanto l’errore – inevitabile e comunque risolvibile – quanto piuttosto la perseveranza nel continuare a sbagliare.

Il video “Man” sembra un accorato appello dell’autore che ci pone davanti agli occhi, senza censure, la brutalità delle nostre azioni e ci dice… ADESSO BASTA!

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(1) Steve Cutts è un blogger e artista freelance londinese che spazia dalla pittura alla scultura, dall’illustrazione all’animazione interessandosi di numerose tematiche sociali, tra cui anche l’ecologia.

Musica: “In the Hall of the Mountain King” di Edvard Grieg

 

Le piante imparano dall’esperienza e memorizzano nel tempo

Stefano Mancuso (1) – scienziato, professore associato di Arboricoltura generale e coltivazioni arboree nonché responsabile del LINV (Laboratorio Internazionale di Neurobiologia Vegetale) dell’Università di Firenze – assieme ai ricercatori dell’University of Western Australia Monica Gagliano, Michael Renton e Martial Depczynski, ha sottoposto a stimoli di varia natura alcune piante di Mimosa pudica (2), un arbusto che, se stimolato, è in grado di chiudere le proprie foglie. La reazione di tale pianta, immediata è visibile senza l’ausilio di sofisticati microscopi, ha consentito agli studiosi di analizzare le risposte a diverse tipologie di sollecitazioni, sia innocue che pericolose, come il contatto con un insetto.

“Abbiamo addestrato le piante ad ignorare uno stimolo non pericoloso, come la caduta da un’altezza di 15 cm del vaso dove sono coltivate – spiega Mancuso – ripetendo più volte l’esperienza. Dopo alcune volte la pianta ha iniziato a “capire” e a non chiudere più le foglie, risparmiando energia”. “Inoltre – spiega sempre il ricercatore – abbiamo allevato le piante in due gruppi separati con disponibilità di luce differente e abbiamo osservato che quelle coltivate a livelli luminosi inferiori, con meno energia a disposizione, tendono ad apprendere più in fretta di quelle che ne hanno di più, comportandosi come se non volessero sprecare risorse”. “Le piante – precisa Mancuso – hanno anche mantenuto memoria delle esperienze fatte per oltre 40 giorni”.

Le conclusioni di questo studio, pubblicate sulla rivista scientifica Oecologia, dimostrano sia che le piante sono in grado di apprendere delle informazioni sia che sono in grado di memorizzare nel tempo le informazioni apprese.

La ricerca e le conclusioni a cui è giunta dimostra due concetti fondamentali per la sostenibilità ambientale, che sono la base concettuale di Bioimita e della bioimitazione:

  1. per sopravvivere in natura non è consentito sprecare energia: massima efficienza significa maggiori probabilità di vita duratura;
  2. in natura gli esseri viventi – comprese le piante – sono “progettati” e si sono evoluti per fare esperienza e per avere memoria di tale esperienza: questo garantisce maggiori probabilità di sopravvivenza perché, nei diversi comportamenti, si può tenere conto degli errori già commessi per non ripeterli.

La similitudine dei comportamenti umani con quelli dalla ricerca relativi all’apprendimento (anche) delle piante è molto evidente. Illusi dall’ubriacatura tecnologica pensiamo di essere invincibili e di essere in grado di poter risolvere con la tecnica (le macchine, l’elettronica o la biotecnologia) tutti i vari problemi che inevitabilmente ci si presentano. Invece, a mio avviso, ci dobbiamo comportare come la Mimosa pudica (e altre piante che non abbiamo ancora compreso): dobbiamo iniziare ad essere efficienti nel consumo dell’energia, in quanto scarsa; dobbiamo iniziare a fare veramente esperienza dagli errori del passato e utilizzare tale esperienza per operare rapidi cambiamenti dei nostri comportamenti.

Solo così – e attraverso l’applicazione delle altre pratiche di imitazione della natura – avremo più probabilità di superare le inevitabili avversità della vita e di garantirci un futuro di benessere e prosperità in armonia con ciò che ci circonda.

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(1) Stefano Mancuso, oltre ad essere un ottimo comunicatore e divulgatore scientifico, è anche uno dei fondatori della neurobiologia vegetale, una nuova disciplina che studia i segnali e la comunicazione delle piante a tutti i livelli di organizzazione biologica, dalle singole molecole alle comunità ecologiche. È autore di numerosi libri sulla comunicazione e sul comportamento dei vegetali.

(2) La Mimosa pudica è una piccola pianta di origine tropicale appartenente alla famiglia delle Mimosacee che deve il proprio nome alla sua capacità di rispondere a stimoli tattili o a vibrazioni richiudendo le foglie su se stesse. Per queste sue caratteristiche è stata a lungo oggetto di studi.

 

Verso l’eolico

Verso l’eolico” è un breve video di animazione che tratta l’argomento dell’energia eolica in Sardegna.

L’autore Nicola Vargiu si chiede che cosa sia l’energia eolica, quanto inquini un parco eolico e se sia possibile produrre l’energia eolica senza deturpare il paesaggio. Le sue risposte sono assolutamente positive: poco rumore, basso inquinamento elettromagnetico e nessun campo elettrico. Inoltre l’autore esprime la propria convinzione relativamente alla sostenibilità di tale tipologia di energia facendo riferimento al “Protocollo per la realizzazione di un buon eolico” redatto nel 2002 da ANEV (Associazione Nazionale Energia del Vento), Legambiente, Greenpeace e WWF che prevede:

  1. un controllo totale su territorio, flora e fauna;
  2. una costante manutenzione della viabilità di accesso al parco eolico;
  3. la dismissione totale degli impianti a fine ciclo di vita;
  4. l’esclusione delle aree a particolare pregio e tutela.

Il video è è patrocinato dall’Università degli Studi di Sassari e pone l’accento sulle potenzialità per questo tipo di energia della Sardegna – la regione più ventosa d’Italia – nella quale, però, lo sviluppo di una politica energetica basata sull’eolico è stata frenata da burocrazia, dalle resistenze dei cittadini alle modifiche del paesaggio e da interessi illeciti verso questo business.

La natura funziona ad energia cinetica e pertanto Bioimita non può che essere favorevole alla realizzazione di un buon eolico.

Verso l’eolico from Nicola Vargiu on Vimeo.

 

I leoni non sono animali violenti (2)

Il video dove Kevin Richardson (1) abbraccia i suoi leoni è commovente e dimostra che, con il rispetto, con la comprensione e con la giusta empatia basata sulla fiducia nei loro confronti, anche animali carnivori selvaggi come i leoni e le iene (biologicamente progettati ed evoluti per attaccare ed uccidere altri esseri viventi) possono dimostrare affetto verso gli esseri umani, senza aggressività e violenza gratuita.

Naturalmente quello che fa Kevin Richardson risulta essere una cosa molto pericolosa non comune che non deve essere ASSOLUTAMENTE messa in pratica da chi non abbia profonda conoscenza degli animali selvatici. Dal video, però, si capisce che con la giusta dose di rispetto reciproco, evitando forzature per scopi di divertimento attraverso addestramenti innaturali, si possono stabilire con gli animali selvatici legami di “amicizia” molto profondi.

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(1) Kevin Richardson, dopo essersi laureato in anatomia e fisiologia, ha iniziato a lavorare in un parco sudafricano che accoglieva leoni. Da allora la sua vita è totalmente cambiata perché, attraverso un metodo particolare di approccio ma anche attraverso un indubbio talento personale, ha iniziato ad instaurare con gli animali selvatici dei rapporti unici. Questo gli ha permesso anche di divulgare lo stato di grave pericolo in cui versano i leoni in Africa, dove se ne contano dai 15 ai 30 mila esemplari, numeri in forte calo rispetto ai decenni passati. Kevin Richardson è fondatore dell’associazione “The Lion Whisper” che si occupa di proteggere i leoni ed altri animali selvatici ed attualmente gestisce in Sudafrica una riserva privata: il “Wildlife Sanctuary”.

 

Aiuto! C’è un insetto negli spinaci

Addirittura un insetto negli spinaci! Aiutooooooooo!

Così strillano (o quasi) in questi giorni le locandine davanti alle edicole e titola L’Arena, il giornale di Verona.

Ma andiamo con ordine e vediamo cosa è successo. È successo che una scuola media cittadina ha segnalato la presenza di uno scarafaggio negli spinaci somministrati ai ragazzini nella mensa e, sulla questione, sono intervenute addirittura le autorità dell’Azienda che gestisce le mense comunali con comunicati e con provvedimenti che hanno portato ad eliminare l’intera partita di verdure incriminate. Inoltre il venefico insetto negli spinaci ha infiammato anche il dibattito politico vedendo, tra i contendenti, gli amministratori, l’azienda appaltatrice e l’opposizione.

“Un clima avvelenato – recita l’Arena – tanto che dopo il ritrovamento dello scarafaggio, comincia a serpeggiare (addirittura!) l’inquietante ipotesi del boicottaggio. Sempre ieri, tra l’altro, da un controllo fatto dall’ufficio refezione scolastica del Comune alle mense delle elementari N. e R., è emerso un giudizio positivo sul cibo servito. Gli stessi spinaci in tegame sono stati definiti «ottimi» in una scuola e «buoni» nell’altra. Tanto che «molti bambini», recita un comunicato di Palazzo Barbieri (la sede del Municipio, ndr), «hanno (udite, udite!) pure effettuato il bis»”. E non sono morti, dico io!

Sia ben chiaro che è assolutamente doveroso che il cibo fornito ai nostri figli nelle mense scolastiche debba essere di qualità, pulito, sicuro dal punto di vista igienico e privo di corpi estranei. Siano essi insetti o altro. Quello che mi fa sorridere (e, in parte, preoccupare) è il fatto che ci si stia accapigliando (1) per la presenza di un insetto in un piatto (che non ha mai ucciso nessuno e che, in un futuro, rappresenterà molto probabilmente una componente della nostra alimentazione abituale), mentre non si muove foglia, non si fanno locandine e non si fanno articoli per le vere cause che potrebbero rappresentare un pericolo per la salute dei nostri figli nelle mense scolastiche. Provo ad elencarle:

  1. cibi economici di scarsa qualità, con poca attenzione ai prodotti biologici;
  2. verdure con residui di pesticidi e carni con residui di antibiotici;
  3. diete non equilibrate che spesso eccedono in uso di carne, proteine animali, grassi e zuccheri;
  4. sistemi di cottura che potrebbero esporre i cibi ad inquinanti (es. teflon, metalli, ecc.)
  5. sistemi di cottura che non garantiscono il mantenimento delle proprietà dei cibi (es. vitamine);
  6. utilizzo di prodotti chimici pericolosi per le pulizie delle cucine o per il lavaggio di pentole e stoviglie;
  7. cibi serviti con piatti in materiale plastico usa e getta, non salutare in caso di cibi caldi e che produce un’enorme quantità di rifiuti non riciclabili.

Iniziare a preoccuparsi seriamente di questi VERI problemi e relegare ai margini della discussione (e dell’ansia pubblica) la presenza di un insetto nel piatto o di un moscerino in cucina contribuirebbe anche a porre importanti basi per una maggiore sostenibilità ambientale all’interno dell’enorme filiera dell’alimentazione non domestica.

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(1) Basta scorrere le cronache locali per vedere che il caso di Verona dell’insetto nel piatto non è un caso isolato di mamme preoccupate, di raccolte firme, di richieste di commissioni di vigilanza, ecc. ecc. (Pisa, Marino)

 

Una cintura… ecologica

In merito al recente ritrovamento di alcuni lupi uccisi a fucilate o massacrati a bastonate in Maremma, il giornale toscano “La Nazione” titola: “Lupi uccisi: è una guerra, non una caccia. Sospetti sugli allevatori di ovini”. Il problema – sempre secondo il giornale in questione – sono le migliaia di pecore trovate morte sgozzate o agonizzanti che hanno decimato produzione e portafogli di chi aveva nell’allevamento degli ovini l’unica fonte di sussistenza e che hanno spinto gli allevatori a passare ai fatti non rispettando più la legge o non tenendo conto dei progetti provinciali di protezione delle greggi dagli attacchi del lupo. “L’abbattimento dei lupi – ha osservato Luca Sani, Presidente della Commissione Agricoltura alla Camera – è motivo di seria preoccupazione. Tuttavia sarebbe da irresponsabili tenere la testa sotto la sabbia e non riconoscere che questa prassi rappresenta un segnale preoccupante dell’esasperazione degli allevatori”.

La notizia che ho descritto dimostra oramai una cosa che penso da tempo: la convivenza tra uomo e animali selvatici è oramai divenuta IMPOSSIBILE ed è un’utopia pensare, anche attraverso i più avanzati progetti ecologici e naturalistici, di poterla in qualche modo realizzare. Tutte le iniziative, anche se sembrano funzionare nel breve periodo, poi, con il passare del tempo, dimostrano lacune e scontri irrisolvibili tra uomo e animali. Lo dimostrano gli attacchi degli agricoltori nei confronti dei lupi in Toscana. Ma anche quelli nei confronti degli orsi in Trentino o in Germania. Per non parlare di quelli nei confronti degli elefanti e dei rinoceronti in Africa oppure quelli nei confronti di altri animali selvatici in giro per il mondo che non rientrano nella nostra dimensione comunicativa e che, pertanto, non percepiamo.

I motivi di tutto ciò sono molto semplici da comprendere: l’uomo, con i suoi 7 e passa miliardi di individui e con tutte le attività economiche ad essi correlate, si sono oramai spinti negli angoli più remoti del Pianeta, tanto da entrare in conflitto anche con ecosistemi periferici, come possono essere quelli delle montagne, della savana, della foresta più profonda e addirittura dell’Artide e dell’Antartide. Il rapporto “pacifico” che ancora vagamente perdura tra uomo e animale selvaggio è quello all’interno dei parchi naturali, ma è mediato sempre dagli interessi economici rappresentati dai turisti. Appena questi ultimi spariscono, vengono a mancare anche gli interessi per gli animali, che in pochi anni vengono a soccombere sotto l’aggressività (e la capacità omicida dovuta alle armi da fuoco) dell’uomo.

Dal momento che la biodiversità è assolutamente da difendere per preservare la sopravvivenza dell’uomo sulla Terra e dal momento che per difendere la biodiversità si devono preservare gli ambienti e gli animali selvatici, penso che l’unica strada che si possa percorrere a tale riguardo sia quella di creare delle cinture ecologiche (1) terrestri e marine sparse su tutto il Pianeta, interconnesse tra loro come una sorta di rete globale. Da tali cinture ecologiche deve essere tassativamente escluso l’uomo e tutte le sue attività economiche, senza deroga alcuna. In esse nemmeno gli scienziati vi dovranno accedere!

Solo così, in qualche centinaia di anni, si potrà sperare di ricreare degli ecosistemi selvatici, insostituibili serbatoi di biodiversità per le generazioni future e per la salute della Terra.

Ogni Paese, ogni comunità, ogni abitante del Mondo dovrà essere disposto a rinunciare a una parte del proprio territorio e ad una piccola parte di pretese economiche per costituire questa enorme cintura ecologica, azione inevitabile per garantire continuità di vita sulla Terra.

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(1) Delle caratteristiche tecniche delle cinture ecologiche ne parlerò nei dettagli in un prossimo articolo.

 

I leoni non sono animali violenti

Nel video è veramente impressionante quanto i leoni facciano al loro domatore durante uno spettacolo circense in Ucraina. Lo attaccano con una forza brutale e non desistono, nonostante le ripetute bastonate e i getti d’acqua ricevuti.

A dispetto dei commenti e dell’opinione comune, spesso frutto di pregiudizi o di antropocentrismo, i leoni non sono animali violenti. Sono solo animali carnivori selvatici.

Lasciamoli nel loro ambiente naturale (e difendiamoli lì dall’estinzione) evitando di usarli per stupidi spettacoli dove viene brutalmente violentata la loro indole.

Nell’ambito del divertimento boicottiamo tutti gli spettacoli con animali vivi!!! Non sono necessari per la qualità delle esibizioni e creano solo inutile sofferenza che spesso sfocia in violenza e aggressività.

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ATTENZIONE: alcune immagini contengono scene di violenza esplicita e potrebbero urtare la vostra sensibilità.

 

Sacchi a mare !!!

Come poter risolvere l’enorme problema dei rifiuti e dell’inquinamento del mare se fosse vero quanto riportato dal video mandato in onda lo scorso 20 dicembre della televisione brasiliana Sbt,  terza emittente televisiva del Paese per numero di telespettatori?

In pratica, secondo quanto affermato e documentato con video da parte di Sergio da Silva Oliveira, sembra che dalla nave da crociera MSC “Magnifica” siano stati gettati in mare alcuni sacchi neri in prossimità della costa brasiliana, addirittura nei pressi di un santuario naturalistico. “Non si trattava di rifiuti organici – racconta Sergio da Silva Oliveira parlando ai microfoni di Sbt – si sentiva il rumore delle bottiglie e delle lattine: una delle buste si è strappata e ne sono uscite scatole di tetrapack che sono rimaste a galleggiare in mare”.

Il presunto smaltimento irregolare dei rifiuti da parte della compagnia italo-svizzera MSC Crociere dimostra che la filiera dei rifiuti – dalla produzione dei prodotti e degli imballaggi, alla gestione del loro smaltimento una volta esaurita la loro utilità – è troppo, troppo fragile. Basta poco (e in questo caso potrebbe essere anche stato un dipendente dell’azienda poco istruito sulla gestione dei rifiuti o poco controllato dai superiori) per creare un problema ben più grave, sia per l’ambiente che per l’immagine di MSC Crociere.

Nonostante MSC Crociere affermi di essere a posto con la legislazione relativa al trattamento dei rifiuti del settore della navigazione, di essere impegnata in ambito ambientale e di aver ottenuto certificazioni riguardo a tale impegno, in ogni caso il problema dell’inquinamento, anche involontario del mare, permane.

L’unica via per combatterlo passa inevitabilmente attraverso i seguenti punti:

  • una politica di “rifiuti zero”, espressa sia in termini legislativi che culturali;
  • una legislazione orientata a favorire chi produce e chi consuma prodotti biodegradabili e a penalizzare chi non lo fa;
  • una legislazione che spinga i produttori a realizzare beni tenendo conto del ciclo di vita dei materiali, del riuso e della riparabilità degli stessi;
  • un sistema chiaro di sanzioni che penalizzi chi venga trovato ad inquinare o a smaltire illegalmente i rifiuti nell’ambiente;
  • un atteggiamento critico da parte dei consumatori che pongano, tra gli elementi di scelta di un fornitore o di un bene, non solo il prezzo o i servizi offerti ma anche le performance ambientali e di responsabilità sociale.

Solo così si verrà veramente fuori dal problema dei rifiuti e si provvederà a salvaguardare quell’enorme “pattumiera blu” che è il mare.

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Fonte: Il Fatto Quotidiano

 

La generosità del mare

Il mare è generoso, molto generoso e, prima o poi, restituisce tutto quello che gli gettiamo dentro. O come rifiuto; o come inquinamento e conseguente perdita di salute.

La gran parte dei rifiuti che il mare restituisce sono di materiale plastico: bottiglie, bidoni, bicchieri, boe, reti e chi più ne ha più ne metta (1). Un’altra parte dei rifiuti del mare sono in metallo e di materiale organico (principalmente alghe e tronchi).

Per quanto riguarda, invece, l’inquinamento, il mare non restituisce altro inquinamento. È più subdolo e restituisce sofferenza e morte per gli animali acquatici che lo popolano (e che dovrebbero fornire a noi una parte del nutrimento) e perdita di salute per gli esseri umani che abitano nelle sue vicinanze, che in esso si divertono o che si nutrono degli animali che in esso vivono.

Al di là di queste considerazioni – mi chiedo – forse un po’ troppo elaborate, mi è capitato recentemente di essere stato in vacanza in una località marittima da poco interessata da una forte mareggiata. Quello che mi ha stupito non è stato solo vedere la spiaggia piena di rifiuti e di detriti. Tanto, magari non riciclandoli, prima o poi verranno rimossi. Quello che invece mi ha stupito e profondamente turbato è stato constatare la totale indifferenza e apatìa delle persone (sia presenti in spiaggia sia di mia conoscenza) di fronte ai rifiuti presenti. Una sorta di assuefazione pericolosa che non è assolutamente positiva nell’ottica della ricerca urgente di soluzioni per la sostenibilità ambientale che, a mio avviso, oltre che attraverso soluzioni tecnologiche e produttive, dovranno passare per forza anche attraverso comportamenti individuali virtuosi e, molto probabilmente, una maggiore sobrietà di comportamenti.

Vi lascio, per ricordo, qualche foto che ho scattato nelle spiagge di Bordighera e Vallecrosia.

Rifiuti_bidone

Rifiuti_bottiglie plastica

Rifiuti_rifiuti vari

Rifiuti_rifiuti vari bianco

Rifiuti_copertone

Rifiuti_rifiuti vari blu

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(1) Gran parte dei rifiuti di plastica che il mare restituisce sono imballaggi e prodotti usa e getta. Per salvaguardarlo e per garantire VERA sostenibilità ambientale è assolutamente necessario che si provveda con urgenza a favorire – in qualsiasi modo – la produzione e il consumo di materiali plastici di origine vegetale completamente biodegradabili e si pongano limiti, di qualsiasi natura, alla produzione di materiale plastici di origine petrolifera e sintetica.