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Author Archives: Alessandro Adami

La merda nel sacchetto

Per chi sia possessore di un cane ed abbia un minimo di senso civico, afferrare quel suo caldo “prodotto” quotidiano con il sacchetto di plastica, avvolgerlo abilmente senza lasciare traccia alcuna su dita e mani e metterlo in un cestino dell’immondizia non è poi una cosa così strana. Lo è di più per chi non abbia amici a quattro zampe, ma sarà capitato un po’ a tutti di vedere qualcuno che, in un parco pubblico o sul marciapiede, abbia sfoderato abilmente il suo bel sacchetto di plastica dal guinzaglio… et voila, in pochi secondi abbia fatto sparire il fetido “prodotto”.

Sia ben chiaro che raccogliere in tal modo la cacca del cane è un segno di grande, enorme civiltà che non si deve assolutamente perdere ma, nello stesso tempo, è anche la dimostrazione che c’è qualcosa che non va nel nostro sistema di considerare il nostro posto sulla Terra, di pensare il ruolo della natura e le nostre relazioni con essa.

deiezioniMettere la cacca del cane dentro un sacchetto di plastica significa fare esattamente il contrario di quello che richiederebbe il corretto funzionamento della natura dove le deiezioni devono essere sparse (gli erbivori dove capita, i carnivori ben nascoste) per degradarsi e per fornire cibo ad insetti e batteri e, per quel che resta, i nutrimenti chimici necessari al benessere e alla crescita rigogliosa dei vegetali. Invece noi, uomini moderni ed evoluti, le inseriamo in un involucro di petrolio che verrà bruciato in un inceneritore o seppellito in una discarica, mescolato a miliardi di altri assurdi – spesso inutili – materiali.

In questo caso il problema non è dei cani: i poveri già si sono adattati a vivere in una città, non si può anche chiedere loro di fare la cacca nel water. Il problema non è neanche dei padroni dei cani: per evitare problematiche di igiene pubblica e di decoro devono per forza sporcarsi le mani (per fortuna no, i sacchetti lo impediscono) con le deiezioni dei loro amati. La questione è più profonda e risiede, invece, nel fatto – di cui poco, troppo poco si discute – che gli esseri umani e il loro amici animali sono troppi su questa terra per vivere in maniera sostenibile. Tra l’altro si stanno concentrando sempre di più (siamo arrivati a circa la metà della popolazione mondiale) a vivere in spazi – le città e le metropoli – che, almeno attualmente, nulla hanno a che fare con ecosistemi dove possano essere facilmente applicati i principi dell’ecologia.

Bisogna seriamente iniziare ad interrogarsi su come fare per diminuire, senza troppi traumi sociali, la popolazione umana presente sulla Terra perché il pianeta che abitiamo non è in grado di sopportare il nostro carico. Bisogna iniziare anche a cercare di capire come sia possibile cambiare le città nelle loro infrastrutture di base per renderle più ecologiche e per far sì che in esse possano essere applicati i principi della bioimitazione e, in particolare, quello relativo al flusso circolare delle materie; alla produzione e alla gestione dell’energia; all’aumento della biodiversità.

 

Chi è la bestia?

Indovinello di fine estate: tra l’uomo e il bufalo chi è la bestia? [vedi il video]

Dopo la pubblicazione del video e l’eco che ha avuto sui media e sul web, le scuse da parte del Consorzio Mozzarella di Bufala Campana DOP risultano un po’ ipocrite e, soprattutto, tardive. Tutti sanno che negli allevamenti e nei mattatoi industriali – almeno prima delle denunce e delle campagne di sensibilizzazione – l’etica viene lasciata un po’ in disparte per far posto al reddito. Pertanto piangere, dispiacersi e tentare di proporre soluzioni solo dopo che qualcuno, a fatica e spesso dopo aver subito violenze ed attacchi, riesce a filmare e a far venire a galla le bestialità che in vari modi vengono fatti agli animali nel “sistema” industriale, non rappresenta assolutamente la cura al problema.

Le bestialità esercitate nei confronti degli animali spariranno solo dopo che sarà cambiato modello culturale, di produzione e di consumo.

Il modello culturale deve cambiare e dobbiamo semplicemente iniziare a pensare di non essere più né gli esseri predominanti né quelli più intelligenti.

Il modello di produzione deve cambiare e dobbiamo iniziare a pensare che non sia più tollerabile  sacrificare la vita e il benessere di un essere vivente per soddisfare meri interessi economici: la vita è sacra e deve essere in qualche modo slegata dal profitto.

Il modello di consumo deve cambiare e dobbiamo iniziare a consumare meno carne per orientare la nostra alimentazione prevalentemente verso i vegetali. Oltre all’ambiente ne ricava grandi benefici anche la salute!

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ATTENZIONE: alcune immagini contengono scene di violenza esplicita e potrebbero urtare la vostra sensibilità.

 

Controsenso per le biciclette

Nel 2012 la FIAB aveva proposto al Ministero dei Trasporti che si consentisse alle biciclette di procedere in “controsenso” nelle strade a senso unico (1) e, tale richiesta, era stata approvata. Ottimo. Perché finalmente ci si rendeva conto e si dava atto che il trasporto e la mobilità in bicicletta non era un giochino per soli appassionati delle due ruote o per bambini che non possono avere altri mezzi a motore, ma si trattava di una cosa seria che, soprattutto per essere sicura (2), doveva essere gestita anche a livello normativo attraverso una modifica seria del Codice della Strada. In più non si faceva nulla di così rivoluzionario perché bastava girare un po’ per le città nel resto d’Europa, soprattutto quella del nord, per vedere che tale pratica del controsenso per le biciclette viene applicata già da tempo (3).

Finalmente, dopo due anni di discussioni in Commissione Trasporti della Camera dei Deputati, la cosa sembrava fatta e ci si apprestava a stappare le bottiglie di champagne oramai impolverate quando, udite udite, su proposta di Scelta Civica (un partito politico che è ancora in Parlamento ma che ha un consenso assolutamente risibile), è stato approvato un emendamento che, di fatto, cancella il controsenso ciclabile.

Il relatore dell’emendamento a favore dell’introduzione del controsenso per le biciclette e portavoce delle istanza della FIAB era stato Paolo Gandolfi (PD) che aveva raccolto in via informale i consensi degli altri membri della commissione circa la votazione. Erano d’accordo tutti ma, poi, lo scorso 4 agosto qualche cosa è andato storto e, sembra a causa di presunte osservazioni da parte dei rappresentanti delle Polizie Municipali e della Polizia Stradale che hanno addotto ragioni di maggiore pericolosità delle strade dove le biciclette procedono in controsenso, quasi tutti i partiti hanno fatto marcia indietro… et voila. Siamo ancora al punto di partenza!

In realtà, da studi condotti a livello europeo, si può osservare che i tassi di incidenti sono molto elevati nelle strade con traffico tradizionale, mentre sono esigui in quelle in cui vige il controsenso per le biciclette. Il motivo di ciò è molto semplice e intuitivo: sulla strada ci sono più utenti, tutti lo sanno in maniera chiara attraverso i cartelli e, di conseguenza, tutti stanno molto più attenti e moderano la velocità.

A me personalmente sembra che più che per motivi di sicurezza la mancata approvazione dell’emendamento sia piuttosto frutto di due ragioni: la lobby molto articolata delle moto/auto che non vuole perdere il predominio sulle strade, anche urbane; l’ignoranza di fondo e la mancata analisi scientifica della politica che si informa poco e che vota più secondo quanto orienta il partito (vedi punto precedente relativo alle lobby) che sulla base della coscienza personale.

Vista la lentezza e l’incapacità di gestire una cosa così semplice come il controsenso per le biciclette, mi vengono i brividi a pensare che questi stessi amministratori pubblici dovrebbero anche decidere su temi ben più importanti e significativi per il nostro benessere futuro come le grandi opere infrastrutturali, l’energia, il cambiamento climatico, il consumo del territorio, l’alimentazione.

Per non pensarci troppo è meglio che vada a farmi un bel giro in bicicletta…

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(1) È ammessa la circolazione in bicicletta nei due sensi di marcia nelle strade a senso unico, su strade larghe almeno 4,25 metri, in zone con limite di 30 km/h, nelle zone a traffico limitato e in assenza di traffico pesante. In sostanza si da’ ai ciclisti la possibilità di procedere nel senso inverso a quello delle auto in strade ben specifiche: aree con limiti di 30 km/h su vie a senso unico sufficientemente larghe e sempre a discrezione del sindaco, in funzione alle esigenze del traffico locale.
(2) Vedi fenomeno del salmoning
(3) Sul palo del segnale stradale di divieto di accesso delle strade ad un senso di marcia viene applicato un cartello integrativo con la scritta “eccetto bici” (vedi foto: Parigi).

 

Lifefactory | Bottiglie riutilizzabili e biberon

Lifefactory è nata negli USA nel 2007 quando Pam Marcus, una pediatra specializzata in alimentazione e Daren Joy, un designer, si sono incontrati per sviluppare una linea di biberon che fossero salutari, sicuri, sostenibili dal punto di vista ambientale e, perché no, anche belli da vedere. Per ottenere i risultati desiderati i due imprenditori hanno focalizzato la loro attenzione su:

  • Contenitore in vetro borosilicato: facilmente riciclabile, prodotto da un materiale naturale abbondante, pulito, senza residui chimici pericolosi (BPA, BPS e ftalati) (1);
  • Guscio protettivo (senza BPA e BPS) che, in caso di urti o di cadute, eviti che il vetro abbia scheggiature e da rotture;
  • Tappi in polipropilene (senza BPA e BPS; senza ftalati) che, in sicurezza, possano venire in contatto con qualsiasi cibo o bevanda;
  • Tettarelle dei biberon in silicone medico (senza BPA e BPS; senza ftalati).

Mano a mano che il progetto cresceva nel tempo è stata abbandonata la sola linea di produzione di biberon ed è stata estesa ad altri ambiti la linea dei prodotti offerti. Infatti Lifefactory, garantendo le stesse qualità dei biberon, ora produce anche:

  • bicchieri
  • borracce e bottiglie
  • contenitori per alimenti

life-factory

La sostenibilità ambientale dei prodotti Lifefactory è principalmente legata al fatto il vetro, un materiale totalmente atossico, facilmente lavabile e igienizzabile nonché prodotto mediante un processo relativamente semplice con una materia abbondante sia stato pensato per essere utilizzato più e più volte senza spreco di imballaggi usa e getta in un ambito diverso da quello domestico e possa essere portato con sé in totale sicurezza. Tale sicurezza è legata al fatto che il contenitore è ricoperto da un guscio protettivo in silicone che garantisce che il più grande difetto del vetro – l’elevata fragilità agli urti – sia evitato o fortemente limitato per le principali situazioni di uso comune.

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(1) BPA = Bisfenolo A; BPS = Bisfenolo S

 

Chi conosce il pangolino?

Anch’io, che sono un appassionato di animali e quando ero bambino letteralmente “divoravo” libri che ne parlavano e ne riconoscevo una grande quantità fin dalla tenera età, faccio fatica a mettere a fuoco il pangolino. So, bene o male, che forse potrebbe assomigliare vagamente ad una specie di faina ma non ne ricordo bene né il colore e nemmeno ricordo l’habitat in cui vive e di cosa si nutre. Non so neanche bene di che taglia sia. In effetti è un animale di cui si parla poco e che non rientra nemmeno nell’immaginario dei bambini, libri o peluche che siano. Con i nostri figli non ne imitiamo il verso e nemmeno facciamo riferimento ai suoi difetti o alle sue virtù. E questo ci aiuterebbe a riconoscerlo anche a noi adulti.

In effetti si tratta, ora che ho approfondito, di un mammifero un po’ particolare visto che è l’unico che al posto del pelo è dotato di scaglie protettive che lo ricoprono quasi interamente e che gli consentono di appallottolarsi per difendersi in caso di minaccia e di attacco. Esso è una specie di formichiere che vive un po’ ovunque nelle zone tropicali, dall’Africa all’Asia e ne sono stati rinvenuti fossili in Europa e in America settentrionale, a conferma della sua passata ampia diffusione.

Il pangolino, come tanti animali ora che l’uomo è diventato predominante e che ha colonizzato tutti gli ecosistemi, è un animale classificato prossimo all’estinzione da parte dell’IUCN (International Union for the Conservation of Nature and Natural Resources) (1). Le ragioni di tale stato compromesso di conservazione risiedono, purtroppo, sempre nelle due tipiche cause che lo determinano e che lo hanno determinato anche per altri animali: il commercio illegale per ragioni ludiche e la caccia sia per la prelibatezza della carne che per il presunto uso medicinale (nella medicina tradizionale cinese) delle scaglie. Si pensi, ad esempio, che in Vietnam 1 kg di pangolino può arrivare a costare addirittura 200 dollari.

Come osserva il giornale britannico The Guardian, il problema del pangolino è che, soprattutto in alcune aree del mondo come Vietnam e Cina meridionale, oltre ad essere utilizzato nella medicina tradizionale, la sua carne viene considerata una prelibatezza e mangiarlo è considerato una sorta di status symbol che dimostra ricchezza e conferisce una certa posizione sociale. Per tale assurda ragione si calcola che negli ultimi 10 anni siano stati cacciati e uccisi illegalmente più di un milione di pangolini. Questa situazione alimenta, inoltre, sempre di più il bracconaggio e lo estende anche in aree geografiche dove il pangolino non è generalmente cacciato per la sua carne: l’Africa.

Dopo essere venuti a conoscenza di ciò, chi può ancora osare di definire l’uomo “l’essere superiore”? Chi può ancora sopportare di sentire definire l’uomo “l’essere intelligente”? Io personalmente provo disgusto per l’assurdità di questa umana ignoranza – fatta di credenze, superstizioni ma anche di mancata conoscenza del ruolo che hanno gli animali nel mantenimento della salute e dell’equilibrio del Pianeta – e ribadisco la necessità che la biodiversità venga difesa strenuamente non solo da parte degli zoologi, degli scienziati e degli ambientalisti, ma anche che coinvolga, più in generale, il sistema culturale e produttivo attraverso pratiche che la insegnino alle persone e che non contribuiscono, anche solo indirettamente, alla sua distruzione.

È anche troppo semplicistico dire: “E io cosa posso fare?“. Anche se, immagino, non facciamo uso di carne di pangolino, cerchiamo di far sentire la nostra voce, facciamo o aderiamo a campagne di sensibilizzazione e mostriamo profonda indignazione verso tali pratiche, magari anche solo insegnando ai nostri figli il dovere di rispettare gli animali, tutti gli animali, al di là dei soliti animali domestici.

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(1) IUCN – Comitato italiano

 

Cooperativa Osiris | Prodotti agricoli

La cooperativa Osiris – che prende il proprio nome dalla dea della fertilità – è una tra le più significative realtà europee che operano nell’ambito dell’agricoltura biodinamica. Essa è stata fondata nel 1988 da un gruppo di agricoltori che, avendo iniziato ad interrogarsi sull’efficacia e sulla pericolosità dell’agricoltura “moderna” fatta di forza e di chimica, avevano prima fondato un gruppo di studio e, da pionieri, avevano iniziato, già dall’inizio degli anni ’80, a praticare l’agricoltura biodinamica. Siamo in Alto Adige, in provincia di Bolzano, nella vallata compresa tra Termeno, Egna e Ora il cui paesaggio è costellato da una distesa quasi infinita di frutteti, soprattutto mele, ma anche vigneti. Lo scopo della cooperativa era chiaro già dall’inizio: la creazione di una struttura di produzione e di marketing completamente indipendente dal sistema industriale della produzione e della distribuzione agricola, allo scopo di garantire ai consumatori sia l’origine che la qualità dei prodotti offerti.

Cooperativa Osiris_01

Nella campagna dei soci della cooperativa Osiris la natura, guidata e non limitata dalla mano dell’uomo, trova lo spazio di potersi esprimere e tutto dà l’impressione di essere una specie di “disordine ordinato”. Nelle campagne si sente un forte profumo, dato dalle mille erbe spontanee che circondano le piante e che vengono lasciate crescere nelle bordure e nei cespugli e si sentono cinguettare numerosi uccelli di specie diverse che trovano un ambiente ospitale e nutrimento dato dagli insetti che, senza tregua, si posano sui fiori o volano nell’aria.

Il gruppo di studio sulla biodinamica è ancora il motore e il centro di ricerca della cooperativa Osiris che oramai ha acquisito esperienza e ha sviluppato importanti tecniche produttive nell’ambito dell’agricoltura biodinamica e che oggi esporta i suoi prodotti in tutta Europa. Tra questi prodotti, a fianco delle originarie mele e pere, sono stati introdotti anche piccoli frutti di bosco (mirtilli, lamponi, ribes, ecc.), il succo di mela e detersivi per la casa e per la persona, a base di aceto di mele. Il prodotti della cooperativa Osiris sono certificato Demeter, Codex e GlobalG.A.P.

Attualmente la cooperativa Osiris ha la propria sede a Postal (BZ).

 

Al supermercato con la bisnonna

Quando andate al supermercato andateci sempre accompagnati dalla vostra bisnonna (immaginatevela con voi se non ce l’avete più) e tutto quello che la vostra bisnonna non riconosce come cibo… non compratelo. Leggendo l’etichetta, se ci sono sostanze che lei non capisce cosa siano… non compratelo. Se ci sono più di 5 ingredienti… non compratelo. Se c’è scritto che fa bene alla salute… non compratelo!!!

Questo è quanto osserva – mutuando le raccomandazioni di Michael Pollan – con la sua proverbiale ironia e sagacia il prof. Franco Berrino, epidemiologo dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano dove dirige il dipartimento di medicina preventiva e predittiva..

In sostanza per vivere sani e in salute – e, magari, per scongiurare il più possibile il rischio di essere vittima di un tumore o di una grave patologia metabolica – è necessario consumare cibo sano ma, soprattutto, semplice, non raffinato e, di base, proveniente dal mondo vegetale. Questa pratica, che è anche molto sostenibile dal punto di vista ambientale, si rifà pienamente ai principi della bioimitazione.

Cosa dire allora: il vero progresso e la salute generale di un popolo passa per forza attraverso la natura (cibo sano), il suo rispetto (cibo vegetale) e l’imitazione del suo funzionamento (cibo semplice e non raffinato). Cosa aspettiamo a cambiare atteggiamento e a percorrere con maggiore convinzione questo cammino semplice e così rivoluzionario?

 

L’insostenibilità delle stampanti 3D

Si sente parlare, sempre più spesso, delle stampanti 3D e della “quarta rivoluzione industriale” che esse potranno avviare. Ne parla ovviamente in tono entusiastico l’industria tecnologica attraverso i suoi numerosi canali informativi. Ne parla il giornalismo economico che spera in un nuovo effetto di spinta all’economia, tipo quello che è successo con i computer, con i telefoni cellulari e con gli smartphone. Ne parla anche la politica, soprattutto quando si tratta di affrontare temi legati alla creazione di posti di lavoro e di comunicare, ad un certo elettorato, anche i possibili effetti positivi nei confronti dell’ambiente.

Siamo sicuri, però, che le stampanti 3D siano la panacea di tutti i mali che affliggono la società dei consumi e siano la vera soluzione a tutti i problemi di insostenibilità industriale? Siamo sicuri che saranno veramente in grado di rendere disponibili a tutti le tecnologie, soprattutto quelle costose che interessano il campo medico e ingegneristico? Siamo sicuri che saranno in grado di creare occupazione ma, soprattutto, di limitare la produzione di rifiuti e di costruire quella tanto agognata economia dal basso a cui fa riferimento anche il movimento ambientalista? Io, personalmente, e in particolare relativamente agli obiettivi di sostenibilità ambientale, manifesto numerosi dubbi (1).

Innanzitutto le stampanti 3D – per lo meno la tecnologia attualmente disponibile – riescono ad ottenere i vari prodotti attraverso l’uso di materiali di natura petrolifera (come le plastiche) e di resine sintetiche varie che nulla hanno a che fare con la sostenibilità ambientale. Questi materiali, a fine vita dei prodotti, produrranno rifiuti difficilmente riutilizzabili e riciclabili che dovranno essere correttamente gestiti e smaltiti. E, anche quando le stampanti 3D producono beni in metallo, utilizzano una risorsa non rinnovabile ed esauribile, con tutte le conseguenze ecologiche che questo comporta.

A mio avviso il vero problema dell’economia dei consumi – che utopisticamente si spera di risolvere attraverso un demiurgo tecnico, una nuova soluzione creatrice qual è la stampante 3D – è rappresentato, invece, più banalmente, dalla responsabilità personale e dai comportamenti individuali. La vera soluzione non sta nel far produrre in modo diverso prodotti che incorporano dei vecchi problemi ma produrre, anche con le vecchie tecnologie, prodotti che incarnino un approccio completamente nuovo alla progettazione e all’uso dei materiali. La vera soluzione è ripensare anche alla vera utilità individuale e sociale dei beni ed educare i cittadini sia ad un’idea di sobrietà nei loro consumi – molto spesso inutili – sia a fare uso di prodotti che siano già stati usati e, magari, anche già più volte riparati. In questo modo si potrebbe creare una nuova economia, sì certo, apparentemente più semplice, ma che, nello stesso tempo, è più condivisa e che armonizza la società diffondendone i saperi.

Non si tratta affatto di pensare che il passato fosse tutto positivo e che la modernità sia per forza un male. Non si tratta nemmeno di anelare ad una condizione umana fatta di precarietà e di sole limitazioni. Si tratta solo di riprogettare il futuro traendo spunto anche dal passato e da quello che di buono è stato prodotto. Dai miei numerosi viaggi ho visto che l’economia dei popoli “poveri” (2) – al netto dei problemi che devono essere senza dubbio risolti – può rappresentare anche un interessante spunto da prendere in mano e da rivisitare in una nuova e interessante chiave applicativa.

Sulla base di ciò delle stampanti 3D che producono oggetti inutili (fino ad arrivare a produrre anche sé stesse) e che, date le attuali premesse, ripeteranno i problemi del passato, possiamo sinceramente volentieri farne a meno!

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(1) I dubbi li manifesto non perché sono contro le stampanti 3D a prescindere ma pechè desidererei che venissero impiegate veramente nella direzione che molti hanno sperato: quella della sostenibilità ambientale e dell’armonia sociale.

(2) La “povertà” a cui faccio riferimento non è un valore assoluto ma è un concetto esclusivamente monetario. Purtroppo mi serve per descrivere, ai nostri occhi “occidentali”, un determinato contesto economico e sociale anche se sono convinto che quelli che genericamente indichiamo come popoli “poveri” non lo siano veramente ma, anzi, che, forse forse, i veri “poveri” (di empatia, di solidarietà, di senso di comunità, di sentimenti, di semplicità) siamo noi.

 

Slow Water | Irrigazione sostenibile

La nostra missione è diffondere pratiche di irrigazione sostenibile legate al risparmio idrico e alla salvaguardia dell’ambiente”.

Quando l’acqua scarseggia… Le ampolle interrate vengono riempite d’acqua… Inumidiscono il terreno circostante senza dispersioni… Le piante crescono rigogliose.

Così recita il sito di Slow Water, un progetto ideato dall’architetto Giacomo Salizzoni che lo ha messo in pratica e fatto funzionare a Borgo Pinti, Firenze, all’interno di un orto comunitario ricavato in una vecchia pista di atletica in disuso. Si tratta, in sostanza, nella tecnica di interrare delle ampolle di terracotta e sfruttare la naturale porosità di questo materiale per mantenere costantemente umido il terreno risparmiando fino al 70% di acqua.

Slow-Water-Cartello

Il sistema, nel suo complesso, risulta molto efficiente: le anfore interrate e tappate nella parte superiore a vista rilasciano l’acqua gradualmente nel terreno e le piante che sono posizionate vicino possono sfruttare l’umidità che si ottiene per crescere rigogliose senza aver per forza bisogno di ingenti irrigazioni. Con questo metodo si riesce a risparmiare molta acqua perché si evita l’evaporazione della stessa a causa del calore e del sole e si è in grado di fornire alle radici delle piante anche un apporto aggiuntivo di ossigeno, che passa al terreno sempre attraslow_water_irrigazione_sostenibileverso la porosità della terracotta e che contribuisce a farle crescere rigogliose e sane.

La tecnica di sotterrare delle ampolle di terracotta per irrigare il terreno non è assolutamente un’invenzione moderna ma è molto antica e risulta ancora utilizzata in alcune regioni del mondo, come Cina, Messico, Pakistan e India.

 

Per l’EEA l’innovazione ecologica sarà la leva per la competitività europea

Mentre la nostra politichetta nazionale e la nostra economia da quattro soldi bucati si scervella su come aumentare le trivellazioni di petrolio, su come impiegare il carbone, su come finanziare gli inceneritori, su come fare buchi (cave) e riempire tutti i pori liberi del territorio di cemento, nel suo rapporto “Resource-efficient green economy and EU policies” l’Agenzia Europea per l’Ambiente (European Environment Agency – EEA) osserva, invece, che la green economy è, attualmente, l’unico approccio strategico che consenta ad una società più giusta di vivere in un ambiente migliore. Secondo l’EEA l’approccio della green economy consente di raggiungere tre obiettivi:

  • Contribuire al miglioramento nell’uso efficiente delle risorse
  • Assicurare la resilienza degli ecosistemi
  • Ottenere una società più equa.

Come fa notare il Rapporto dell EEA, durante la crisi finanziaria del 2008, la green economy si dimostrò essere l’approccio che fu in grado di risolvere due importanti problemi: il generale rallentamento dell’economia e la conseguente perdita di posti di lavoro; il continuo deterioramento dell’ambiante naturale, particolarmente evidente nell’ambito dei cambiamenti climatici e nel degrado degli ecosistemi. Questo doppio risultato spinse gli Stati europei a cercare di sviluppare politiche di recupero basate sulla green economy. Tuttavia – e purtroppo, dico io – mentre l’obiettivo politico si preoccupava, contemporaneamente, anche della salvaguardia degli aspetti fiscali e alla gestione degli enormi debiti pubblici, il concetto della green economy iniziò a perdere la propria forza all’interno di politiche macroeconomiche solo di breve periodo.

Come spiega Hans Bruyninckx, il direttore esecutivo dell’EEA: “L’innovazione può essere lo strumento più importante per cambiare il modo inefficiente con il quale attualmente utilizziamo le risorse. L’innovazione ambientale è la chiave per affrontare le sfide del 21° secolo. Se vogliamo vivere bene entro i limiti ecologici del pianeta avremo bisogno di affidarci all’inventiva dell’Europa. Non solo nuove invenzioni, però, ma soprattutto incoraggiare l’adozione e la diffusione di nuove tecnologie verdi (eco-tecnologie), scelta che potrebbe rivelarsi essere ancora più importante”.

Sempre Hans Bruyninckx osserva: “Un’altra leva per migliorare l’efficienza delle risorse potrebbe essere rappresentata dalla riduzione delle tasse sul lavoro come l’imposta sul reddito e, piuttosto, tassare l’uso inefficiente delle risorse e l’inquinamento ambientale. Tali imposte ambientali potrebbero promuovere la creazione di nuovi posti di lavoro, dal momento che si osserva che i Paesi con le tasse più alte nel settore ambientale sembrano avere un’economia e una competitività migliore rispetto agli altri”.

Sulla base di queste autorevoli affermazioni mi chiedo cosa ci voglia ancora per convincere i nostri rappresentanti che l’unica strada per recuperare la competitività e creare lavoro sia quella della green economy e del capitalismo naturale.

 

2067. La fine del petrolio

La BP (British Petroleum) non è certo la più rivoluzionaria delle aziende e nemmeno la più ecologica presente sul mercato. Si tratta, piuttosto, di una delle più importanti aziende energetiche a livello mondiale, operante prevalentemente nel campo del petrolio e del gas naturale.

Eppure, nella 63^ edizione della Statistical Review of World Energy, proprio la BP ha recentemente affermato che, sulla base dell’attuale tasso di produzione, alla fine del 2013 erano disponibili riserve di petrolio equivalenti a 1.687,9 miliardi di barili. Il che equivale, in pratica – a meno che il tasso attuale di consumo non cali drasticamente – al fatto che l’umanità ha a disposizione petrolio per altri 53 anni (fino al 2067, mese più mese meno) (1) che saranno in grado di soddisfare, al massimo, un paio di generazioni di uomini capricciosi e sedentari.

È da osservare anche il fatto che, mentre nel 2013 i consumi mondiali sono cresciuti dell’1,4%, la produzione, invece, ha visto un incremento solo dello 0,6%, pari a poco meno della metà. La maggiore crescita nei consumi, poi, si è avuta negli USA con un incremento di 400 mila barili di petrolio al giorno superando, per la prima volta dal 1999, la Cina ferma a 390 mila barili. A livello di incremento delle riserve di petrolio i migliori risultati li ha raggiunti la Russia con 900 milioni di barili annui seguita dal Venezuela con 800 milioni. Un’ultima osservazione riguarda, poi, il prezzo del barile di petrolio (che poi influenza il prezzo di vendita dei carburanti per l’utente finale) che, negli ultimi 3 anni, è rimasto sempre al di sopra dei 100 dollari a barile, dato che è significativo per dimostrare che oramai il petrolio è un bene sempre più difficile da reperire e oggetto di speculazione finanziaria.

Che cosa significa tutto ciò? Significa che l’ubriacatura dell’energia “facile” (da produrre, da stoccare, da trasportare e relativamente poco pericolosa) sta finendo (cosa saranno mai un paio di generazioni?) e, alla fine, se non saremo in grado di anticipare seriamente già ora le soluzioni per il futuro, a terra potranno rimanere solo macerie.

Cosa potrebbe accadere se in pochi anni dovesse raddoppiare il prezzo del petrolio? Cosa potrebbe accadere a livello economico e sociale se in breve tempo dovessero fallire gran parte delle aziende produttrici di automobili, già ora in crisi? Cosa potrebbe accadere se, in questi 20/30 anni che ci separano dalla vera crisi petrolifera, la tecnologia non sarà stata in rado di dare delle risposte accettabili in termini di energia per il settore dei trasporti? Cosa potrebbe accadere a livello geopolitico se tra qualche decennio le riserve di petrolio saranno nelle mani di pochi paesi e di poche persone?

Forse sarebbe meglio cercare, già da ora, di mettere in atto azioni che ci portino “dolcemente” verso: l’abbandono del petrolio (possibilmente molto prima che si esaurisca); il tramonto del mercato automobilistico e del sistema di trasporti come lo abbiamo conosciuto sino ad ora. Ne beneficerebbe anche l’ambiente e il clima. Bisogna, ad esempio, iniziare ad educare alla sobrietà nei consumi e disincentivare fortemente, attraverso un’elevata tassazione, le auto inquinanti e l’uso di energie inquinanti. Bisogna spingere le persone ad usare più mezzi pubblici, evitando innanzitutto la frequentazione dei centri storici delle città da parte alle auto private. Bisogna far sì che le persone accettino nuove forme di condivisione dei trasporti, nuove forme di mobilità e nuove forme di approvvigionamento energetico per le auto.

In pratica il sistema dei trasporti deve essere riprogrammato sin da ora e ogni anno di ritardo che ci separa dal fatidico 2067 rappresenterà una maceria in più che troveremo sul terreno della nostra stupidità.

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(1) Nell’articolo “E se finisse il ferro” la USGS (United States Geological Survey) ipotizzava il 2050 come anno di esaurimento del petrolio

 

Sarà lui la soluzione o sarà lui il problema?

È impossibile andare a parlare di energia e ambiente in Europa se nel frattempo non sfrutti l’energia e l’ambiente che hai in Sicilia e in Basilicata. Io mi vergogno di andare a parlare delle interconnessioni tra Francia e Spagna, dell’accordo Gazprom o di South Stream, quando potrei raddoppiare la percentuale del petrolio e del gas in Italia e dare lavoro a 40 mila persone e non lo si fa per paura delle reazioni di tre, quattro comitatini”. (1)

Diceva di voler cambiare il Paese ma, purtroppo, il suo pensiero sa ancora di vecchio, di stantio. Sa di muffa, quella patina che avvolge le cose, per un po’ le conserva e sembrano buone ma poi… puff… le fa avvizzire improvvisamente!

Sinceramente da un giovane politico, con così tanta fiducia tra la gente, mi aspettavo qual cosina in più in termini di energia e ambiente.
Anche se le premesse negative sull’argomento c’erano tutte [vedi il video], non mi sarei mai aspettato che volesse fondare lo sviluppo del futuro del Paese su qualche bucherello per estrarre miseri barili di petrolio di bassa qualità e gli stesse così poco a cuore l’ambiente da avere in testa solo l’idea di sfruttarlo, non di proteggerlo.

Caro Matteo Renzi, quello che serve veramente per il futuro del Paese non è il defunto petrolio, ma sono le energie rinnovabili che sono in forte crescita in tutto il mondo. Caro Matteo Renzi per far ripartire il paese e la fiducia delle persone non è sufficiente il regalo temporaneo di qualche decina di euro o la promessa di fantomatici posti di lavoro (2) nelle fonti fossili che, se ci saranno, avranno durata breve. Quello che veramente serve è il fatto di CREDERE e di sostenere chi ha nuove e buone idee, lasciando da parte le vecchie lobby di potere che incancreniscono il sistema e infestano la politica. Caro Matteo Renzi, se vuoi veramente essere un amministratore innovativo e intelligente, per cambiare il Paese e creare occupazione devi andare in Europa e dire che, a partire da ora, l’Italia investirà solo sulle energie rinnovabili e che la combustione per la produzione di energia sarà solo un metodo temporaneo che andrà pian piano ad esaurirsi.
In ballo, caro Matteo Renzi, c’è il futuro e la salute dei nostri figli. Anche dei tuoi.

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(1) Intervista di Matteo Renzi al “Corriere della Sera” del 13 luglio 2014

(2) il dato dei 40.000 posti di lavoro in Italia nell’estrazione del petrolio deriva dall’Assomineraria, che non si può dire sia del tutto indipendente e super partes sull’argomento.

Immagine: Pawel Kuczynski

 

Il paradosso del pomodoro

Qualche anno fa, in Francia, due camion fecero uno scontro frontale terribile. La cosa non è strana, ne capitano tutti i giorni. Quello che è particolare, nell’incidente, è il fatto che entrambi i mezzi lasciarono sull’asfalto il medesimo prodotto: pomodori. Il paradosso è poi il fatto che un camion viaggiava da nord a sud e trasportava pomodori dall’Olanda a Barcellona e l’altro viaggiava da sud a nord e trasportava, sempre pomodori, da Almeria, in Spagna, all’Olanda.

Questa storia, che viene attribuita al contadino e filosofo francese Pierre Rabhi, è in grado di descrivere meglio di mille ricerche scientifiche e meglio di mille marce ambientaliste la follia che sta dietro al sistema della grande distribuzione organizzata (GDO) delle merci e dei trasporti delle stesse. Ci spiega, senza troppi giri di parole, che è un’assurdità il fatto che, alla ricerca del prezzo più basso di produzione con l’idea della sola massimizzazione dei profitti in un’agricoltura industriale, si possano produrre beni alimentari dove più conviene, per poi trasportarli in giro per il mondo, magari anche a discapito della qualità.

Se si vuole perseguire la vera sostenibilità ambientale I cibi devono essere prodotti e consumati localmente, magari creando rapporti di fiducia diretti con i produttori. A cosa serve coltivare (e consumare) le mele biologiche se poi il mercato di vendita è a 10.000 km di distanza? A cosa serve pagare un chilo di pomodori pochi centesimi di euro se poi non hanno gusto e la loro buccia è così dura (per ragioni di conservazione) che non si riesce a provare il piacere di addentarli? A cosa serve mangiare in primavera le vitamine di una pera che viene dal Cile se poi ci inquina indirettamente con i residui dei trasporti?

L’incidente dei camion di pomodori e l’assurdità che lo caratterizza dimostra bene questo paradosso ed è buona cosa che noi consumatori, attraverso le nostre scelte, vi poniamo fine. A tale proposito Pierre Rabhi è solito raccontare un’altra storia, quella del colibrì. “Un giorno – secondo tale storia – vi è un immenso incendio nella foresta. Tutti gli animali rimangono atterriti e impotenti di fronte a tale disastro e, tra loro, solo il piccolo colibrì è infaticabile nel trasportare con il suo piccolo becco l’acqua per spegnere il fuoco. Ad un certo punto l’armadillo, in tono sarcastico, gli chiede il perché di tale agitazione, visto e considerato che non saranno quelle piccole gocce sufficienti a spegnere l’incendio. Con molta naturalezza il colibrì gli risponde che sì, lui lo sa, ma vuole comunque fare la sua parte”.

 

Il peso dell’uomo

Qualche anno fa (novembre 2011) l’umanità ha superato la barriera dei 7 miliardi di individui, una cifra obiettivamente molto difficile da immaginare. Se si pensa che la città di Milano ha circa 1.350.000 abitanti (1), per raggiungere tale cifra di città di Milano ce ne vorrebbero ben 5.185. Se si pensa che l’Italia ha circa 60 milioni di abitanti, per raggiungere tale cifra ci vorrebbero ben 116 Italie.

Sulla base di questi dati impressionanti vi siete mai chiesti quale sia il peso totale dell’umanità in rapporto alle altre specie viventi? Quanti siamo in rapporto alle formiche, agli elefanti, ai batteri e alle piante? Il dato, per chi come me tenta di occuparsi di sostenibilità ambientale attraverso la bioimitazione, è molto importante perché rappresenta un indicatore significativo della biodiversità presente sul Pianeta e dell’impatto che l’uomo ha sull’equilibrio – meglio, sul disequilibrio – della Terra.

In totale l’umanità, con i suoi 7 miliardi di individui, ha una biomassa di 350 Mt. Le formiche, stimate in un numero di animali pari a 10 miliardi di miliardi, hanno una biomassa di 3.000 Mt, pari poco meno a 10 volte quella umana. Gli elefanti, in numero di 500.000 esemplari, rappresentano una massa di 1 Mt, i batteri hanno una biomassa pari a 1 milione di Mt (circa 2.857 volte maggiore di quella degli esseri umani) e le piante hanno una biomassa di 570.000 Mt (560 le piante terrestri e 10 quelle marine).

Al di là delle singole cifre, interessanti ma molto distanti da quanto siamo soliti immaginare, il dato veramente impressionante è rappresentato dal fatto che, rispetto ai soli mammiferi terrestri la cui biomassa totale è di 1.230 Mt, la biomassa dell’uomo, con gli animali di allevamento che utilizza per il proprio nutrimento, rappresenta il 96% del totale. Di questa i soli uomini rappresentano il 28% e gli animali da allevamento il restante 68%. Ai mammiferi terrestri selvatici, che hanno una biomassa di sole 33 Mt, rimane il restante misero 4%.

Il peso dei mammiferi terrestri

Per tradurre: gli animali selvatici non esistono praticamente più! Quei pochi che restano sono relegati nei parchi, sulle montagne e nei luoghi più inospitali e l’uomo è così invasivo nel “Sistema Terra” non solo da mettere seriamente a repentaglio la biodiversità (concetto forse un po’ troppo astratto) ma anche da mettere seriamente in discussione la propria sopravvivenza per eccesso di pressione sugli ecosistemi secondo il principio dell’overshooting and collapse mode.

Se non vogliamo fare la fine della rana nella pentola (2) è necessario che iniziamo sin da ora a mettere in campo azioni correttive che possano garantire, da un lato, la difesa della biodiversità così tanto sottovalutata nel suo contributo alla sopravvivenza e al benessere della specie umana e, dall’altro, alla ricerca di soluzioni che possano far diminuire la pressione antropica.

Per ottenere il primo obiettivo è necessario che si inizi seriamente a ragionare sulla creazione di una cintura ecologica globale (di cui ho già parlato qui) che funga da incubatore e da serbatoio della biodiversità. Questo è solo il punto di partenza di un progetto che deve poi evolvere verso la piena convivenza tra l’uomo – e la sua curiosità esplorativa che si manifesta attraverso le attività economiche – e gli animali selvatici.

Per ottenere il secondo obiettivo è necessario che si inizi, in primis, a rimodulare le fonti di approvvigionamento del cibo orientandole maggiormente verso il consumo di vegetali e a rompere il tabù economico-religioso per mettere in campo politiche serie e lungimiranti orientate all’obbiettivo del calo demografico della popolazione umana mondiale.

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Mt = Milioni di tonnellate

(1) Fonte Wikipedia per il solo Comune di Milano e non per l’intera area urbana.

(2) Si immagini una pentola piena d’acqua fredda dove nuota allegramente una rana. Sotto la pentola viene acceso un fuoco e l’acqua si riscalda molto lentamente. Mentre l’acqua diventa tiepida la rana la trova piuttosto gradevole e continua a nuotare spensierata. Quando l’acqua diventa calda la rana inizia a sentirsi un po’ stanca ma non si spaventa più di tanto. Mentre l’acqua diventa sempre più calda la rana la trova sempre più sgradevole ma è troppo indebolita per reagire e, allora, sopporta senza fare nulla fino al lento sopraggiungere della sua morte. Se la rana fosse stata buttata direttamente nell’acqua calda avrebbe fatto un balzo e sarebbe immediatamente saltata fuori dalla pentola. Quando un cambiamento avviene in modo sufficientemente lento, sfugge alla coscienza e non suscita alcuna reazione, opposizione o rivolta…

Foto: by Prignanese

Immagine: Traduzione di un’immagine pubblicata da Randall Munroe sul sito xkcd e basata sui dati dell’opera di Vaclav SmilThe Earth’s Biosphere: Evolution, Dynamics and Change

 

Bello o brutto?

Qualche mattina fa, a Verona, mi trovavo a percorrere una piacevole strada panoramica urbana sul fiume Adige. Mentre aspettavo il mio turno fermo al semaforo il mio sguardo fu attratto da dei bellissimi fiori gialli che svettavano alti e imponenti tra gli steli d’erba e tra le margherite nei pressi del ciglio stradale, ad un paio di metri da me. Il ciglio stradale e l’argine ne erano pieni e lo spettacolo era veramente notevole. Purtroppo, però, bisogna rassegnarsi al fatto che le cose belle hanno breve durata e, come per magia, poco avanti c’erano anche due operai vestiti di tutto punto, con i loro bei giubbini catarifrangenti arancio, con i loro bei caschetti, le cuffie, il paraocchi e i guanti, armati di decespugliatori a filo che… broom… broom tagliavano tutti i vegetali e tutti i fiori che trovavano sul loro cammino, facendone tabula rasa.

Argine Adige_01

Argine Adige_02

Quei poveri operai erano stati mandati là da qualcuno che, a mio avviso, senza fare troppe ricerche scientifiche sulla biodiversità urbana e senza preoccuparsi troppo della bellezza del paesaggio spontaneo, aveva deciso che le erbacce erano brutte e che doveva essere fatto un po’ di “ordine”.

Mi sono subito chiesto che cosa sia il concetto del “bello” e quello del “brutto”. Mi sono subito chiesto se sia più bello (nella Pianura Padana) un prato all’inglese verde smeraldo di steli d’erba ben allineati e rasati in maniera uniforme oppure un prato, un po’ più “selvatico”, pieno di margheritine bianche e tarassachi gialli. Se sia più bella un’aiuola con tutti i fiori uniformi e ben separati oppure realizzata da una mescolanza di piante e di colori; se sia più bello un giardino con le piante ben allineate e tutte ben potate oppure caratterizzato da un groviglio di alberi semi-selvatici.

Prato inglese

Prato selvatico

Per me la risposta è ovvia, perché tento di ragionare e di legare il mio piacere anche a ciò che è bene per la natura, che poi in definitiva è anche il mio e della mia salute. Però mi rendo conto che per molte persone la scelta più comoda sia quella dell’ordine, del rigore, della uniformità. Non importa poi il fatto che per raggiungere il risultato voluto si debba abbondare con i diserbanti e con i pesticidi, si debba esagerare con le attrezzature a motore, si debbano sprecare centinaia di metri cubi d’acqua potabile, si debba violentare la biodiversità vegetale e animale.

A pensarci bene, però, mi rendo conto che la questione affonda le sue radici prevalentemente nella dimensione culturale. È solo legata al fatto che qualcuno ci ha inculcato l’idea che debba essere fatto così. Punto. Senza troppi ragionamenti e senza troppe analisi critiche.
Cari lettori, aprite lo sguardo e cercate di vedere le cose anche con un occhio diverso. Cercate di non farvi influenzare dalle mode e dal conformismo. Vedrete che si apriranno interessanti orizzonti che vanno al di là dei meri concetti di “bello” e di “brutto” e sarete più predisposti anche a cambiamenti più radicali e più giusti, a nuove soluzioni tecniche, economiche e sociali che porteranno ad un nuovo progresso per il futuro.

Sono sempre più convinto che la differenza la facciamo veramente solo noi, attraverso le nostre scelte!

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Foto 1 e 2: L’argine del fiume Adige

Foto 3: Esempio di prato “all’inglese”

Foto 4: Esempio di prato “selvatico”

 

Plastic bags kill

I sacchetti di plastica uccidono” (Plastic bags kill, ndt).

Uccidono in particolare se finiscono in mare e vengono scambiati dagli animali acquatici per cibo, soprattutto per delle meduse.

Al netto di qualsiasi parola e descrizione le immagini che seguono, da sole, spiegano ampiamente il triste e assurdo fenomeno.

Non vi chiedo di rinunciare ai sacchetti di plastica quando andate ad acquistare in negozio. Lo do già per scontato. Vi chiedo qualcosa di più: chiedete ai vostri rappresentanti politici di operare per mettere al bando definitivamente la plastica per gli imballaggi (1), attualmente ancora largamente presente in Italia e nell’Unione europea. Solo così potremo incidere, di riflesso, nei confronti dei Paesi in via di sviluppo che sono anche quelli che contribuiscono maggiormente all’inquinamento dei mari!

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Quello che finisce nell'oceano finisce anche dentro di te

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scegli di fermare l'inquinamento

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(1) Bandire la plastica dagli imballaggi non significa accontentare la lobby del settore e consentire quel “pasticcio” della plastica con additivi che, al contatto con i raggi ultravioletti del sole, permettono alla stessa di rompersi in miroframmenti. Questi ultimi, non essendo biodegradabili, si mescolano all’acqua ed entrano facilmente nella catena alimentare. Bandire la plastica dalla produzione degli imballaggi significa solamente vietarne la produzione e consentire, in alternativa, solo quella con materiali biodegradabili di origine vegetale.

Se questo è un uomo

Dopo aver visto le immagini di un torero che, qualche tempo fa, a Madrid, è stato infilzato da un toro durante una corrida, più che dall’uomo a terra (che, come si può vedere dalla foto, se l’è cavata con un danno relativamente lieve e si rialza con le proprie gambe) sono rimasto colpito dal toro e dal sangue che esce copioso dalla sua bocca. Chiaro segno che l’animale ha in corso una violenta emorragia che, oltre alla morte, gli sta provocando anche atroci dolori e sofferenze.

Mi sono subito chiesto quale sia l’uomo che riesce a procurare tanto dolore ad un altro essere vivente (per di più un mammifero molto simile a noi) per il solo diletto e per la sola dimostrazione pseudo-ancestrale di una superiorità di lotta nei confronti dello stesso. Mi sono chiesto quale sia la motivazione che spinge gli spettatori ad andare a vedere un simile “spettacolo” sanguinario e atroce. E, subito, ho fatto un collegamento mentale e ho pensato a Primo Levi.

Corrida Jimenez ForteLo so, il paragone è un po’ forte ed andare a scomodare il chimico ebreo torinese scampato ai campi di concentramento e le atrocità dell’Olocausto per parlare della corrida è sicuramente eccessivo. Lo stesso errore comunicativo lo ha fatto Beppe Grillo quando per parlare della P2 ha scomodato Aushwitz. Io, però, non credo sia un problema perché non penso di offendere nessuno. Lo scopo è quello di usare un’iperbole linguistica per far luce su una pratica senza senso come è quella di “giocare” ad irridere il toro per poi infilzarlo a morte procurandogli inutile dolore e rabbia, come senza senso è stata l’idea del nazismo di fare violenza gratuita su alcune categorie di uomini.

La morte, al limite, se proprio proprio deve essere procurata ad un animale, deve essere praticata con il minimo di sofferenza e di violenza nei confronti dello stesso, perché, ne sono convinto, procurare brutalità rende brutali! Ed essere brutali, mi chiedo, non aiuta nel capire empaticamente il processo necessario che ci attende per il futuro nel percorrere la strada verso la ricerca della sostenibilità ambientale.

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Foto: la foto riporta la scena di un incidente avvenuto qualche tempo fa a Madrid dove il toro ha incornato il torero Jimenez Forte. Si noti il copioso sangue che fuoriesce dalla bocca del toro e che dimostra inequivocabilmente le emorragie che le spade infilzate nel dorso provocano all’animale e la sofferenza atroce a cui viene sottoposto.

 

Blue Economy

In natura non esistono rifiuti. E nemmeno disoccupati. Tutti svolgono un compito e gli scarti degli uni diventano materia prima per gli altri”.

Consiglio a tutti la lettura dell’interessante libro “Blue Economy – 10 anni, 100 innovazioni, 100 milioni di posti di lavoro” di Gunter Pauli (1). Si tratta di un testo fondamentale dell’ambientalismo scientifico e della bioimitazione che si fonda sul fatto che l’economia, per essere prospera e per consentire il vero progresso dell’umanità, deve iniziare copiare la natura e la sua capacità di utilizzare continuamente le risorse, senza produrre né rifiuti né sprechi.

La natura segue un ciclo circolare nel quale gli scarti di un processo diventano indefinitamente materie prime o “nutrimenti” di un altro processo, senza sprechi se non quelli energetici. I sistemi economici e produttivi attuali, invece, seguono un andamento lineare dove gli scarti di un processo non possono essere più utilizzati e vanno ad “intasare” – con inquinamento e disequilibri – il sistema Terra. La soluzione sta tutta nella corretta riprogettazione dell’economia e nella corretta produzione dei beni futuri, in modo tale che non siano concepiti per diventare in fretta rifiuti ma siano visti come “servizi” che devono assolvere ad un compito e, una volta terminato, possano essere reimmessi nel sistema creando nuova ricchezza senza provocare danni.

Secondo l’autore non bisogna credere all’illusione di rincorrere la “Green Economy” perché essa si basa sugli stessi errori dell’economia tradizionale: crescita e intervento spinto per modificare la natura. Per questo la green economy sarà tanto disastrosa quanto quella che l’ha preceduta. L’obiettivo, invece, è quello di perseguire la “Blue Economy(2), un’evoluzione della green economy che non richiede alle aziende di investire di più nella tutela dell’ambiente ma che si propone di creare posti di lavoro e benessere attraverso lo sfruttamento dei principi di base di funzionamento della natura: in particolare attraverso il corretto uso delle materie e dell’energia.

Il libro, oltre a soffermarsi sugli aspetti teorici della questione, racconta anche interessanti storie di imprenditori illuminati che, in giro per il mondo (e anche in Italia) hanno iniziato da tempo il percorso di imitazione della natura e, udite udite, hanno avuto anche successo imprenditoriale.

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(1) Gunter Pauli è un economista, imprenditore e scrittore belga inventore della blue economy e fondatore di ZERI (Zero Emission Research Initiative), una rete internazionale di scienziati, studiosi ed conomisti he si occupano di trovare soluzioni innovative alle principali sfide cui le economie e la società sono poste di fronte, progettando nuovi modi di produzione e di consumo. Gunter Pauli è autore di numerosi libri, tradotti in più di 30 lingue.
(2) La “Blue Economy” si basa sui seguenti principi

 

EXPO 2015

Manca circa un anno a EXPO 2015 “Nutrire il Pianeta, energia per la vita” e quello che sino ad ora abbiamo sono solo numeri, cemento e tangenti. Poco è il nutrimento per il Pianeta e molto scarsa è l’energia per la vita.

I numeri sono quelli che dicono i politici, gli amministratori, i giornalisti e la gente comune in televisione, alla radio sui giornali, al bar, dal barbiere. Le solite cose: che EXPO è una grande opportunità; che EXPO arricchirà la città di Milano con il turismo e l’Italia con il prestigio; che EXPO fa e farà lavorare la gente (1). I cartelloni pubblicitari che in questi giorni tappezzano la metropolitana di Milano parlano di 1 milione di visitatori e di 145 paesi del mondo presenti. I racconti degli amministratori parlano di 190 mila posti di lavoro. Vedremo. Sono solo proiezioni che saranno tutte da dimostrare alla fine della manifestazione quando avremo i dati definitivi.

EXPO prog defPer quanto riguarda il cemento che è coinvolto nella realizzazione di EXPO basta vedere qualche foto del cantiere (in ritardo rispetto ai tempi previsti) per capire. Fino ad ora si tratta di un groviglio di strade, di infrastrutture e di fondamenta di palazzi in calcestruzzo. Mi sembra non resti quasi nulla dell’idea di sostenibilità che aveva contraddistinto l’opera fin dall’inizio (2) e che era stata “venduta” all’opinione pubblica ma, soprattutto, del progetto di riutilizzo dei padiglioni alla fine della manifestazione, l’autunno prossimo. Potrebbe essere che, come è successo per l’EXPO di Siviglia o per le Olimpiadi di Atene, i palazzi non trovino una nuova collocazione et voila… si riempiano di erbacce.

EXPO prog McDonoughPer quanto riguarda le tangenti basta scorrere la cronaca di quest’ultimo periodo (maggio 2014) per capire il marcio che c’è dietro alla manifestazione. Politici, imprenditori e tecnici coinvolti in giri di tangenti e di corruzione che fanno impallidire quelle del passato che, al confronto, per i soldi che erano interessati, rappresentano solo la “paghetta” di un bambino.

Sulla base di ciò ci si può ragionevolmente chiedere che cosa sia veramente EXPO. Ci si può chiedere se veramente il suo scopo sia quello di “nutrire il Pianeta” e di dare la giusta “energia per la vita” o sia, piuttosto, quello di alimentare le solite opere per fare un favore alle banche, agli speculatori e, forse, alla malavita. In merito alla creazione dei (presunti) posti di lavoro e al (presunto) prestigio dell’Italia non sarebbe stato meglio investire quei miliardi di soldi pubblici per lo sviluppo di nuove tecnologie in sintonia con la bioimitazione e in creazione di cultura collettiva, magari intervenendo, in parte, anche in piccole opere di utilità sociale?

Il problema è che EXPO, se correttamente comunicato ai cittadini e da loro approvato, fa muovere i soldi subito mentre la cultura e la ricerca no. Se, poi, i benefici tanto sbandierati non arrivano… chissenefrega!

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(1) Per meditare su chi parla in televisione e si manifesta palesemente a favore di un’opera senza capire poi realmente da che parte stia, si può fare riferimento alla cronaca di questi giorni: l’ex ministro Clini arrestato per presunto peculato e per aver sottratto fondi a diversi progetti esteri (Iraq e Cina). Quando parlava a favore di ILVA e snocciolava numeri su numeri… ci si può chiedere per chi lo facesse? Per i cittadini o per il perseguimento di un interesse personale? Mah!

(2) ad es. si veda il Master Plan del progetto proposto da William McDonough e partner

Foto 1: Rendering dell’area espositiva dell’EXPO 2015

Foto 2: Progetto proposto dallo Studio William McDonough + Partners

 

Le rinnovabili abbassano i prezzi e fanno risparmiare energia

Ricordo quando, nei dibattiti di qualche tempo fa, si discuteva in merito agli incentivi per le rinnovabili e molti – soprattutto politici, opinionisti da quattro soldi, giornalisti, imprenditori e prestanome di speculatori – sostenevano che con gli incentivi statali i costi per l’energia sarebbero stati più elevati e che gli incentivi non erano altro che un buco nero che non avrebbe prodotto alcun beneficio né al sistema economico italiano né alla sostenibilità ambientale. Ricordo quando dicevano che il costo più elevato dell’energia rispetto agli altri paesi europei avrebbe paralizzato il sistema economico e avrebbe reso il nostro sistema produttivo non competitivo (1). In effetti il loro vero obiettivo era quello di venderci, con malizia e falsità, il nucleare, gli inceneritori, il CIP6, il carbone “pulito”, l’olio combustibile e il petrolio quali fonti energetiche “alternative” e “green”. Noi, che la materia un po’ la mastichiamo, lo sapevamo già ma sono stati in molti a mettersi i prosciutti negli occhi e credere a queste falsità.

Ora, però (e finalmente, dico io), sono usciti i dati che riportano un po’ di giustizia sulla materia e che certificano come stiano veramente le cose. Il Rapporto IREX 2014, elaborato dalla società Althesis con il patrocinio del GSE (Gestore Servizi Energetici) ha certificato che lo sviluppo capillare delle rinnovabili sta cambiando i modelli di produzione e di consumo. Da un lato si affacciano sul mercato i Sistemi Efficienti di Utenza (SEU) che abbattono le perdite di distribuzione, cresce l’autoconsumo e si iniziano a diffondere sistemi di accumulo i quali, assieme, rappresentano la manifestazione di una rete distribuita di produzione e di smart grid, cioè sistemi che consentono di essere contemporaneamente produttori e consumatori di energia e che riducono notevolmente gli sprechi creando efficienza. Dall’altro lato lo sviluppo delle rinnovabili ha consentito di ottenere un effetto benefico sul prezzo all’ingrosso dell’elettricità che è diminuito per effetto dell’abbassamento del costo nei momenti di picco. Tale fenomeno ha consentito un risparmio annuale quantificabile in circa un miliardo di euro.

In merito alla valutazione della crescita delle rinnovabili il Rapporto IREX recita: “La valutazione degli effetti della crescita delle rinnovabili sull’intero sistema italiano rimane al centro del dibattito politico e industriale. L’analisi costi-benefici, che parte dal 2008 e che abbraccia uno scenario al 2030, mostra un saldo positivo compreso tra 18,7 e 49,2 miliardi di euro. Tale risultato, nel minimo in linea con quello dell’anno scorso, sconta il minor valore che il mercato attribuisce al fattore ambientale. Il prezzo degli EUA (Diritti di Emissione, ndr) ai quali è valorizzata la riduzione delle emissioni (fino a 83 milioni di ton di CO2 in meno al 2030), è infatti calato di oltre il 40% nel 2012. Sono però notevolmente cresciuti i benefici tangibili dovuti alla riduzione dei prezzi sui mercati elettrici (peak shaving) attribuibili al fotovoltaico, passati dai 400 milioni di euro del 2011 a oltre 1,4 miliardi di quest’anno. L’indotto e l’occupazione sono le altre principali voci positive del bilancio.

Alla luce di questi dati c’è ancora qualcuno che pensa che investire nelle rinnovabili e nella sostenibilità ambientale rappresenti un freno per l’economia?

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(1) I sostenitori degli incentivi, invece, (tra cui, modestamente, c’ero anch’io) ritenevano che un tale progetto avrebbe contribuito a creare un sistema di produzione energetica più flessibile e più efficiente, più democratico perché distribuito tra un grande numero di produttori-cittadini, più moderno a sostegno dell’industria nazionale e dell’occupazione di qualità, più sostenibile e più competitivo dal punto di vista dei costi di produzione. E così, in effetti, è stato.